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Una crisi e cinque strade

cinque strade

Come andrà a finire? Renzi tornerà a Palazzo Chigi? O sarà la volta di Luigi Di Maio, un inedito assoluto per il nostro Paese? E se invece arrivasse prima la coalizione di centrodestra: a chi toccherebbe l’incarico di formare il governo? E se non si formerà alcuna maggioranza? Sarà il Presidente della Repubblica a tenere le redini della politica italiana, sostenendo un governo istituzionale che eviti un rapido ritorno alle urne? La scorsa legislatura viene concludendosi praticamente alla sua scadenza naturale, nonostante dal voto non fosse uscita, nel 2013, alcuna maggioranza omogenea. Succederà la stessa cosa? Oppure stiamo per entrare in un periodo di forte instabilità politica?

A nessuna di queste domande è possibile oggi dare risposta. Quel che si può fare, è indicare i possibili scenari che sono dinanzi al Paese. Quale di essi prenderà forma dipenderà certo dai risultati elettorali, ma non solo. Ci vogliono i numeri, ma anche la politica. Prendiamo il caso della Germania: a tre mesi dal voto, la Merkel non è ancora riuscita a formare il governo. Il suo 30% (più il 7% dei cristiano-sociali bavaresi) non fa maggioranza. L’ipotesi di una coalizione con Verdi e Liberali è fallita, e ora i popolari cercheranno di rifare la grande coalizione con i socialdemocratici di Martin Schulz, ma l’esito delle trattative non è affatto scontato. Nuove elezioni o governi di minoranza dalla corta prospettiva sono dietro l’angolo, mentre cresce in maniera inquietante il consenso all’estrema destra antieuropeista.

Le cose, qui in Italia, non è detto che vadano molto diversamente. Vediamo. Il primo scenario da considerare era considerato, fino a un anno fa, il più probabile: il partito democratico primo partito, Renzi alla guida del governo. Dalla sera del 4 dicembre ad oggi, questa ipotesi non ha fatto che calare in popolarità. Certo, gli italiani decidono in grande maggioranza cosa votare solo nei giorni immediatamente precedenti il voto, e già in passato si sono registrati significative variazioni percentuali significative durante la campagna elettorale. Diciamo allora che una cosa è presso che certa: la possibilità per Matteo Renzi di tornare a Palazzo Chigi è legata a questa unica ipotesi, che il Pd arrivi davanti a tutti. Se questo accadesse, è ragionevole pensare che una maggioranza si formerà, presumibilmente con gli alleati moderati e centristi con i quali il Pd ha governato in questa legislatura. Una eventuale vittoria di Renzi avrebbe un effetto anche sugli altri schieramenti: mentre infatti la Lega non ha alcuna intenzione di governare col Pd, Forza Italia è sicuramente più disponibile. Ma è possibile che voti in soccorso arrivino anche da sinistra, una volta che la vittoria di Renzi avrà sancito il fallimento del progetto di Liberi e Uguali, messo in piedi solo per offrire un’alternativa al Pd agli elettori di sinistra.

Se però il Pd finisce dietro, Renzi rischia di uscire definitivamente di scena, e la responsabilità di formare il governo spetterà ai Cinquestelle, o al centrodestra. Nel primo caso, l’unica cosa certa è che il candidato premier di un futuro governo pentastellato è solo uno: Luigi Di Maio. Non sono previste subordinate. Questo significa che eventuali trattative con altre forze politiche non riguarderebbero in ogni caso Palazzo Chigi. Ma, a parte questa, altre certezze non vi sono. Nessun sondaggio accredita la possibilità di un monocolore grillino: dunque Di Maio dovrà cercarsi i voti in Parlamento. Escluso che il partito democratico o Forza Italia possano dare il via libera a un governo guidato dall’attuale vicepresidente della Camera, rimangono due possibilità: che Di Maio vada al governo con i voti di Liberi e Uguali; che invece vi vada con i voti della Lega. La prima ipotesi è quella che Pierluigi Bersani sta provando a tenere al caldo. Da quelle parti, l’unica pregiudiziale, infatti, è verso Renzi: di tutto il resto si può discutere. La seconda ipotesi è quella che sembra di decifrare dietro cose come la decisione dei Cinquestelle di far mancare il numero legale sull’ultimo provvedimento al Senato: lo ius soli. È successo ieri. Lega (e centristi) hanno gradito, e un possibile terreno di intesa viene di fatto a consolidarsi.

Se sarà invece il centrodestra ad arrivare davanti a tutti, bisognerà anzitutto misurare i rapporti di forza interni alla coalizione. Certo, se i voti di Forza Italia, sommati a        quelli della Lega e di Fratelli d’Italia, fossero sufficienti, o quasi, il governo sarebbe cosa fatta (mentre è ancora tutto da fare il nome dell’eventuale premier). Più probabile è che però non raggiungano la maggioranza, e allora bisognerà trovare nuovi consensi. Se Forza Italia prende più voti della Lega (e più facilmente se lo scarto tra i due partiti è sufficientemente ampio), si può ipotizzare che nasca una grande coalizione anche da noi. Ma non è detto affatto che basterà sommare i voti di Forza Italia e Pd, e quasi sicuramente la Lega non sarebbe della partita. È già successo nel corso di questa legislatura: la Lega non è entrata nel governo Letta, che invece Forza Italia ha sostenuto. Se il pallino sarà nelle mani di Forza Italia, è però possibile che anche Liberi e Uguali sia della partita: dopotutto, è la formazione alla quale hanno aderito le più alte cariche dello Stato (un fatto privo di precedenti: che la Legislatura termini con i presidenti delle due Camere arruolati entrambi in una formazione di sinistra che non fa parte della coalizione di governo), e dunque si può ritenere che il senso di responsabilità istituzionale alla fine prevalga. Soprattutto se questo esito determinerà, com’è probabile, anche un cambio di segreteria nel partito democratico.

Resta ancora un altro scenario, che delineiamo per ultimo ma che non è affatto il meno probabile. Ed è lo scenario che si determinerà qualora nessuna delle ipotesi fin qui descritte prendesse sufficiente consistenza: che si fa se il Pd non sarà il primo partito, oppure se la grande coalizione non ha numeri sufficienti, o ancora se i Cinquestelle da soli non ce la fanno e se non trovano alleati con i quali governare? Che succede se il centrodestra si spacca, se il Pd implode, se la frammentazione non trova un punto di ricomposizione intorno a una formula sufficientemente autorevole, e se, più semplicemente, non ci sono i numeri per nessuna delle soluzioni prospettate? A quel punto, la fisarmonica della Presidenza della Repubblica, che nei periodi di stabilità può chiudersi, dovrà necessariamente riaprirsi, e il ruolo di Mattarella crescerà proporzionalmente al grado di difficoltà in cui si ritroverà il quadro politico. Si può cioè pensare che il Quirinale, prima di rassegnarsi a nuove elezioni, provi a dare l’incarico di formare il governo a qualche figura di particolare prestigio e autorevolezza (il futuro Presidente del Senato? Il governatore della Bce Draghi? Il Presidente della Corte Costituzionale Grossi?), capace di raccogliere in Parlamento un consenso sufficiente a far nascere un nuovo Esecutivo. Nel quale è possibile che non siedano esponenti politici – ed è la soluzione più probabile – o che invece i partiti siano rappresentati al più alto livello, in modo da garantire la tenuta del patto di governo – ma è la soluzione meno probabile. Un governo tecnico-istituzionale, che sarà (non è la prima volta) chiamato a “fare le riforme”. Quali poi siano le riforme in grado di far funzionare il sistema politico istituzionale non è più chiaro a nessuno, essendo naufragati tutti i precedenti tentativi di tirare il Paese fuori da questa infinita transizione.

Così succederà che il discrimine fra le forze politiche, in campagna elettorale, non corrisponderà alle vere linee del confronto politico, in Italia e altrove decise essenzialmente da due grandi questioni: il rapporto con l’Europa, e la questione migranti. Che il giorno dopo il voto si rimescolino le carte, è dunque più che probabile.

(Il Mattino, 24 dicembre 2017)

La sinistra che cavalca l’onda nera

Lichtenstein

Signori, la proporzione è questa: circa un italiano su due ha paura di circa un italiano su ventiduemila. Il primo numero lo fornisce Repubblica, che pubblica un sondaggio il quale accredita il seguente dato: 46 italiani su 100 temono che il fascismo sia molto o abbastanza diffuso nel Paese. Il secondo numero fa invece riferimento al numero di iscritti di Forza Nuova, la più consistente formazione di estrema destra che, però, non raggiunge i tremila iscritti. Il che per esempio significa che in una città di un milione di abitanti i neofascisti sono, mediamente,… quarantacinque!

Se questa è la proporzione, ne viene che o gli italiani sono particolarmente timorosi e gemebondi, oppure il giornale romano sovrastima abbondantemente il fenomeno.

Uno può dire: quando è in gioco la democrazia, è meglio andarci cauti. Gli ultimi episodi – irruzione di estremisti di destra durante un’assemblea organizzata a Como dalle associazioni per i diritti dei migranti;  fumogeni accesi a Roma da un gruppetto di militanti sotto la sede di Repubblica, primo atto di una guerra politica «contro chi diffonde il verbo immigrazionista» – non attestano forse che c’è un allarme democratico? Meglio evitare sottovalutazioni. Anche perché oltre a Forza Nuova c’è CasaPound, ci sono le associazioni studentesche di estrema destra, c’è una piccola galassia di associazioni in cui circolano gli stessi simboli del ventennio fascista e gli stessi slogan xenofobi.

Di qui però a parlare di un pericolo concreto, reale, per le istituzioni democratiche io credo ce ne corra. Oltre ai numeri e alle proporzioni, può aiutare anche il senso storico: non c’è oggi il clima di violenza politica che c’era nei primi anni Venti del Novecento. Non ci sono corpi paramilitari e non si registrano decine di migliaia di iscritti a formazioni neofasciste in costante crescita. E, a tacere di altre differenze, non ci sono le condizioni che determinarono la risposta autoritaria alla crisi dello Stato: non abbiamo un conflitto mondiale alle nostre spalle, né l’introduzione del suffragio universale ha messo fuori gioco, come accade un secolo fa, le vecchie élites liberali.

Questi gruppetti di militanti che indossano maschere, leggono proclami e innalzano bandiere appartengono in realtà alla pattumiera della storia: lì sono e lì devono restare. Se pongono questioni di ordine democratico, lo Stato italiano ha gli strumenti per affrontarle: ha le forze di polizia e la legge penale. Ma il discrimine decisivo oggi non passa, per nostra fortuna, fra fascismo e antifascismo. E dirlo non significa affatto negare il fondamento storico della Costituzione e della Repubblica, ma tenere il confronto politico (e, fra poco, elettorale) nel suo alveo naturale. Perché delle due l’una: o c’è davvero il fascismo alle porte, e allora tutte le altre differenze fra i partiti democratici debbono scomparire, di fronte alla necessità di fronteggiare la minaccia – e non mi pare che sia questo il senso delle posizioni assunte finora dalla sinistra politica e culturale di questo Paese, che pratica oggi la divisione, molto più dell’unione –, oppure c’è poco da fare: siamo in presenza di una fiammata propagandistica, assai più alta e più grande del mostro che vuole esorcizzare.

Sia chiaro: anche la propaganda ci vuole. Anche le democrazie hanno bisogno di mobilitare passioni e di alimentare credenze collettive. Ma non è cercando ancoraggi nel passato che la sinistra riuscirà a parlare nuovamente a fasce ampie di popolo. Prima di temere che il passato ritorni c’è bisogno di capire se mai come avere nuovamente accesso al futuro. Il miglior modo per scacciare la paura è alimentare la speranza, ma non vale il contrario, purtroppo: il miglior modo per alimentare la speranza non è agitare vecchie o nuove paure. Che se poi tutta questa nuova visibilità e attenzione mediatica per Forza Nuova o per CasaPound avesse l’effetto opposto, di fare esistere e acquisire centralità a ciò che ha dimensioni trascurabili?

Uno sguardo in giro per l’Europa dimostra che sta effettivamente tornando una destra meno aperta e liberale di quella degli anni Novanta, coagulatasi, in tempi di crisi economica, grazie all’ostilità nei confronti dello straniero immigrato. Noi del resto abbiamo Salvini: e su questo Salvini non scherza. Ma il più urgente compito della sinistra è un altro: è rivendicare i valori dell’accoglienza e della solidarietà difendendo lo spazio di una politica di integrazione concreta e realistica; è far sentire la presenza dello Stato e delle istituzioni nei luoghi della marginalità e dell’esclusione sociale; è rimettere in moto l’ascensore sociale di questo Paese. Certo, meglio cantare «Bella ciao» una volta in più che una in meno, ma non fingiamo, per favore, che stiamo chiamando gli italiani a una nuova lotta partigiana, perché non è così.

Signori, la proporzione è questa: circa un italiano su due ha paura di circa un italiano su ventiduemila. Il primo numero lo fornisce Repubblica, che pubblica un sondaggio il quale accredita il seguente dato: 46 italiani su 100 temono che il fascismo sia molto o abbastanza diffuso nel Paese. Il secondo numero fa invece riferimento al numero di iscritti di Forza Nuova, la più consistente formazione di estrema destra che, però, non raggiunge i tremila iscritti. Il che per esempio significa che in una città di un milione di abitanti i neofascisti sono, mediamente,… quarantacinque!

Se questa è la proporzione, ne viene che o gli italiani sono particolarmente timorosi e gemebondi, oppure il giornale romano sovrastima abbondantemente il fenomeno.

Uno può dire: quando è in gioco la democrazia, è meglio andarci cauti. Gli ultimi episodi – irruzione di estremisti di destra durante un’assemblea organizzata a Como dalle associazioni per i diritti dei migranti;  fumogeni accesi a Roma da un gruppetto di militanti sotto la sede di Repubblica, primo atto di una guerra politica «contro chi diffonde il verbo immigrazionista» – non attestano forse che c’è un allarme democratico? Meglio evitare sottovalutazioni. Anche perché oltre a Forza Nuova c’è CasaPound, ci sono le associazioni studentesche di estrema destra, c’è una piccola galassia di associazioni in cui circolano gli stessi simboli del ventennio fascista e gli stessi slogan xenofobi.

Di qui però a parlare di un pericolo concreto, reale, per le istituzioni democratiche io credo ce ne corra. Oltre ai numeri e alle proporzioni, può aiutare anche il senso storico: non c’è oggi il clima di violenza politica che c’era nei primi anni Venti del Novecento. Non ci sono corpi paramilitari e non si registrano decine di migliaia di iscritti a formazioni neofasciste in costante crescita. E, a tacere di altre differenze, non ci sono le condizioni che determinarono la risposta autoritaria alla crisi dello Stato: non abbiamo un conflitto mondiale alle nostre spalle, né l’introduzione del suffragio universale ha messo fuori gioco, come accade un secolo fa, le vecchie élites liberali.

Questi gruppetti di militanti che indossano maschere, leggono proclami e innalzano bandiere appartengono in realtà alla pattumiera della storia: lì sono e lì devono restare. Se pongono questioni di ordine democratico, lo Stato italiano ha gli strumenti per affrontarle: ha le forze di polizia e la legge penale. Ma il discrimine decisivo oggi non passa, per nostra fortuna, fra fascismo e antifascismo. E dirlo non significa affatto negare il fondamento storico della Costituzione e della Repubblica, ma tenere il confronto politico (e, fra poco, elettorale) nel suo alveo naturale. Perché delle due l’una: o c’è davvero il fascismo alle porte, e allora tutte le altre differenze fra i partiti democratici debbono scomparire, di fronte alla necessità di fronteggiare la minaccia – e non mi pare che sia questo il senso delle posizioni assunte finora dalla sinistra politica e culturale di questo Paese, che pratica oggi la divisione, molto più dell’unione –, oppure c’è poco da fare: siamo in presenza di una fiammata propagandistica, assai più alta e più grande del mostro che vuole esorcizzare.

Sia chiaro: anche la propaganda ci vuole. Anche le democrazie hanno bisogno di mobilitare passioni e di alimentare credenze collettive. Ma non è cercando ancoraggi nel passato che la sinistra riuscirà a parlare nuovamente a fasce ampie di popolo. Prima di temere che il passato ritorni c’è bisogno di capire se mai come avere nuovamente accesso al futuro. Il miglior modo per scacciare la paura è alimentare la speranza, ma non vale il contrario, purtroppo: il miglior modo per alimentare la speranza non è agitare vecchie o nuove paure. Che se poi tutta questa nuova visibilità e attenzione mediatica per Forza Nuova o per CasaPound avesse l’effetto opposto, di fare esistere e acquisire centralità a ciò che ha dimensioni trascurabili?

Uno sguardo in giro per l’Europa dimostra che sta effettivamente tornando una destra meno aperta e liberale di quella degli anni Novanta, coagulatasi, in tempi di crisi economica, grazie all’ostilità nei confronti dello straniero immigrato. Noi del resto abbiamo Salvini: e su questo Salvini non scherza. Ma il più urgente compito della sinistra è un altro: è rivendicare i valori dell’accoglienza e della solidarietà difendendo lo spazio di una politica di integrazione concreta e realistica; è far sentire la presenza dello Stato e delle istituzioni nei luoghi della marginalità e dell’esclusione sociale; è rimettere in moto l’ascensore sociale di questo Paese. Certo, meglio cantare «Bella ciao» una volta in più che una in meno, ma non fingiamo, per favore, che stiamo chiamando gli italiani a una nuova lotta partigiana, perché non è così.

(Il Mattino Il Messaggero, 10 dicembre 2017)

Se la partita per il Paese si gioca a due

Klee

P. Klee

La forbice di numeri è ancora ampia, e può fare la differenza. Ma gli exit poll siciliani alcune cose le dicono fin d’ora. La prima è indiscutibile: non sappiamo se l’asticella toccherà davvero la quota psicologica del 40%, o si manterrà al di sotto, ma in ogni caso il risultato dimostra che nell’isola il centrodestra si è ripreso il suo elettorato. È vero che nelle passate elezioni regionali il centrodestra superò il 40%, ma cinque anni fa si presentò diviso, e questo consentì a Crocetta di divenire presidente della Regione, mentre questa volta si è presentato unito. La differenza l’ha fatta dunque la capacità di presentarsi con un solo candidato, Nello Musumeci. Dopodiché però la tenuta del centrodestra, soprattutto in proiezione nazionale, è ancora da dimostrare. Sentito da questo giornale, Salvini si è limitato a parlare di un punto di partenza, negando che il patto dell’arancino – la cena con Berlusconi e la Meloni – equivalesse a un accordo elettorale per le politiche del prossimo anno. Quel che vale in Sicilia non è ancora detto che valga a Roma. Anche se dalla Sicilia riceve una grossa spinta: il centrodestra unito, ha detto ieri sera il coordinatore di Forza Italia nell’isola, Micciché, farà il pieno nei collegi uninominali. Un argomento maledettamente convincente.

La seconda evidenza è il risultato dei Cinquestelle: da soli, hanno superato sicuramente il 30%, ed è probabile che siano sopra il 35%. È persino possibile che Cancelleri arrivi davanti a Musumeci e diventi il primo presidente di Regione a cinque stelle: sarebbe un esito clamoroso, che proietterebbe la sua ombra anche sul voto della prossima primavera. Comunque vada a finire il testa a testa fra i due candidati, è chiaro fin d’ora che i grillini sono di gran lunga il primo partito dell’isola. Non solo. Benché sia presto per avere numeri attendibili sui voti di lista, è sicuro che i Cinquestelle prendano il doppio o più dei voti andati a Forza Italia e al Partito democratico. Il doppio anche dei voti che lo stesso Cancelleri prese nel 2012, quando raggiunse il 18%. Grillo e i suoi sono ora di fronte al dilemma dinanzi al quale si troveranno probabilmente anche a marzo: sono la prima forza siciliana, stravincono tra i giovani (cosa di per sé significativa), e soprattutto vincono da soli contro quelle che chiamano «le armate Brancaleone» schierate da centrodestra e centrosinistra; ma proprio perciò, senza alleati di sorta, rischiano di fermarsi a un passo dal governo. Fin qui e non oltre, rischiano di infrangersi contro l’impossibilità di fare accordi con tutti gli altri.

La terza evidenza riguarda lo stato della sinistra. Difficile, a dir poco. Non solo il Pd è andato male, è andata male anche la sinistra di Fava. Il Pd ha preso gli stessi voti delle precedenti elezioni regionali, o forse anche meno, e questo dà tutto il senso della sconfitta: oggi come cinque anni fa, vuol dire che il renzismo in Sicilia è passato invano, o non è mai arrivato. Anche Claudio Fava ha preso però all’incirca i voti della volta scorsa (quando presentò liste col suo nome, pur non potendo essere candidato). Se Sparta piange, Atene non ride, insomma. E intanto Micari, se gli exit poll dovessero essere confermati, si troverebbe una decina di punti sotto il 2012, avendo perso tutta un’area di voto centrista che nelle scorse elezioni aveva sostenuto Crocetta. In questo contesto, pesa anche il risultato fortemente deludente di Alternativa popolare, il partito di Alfano, ridotto a poca cosa in quella che restava forse la sua ultima roccaforte.

Se poi si facessero raffronti con le politiche del 2013, o peggio con le europee del 2014, si misurerebbe più vistosamente l’arretramento del Pd e del centrosinistra. Si tratta di un confronto parecchio improprio, ma inevitabile. Soprattutto per un partito che aspira a governare il Paese, e che per farlo dovrebbe – almeno in linea teorica – traguardare quota 40%. Forse, però, più dei numeri conta il quadro politico complessivo. Micari è andato male per due ragioni: perché pagava il giudizio dei siciliani sul governo uscente di centrosinistra, che era ed è assai negativo, e perché non gli è riuscita l’operazione di allargare il suo campo. Fin da subito la sua è parsa così una candidatura marcata dal segno dell’isolamento. Ora, è vero che lo scenario locale è diverso da quello nazionale, ma il rischio è che anche nel resto del Paese il Pd non venga percepito come il perno di uno schieramento ampio. Né è minimamente immaginabile che siano gli altri, quelli alla sinistra del Pd, a poter assolvere questa funzione. Anche su questo il voto siciliano fa chiarezza, perché non regala a Fava, finito probabilmente sotto le due cifre, nessuna ragione per festeggiare, ma solo motivi per recriminare.

Il voto siciliano ha dunque, se gli exit poll saranno confermati, due sicuri sconfitti e due probabili vincitori. Farà ovviamente differenza se la guida della Regione andrà al centrodestra, come sembra, oppure ai Cinquestelle, ma rispetto al futuro politico del Paese gli uni e gli altri sanno già dove andare, mentre è il centrosinistra che deve probabilmente inventarsi nuove strade.

(Il Mattino, 6 novembre 2017)

Il fuoco delle piccole patrie cova ancora sotto la cenere

Mirò painting-1933a

J. Mirò, Painting (Barcellona, 1933)

Una buona affluenza in Veneto, decisamente più bassa in Lombardia, dove però non era previsto il quorum. Maroni è stato più prudente di Zaia, ma è chiaro che ha fornito all’elettorato un motivo in meno per andare a votare. E la percentuale raggiunta non permette certo alla Lega di cantare vittoria: a volere più autonomia è meno della metà dei lombardi.

Vi era però un altro, più consistente motivo per non passare per le urne, e stava nel fatto che il percorso verso un regionalismo differenziato, previsto dal titolo quinto della Costituzione, poteva e può essere avviato senza indire alcun referendum. Così ha fatto ad esempio l’Emilia Romagna, che si è accontentata di una delibera del Consiglio Regionale. Ma l’Emilia Romagna è a guida democratica, e dunque non aveva interesse ad accentuare il tema in contrapposizione al governo centrale. Lombardia e Veneto sono invece a guida leghista: sono anzi il cuore dell’originario progetto della Lega, che prevedeva soluzioni federaliste e, ai tempi belli di Bossi, il Senatùr tonitruante, persino la secessione. A un certo punto è stato messo su persino un farlocco Parlamento del Nord, di cui in seguito si sono perse le tracce, per minacciare una proclamazione di indipendenza, che per la verità non c’è mai stata. Divenuto segretario, Matteo Salvini ha compiuto una brusca inversione di rotta in senso nazionalista, mettendo la sordina alle posizioni più estremiste dei leghisti in tema di rottura dell’unità nazionale. È bene però averne memoria, non solo perché viviamo in queste settimane tutta la drammaticità della crisi catalana – che i promotori dei referendum nostrani hanno spergiurato di non voler prendere ad esempio – ma anche perché vàlli a leggere i quesiti proposti: quelli ammessi dalla Consulta sono ben dentro le regole della Costituzione, ma ce n’era anche uno, bocciato dalla Corte, che prevedeva, in aggiunta al maggiore autonomismo, l’indizione di un referendum per l’indipendenza del Veneto. Oggi si parla di tasse, di autonomia fiscale, di minori trasferimenti allo Stato centrale, ma domani chissà: non è mica detto che le cose rimangano dentro i percorsi politici e istituzionali previsti dalla legge. O almeno: non è detto che l’energia politica accumulata su questi temi sia tenuta in riserva e rimanga inutilizzata a lungo. A chi gli faceva osservare che un referendum consultivo non serve a gran che, non vincola nessuno e non produce conseguenze giuridicamente vincolanti, Roberto Maroni ha infatti  risposto così: “Dicono che un voto consultivo come quello di domenica sia inutile? Anche la Brexit è passata atraverso un referendum consultivo, e mi pare che la cosa abbia avuto qualche conseguenza”.

Non ha tutti i torti. Ma forse uno ce l’ha: l’affluenza non esaltante, che fa del sentimento autonomista non il sentimento magioritario, ma quello di una minoranza ben organizzata.

Se il bersaglio più grosso si allontana, non vuol dire però che non si diano effetti più ridotti e più ravvicinati. I primi effetti il referendum li produce all’interno della stessa Lega.  Salvini è saldissimo in sella, avendo portato il partito dai minimi storici toccati nel 2013 a percentuali a due cifre, stando ai sondaggi. Ma la conversione sovranista della Lega ha comunque lasciato scoperto il fianco originale delle rivendicazioni territoriali. Quello è il fianco che Maroni e Zaia, come leader del Nord, si propongono di presidiare, perché il sentimento “nordista” non è affatto estinto e può essere rinfocolato. L’affluenza non è stata così ampia da mettere il vento nelle vele della Lega, ma fa comunque di Maroni, e soprattutto di Zaia, un polo di identificazione del popolo leghista.

Poi ci sono gli effetti all’interno del centrodestra. A Berlusconi sta riuscendo un’altra volta quello che gli è già riuscito in precedenti occasioni: di riunire il centrodestra. Per la Lega, avere proprie bandiere da sventolare significava marcare una posizione distinta e autonoma, e cercare i modi per farla pesare. La Lega nazionalista e di destra, una volta tolta dal tavolo la pretesa di uscire unilateralmente dall’euro, è infatti più facilmente acclimatabile dentro il centrodestra di quanto non lo sia la Lega nordista e separatista delle origini. Ma questo significa anche che, al contrario, più la Lega ha bisogno di non cedere all’abbraccio moderato di Forza Italia, più sarà tentata di rispolverare il refrain dell’autonomia. Il referendum di ieri mantiene il fuoco sotto la cenere e preserva questa possibilità, anche se non la avvicina.

Infine ci sono gli effetti che si producono su tutto lo spettro politico. Una Lega ringalluzzita sarebbe un osso duro per tutti. Basti pensare che se l’Italia ha oggi un pasticciato titolo V della Costituzione, è per via del vento federalista che la Lega ha saputo sollevare, e da cui tutti gli altri partiti si son fatti trascinare. Grazie principalmente alla Lega, la questione meridionale è diventata in questi anni sinonimo di lagna assistenzialista. Né l’argomento della distribuzione delle risorse, delle tasse del Nord che rimangono al Nord, è argomento puramente retorico. Né infine le strutture dello Stato nazionale godono di così buona salute da essere al riparo da scossoni. Che la giornata di ieri non sia stata una grandiosa festa di popolo, in grado di cambiare il clima nel Paese, è un dato di fatto. Ma questo non vuol dire che l’iter avviato si arresterà. Il sì canta vittoria lo stesso. Non riportz un successo eclatanre, ma neanche una sconfitta bruciante. I giochi restano aperti, e sarà compito del prossimo Parlamento chiuderli, per il bene della sua unità, ma anche della indispensabile solidarietà fra Nord d Sud del Paese.

(Il Mattino, 23 ottobre 2017)

La violenza e le bugie pietose

GHIRRI

L. Ghirri, Rimini (1977)

Due cose stanno sulle pagine di cronaca dei quotidiani: lo stupro di Rimini, commesso da giovani marocchini, e la campagna di Forza Nuova, la formazione neofascista di Roberto Fiore che va a ripescare un vecchio manifesto della Repubblica di Salò per aizzare l’opinione pubblica contro l’uomo nero che violenta la donna bianca: potrebbe essere tua madre, oppure tua moglie, tua sorella, tua figlia, recita la didascalia, che gioca sulla paura per lo straniero, per l’immigrato, per il selvaggio di colore.

Non v’è chi non veda i tratti xenofobi di questa campagna, che istiga pesantemente all’odio razziale. Ma, per vederli, c’è davvero bisogno di non vedere la realtà, o di camuffarla? La realtà è la seguente: in Italia, sono stati commessi, nei primi sette mesi del 2017, 2333 stupri. Gli italiani accusati del crimine sono 1534, in lieve aumento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (quando furono 1474). Gli stranieri sono invece in leggerissimo calo: 904 nel 2017 contro i 909 del 2016. Questo leggerissimo calo e quel lieve aumento tutto sono meno che significativi. Piccoli scostamenti che non fanno tendenza, che non v’è ragione di ritenere che si confermeranno nei prossimi mesi, che dunque non costituiscono certo il dato statistico più rilevante. Eppure, ci sono agenzie di stampa e giornali che titolano con enfasi: sempre meno stupri sono commessi da stranieri e sempre di più da italiani. Perché lo fanno? Probabilmente per timore di alimentare i pregiudizi verso gli immigrati – specie quelli di colore, specie quelli musulmani – che serpeggiano in settori sempre più ampi dell’opinione pubblica.

Così facendo però, proibiscono di pensare che vi possa essere qualche nesso fra la commissione dello stupro e la condizione in cui vengono a trovarsi gli stranieri in Italia. Attenzione: non ho detto affatto che vi può essere un nesso fra l’essere stranieri e il commettere violenze sessuali. Non voglio essere frainteso, ma nemmeno voglio coprire di facile indignazione retorica un problema drammatico. Ho parlato dunque della “condizione” in cui vengono a trovarsi gli stranieri, soprattutto se irregolari e costretti alla clandestinità. I numeri, nonostante la rassicurante versione ufficiale (quella del calo delle violenze commesse da stranieri e dell’aumento delle violenze commesse da italiani) raccontano un’altra cosa. Perché gli italiani sono più di cinquanta milioni, mentre gli stranieri sono all’incirca cinque milioni: cioè dieci volte di meno. A fronte dei 1574 stupri compiuti da italiani vi dovrebbe stare dunque un numero dieci volte più piccolo di stupri perpetrati da stranieri, e cioè 157. E invece sono 904, quasi sei volte di più. Questo è allora il numero che si tratta di spiegare, questa è la realtà con la quale bisogna fare i conti. Non si fa un buon servizio alla verità – e, io credo, nemmeno alle comunità di immigrati che vivono in Italia – se si omette questa semplice proporzione, e si commenta la notizia dello stupro di Rimini ricordando che, dopo tutto, gli stupri commessi da stranieri sono in calo, mentre aumentato quelli dei nostri connazionali. (Tra parentesi: tutti questi stupri, questa catena orrenda di violenze e abusi che si continua ancora oggi non è tollerabile, e richiede che si faccia di più, molto di più in termini di prevenzione, di educazione, di formazione, di campagne di informazione, di tutela e assistenza alle donne).

Ma se siamo arrivati fin qui, se siamo giunti sino a riconoscere la realtà del problema senza alcun infingimento, non c’è affatto bisogno di gridare all’invasione, come fanno i neofascisti di Forza Nuova, o come, con posizioni appena più sfumate, ripetono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Se gli stupri sono, in percentuale, più alti fra gli stranieri, non è perché gli stranieri sono più cattivi, o più violenti, ma perché è fallito un progetto di integrazione. Uno stupro è una violenza individuale o di gruppo, ma chiama in causa l’ordine sociale complessivo, i suoi codici culturali, i suoi orizzonti simbolici. Farvi parte, starci dentro – stare dentro una società, comprenderne la cultura, decifrarne i simboli e farne propri i significati – non lo si fa semplicemente mettendovi piede. L’uomo non sta al mondo come la chiave sta nella toppa. E anche il modo di vivere l’essere maschi o femmine dipende da una gran quantità di cose, su cui la società, la cultura, la politica, la religione non smettono di tornare, lasciando sopra i corpi degli uomini e delle donne i segni del loro passaggio. Segni non pacifici e non pacificati, che in condizioni di estraneità, oppure di emarginazione, di distanza culturale o di vera e propria ostilità possono farsi illeggibili, e possono, in certe condizioni, scatenare la violenza. Per rabbia, per risentimento, per frustrazione, per mera rappresaglia. Perché si rimane in guerra col mondo, e la prima e mai cessata guerra che gli uomini combattono, purtroppo, è ancora quella per il dominio del corpo femminile.

Ma, se è così, il primo dovere non è coprire la realtà con pietose bugie, per tema di alimentare le campagne xenofobe e razzistiche, bensì quello di fare ogni sforzo per cambiarla, seguendo modelli effettivi di integrazione. L’immigrazione è una realtà del nostro tempo, ma la nostra responsabilità è molto più grande di quella che pensiamo di avere, riconoscendone il diritto. Il diritto non è mai, da solo e per intero, la vita buona. E nessun uomo e nessuna donna si incontreranno mai per davvero sotto i soli auspici di una norma di legge. Se non si aprono percorsi concreti e tangibili di inclusione degli stranieri, a partire da condizioni di vita accettabili, quella norma, qualunque norma, sarà violata.

(Il Mattino Il Messaggero, 3 settembre 2017)

Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

La fuga da Ap e le sette vite del Cavaliere

A Rauschenberg

R. Rauschenberg, Odalisk (1959)

Silvio che adotta tre cuccioli abbandonati. Silvio che beve una spremuta d’arancia da MacDonald. Silvio che sotto Pasqua si schiera in difesa degli agnellini, ne tiene uno in braccio, lo accarezza con sguardo mansueto e lo battezza Fiocco di Neve. Silvio che va a sorpresa al compleanno del figlio Piersilvio – cena in famiglia e foto su «Chi». Silvio che apre le porte di Villa Certosa per il compleanno della fidanzata Francesca Pascale – torta Disney di cinque piani e foto su tutti i giornali. Diciamo la verità: questo 2017, tra un’elezione in Europa e una in Italia, ci ha restituito un Berlusconi in grandissimo spolvero. Capace di parlare a tutti: ai proprietari di animali, agli appassionati di cartoni animati, agli amanti delle belle donne e agli amanti della famiglia, ai clienti dei fast food e specialmente a coloro – e sono ancora tanti, tantissimi, la stragrande maggioranza – che non sopportano il «teatrino della politica»: espressione che non per caso ha inventato lui e che dopo di lui hanno adottato un po’ tutti, in forme più arrabbiate (Grillo, Salvini), o più soft (Renzi).

Dopo quasi un quarto di secolo dalla sua prima discesa in campo, il Cavaliere riesce ancora a dare l’immagine di un uomo semplicemente prestato alla politica. Lui che aveva più di ogni altro impresso al sistema politico italiano i tratti di una democrazia maggioritaria, è stato il primo ed il più lesto ad adattarsi ai nuovi equilibri del proporzionale. Lui, ormai ottuagenario, riesce ancora a rilasciare interviste in cui si propone di interpretare la richiesta di cambiamento che sale dal paese. E in cui riesce a dipingere gli altri – gli altri, non lui – o come logori (Renzi), o come inaffidabili (Grillo), o come estremisti (Salvini).

Diversi anni fa, lo scrittore spagnolo Javier Marías dedicò alcune velenosissime parole a Berlusconi: la sua accattivante disinvoltura, la sua spudorata simpatia, la sua esibita spontaneità gli pareva che fossero solo il segno di un comportamento da parvenu della politica. Altro che parvenu! Si era nel 2002, e Berlusconi era già in sella al suo secondo governo. Ma soprattutto, trascorsi altri quindici anni di vita politica, dopo altri quindici anni di cadute e risalite, di vittorie e sconfitte, di processi e condanne, prescrizioni e assoluzioni, Berlusconi è riuscito a indossare ancora un’altra maschera: molto più rassicurante e affidabile di tutte quelle, molteplici, che ha indossato finora.

Dopo lo stress delle riforme istituzionali fallite, Berlusconi si sforza infatti di dare al centrodestra il profilo della forza stabilizzatrice, che può mettere in sicurezza il sistema. Gli altri strappano; lui ricuce. Gli altri si scamiciano; lui mantiene il doppiopetto. Gli altri sgomitano; lui appare il più padrone di sé.

Bisognava vederlo, nell’ultima apparizione televisiva: faccio un partito nuovo; dobbiamo andare uniti con la Lega; bisogna che ci liberiamo dalla dittatura fiscale e burocratica che opprime l’Italia. I suoi temi ci sono tutti. E poi, per non farsi mancare nulla, non vuoi che racconti di come abbia offerto la sua villa di Arcore o il suo parco di Portorotondo al regista premio Oscar Paolo Sorrentino, che ha iniziato a girare un film sul Cavaliere: altro che Caimano di Nanni Moretti! Come potrebbe Sorrentino avercela con lui, «soprattutto in un momento di aumentata popolarità»? Questo è il punto: la popolarità è aumentata, il Milan torna a comprare valanghe di calciatori (come se fosse ancora suo) e lui è di nuovo il più italiano tra gli italiani.

E intanto sono finiti i giorni in cui Berlusconi sconfitto lasciava il governo con lo spread alle stelle; finiti i giorni dei ricoveri in clinica; finiti anche i giorni dei processi e l’ignominia della condanna: quanto poi ai suoi effetti, Berlusconi spera ancora che la corte europea di Strasburgo possa dargli nuova agibilità politica, restituendogli il diritto a candidarsi alle prossime elezioni.

In questo prepotente ritorno al centro della scena conta ovviamente la difficoltà politica e strategica in cui si è trovato il partito democratico di Renzi, dopo il 4 dicembre. E conta anche l’illusione prospettica creata dal successo nelle elezioni amministrative, grazie a una legge elettorale che spingeva in direzione di una ricomposizione del centrodestra. Ma la collocazione di Forza Italia nell’area «liberale, moderata, ancorata al partito popolare europeo», forte di «valori cristiani e principi liberali», torna ad essere un’alternativa credibile a chi non vuole votare a sinistra, e non vuole neppure buttare tutto all’aria con il voto ai Cinquestelle. E siccome il proporzionale non chiede a Berlusconi di risolvere problemi di alleanze o di coalizione, si possono tenere a bagnomaria i pezzi di centro moderato che si staccano da Area popolare per costruire un’altra gamba del centrodestra, e fingere pure che lo stesso Salvini se ne farà una ragione: gira e rigira, è da Silvio che bisogna tornare.

E diciamo la verità: se Berlusconi è riuscito a fare un governo tenendo insieme la Lega secessionista di Bossi con la destra nazionale di Fini, volete che non si riesca a trovare un accordo con la Lega antieuropeista di Salvini? Se poi la cosa non dovesse riuscire, in un sistema tri- o quadri-polare, Forza Italia si troverà al centro di qualunque ipotesi di grande coalizione. Certo, per ora bisogna battere Renzi; ma poi, se (e solo se) necessario, si potrà pure fare assieme quel governo che oggi il Cavaliere giura e spergiura di non voler fare. Il partito di plastica è, insomma, il partito più malleabile che c’è oggi sul mercato.

Perfino in proiezione internazionale: parole di elogio per la Merkel, e parole di elogio per Trump. Parole di elogio per Macron e parole di elogio per Putin: trovate un solo leader di peso, nel panorama mondiale, del quale Berlusconi non si dichiari amico? Del resto, Trump è un imprenditore estraneo ai giochi della politica, proprio come lui. La Merkel è una statista nel segno del popolarismo europeo, proprio come lui; Macron ha vinto sulle macerie dei partiti, proprio come lui; Putin è amato dal suo popolo proprio come lui. Chi potrebbe unire tutti questi tratti in una sola persona? Solo Superman. E infatti sulle bancarelle sono tornate le statuine di Berlusconi con la tuta rossa e il mantello azzurro. A colpi di kryptonite, Silvio è ancora tra noi.

(Il Mattino, 23 luglio 2017)

Silvio e Matteo, l’intesa e la discrezione

Pavlov

La solidarietà di Berlusconi a Matteo Renzi e a Maria Elena Boschi vale quel che vale. Per un leader politico che non ha conosciuto un solo giorno in cui non fosse sotto attacco della magistratura, è il minimo sindacale. È la risposta che il Cavaliere dà ormai di default, ogni volta che qualcuno inserisce il file: “magistratura e politica”. Ciò non vuol dire che il tema non sussista, né che Berlusconi non pensi davvero che le intercettazioni pubblicate in questi giorni ledano la sfera privata, ma siamo al cane che morde l’uomo, non all’uomo che morde il cane: non è quella, insomma, la notizia.

La notizia è invece che Berlusconi vuole essere della partita. E la partita più importante che si giocherà di qui alla fine della legislatura è quella che riguarda la legge elettorale. Ora che il Pd ha messo nero su bianco la sua proposta (in soldoni: metà maggioritaria, metà proporzionale), si apre la possibilità concreta di un percorso parlamentare. Per il quale però occorrono numeri che il partito democratico ha alla Camera, ma non ha al Senato (o, se li ha, sono talmente risicati che è difficile fare previsioni). Dunque bisogna inserirsi nella discussione: dare qualcosa per avere qualcosa. Così funziona. Cosa ha da perdere Forza Italia, in questo momento, e cosa può dare? Quello che ha da perdere è la possibilità di presentarsi come un’alternativa credibile alla sinistra di Renzi e ai Cinquestelle. Credibile significa: in grado di competere. Allo stato, la possibilità di competere passa per due condizioni: la presenza di una leadership riconosciuta, la capacità di aggregare lo schieramento di centro-destra. In un sistema maggioritario, si tratta di condizioni irrinunciabili. In un sistema proporzionale no. Dunque, quanto più Berlusconi sente lontane quelle condizioni, tanto più inclinerà per una soluzione di tipo proporzionale.

Questo semplice principio consente una prima lettura delle parole pronunciate ieri dal Cavaliere. Accantoniamo dunque il Berlusconi animalista che passeggia nel parco di Arcore tra simpatici animali e punta al voto dei proprietari di cani e gatti; mettiamo pure da parte le dichiarazioni sui volti nuovi, competenti e con voglia di fare necessari al partito e veniamo al sodo, badiamo a quel che c’è di nuovo. E di nuovo c’è che il leader azzurro considera possibili le elezioni in autunno, il che significa: non è sulla data delle elezioni che Forza Italia opporrà barriere insormontabili. Oppure: se troviamo un’intesa sul sistema elettorale, possiamo ragionare anche sulla data.

Poi il Cavaliere aggiunge: con Salvini non siamo poi così lontani, a parte la questione dell’euro. E qui il primo principio non basta più, ma forse ci vuole la lezione storica. Se infatti si torna con la memoria al Mattarellum – la prima legge elettorale con cui Forza Italia si misurò, con successo, nel ’94 – si ricorderà che, a parte altre differenze, la quota proporzionale era fissata più in basso rispetto all’attuale proposta del Pd: al 25%, contro il 50% del cosiddetto «Rosatellum». E però la legge non impedì affatto alla coalizione di centrodestra di presentarsi nei collegi uninominali della quota maggioritaria con una fisionomia variabile: al Nord in alleanza con la Lega Nord, al Sud con Alleanza nazionale di Fini. La prova di governo, dopo la vittoria alle elezioni, durò solo pochi mesi, ma resta memorabile l’impresa elettorale: Berlusconi riuscì infatti a mettere insieme due forze politiche che più lontane non si sarebbero potute dire (anche su temi fondamentali come l’unità nazionale).

Fermo restando allora il principio sopra enunciato, ho l’impressione che il Cavaliere abbia certo motivi di ostilità nei confronti della proposta dei democratici, perché preferirebbe un sistema alla tedesca che conducesse diritto e filato ad una qualche grande coalizione, che cioè dopo il voto emarginasse gli opposti estremismi di destra e sinistra, ma sappia anche che con il «Rosatellum» non è impossibile stringere accordi con la Lega a livello di singoli collegi. Un sistema del genere è sicuramente preferibile a qualunque soluzione di tipo premiale, sia che il premio vada alla lista (Forza Italia ben difficilmente sarà il primo partito italiano) sia che vada alla coalizione (perché qui vale il principio: un accordo organico con la Lega per un centrodestra unito è di là da venire). Un congegno elettorale che sia maggioritario ma non troppo, e che mantenga spazio sia per accordi elettorali prima, che per accordi politici dopo, è confacente alla situazione in cui si trova attualmente Forza Italia. E lo è anche al Pd, mentre lo è molto meno ai Cinquestelle, che non hanno il personale politico sperimentato per la prova nei collegi uninominali, e non hanno neppure facilità di accordi: né nei singoli collegi, né nella prospettiva del governo.

Se poi, per essere della partita, bisogna spendere parole di solidarietà nei confronti di Renzi e Boschi – parole che sono abbastanza urticanti per le vecchie e nuove file dell’antiberlusconismo, e che quindi aprono un fossato sempre più ampio fra il Pd e quello che si trova alla sua sinistra – beh: che ci vuole? Con una mano Berlusconi accarezza idealmente tutti gli animali domestici degli italiani; con l’altra aizza invece il cane di Pavlov della sinistra dura e pura, la quale con un riflesso condizionato parla di intelligenza col nemico e chiama inciucio qualunque tentativo di intesa fra centrodestra e centrosinistra. Che se invece la legge elettorale la facesse il Pd da solo, certamente si ritroverebbe addosso l’accusa di essersela cucita su misura. Ma questa, delle eterne divisioni e contraddizioni della sinistra, è evidentemente un’altra storia.

(Il Mattino, 21 maggio 2017)

La trita retorica antimeridionale

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Cade oggi l’annuncio della data del referendum per l’autonomia della Regione Lombardia e della Regione Veneto da parte dei due presidenti leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia. Il referendum è solo consultivo, e salta a piè pari quanto stabilito dalla Costituzione vigente, che all’articolo 116 prevede la possibilità che «forme e condizioni particolari di autonomia» siano attribuite alle regioni «con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali». Vi è dunque una via costituzionale all’autonomia regionale, che Maroni e Zaia scelgono però apertamente di ignorare, preferendo indire un referendum consultivo privo di valore giuridico e senza effetti immediati. Evidentemente, l’obiettivo non è quello di intavolare una discussione seria, bensì quello di mettere fieno in cascina della Lega, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Da qualche anno, con la segreteria di Matteo Salvini – subentrato a Umberto Bossi dopo la sconfitta del centrodestra nelle elezioni del 2013 – i toni regionalisti della Lega si sono un poco attenuati: non perché Salvini fosse un campione dell’unità nazionale e avesse un debole per il Mezzogiorno d’Italia, ma semplicemente perché, dopo qualche legislatura trascorsa al governo, la predicazione contro Roma ladrona aveva inevitabilmente perso mordente, e credibilità. Messa dunque la sordina al federalismo e anzi al separatismo delle origini, la retorica populista che fornisce il principale impasto ideologico del leghismo ha dovuto dirigersi altrove, preferendo indirizzarsi contro Bruxelles e verso l’euro, contro l’Islam e contro i migranti. Sono stati questi i nuovi bersagli polemici mirando ai quali la Lega di Salvini ha potuto rifarsi la verginità: l’Unione europea è divenuto il nuovo mostro centralista che minaccia l’autonomia dei popoli, ed il musulmano che sbarca sulle coste della Penisola è divenuto, al posto del meridionale imbroglione, il nuovo nemico che attenta alla sicurezza e alla prosperità delle valli padane. Il vessillo della sovranità nazionale è stato di conseguenza issato contro la globalizzazione, contro le élites tecnocratiche che governano l’Unione, contro i flussi migratori che rubano il lavoro agli italiani.

Gratta gratta però, la preoccupazione è sempre la stessa, e sotto elezioni torna a farsi sentire: come far pagare meno tasse alle regioni più ricche d’Italia, come rifiutare qualunque forma di perequazione a vantaggio delle meno sviluppate regioni del Mezzogiorno, come soddisfare gli egoismi localisti dell’elettorato tradizionale della Lega, come sottrarsi a ogni logica di solidarietà nazionale. Dietro la proposta di Maroni e Zaia c’è insomma il solito refrain: gli altri sono parassiti. Parassiti sono le burocrazie sovranazionali, parassita è lo Stato centrale, parassiti sono i partiti, parassiti le amministrazioni pubbliche, parassita e improduttivo è, ovviamente, il Sud. Che l’iniziativa sia poco più che simbolica non cambia la sostanza: del resto, dall’ampolla piena dell’acqua del Po alle camicie verdi, la storia della Lega è piena di simboli più o meno posticci, con i quali cementare una discutibilissima identità etnica, e inventare un fantomatico popolo del Nord. Né è mancato un referendum dopo il quale il partito di Bossi proclamò formalmente, già dieci anni fa, l’indipendenza della Padania, mai riconosciuta – come puntigliosamente recita Wikipedia – da alcuno Stato sovrano.

Il fatto è che però i simboli non sono mai inerti, politicamente parlando. E anche in questo caso, sotto le fitte nebbie della demagogia, si nasconde lo zampino della politica. Maroni e Zaia vogliono spostare l’attenzione da quello che è stato fatto (o non è stato fatto) a quello che ora promettono di fare. Avrebbero potuto chiedere fin dal giorno del loro insediamento di discutere di autonomia regionale, ai sensi dell’art. 116: ma sarebbe stato un percorso faticoso, lungo, irto di ostacoli, in cui soprattutto il gioco del dare e dell’avere non è detto che avrebbe loro giovato. È molto più comodo, invece, limitarsi ad agitare il panno, e appellarsi al popolo con una consultazione diretta (che una volta di più si rivela uno strumento di manipolazione della democrazia), la quale certifichi simbolicamente quanto siano pronti a mollare la zavorra inutile del resto del Paese. La vecchia idea che il tessuto produttivo del Nord si difende se si sottrae il contribuente padano alle ingiustizie fiscali di Roma e alle politiche assistenzialiste sbilanciate a favore del Sud si innesta però sopra un dato politico reale: la prevalenza nell’opinione pubblica di sentimenti di chiusura e di diffidenza, di paure e incertezze che rendono la risposta populista terribilmente efficace nell’orientare gli umori dell’elettorato. Ed è su questo terreno che la Lega torna a competere, in una deriva che, di qui alle elezioni politiche, rischia di tradursi in una pericolosa escalation.

(Il Mattino, 21 aprile 2017)

Se Salvini e Grillo stanno con Putin

trump putin

La risposta militare di Donald Trump all’uso delle armi chimiche da parte del regime di Bashir al-Assad ha dato uno strattone robusto all’opinione pubblica internazionale. Inorridita per l’uso del gas da parte del dittatore siriano, ma forse non altrettanto convinta delle buone ragioni dell’intervento americano: non bisognava attendere un pronunciamento formale delle Nazioni Unite? Non bisognava portare la decisione sull’impiego delle armi dinanzi a qualche foro multilaterale? Non doveva esserci l’Unione Europea a fianco dell’America? Accanto a questi dubbi che più o meno ricorrono sempre, tutte le volte che si dimostra l’inanità degli organismi sovranazionali, quasi sempre bloccati da veti reciproci e incapaci di intraprendere iniziative autonome, stanno i dubbi sul nuovo Presidente a stelle e strisce: chi è Trump? Non aveva cominciato la sua Presidenza rispolverando tentazioni isolazionistiche? Non era pappa e ciccia con Putin? E com’è possibile allora che scaraventi 59 missili Tomahawk su una base militare del regime siriano, che agisce sotto la protezione della Russia? E qual è, in generale, la strategia americana per il Medio Oriente?

A scorrere le agenzie che si susseguono in queste ore, si scopre con qualche sorpresa che il maggiore sconcerto lo si registra non tra le file della sinistra, bensì tra quelle della destra che avremmo fino a qualche giorno fa – o forse fino a un minuto prima dell’attacco – qualificato come trumpiana, entusiasta delle scorrettezze politiche del neo-Presidente, e pronta a esultare per la fine degli equivoci buonisti dell’era Obama. Trump è quello del muro al confine col Messico, dello stop all’ingresso degli stranieri, dell’incremento del bilancio della Difesa, ma da ieri è anche quello del bombardamento della base siriana di Shayrat.

In Francia, dichiarazione di Marine Le Pen: «è troppo chiedere di aspettare i risultati di un’inchiesta internazionale indipendente prima di procedere a questo tipo di attacchi?». Dichiarazione della nipote, Marion: «Questo intervento è una delusione, è un danno per l’equilibrio del mondo». Certo, la destra francese ha una vivace tradizione di antiamericanismo, a cui può attingere in circostanze come questa. Ma anche in Gran Bretagna, il leader nazionalista Nigel Farage non ha rilasciato una dichiarazione di aperto sostegno. Tutt’altro: «Molti sostenitori di Trump saranno preoccupati per questo intervento militare: come andrà a finire?».

Se veniamo in casa nostra, le prese di posizione più apertamente contrarie le leggiamo tra i Cinquestelle. Dove Grillo aveva salutato con soddisfazione la comparsa dell’uomo forte Trump, all’indomani delle elezioni presidenziali, lì il deputato Di Stefano ha potuto tuonare: «sono bastati pochi mesi per allineare Trump ad un principio storico: in USA non comandano i Presidenti ma le lobby della guerra e del petrolio». In queste parole l’antiamericanismo ideologico che un tempo albergava nel pacifismo di sinistra (ma anche in certa destra estrema) torna ad esprimersi allo stato puro, grezzo, non mescolato con le prudenze dei comunicati ufficiali del Movimento, che parlano solo di «rischio» che si sia violato il diritto internazionale e, naturalmente, lamentano l’assenza dell’ONU.

Con Salvini le cose non vanno molto diversamente. Il leader leghista, che nei mesi scorsi aveva fatto circolare tutto contento la foto che lo ritraeva in compagnia di The Donald, ora parla di «pessima idea, grave errore, regalo all’ISIS». Mentre Giorgia Meloni teme che si continui la politica di Obama, con un sostegno indiretto al fondamentalismo islamico.

C’è un fronte “sovranista”, dunque, che si salda nella critica all’azione unilaterale del presidente americano, e che vede schierati dalla stessa parte Fratelli d’Italia, la Lega Nord e i Cinquestelle. (mentre tace la voce più moderata di Forza Italia).

A sinistra le cose stanno all’opposto. Il premier Gentiloni – che si è preso del «vassallo» degli USA dal terzomondista Di Battista – non diversamente dagli altri leader europei ha parlato di una «risposta motivata» al crimine di guerra perpetrato da Assad. Matteo Renzi gli ha dato manforte: «nessuno può permettere che dei bambini vengano uccisi nel modo in cui da anni in Siria si continua a fare».

Certo, se si guarda in fondo a sinistra, e si arriva sino al neosegretario di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, si trova ancora l’opposizione dura e pura contro l’imperialismo yankee: «I missili di Trump non sono al servizio della democrazia e dei diritti umani – ha detto Acerbo –, l’attacco americano è un atto di terrorismo internazionale». Se però si lascia la sinistra antagonista i toni si fanno nuovamente responsabili. C’è il consueto richiamo al ruolo che l’Europa dovrebbe assumere sul teatro mediorientale, l’auspicio di Andrea Orlando che quello di Trump sia stato un «episodio isolato», e la preoccupazione di Enrico Letta per una politica estera americana «a zig zag». Ma il tradizionale ombrello atlantico sotto il quale la sinistra ha finito col ripararsi negli ultimi anni – dal Berlinguer che preferisce la Nato fino a Massimo D’Alema che approva le operazioni nella ex-Jugoslavia – è tornato ad aprirsi. Certo, si preferirebbe usare la coperta dell’europeismo. Ma siccome quella coperta è, nei fatti, solo un velo di ipocrisia che si squarcia ad ogni nuova crisi internazionale, al dunque la sinistra opta per l’interventismo americano anche se alla Casa Bianca non siede più il liberal Obama ma il rude miliardario Trump.

Così suona come un paradosso, quello che si disegna sullo scacchiere della politica nazionale: la destra non segue Trump e si schiera per la pace, come dice senza tema del ridicolo Salvini, mentre la sinistra vede i rischi che il neopresidente conservatore USA si accolla e li giustifica, anche se il confronto con la Russia si avvicina a un punto di non ritorno. «Ad un passo dallo scontro», scriveva ieri il premier Medvedev, mentre mandava una nave da guerra a incrociare dalle parti dei cacciatorpedinieri americani da cui è partito l’attacco. Scontro a fuoco per fortuna ancora no, ma scontro ideologico dai confini incerti tanto quanto l’intero ordine mondiale forse sì.

(Il Mattino, 8 aprile 2017)

Il populismo non si combatte negando il diritto di parlare

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Il progetto per l’Italia che Matteo Salvini ha spiegato a questo giornale, nel forum di mercoledì scorso, difficilmente potrà far breccia nel cuore dei napoletani. Però era giusto che il leader della Lega avesse tutta intera la libertà di esporlo alla città. È giusto anche che possa tenere la sua convention: negargli la possibilità, per le proteste di un gruppo di manifestanti che ha occupato gli spazi della Mostra d’Oltremare dove si sarebbe dovuto svolgere l’incontro odierno, non è una vittoria, bensì una sconfitta. Che gli dà modo di mettere sotto accusa un’intera città. Un conto infatti è protestare, anche in maniera vivace; un altro è impedire. Un altro ancora – il più amaro di tutti –  assecondare gli arrabbiati esponenti dei centri sociali e della rete antirazzista, e ritirare la disponibilità della sala. Se finisse così, non sarebbe certo un epilogo di cui andare fieri. Ed è una vergogna che sia dovuto intervenire il Ministero dell’interno, per garantire a Salvini l’agibilità democratica in città.

Matteo Salvini ha opinioni sull’euro, sulla globalizzazione, sull’immigrazione, non molto diverse da quelle di Marine Le Pen, che in Francia è candidata alle prossime elezioni presidenziali, e che però può ben tenere i suoi comizi in tutto il Paese. Non molte diverse neanche da quelle dell’olandese Geert Wilders, pure lui prossimo alla sfida del voto (che in Olanda cade il 15 marzo) e pure lui in tour elettorale con un analogo bagaglio di euroscetticismo e xenofobia spinto al limite dell’odio razziale e religioso.

C’è in Europa una destra sovranista, nazionalista e populista, che intende fermare i flussi migratori, smantellare le istituzioni europee, mettere fine in un colpo solo alla moneta unica e all’islamizzazione del continente. Salvini e la Lega Nord condividono queste idee, e vi aggiungono una forte coloritura antimeridionale, iscritta dalle origini fin nel nome, che ancora oggi inneggia, in maniera abbastanza ridicola, all’indipendenza della Padania. Ma quel nome funziona quando si tratta di scagliarsi contro il parassitismo dei meridionali, gli sprechi dei meridionali, il clientelismo dei meridionali, la mafia e la camorra dei meridionali. Questa retorica è ancora utile a prendere voti al Nord, e infatti Salvini non l’abbandona del tutto. Siccome però il fulcro della polemica politica si è spostato: non è più Roma ladrona, ma la Merkel, l’euro e la BCE, Salvini si spinge fino a Napoli a cercare i voti: perché – bontà sua – non tutti i meridionali sono ladri e imbroglioni. Lui crede che a sentirsi offesi dai suoi pregiudizi antinapoletani siano solo i «quattro facinorosi» che protestano: ovviamente si sbaglia, ma è un errore che gli lasciamo volentieri.

Non c’era motivo, però, di commetterne a propria volta. Né occorre tirare in ballo anche a questo giro la famosa frase (erroneamente attribuita a Voltaire): «non condivido nulla di quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Semplicemente, una democrazia liberale lascia libertà di opinione a tutti, finché da quelle opinioni non sia concretamente minacciata. Francamente, non mi pare che fosse il caso della trasferta di Salvini tra il lungomare Caracciolo e la Mostra d’Oltremare. È vero che un ordinamento democratico non è solo un insieme astratto di regole e procedure, ma vive nei comportamenti concreti di ciascuno e, a volte, in prassi di vita e di pensiero che hanno bisogno di essere mobilitate, anche contro i Salvini di turno. Se davvero il Sindaco De Magistris intende questo, quando si dice vicino ai centri sociali e auspica «una grande manifestazione popolare, pacifica, ricca di ironia, di cultura e di satira», allora ben venga: non c’è motivo di allarmarsi. C’è, se mai, da annotare l’uso politico che De Magistris viene facendo della storia, dell’identità e del carattere di questa città. Va bene anche questo. Ma ieri si è andati oltre: metodi violenti e disordini, tumulti e ricatti: quelli non possono andar bene. È pericolosa anche l’idea che la democrazia viva solo dell’effervescenza di movimenti e poteri costituenti, e non di un ordine costituito e di istituzioni legittime che son poste a garanzia dei diritti di tutti, anche di quelli che non ci piacciono. Napoli è Masaniello, ma pure Benedetto Croce.

Salvini, dal canto suo, fa il suo mestiere, e deve poterlo fare. In materia di ordine pubblico, spinge per politiche di tipo securitario e, in economia, per una politica fiscale dirompente (una sola aliquota del 15% per tutti) – dirompente al punto da contraddire il principio costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale. Anche queste, però, sono opinioni legittime e meritevoli di essere discusse, così come lo sono quelle esposte nell’incontro organizzato dal Mattino. Non è stata una passerella, ma un utile confronto nel quale gli si è potuta contestare l’approssimazione e la faciloneria con cui declina il tema dei trasferimenti al Sud, contestandogli in punta di fatto il racconto di un Nord che elargisce risorse al Sud, quando è piuttosto vero il contrario. Certo, chi ha un po’ di conoscenza storica riconosce nel rifiuto leghista di stranieri e migranti (specie se musulmani), così come nella polemica contro inetti, ladri e speculatori, eco sinistre di pericolose ideologie illiberali. Ma la democrazia: non scherziamo, non la si difende con le intimidazioni, o impedendo a Salvini di parlare. Non c’è motivo di farlo, non c’è motivo di accendere i riflettori su ogni cosa che Salvini fa o dice. Se Salvini viene a Napoli, è perché Napoli è più grande, molto più grande di Salvini. Promettere disordini per indurre l’Ente Mostra a negare la sala significa offrire al leader leghista la possibilità di mettere il suo nome a fianco del nome di Napoli: onestamente, c’era bisogno di fargli questo regalo? E schiacciare Napoli sul confuso radicalismo comunardo dei manifestanti: è questo che fa grande una città, o piuttosto la condanna, per l’ennesima volta, a tenersi lontana e fuori tempo rispetto alle rotte principali della democrazia e della modernità?

(Il Mattino, 11 marzo 2017

 

Perché il centrodestra a pezzi non finirà nelle mani della Lega

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Può vincere le elezioni in Italia uno schieramento di centrodestra che dà del venduto al Presidente della Repubblica? Le parole che ieri Matteo Salvini ha rivolto all’indirizzo di Mattarella hanno suscitato un’ondata di polemiche. Parlando ad una manifestazione in cui si trattava del vino nostrano e della capacità delle aziende italiane di imporsi sui mercati mondiali, Mattarella ha detto che il futuro del nostro Paese sta nel superamento delle frontiere e non nel loro ripristino. Salvini vi ha colto un’allusione al fenomeno migratorio, ed è partito lancia in resta. Superare le frontiere significa far entrare tutti, forse il Presidente non ha parlato da sobrio, e se invece era sobrio allora è complice della rovina dell’Italia.

Ma, ci fosse o no nelle intenzioni del Capo dello Stato un velato riferimento ad un tema davvero cruciale per il futuro dell’Unione europea, che la Lega usa però con grande disinvoltura, per alimentare paure e ossessioni, la reazionedecisamente sopra le righe del leader del Carroccio ci porta alla domanda di prima: c’è qualcuno più «unfit», più inadatto di Salvini a guidare il Paese?

Eppure la decomposizione del centrodestra italiano, e l’assenza di una leadership di segno diverso dopo il tramonto ormai irreversibile di Berlusconi, rischia davvero di consegnare a Matteo Salvini la guida dello schieramento. Con probabilità piuttosto basse di farne una maggioranza di governo.

Se si guarda un po’ in giro – e non c’è bisogno di arrivare fino a Trump, in America – si troverà che in molti paesi del continente avanzano idee xenofobe, cresce il sentimento anti-europeo, e torna con forza la voglia di rinserrarsi dentro gli spazi nazionali. Un po’ ovunque sono in difficoltà le famiglie politiche del socialismo e del popolarismo, cioè letradizioni politiche e ideali responsabili della costruzione comunitaria. Ma leforze moderate non sono affatto scomparse, e la leadership rimane ancora appannaggio di personaggi come Angela Merkel o Cameron (Panama papers permettendo).

La storia italiana ha poi una delle sue chiavi principali nella tenuta offerta per quarant’anni dalla Democrazia Cristiana, che ha avuto ben pochi cedimenti verso la destra estrema, fascista e post-fascista, riuscendo a governare il Paese dal centro, con una classe dirigente saldamente ancorata dentro i valori della Costituzione. Nel ventennio successivo alla fine della prima Repubblica, Berlusconi ha compiuto un’operazione analoga, attraendo la destra di Gianfranco Fini nello spazio di governo, non certo subendone l’attrazione. Alla fine di questo secondo arco della storia nazionale, però, dopo gli ultimi rovesci di Forza Italia e il rompete le righe, il panorama che offre il centrodestra è desolante: non si vede più nessuno che sia capace di fare quello che han fatto la DC prima, il Cavaliere poi. A tenere la scena sono le sparate di Salvini: al momento, non c’è altro.

Lo spettacolo che offre Roma da questo punto di vista è esemplare. La candidatura di Guido Bertolaso, proposta da Berlusconi, è solo una fra le tante che compongono il bouquet del centrodestra. C’è Bertolaso, e poi c’è Giorgia Meloni. C’è Giorgia Meloni, e poi c’è Alfio Marchini. C’è Alfio Marchini, e poi c’è Francesco Storace. Se questi quattro pezzi del centrodestra stessero insieme, sarebbero probabilmente maggioranza. Ma sono profondamente divisi, ed è probabile, allo stato, che nessuno di loro arrivi al ballottaggio.

In altre realtà il quadro non è frammentato allo stesso modo, ma la fisionomia del centrodestra rimane comunque indecisa. E aumenta la voglia di contarsi da parte di liste, partiti e partitini che fluttuano in quello spazio come satelliti usciti fuori da qualunque orbita.

Eppure vi sarebbero due buoni ragioni per provare a rimettere insieme tutti questi cocci. La prima attiene alla debolezza oggettiva dell’infrastruttura culturale della sinistra. Non vi sono molti dubbi sul fatto che a dettare l’agenda europea sono stati in questi anni temi che parlano molto più a una cultura di stampo moderato, che non alla tradizione socialista e socialdemocratica. Dall’austerity all’elogio del merito, dalla flessibilità sul mercato del lavoro alle riforme del welfare, passando per i temi della sicurezza e dell’immigrazione, il  set di idee diffuse e circolanti nell’opinione pubblica si acquartiera molto più facilmente a destra che a sinistra. Ma in Italia non c’è una classe dirigente all’altezza, in grado di chiudere queste idee in una sintesi che non catturi solo l’elettorato più estremista, o forse semplicemente più deluso e frustrato, spaventato dalla globalizzazione, ma che si rivolga alla generalità del Paese.

La seconda ragione, più banale ma non meno incisiva, è la legge elettorale nazionale. Che col premio di lista dovrebbe spingere alla ricomposizione. Era, in realtà, la ragione per cui Forza Italia ha rinunciato al premio di coalizione, finché ha creduto di poter tenere tutti insieme.

Ora le cose non stanno più così, e la tendenza al minoritarismo, che prima abitava stabilmente a sinistra, si è trasferita dall’altra parte del campo.

Così ognuno fa i suoi calcoli. Salvini li fa alla grossa, e insulta il Capo dello Stato. Gliene viene bene forse a lui, che cerca così di togliere qualche voto ai Cinquestelle. Ma che sia questa la strada per diventare maggioranza nel Paese, riducendo al silenzio le forze moderate e di centro, è politicamente e storicamente assai improbabile.

 

(Il Mattino, 11 aprile 2016)

Grillo, la svolta verso i delusi della sinistra

due pennuti

L’elezione del Presidente della Repubblica ha avuto, tra gli altri effetti, quello di spingere le forze politiche italiane a riposizionarsi. Rispetto all’ultima stagione più o meno emergenziale di Napolitano – il governo Monti, il governo Letta, i primi mesi di Renzi – la nuova fase è segnata da una maggiore stabilità. Le scadenze politiche e istituzionali più impegnative sono infatti alle spalle: manca, è vero, l’appuntamento con il voto delle regioni, ma da quel voto (di prevalente marca amministrativa) è difficile attendersi novità dirompenti, comunque vadano le cose nelle due regioni più in bilico, la Campania e il Veneto. Superata la prova del Colle, Matteo Renzi promette dunque di durare. Sembra averne non solo l’intenzione, ma anche l’interesse.

Di rimbalzo, all’opposizione tocca organizzarsi, di qui in avanti, per i tempi lunghi della legislatura. Ieri Beppe Grillo ha preso atto che nel Parlamento, che voleva aprire come una scatoletta di tonno, deve rimanerci dentro a lungo. Nel frattempo, a destra, a far la voce grossa in piazza è sceso anche Salvini. Con la crisi economica e le difficoltà con l’Unione europea di paesi come l’Italia, i temi federalisti e secessionisti della Lega rischiavano di apparire infatti incomprensibili. Salvini ha spostato di conseguenza il focus della polemica politica. Essendosi chiamata fuori per tempo da responsabilità di governo, ha deciso di mettersi su un altro cammino: raccogliere intorno a sé tutti i malcontenti, le frustrazioni e i risentimenti comportati dai vincoli europei, dalle politiche di bilancio, dalle riforme strutturali, dalla moneta unica, e dare ad essi una forte impronta populista e nazionalista, contando anche sul fatto che nel frattempo si è resa sempre meno percepibile la proposta politica di Forza Italia. Berlusconi non sa ancora dove andare: se sulla sponda moderata, insieme con Alfano e il popolarismo europeo, oppure su quella radicale che Salvini oggi capeggia con disinvoltura. Le contraddizioni che il Cavaliere del buon tempo andato poteva bellamente ignorare – saldando tutto insieme nei contenitori volta a volta inventati allo scopo (il Polo del Buongoverno, la Casa delle libertà, il Popolo della Libertà) – ora che è debole e periclitante gli sottraggono spazio politico. I due o tre ingredienti di cui era fatto il centrodestra italiano stanno ormai in pezzi separati: il moderatismo con Alfano, il populismo con Salvini, il liberismo con quel che resta di Forza Italia. E quello che sotto la felpa gonfia di più il petto, Salvini, tende a oscurare gli altri due.

E tende a oscurare pure Grillo, la cui vena polemica, anti-casta, anti-ladri, anti-politica, anti-Bruxelles, anti-immigrati, rischia di non avere uno sbocco proprio, ben distinto e riconoscibile. Il numero di vaffa che Matteo Salvini è pronto a dire, infatti, supera ormai quello di cui dispone il primo inventore del Vaffa Day.

Così Grillo ha cominciato a cercare uno spazio politico più definito alla sinistra del governo, provando a egemonizzare quel che rimane fuori o è marginalizzato dalla narrazione renziana: Sel, la minoranza Pd, la sinistra radicale. Al Corriere della Sera ha affidato la sua proposta. Due punti, considerati strategici: il referendum sull’euro e il reddito di cittadinanza. Il primo punto accomuna le forze populiste e sovraniste in giro per il continente; il secondo qualifica a sinistra l’opposizione a Cinque Stelle. Grillo chiama in realtà reddito di cittadinanza una cosa che somiglia piuttosto a un reddito minimo garantito (limitato nel tempo e subordinato alla disponibilità ad inserirsi nel tessuto lavorativo), ma l’intenzione è chiara: fare a sinistra quel che con gli esodati e la critica alla riforma Fornero fa a destra Salvini. Sul piano parlamentare, Grillo cerca poi di ampliare le crepe nel Pd. Dialogare sulla riforma della Rai serve a quello.

Ma la novità non è nei contenuti, bensì nella musica che con quei contenuti Grillo prova a suonare. L’indignazione morale contro sprechi e corruzione, privilegi e abusi, rimane il basso continuo, ma si aggiunge un’altra nota. Il Movimento Cinque Stelle sta dalla parte dei poveri, non solo degli onesti. La povertà, dice Grillo al Corriere, è una malattia e non una colpa. La preoccupazione sociale, così, si sposta: ai piccoli proprietari, piccoli imprenditori, piccoli artigiani, si aggiunge un più generico sfondo di emarginazione, disoccupazione ed esclusione sociale. E Grillo prova così a giocare da sinistra la carta populista della contrapposizione all’Europa dei banchieri, ma anche ai grandi interessi industriali e al jobs act, scommettendo sul fatto che lungo questa strada troverà qualche alleato in più, e che intanto le riforme di Renzi produrranno più scontenti che contenti.

Il populismo, peraltro, non è detto che sia una cattiva parola: lo diventa, però, se il riformismo al governo dà buoni frutti. E questa è, in effetti, la sfida: hic Rhodus, hic salta.

(Il Mattino, 5 marzo 2015)