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Zarone, lo sguardo e il quadernetto del filosofo

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La filosofia è sempre stata divisa fra oralità e scrittura. C’è una ragione: non c’è magistero che possa esercitarsi fuori del rapporto vivo e diretto fra maestro e allievo. Così è stato anche con Giuseppe Zarone, scomparso tre giorni fa all’età di 77 anni. Non so se sia il suo libro più importante, ma «Metafisica e senso morale», pubblicato sul finire degli anni Ottanta, serba di sicuro la traccia più fedele dell’insegnamento che Zarone teneva sulla cattedra di filosofia morale dell’università di Salerno. Con un quadernetto scritto fittamente, dal quale sollevava lo sguardo luminoso per continue digressioni e commenti, in ore lunghe e tese. Per chiunque si sia laureato in filosofia nell’Ateneo salernitano, quelle lezioni costituivano un passaggio fondamentale, persino decisivo: è difficile incontrare studenti e colleghi che dalla fine degli anni Settanta in poi abbiano frequentato quelle aule, che non ne serbino indelebile il ricordo. Nel percorso che Zarone intraprese in quegli anni – sempre più lontano dalle prime indagini storico-politiche («Bernstein e Weber», «Crisi e critica dello Stato»), sempre più votato verso indagini di carattere speculativo, che in lui si tingevano di una fortissima tensione religiosa («Pensiero e verità», «Il discorso e la parola. Parabole del senso tra Atene e Gerusalemme») – c’è anche, ne sono convinto, una traiettoria significativa: per un verso della storia culturale di Salerno, la cui scena pubblica perse progressivamente molti dei suoi migliori fermenti intellettuali; per altro verso della cultura filosofica italiana, nelle cui vene presero a circolare molto meno Gramsci, molto meno Marx, e molto più Nietzsche e Heidegger.

Rispetto a protagonisti celebrati di quella stagione, Zarone aveva un’ambizione e un desiderio in più: quella di sottrarsi al «démone» dello scrittore, che si esibisce nella pagina come un funambolo sulla corda. Sapeva benissimo di rischiare in questo modo l’indifferenza o l’oblio. Ma era convinto che ai libri dovesse toccare «il dovere dell’anonimato».

A quel paradossale e impossibile dovere Zarone si attenne sempre di più, negli anni. Cercando di sottrarsi per quanto possibile ai vincoli della comunità scientifica, come alle pesanti costrizioni accademiche, e di costruire (insieme a uno degli autori più amati negli ultimi anni, Franz Rosenzweig), il profilo di un uomo «metaetico», alla cui solitudine esistenziale e elevazione interiore – scrisse in un saggio – «la stessa morte fisica non aggiunge più nulla, e lascia del tutto irrisolto l’enigma del vivere e del morire».

Ora, sull’estremo limitare di una vita, credo che sia giusto infrangere questo dovere da parte di chi lo ha sentito come un maestro. Vi sono, nel discorso pubblico, «i lόgoi scientifici e le chiacchiere comuni»: è ancora possibile la parola della filosofia? Zarone credo ne dubitasse, ma, al contempo, riteneva che essa fosse necessaria come l’aria. La cercava nella tradizione del pensiero, ma anche fra i poeti, gli scrittori, i mistici, con un’apertura di orizzonte sorprendente e, per uno studente, persino entusiasmante. Per chiunque volesse non semplicemente imparare la filosofia, ma imparare a filosofare, quella ricerca, ovunque portasse, è stata essenziale.

(Il Mattino, 3 giugno 2017)

De Luca junior e il partito formato famiglia

Immagine2.jpgLe analisi del voto si fanno sui numeri, ma a volte contano anche le storie. Come quella di Salerno. I numeri parlano chiaro. A Salerno, Enzo Napoli è stato eletto sindaco con la percentuale record per questa tornata elettorale del 70,5% dei voti. Il secondo arrivato ha preso il 9,6%: un abisso. Nella sua giunta entra Roberto De Luca, figlio del governatore campano, con deleghe pesanti al bilancio e allo sviluppo. La nuova consiliatura si apre dunque nel segno della più assoluta continuità con un’esperienza politica che dura dal 1993, da quando cioè Vincenzo De Luca subentrò al dimissionario sindaco socialista, Vincenzo Giordano. In quello stesso anno, De Luca affrontò il voto e venne eletto per la prima volta, con quasi il 58% dei voti, alla testa dei «Progressisti per Salerno». Nel 1993 il Pd non esisteva: esisteva il Pds, Partito democratico della sinistra, che sarebbe poi diventato Ds, Democratici di sinistra, e infine – insieme con la Margherita – Pd, partito democratico. In tutto questo tempo, i «Progressisti per Salerno» hanno mantenuto la guida della città, ripresentandosi ad ogni elezione. De Luca è stato sindaco finché ha potuto, finché cioè il limite dei due mandati non lo ha costretto a lasciare. Ora è alla Regione, ma la giunta cittadina è, in tutto e per tutto, una sua diretta emanazione. Un caso analogo, in una città di medie dimensioni, in giro per l’Italia non c’è. Un caso analogo: cioè il caso di una città che tributa un consenso reale, vero, largamente maggioritario (una volta si diceva bulgaro), ad una stessa formazione politica ininterrottamente per un quarto di secolo. In uno strano gioco di eredità, non c’è solo il testimone che passa di padre in figlio, con il neo-eletto sindaco Napoli nei panni del Mazzarino di turno, che assume la reggenza in attesa che si perfezioni la successione; c’è anche un’eredità che si trasmette graziosamente al Pd, il quale riceve in dote i clamorosi successi politici di De Luca pur senza mai affrontare il voto col proprio simbolo.

Napoli: tutt’altra storia. Anche lì cominciata nel ’93, con l’elezione di Antonio Bassolino (che di De Luca è praticamente coetaneo), e proseguita poi per un secondo mandato. A Napoli il passaggio in Regione arriva prima, nel 2000, e nei dieci anni successivi il centrosinistra tiene sia il Comune (con la Iervolino) che la Regione (con Bassolino). Poi, con la drammatica crisi dei rifiuti, perde tutto: prima la Regione, dove sale il centrodestra di Caldoro, quindi la città, dove viene eletto De Magistris, dopo il clamoroso autogol delle primarie annullate. Ma da allora sono trascorsi cinque anni, e il Pd non ha dato segnali di inversione di rotta. Ha cambiato segretari regionali e provinciali, è passato per esperienze di commissariamento, ha ottenuto sottosegretariati al governo, ma nulla è servito. In realtà, il 2011 non era stato solo l’anno di una sconfitta politica, ma anche il punto in cui di fatto si rompeva un rapporto politico e sentimentale con la città. Cinque anni non sono valsi a ricucirlo. Il Pd ha continuato a dividersi, lacerato da polemiche intestine, dominato da piccoli capi locali, quasi disperso come comunità politica. Quel che è peggio, continua a non apparire degno di fiducia a settori larghi della popolazione cittadina, che non avrebbero motivo per seguire le rodomondate di De Magistris, e che però non trovano sufficienti doti reputazionali (eufemismo) nella classe dirigente che il partito democratico esprime. D’altronde lo si è visto: Valeria Valente ha portato per tutta la campagna elettorale la croce di una diffidenza profonda e di un malcontento che venivano dallo stesso partito democratico. Al di là dei suoi meriti o demeriti personali, è un fatto che non c’era nessuno che avrebbe potuto federare i diversi pezzi del Pd e offrire l’immagine di un partito unito e di una causa comune. Lo stesso Bassolino era sceso in campo non già come l’uomo che avrebbe potuto mettere d’accordo tutti, ma come quello che avrebbe potuto vincere da solo, o quasi, sospendendo i giochi correntizi, sempre meno redditizi, che paralizzano il partito democratico

Due storie opposte, dunque: a Napoli, un quadro a dir poco frammentato, una dirigenza di fatto priva di autorevolezza, e la mancanza di parole che entrino nel discorso pubblico e aggreghino società civile, intellettualità diffusa, mondo produttivo. Che facciano cioè quel che la politica deve fare. A Salerno, invece, un monolite costruito intorno alla figura carismatica di Vincenzo De Luca, in una forma di affidamento personale, capace di trasmettersi anche oltre i limiti naturali di un ciclo politico, edi ridurre le dinamiche di partito a un ruolo subordinato e quasi ornamentale. A Salerno tutta la città segue De Luca, a Napoli quasi nessuno si fida del Pd, ma in tutte e due i casi, per troppo successo o per un completo insuccesso, i democratici non si capisce cosa ci stiano a fare. E poiché purtroppo poche altre storie offre il Mezzogiorno, usi o no il lanciafiamme, Renzi un pensiero serio alle condizioni in cui si trova il partito di cui è il segretario lo deve dedicare.

(Il Mattino, 10 giugno 2016)

Il Paese dove tutti i partiti perdono voti

Boetti

I dati messi a disposizione dall’Istituto Cattaneo non stravolgono le valutazioni immediatamente successive al voto di domenica, ma consentono di offrire analisi più accurate. L’Istituto avverte che il raffronto con le politiche del 2013 non è omogeneo, ma rimane il retroterra più sicuro per studiare l’evoluzione del comportamento elettorale. Soprattutto in relazione ai risultati del Movimento Cinquestelle, che aveva a sorpresa conquistato, tre anni fa, un quarto circa dell’elettorato. Alla domanda se quel risultato debba essere considerato un effimero exploit il Cattaneo risponde di no, dati alla mano. Perché l’analisi dei flussi elettorali, in entrata e in uscita, mostra che quella parte dell’elettorato si sta fidelizzando: chi ha votato M5S tre anni fa è tornato a farlo domenica scorsa. L’astensionismo, in crescita, tocca anche i grillini, ma il grosso di quegli elettori è rimasto fedele al Movimento: nonostante la tragica uscita di scena di Casaleggio e il relativo disimpegno di Grillo. Fa eccezione Napoli, dove sono consistenti i flussi elettorali in direzione di De Magistris. In vista del ballottaggio, il Sindaco di Napoli sembra perciò poter dormire fra due guanciali, visto il distacco da Lettieri e la relativa facilità con cui può attrarre la parte del voto grillino andata a Brambilla (mentre l’impresa di Lettieri, di motivare il voto democrat, appare obiettivamente più complicata).

C’è stato dunque un fenomeno di assestamento del M5S. Il calcolo sui voti validi dimostra però che, sia in termini assoluti sia in percentuale, i Cinquestelle hanno perso voti. E questo nonostante il trascinante successo di Virginia Raggi a Roma. Significa forse che il gran battage mediatico sulla candidata romana ha oscurato il dato reale, che nel complesso non è stato affatto clamoroso? In parte almeno è così. È evidente, infatti, che i Cinquestelle non hanno ancora una leva di candidati all’altezza: basti pensare a quanti pochi siano i casi di ballottaggio con un esponente pentastellato. E anche le performance deludenti di Napoli e Milano lo dimostrano. Ma è vero pure che, in un sistema che eredita il bipolarismo ventennale della seconda Repubblica, il destino di un partito che non esercita nessuna attrattiva coalizionale è quello del tutto o nulla. In questa prospettiva, Roma rimane ancora, per i Cinquestelle, la fiche posta sul tavolo per far saltare il banco, indipendentemente dai risultati a macchia di leopardo nelle restanti città capoluogo.

I dati del Cattaneo riservano però qualche sorpresa anche al centrodestra e al centrosinistra. E, si direbbe, non negativa. Entrambi i poli infatti realizzano un certo recupero rispetto alle politiche di tre anni fa. Dal report dell’Istituto non è chiarissimo cosa si intenda per centrosinistra o per centrodestra: e questa è anche un altro dei problemi che affliggono il nostro sistema politico: dove iniziano e dove finiscono i due schieramenti non lo si sa bene, e spesso non si sa neppure quale nome abbiano. Ad ogni modo, è indubbio che c’è ancora un voto polarizzato alla sinistra e alla destra del campo politico, e quel voto è, sia pure di poco, in crescita, almeno in termini percentuali. Il centrosinistra guadagna un punto, il centrodestra ben quattro. Questo significa che, quando si saranno riattaccati i cocci, che sia per la residua capacità federativa di Berlusconi o per l’emergere di nuove figure e stili politici, è presumibile che la guida del Paese tornerà contendibile anche da quella parte politica.

A leggere i dati, e a guardare anche i flussi (che riguardano tuttavia solo sette città, tra le quali non ci sono Roma e Milano) si può forse indovinare meglio il bivio dinanzi al quale ci troviamo. Si vede infatti che contano senz’altro le situazioni particolari, come quelle di Napoli e Salerno, dove proposte politiche molto peculiari determinano flussi più marcati, in particolare in entrata verso i sindaci uscenti, Luigi De Magistris e Enzo Napoli, e in uscita, nel capoluogo partenopeo, soprattutto dal Pd. A dimostrazione di una crisi conclamata del partito democratico, che dura da parecchi anni e che queste elezioni non hanno affatto superato, se mai acuito. Conta tutta ciò, ma nel complesso si fa chiaro che la divisione in tre blocchi del consenso politico, fra centrosinistra, centrodestra e Cinquestelle è in via di consolidamento, con pochi, marcati travasi di voti da una parte all’altra. A fare la differenza è se mai la capacità di non perdere ulteriori consensi verso l’area dell’astensione. I ricercatori del Cattaneo mostrano infatti che neanche i M5S riesce a riportare al voto gli astenuti. Resta così il bivio al quale il voto amministrativo ci consegna per i mesi a venire: da una parte si restringe la base di legittimazione degli istituti della democrazia rappresentativa; dall’altra, rimane la necessità di assicurare governabilità pur in presenza di un Paese diviso in tre. E la formula risolutiva del problema è ancora da trovare.

(Il Mattino, 8 giugno 2016)

Se le aule diventano terra di nessuno

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Il sangue nel lavandino e sul pavimento. Gli studenti inorriditi. I professori sconvolti. Non è ancora chiaro se si è trattato di un litigio finito male, o se – com’è più probabile – l’aggressore avesse già in animo di colpire la vittima, ancor prima di affrontarlo. Certo, aveva il coltello con sé. Certo, ha inferto scientemente i colpi al collo e all’addome, per poi cercare di disfarsi dell’arma. Una sequenza assai poco casuale. Ma premeditata o no che fosse,  l’aggressione avvenuta nell’istituto salernitano Da Vinci-Genovesi, nella zona alta del centro cittadino, desta parecchio allarme. Il dirigente scolastico ha subito affermato che l’episodio sarebbe potuto avvenire anche in strada: non toccherebbe dunque alla scuola portarne anzitutto la croce. Ed è vero, se con ciò si vuol dire che non si è trattato di bullismo, e neppure – con tutta probabilità – di ragioni sentimentali o passionali, tipiche dell’età. Di mezzo, insomma, non ci sono angherie o gelosie. C’era però una rivalità, che è sicuramente cresciuta anche nelle aule e nei corridoi della scuola.

Il punto, però, non è quello di appurare se fra i motivi, leciti oppure illeciti, di uno scontro così violento, vi fossero o no dinamiche legate alla vita scolastica. Può darsi, come può darsi di no. Gli inquirenti se ne occuperanno. In fondo, entrambi i ragazzi portano con loro un vissuto complicato, difficile, legato a contesti familiari e sociali in cui persino un accoltellamento può non rappresentare un’evenienza del tutto improbabile. E su Facebook un (presunto) cugino della vittima ha già minacciato di restituire le coltellate alla «banda di r.» che ha agito ieri mattina.

Il punto, però, è la soglia. Se ancora vi sia una soglia da varcare, quando un ragazzo, tutti i ragazzi in età dell’obbligo entrano in una scuola. Una soglia invisibile, che forse si vedrebbe ancor meno se all’ingresso vi fossero tornelli e metal detector, ma che tuttavia distingue e valorizza lo spazio dell’istituzione pubblica dal mondo di fuori. Dentro si fa scuola: si insegna e si impara. Dentro vi sono maestri e allievi, un sapere viene trasmesso e un apprendimento ha luogo. Dentro accade qualcosa come una formazione, e si costruisce una socialità diversa da quella che si vive in famiglia o tra gli amici. Una socialità fondata non su un affrontamento a due, come fra amici (o fra rivali), ma su un rapporto triadico, nella dimensione cioè del pubblico, dell’istituzione e della regola.

Se quella soglia non v’è, la scuola non esiste più. Se un accoltellamento può avvenire indifferentemente dentro un’aula o per strada, allora non c’è più nessuna differenza, nessuno spazio qualificato in forza delle funzioni che vi si esercitano e dei ruoli che vi si assumono. Se la soglia non è più avvertita, allora in aula non vi sono più studenti e dietro le cattedre non vi sono più docenti.

Non è ciò che intende dire il dirigente, quando onestamente afferma che il ferimento poteva avvenire anche fuori: al termine dell’orario scolastico, per esempio, un minuto dopo essere usciti dall’istituto. Tuttavia quel minuto è essenziale: quel minuto fa la differenza, ha il significato di un riconoscimento – di un rispetto, si dovrebbe dire – che evidentemente è perduto, se il coltello può essere brandito ovunque.

Viviamo in una regione che vanta – si fa per dire – i più alti indici di dispersione scolastica. Spesso le scuole sono avamposti in territorio nemico (anche se non il caso del Genovesi di Salerno). Il Presidente del Consiglio ha fatto suo il mantra di Tony Blair, per dare il significato della recentissima riforma scolastica: «education, education, education». Ogni sforzo è certo apprezzabile e i primi a compierli sono i docenti che entrano in aula ogni giorno. Sono davvero gli eroi del nostro tempo, per quanto poco venga riconosciuta la centralità della loro funzione. Portano oneri e responsabilità enormi, e invece di onori si vedono piovere sul capo rogne di ogni tipo: figuratevi con quale tranquillità potranno tenere lezione d’ora in poi, in quell’istituto. Il fatto è che da lungo tempo la scuola non è più un «hortus conclusus», un luogo protetto o un porto sicuro. È giusto, in verità, che sia aperta ai cambiamenti della società, lo è meno se così aprendosi perde ogni tratto distintivo: a forza di inseguire quello che accade fuori, nessuno si accorge più di trovarsi dentro. E tutto quello che accade fuori può ormai succedere anche tra i banchi. Chi ci guadagna, se davvero va a finire così? Non la scuola, ma nemmeno il resto della società.

(Il Mattino, 16 febbraio 2016)

Prostitute, la crociata di De Luca

ImmagineAvviso alle famiglie. Se sei sindaco, puoi. Se sei Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, devi. Non puoi permettere che le vie cittadine siano infestate da mendicanti, e non puoi nemmeno lasciare che la zona litoranea sia in mano alle prostitute e ai loro infami protettori. Sacrosanto. Però, siccome gli uomini continuano a circolare lentamente e a fari bassi in cerca di signorine, qualcosa ti devi inventare. Le multe salate, ok. L’intemerata pubblica, va bene. Ma non basta, Irma la dolce è ancora lì, e il suo cliente pure: dove allora non arrivano le contravvenzioni, più in alto delle timide leggi italiane il sindaco De Luca «giudica e manda secondo ch’avvinghia», come l’infernale Minosse dantesco. Per il bene della città, delle famiglie, dell’ordine pubblico e del decoro veste gli austeri panni del pubblico svergognatore, e invece di riscuotere la multa presso il comando municipale, pensa bene di mandare a casa, per i begli occhi della moglie o dei figli del malcapitato, lo spietato bollettino, accompagnato magari da un verbale che specifichi con inequivoca chiarezza il motivo della sanzione. E il cliente è bello che sistemato. Prima di lasciare un’altra volta il nido familiare per andare a prostitute  ci penserà non due ma tre volte. Che se poi il contravventore avesse eletto domicilio da qualche altra parte – a casa dei genitori, per esempio, o presso lo studio professionale – la notifica potrebbe spandere i suoi riverberi moralizzatori anche su un’anziana mamma, oppure sugli indignati colleghi di lavoro. La multa non basta, insomma: ci vuole lo scandalo, lo scorno, il pubblico ludibrio. Perché allora non raccomandare ai portieri degli stabili condominiali di mettere avviso in bacheca per i condomini affamati di meretricio? Perché non accludere documentazione fotografica, anche per prevenire eventuali ricorsi? Perché non istituire un albo pubblico dei clienti abituali, dei consumatori incalliti? Si dirà: la privacy. Ma se per una buona causa è giusto fare opera di sputtanamento, allora la soluzione è facile: mandi De Luca a tutti i sordidi capifamiglia salernitani una bella letterina, in cui chiedere papale papale l’autorizzazione a rendere note le loro generalità, qualora dovessero – come dire? –   cadere in fallo. Chi si rifiuterà sarà perciò stesso svergognato, e finalmente la pace tornerà sotto i lampioni.

È così che si fa. Non come il sessuologo à la page che ti spiega che così non si risolve il problema, o come il sociologo post-sessantottino che ti invita casomai a riflettere sulla marginalità sociale e su eventuali programmi di recupero, o come lo psicologo problematico che mette piuttosto l’accento sulle soggiacenti, difficili dinamiche familiari. E neppure, magari, come la femminista aggressiva che, dall’altra parte, rivendica il diritto della donna a far liberamente uso del proprio corpo, con chi crede e come crede. E neanche, infine, come Benjamin Franklin, il quale aveva un amico che non la finiva di pagare le donne, e allora il geniale inventore, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, che ti fa? Si mette a disquisire se sia meglio andare con le vecchie o con le giovani, e consapevole di proporre un paradosso consiglia di preferire le prime, per esperienza e affabilità. E perché si corrono meno rischi e si pecca di meno.

Consigli da smidollati. De Luca ha deciso invece da tempo di interpretare il suo ruolo di sindaco in maniera ruvida, volitiva, mascellare. E insieme enfatica, istrionica, plateale. Essere amministratore è evidente che non gli basta: ha bisogno di sentirsi il padrone assoluto della scena, di avere in pugno la città come un mattatore sul palcoscenico. Di essere e sentirsi tutto d’un pezzo: debolezze e fragilità dell’umana condizione non lo riguardano, non gli appartengono, e non meritano nessun esercizio di comprensione. Così anche i ragionamenti scadono subito a sofisticherie, cavilli, sottigliezze inutili. La privacy, la dignità, i limiti dell’azione pubblica: chiacchiere da intellettuale, fisime da sfaccendati, depravazioni da rammolliti. Se però qualcuno dei suoi fidati collaboratori avesse il coraggio di sussurrargli almeno che le casse comunali non sono floridissime, e che incassare subito e con certezze le multe comminate in litoranea è meglio, molto meglio che aspettare di riscuoterle chissà quando, dopo l’invio a domicilio, forse non lo aiuterebbe a rinunciare a questa singolare forma di eretismo amministrativo, ma una prudente mano al bilancio forse la darebbe. In attesa che De Luca salti su per la prossima crociata.

(Il Mattino, 18 maggio 2014)

Il lato oscuro della provincia

ImmagineUn prelato, un notaio, un commercialista. Finché le cronache hanno raccontato le scorribande nel mondo della finanza di monsignor Scarano, il quadro che le sue imprese criminali componevano poteva essere collocato all’ombra del Cupolone, nel fitto sottobosco di intrighi legati alla finanza vaticana (su cui finalmente si comincia a fare un po’ di luce). Ma l’inchiesta si è allargata – come sempre accade in Italia – agli amici e ai parenti, e così sta venendo fuori qualcosa di diverso, che appartiene ad un altro genere letterario: non più una storia di delitti e tonache, ma il racconto sordido e molle di un pezzo dell’eterna provincia italiana. Dei suoi piccoli arrivismi e dei suoi grandi conformismi, delle sue pusillanimi certezze e delle sue tronfie velleità. Il prelato mondano, l’amico imprenditore, il professionista imbroglione, la parente stretta, il pretucolo. E, su tutti, un fiume di denaro.

Salerno è una città di provincia: per dimensioni e per tradizioni. Vive a pochi chilometri da una capitale, Napoli, e da almeno un paio di decenni ha deciso di soffrirne. Vive prevalentemente di commercio e di edilizia, e di una classe media formata da un ampio ceto impiegatizio e da sovraffollati ordini professionali. Commercianti, dipendenti pubblici, avvocati e, certo, notai e commercialisti. A cui finiscono con il mancare le grandi imprese e i grandi affari che una città di provincia, nel Sud del nostro paese, non riesce ad offrire. Perciò si arrangiano. Passeggiano sul corso, si incontrano in tribunale, fanno un po’ di anticamera, molte telefonate, poco cinema e pochissimi libri. E poi si arrangiano.

Negli anni Settanta, Salerno ha provato ad essere un polo di sviluppo industriale: non c’è riuscita. Di quella stagione è rimasto poco o nulla, ed anzi gli ultimi anni sono stati segnati da eventi a dir poco traumatici: la chiusura della fabbrica Marzotto, l’arresto e la caduta di Pier Luigi Crudele (il fondatore di Finmatica), e soprattutto il fallimento del pastificio Amato, che tuttora fa tremare i palazzi che contano. Il suo storico stabilimento sorgeva nella zona più popolosa della città: ora è soltanto un edificio cadente e abbandonato.

Monsignor Scarano, invece, ha casa nel centro storico: è lì che teneva le sue tele, i suoi Van Gogh e i suoi De Chirico, a pochi passi dal Duomo. Quante volte abbia percorso quei passi non è dato sapere, ma è più facile immaginarlo diretto verso altri luoghi della città: verso case private, uffici tecnici, sportelli bancari, studi professionali. I luoghi in cui poteva mettere a frutto le sue relazioni importanti, e a disposizione i suoi conti correnti.

I luoghi in cui si ritira una borghesia cittadina dedita più all’affare che all’intrapresa, dotata più della proverbiale, italica furbizia che di genuino spirito imprenditoriale e di robusta etica pubblica. Il giovane presidente di Confindustria, Mauro Maccauro, sta provando a dare una voce nuova alla categoria, dopo anni di afonia, ma, per il momento almeno, ai salernitani ne arriva forte e chiara una sola, di voce. Ogni settimana, di pomeriggio, per un paio d’ore, su una cortese tv locale: quella del primo cittadino, Vincenzo De Luca. Raccontare Salerno è impossibile senza parlare di De Luca, identificatosi a tal punto con la sua città da aver dichiarato una volta: «Mi piace immaginare l’urna con le mie ceneri posta al centro di questa piazza sul mare».

La grande piazza, insieme all’enorme edificio che la contorna, non è ancora terminata, e su di essa pende anzi un aspro contenzioso, ma già adesso funziona bene come metafora dello spirito con cui De Luca ha guidato la città, o forse del modo in cui la città si è lasciata guidare in questi anni: poche chiacchiere, tante costruzioni, tante spacconate, e la saldatura fra gli interessi dell’imprenditoria edile (l’unica rimasta in città) e lo spirito popolare, soddisfatto da standard di ordine e pulizia superiori a quelli di altre città meridionali ed anche dalle continue polemiche contro il napolicentrismo della Regione. E così il sindaco di una città che negli anni Settanta e Ottanta conosceva l’estremismo e il terrorismo (ma anche vivaci fermenti artistici, letterari, teatrali), il sindaco che in quegli anni sì laureò in filosofia con una tesi sulla concezione dello Stato in Marx e in Lenin, nomina oggi come nemici della città due sole categorie: non la destra o la sinistra, i fascisti o gli imperialisti, ma i «cialtroni» e i «cafoni» (a parte Napoli, ovviamente). Eppure, né il prelato, né il notaio né il commercialista appartengono all’una o all’altra categoria. Siedono invece nei circoli cittadini, frequentano gli ambienti giusti, coltivano la rete di amicizie su cui si regge una città smidollata, che evidentemente si piega docile in pubblico per tramare in privato.

Anche il ventennale, incontrastato dominio di De Luca mostra però qualche piccola incrinatura. E non tanto per la vicenda ormai kafkiana del doppio incarico, al ministero e al palazzo di città, che il sindaco si guarda bene dal risolvere. E neppure per la presenza di nuovi avversari politici o di un nuovo spirito pubblico, ma perché tutte le cose mortali finiscono, e questa fatalistica saggezza funziona bene in provincia. In realtà, Il comune naviga in cattive acque, se a fine anno i revisori dei conti hanno bocciato l’ultima manovra di bilancio, e se si è visto costretto a vendere l’unica azienda partecipata che produce utili, la Centrale del Latte.

De Luca però tira avanti, e si tira dietro la città: siccome i salernitani vanno orgogliosi del loro lungomare e delle passeggiate, il sindaco ha regalato loro, per il periodo natalizio, le «luci d’artista», cioè luminarie stradali più vistose che mai (ma anche più costose: poco meno di tre milioni di euro, che in periodo di crisi si fanno sentire). Portano vagoni di turisti  – quelli però da un giorno: una pizzetta, una passeggiata e poi di nuovo sul pullman -, ma soprattutto solleticano l’orgoglio cittadino, in tempi in cui la squadra del cuore non dà invece particolari soddisfazioni.

De Luca tira avanti, e riempie tutto lo spazio pubblico. Lo condiziona, lo occupa, lo satura. In privato, il prelato, il notaio e il commercialista si scambiano telefonate, favori, denari. Uno chiede del vino, l’altro si informa sulla casa. Nessuno si accorge di nulla. Avevamo in città sei tele di Van Gogh e nessuno ne sapeva un accidenti.

(Il Mattino, 23 gennaio 2014)

Vita salottiera

salerno dopo i bombardamentiTra la Prefettura e il Comune, in una invidiabile posizione sul bel Lungomare della città di Salerno, sorge il palazzo otocentesco che vedete. Non so quanti milioni al metro quadro ci vogliono per acquistare un appartamento. Certo, da un paio di giorni ne manca un pezzo, perché è caduto. Ma vi assicuro che è comunque un bel palazzo (qui lo vedete sulla sinistra – a destra è il palazzo di città). Non è morto nessuno perché è crollato di notte, e di notte non c’è nessuno in salotto.