Era chiaro, fin dalla tarda sera del 4 dicembre, che lo scenario politico del Paese si sarebbe parecchio complicato, e non solo a livello nazionale, per effetto della vittoria del No al referendum costituzionale. Renzi è (temporaneamente) uscito di scena, ma non solo lui: tutti gli uomini che si sono più o meno identificati con la sua battaglia per la riforma della costituzione hanno riportato ammaccature più o meno grandi. Così anche Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania, che si è molto speso in quella sfida, si è anzi trovato al centro di una bufera mediatica (la frittura di pesce e l’elogio del voto clientelare) che, abbia avuto o no conseguenze sull’esito del referendum, ne ha sicuramente danneggiato l’immagine, aumentando la distanza con i vertici nazionali del partito (e una certa voga alla caricatura). La coda giudiziaria di quella vicenda è francamente risibile, e sembra rientrare soltanto nel bruttissimo vezzo italico di criminalizzazione della politica (che dura da quel dì). Ma anche quella è la spia di un momento non felice.
De Luca pensa ora di superare i nodi politici aggrovigliatisi dopo il 4 dicembre proponendosi non come un presidente della Regione, eletto direttamente dai cittadini ma legato a un rapporto di fiducia con il consiglio regionale e le forze politiche che nel consiglio lo sostengono, ma come sindaco della Campania, uomo solo al comando In grado di rivendicare per sé la massima autonomia decisionale possibile. È la risposta giusta? Si vedrà. Di sicuro è la risposta che ha sempre fatto parte del suo stile di governo, legato a un esercizio vigorosissimo della carica di primo cittadino (a Salerno, per circa un ventennio), un esercizio che ha ristretto ai minimi termini la dialettica politica.
Il banco di prova è adesso la sanità, sicuramente la parte più corposa del bilancio di una Regione (e del lavoro di un governatore). De Luca ha chiesto di poter entrare nel ruolo di commissario, per rimediare allo sfacelo in cui, dopo quasi un decennio di commissari di nomina governativa, la sanità campana è precipitata, finendo di gran lunga ultima nella graduatoria che ogni anno stila il Ministero della Salute. Ieri questo giornale ha presentato i dati da brivido sui livelli di assistenza sanitaria in Campania: che vi sia assoluta necessità di cambiare modalità di gestione della sanità regionale è, dunque, fuor di dubbio. Ma la nomina, che il giorno prima del referendum sembrava assolutamente scontata, ora non lo è più: esitazioni vi sono sia a Roma – dove il ministro Lorenzin sembra molto riluttante a firmare il relativo decreto –, che a Napoli, in seno alla maggioranza e dentro il partito democratico, dove si registrano non pochi malumori e perplessità dinanzi alla prospettiva di mettere tutto il comparto sanitario nelle mani di un solo uomo, abituato peraltro a lasciare soltanto le briciole agli altri.
De Luca naturalmente si propone come uomo determinato, deciso, che bada al sodo e punta al risultato, insofferente non solo della «palude burocratica» che continua a indicare come il nemico numero uno da battere e in cui teme invece di rimanere invischiato, ma pure delle liturgie politiche, dei faticosi confronti in consiglio e nel partito. Resta il fatto però che la via di chiudere il proprio ruolo in una dimensione tutta gestionale e amministrativa, senza una reale interlocuzione politica con i diversi livelli di governo e con gli altri protagonisti della vicenda campana rischia di aggravare l’isolamento di De Luca. Certo, lui preferisce in realtà mantenersi in una simile condizione, proprio per non dare conto a nessuno delle proprie scelte. Ma quello che nei momenti di fortuna è sicuramente un punto di forza del governatore, può rivelarsi in futuro una debolezza, se il vento continuerà a cambiare.
E in realtà, dopo il 4 dicembre, il vento è già, almeno in parte, cambiato. De Luca però procede senza reti di solidarietà politica fra gli esponenti del suo stesso partito: rinuncia per esempio a chiamarli ad una discussione sul significato politico del voto, che è stata dunque semplicemente bypassata, come se non riguardasse la Campania nemmeno di striscio, e di fatto rinuncia a rilanciare l’azione del partito democratico. Continua anzi a preferire non identificarvisi e tenerlo quasi da parte. Non è detto che, a tempo debito, questa posizione non gli verrà imputata. E rinuncia anche a parlare ai cittadini campani in forme diverse da quelle dei monologhi su radio e televisioni private, dove dà di sé l’immagine di un uomo affaticato dal grande peso del lavoro svolto ma poco aperto a un confronto reale con i cittadini.
Ci sono dei momenti in cui tocca alzare lo sguardo ed essere inclusivi. Questo lo è certamente. Non solo per il partito, che pure è da tempo allo sbando e non può essere né commissariato, né sbaragliato, ma ricostruito in tutte le sue articolazioni, convogliando le migliori energie rimaste finora fuori. Ma anche per la Campania, il cui rilancio non potrà mai essere il frutto di una efficiente azione amministrativa condotta da un unico centro, ma la sintesi di tutte le forze politiche, sociali e imprenditoriali del territorio. Per le quali non basta un pur bravo sindaco.
(Il Mattino, 29 dicembre 2016)