Un pullman, un viadotto, una gita. Poi sedili accartocciati, croci e santini fra i ciuffi d’erba, peluche. Brandelli di abiti. Un negoziante che per passione organizza pellegrinaggi verso luoghi di culto cari alla devozione popolare. Casalinghe, marescialli in pensione, insegnanti, gruppi di amici e parenti. Bambini, anche: che cosa c’è di più normale, di più ordinario, di più italiano nei nomi, nei luoghi, nelle mete di questa enorme tragedia? Le ambulanze, una scuola, il palazzetto dello sport. Mezzi ed edifici, cose e persone. Il lutto e il pianto. Il vescovo che ufficia il rito funebre, le autorità sedute in prima fila: nulla è fuori posto, tutto è non come deve essere (perché non doveva essere, non era necessario che il pullman precipitasse nel vuoto, e che tante persone morissero), ma semplicemente com’è, com’è andata e come si vede il giorno dopo, nel silenzio attonito che circonda la strada, le case, il vallone e le vite superstiti. Senza imbellettamenti, senza trucchi, senza neppure eroismi. Tutto è accaduto, tutto è vero, e nulla altera la luce uguale, indifferente e spietata di questa caldissima fine di luglio. Domani non è un altro giorno: è lo stesso giorno di oggi. Ci saranno ancora macchine, viaggi, gite, voci e risate, magliette sudate e giornali e radio accese. Un mazzo di fiori sul viadotto, e altri pellegrinaggi verso le stesse destinazioni.
Però i filosofi raccontano che la morte è un’altra cosa.