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Fazio, i veleni e la verità perduta

Fazio gufo

La conclusione della telenovela Fazio (un contratto di 11 milioni per 4 anni) non è certo la conclusione della vicenda Rai. È, piuttosto, una cartina di tornasole del momento di difficoltà dell’azienda. Il nuovo direttore generale, Mario Orfeo, ha dovuto prendere una decisione in condizioni di necessità: a poche settimane dal suo insediamento, non poteva certo permettersi, per via del tetto degli stipendi sotto il quale non ci stava il contratto di Fazio, di perdere al buio uno dei volti storici della Rai, senza aver avuto il tempo di delineare strategie alternative. Il che però dimostra una cosa soltanto: che strategie alternative ci vogliono, che un’altra televisione deve essere possibile e che Orfeo dovrà cominciare a lavorarci. Va bene dire che Fazio è la Rai, ma solo se significa che Fazio è Fazio grazie alla Rai, e non viceversa che la Rai è la Rai grazie a Fabio Fazio.

Roberto Fico, il Presidente della Vigilanza Rai, ha scomodato una figura tradizionale dell’armamentario polemico populista: quella dei comunisti col cuore a sinistra e il portafoglio a destra. Detta da lui, non è chiaro però cosa sia più grave: che Fazio sia comunista (cioè di sinistra, comunista è solo l’espressione denigratoria), o che tenga al portafoglio. Questa comunque è attualmente la linea del Movimento Cinque Stelle, fatta di uscite demagogiche contro l’establishment delle banche, della Rai e dei partiti: cosa c’è di peggio, infatti, nel Paese?

Ma non è facendo di tutta l’erba un fascio che si potrà mettere mano a una ristrutturazione del servizio pubblico. Il servizio pubblico deve informare, deve realizzare prodotti di qualità nell’ambito dello spettacolo e dell’entertainment, deve offrire una palestra per nuove idee e nuovi programmi; deve tenere il passo dell’innovazione in un settore che la Rete sta profondamente rivoluzionando. Sono sfide enormi. La Rai viene dalle dimissioni del direttore editoriale Verdelli e dalla bocciatura del suo progetto di riforma e, poi, dalle dimissioni del direttore generale Campo Dall’orto, e dalla medesima disavventura toccata in sorte alla sua proposta editoriale. Cosa vorrà fare Orfeo? Ma più ancora ci si dovrebbe sintonizzare con un’altra domanda: cosa vuol fare il Paese della televisione? «Tra trent’anni – diceva Ennio Flaiano – l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la TV»: non stiamo parlando dunque dei capricci di una star, di stipendi fuori mercato o in linea col mercato, ma del centro nevralgico dello spazio pubblico che la tv generalista ancora occupa nel Paese. Coi suoi tredici canali televisivi, i suoi centri di produzione, le sedi regionali, i tredicimila dipendenti, stiamo parlando di un’azienda culturale che costituisce parte essenziale dell’identità nazionale.

Ebbene, in tutta la vicenda che ha riguardato il rinnovo del contratto con il volto più noto di Rai Tre (passato a Rai 1 con un robusto adeguamento di stipendio), il Paese ha discusso di cosa? Dell’enorme sperequazione fra gli stipendi di un divo della televisione e quelli di un normale lavoratore? (Sai la novità). Del rispetto della legge sul tetto massimo alle retribuzioni nel settore pubblico, e di come aggirarlo? Di limiti del mercato, di giustizia e moralità? Benissimo. Ma una volta che ci saremmo fatte le nostre opinioni sull’avidità o sulla professionalità di Fazio, non sarà il caso di guardare oltre il dito, al modo in cui si confezionano i programmi, si produce informazione, si mescola informazione e intrattenimento, si mescola informazione, intrattenimento e chiacchiera nei talk show, e insomma si rinuncia alla pretesa, nientemeno, di dire la verità?

L’ho detta grossa? La verità è un fuoco bimillenario che si è ormai spento del tutto, come diceva il filosofo? Ma se non si capisce più se “Che tempo che fa” di Fazio sia un programma giornalistico o uno spettacolo, e il suo conduttore artista o giornalista, se addirittura questa confusione di spazi e di generi di discorso viene rivendicata, non sarà – oltre che per la faccenda dei compensi – perché si è rinunciato da tempo al dovere di dire la verità – le cose come stanno? Di cercarla, certo, di discuterne criticamente e di dare voce al pluralismo delle interpretazioni, ma senza per questo astenersi dal tentativo di accordare l’opinione alla verità, le parole alle cose, i segni ai significati. Perché con la scusa di fare gli scettici, gli ironici e i postmoderni facciamo finta di ignorare che la rinuncia alla verità è, molto spesso, solo un’ammiccante ipocrisia verso il padrone di turno. Baudrillard diceva che per la televisione, «il mondo è solo un’ipotesi come un’altra». Ecco: a volte sembra che in Rai si voglia a tutti i costi dare ragione a Baudrillard, e torto al mondo.

Prendete Santoro, al suo ennesimo ritorno televisivo, che l’altra sera ha provato a spettacolarizzare il mostro: Hitler. C’erano in trasmissione le opinioni autorevoli, ma c’erano pure le opinioni da bar; c’era una nuova mescolanza dei generi, non però per produrre quelle evidenze che nascano solo dal cozzo fra i linguaggi, ma per allestire una posticcia confusione teatrale. Una sorta di wagnerismo di cartapesta, di teatro nell’accezione più enfatica e più melodrammatica del termine.

Ma che discorsi sono questi!, dirà il mio benevolo lettore. Senza sapere che un tempo erano questi i discorsi che si facevano, e che si dovrebbe tornare a fare. Non per avere stipendi più bassi: quelli devono dipendere da una politica che l’azienda può darsi, come può darsela perfino una squadra di calcio, senza necessariamente finire in zona retrocessione. Ma per avere consapevolezza di cosa significhi fare televisione, parlare al Paese, fornire notizie e fare vero approfondimento. Mobilitando energie creative e intellettuali, costruendo argini di autorevolezza, mettendo nuovi programmi tra le mani di nuovi professionisti, un po’ meno leccati o meno imbolsiti di quelli che, gira e rigira, tornano sempre di nuovo.

(Il Mattino, 25 giugno 2017)

Perché non è solo un errore folle

battisti

«Un errore folle», ha detto la presidente della Rai, Monica Maggioni. Ma cosa, per la precisione, era folle nella trasmissione condotta da Paola Perego, dedicate ai buoni motivi per cui gli italiani preferirebbero le donne dell’Est? Sicuramente lo erano i motivi illustrati nella grafica che a un certo punto la presentatrice ha sciorinato ai suoi gentili ospiti. Le donne dell’est, spiegava la tabella, “1) Sono tutte mamme, ma dopo aver partorito recuperano un fisico marmoreo; 2) Sono sempre sexy, niente tute né pigiamoni; 3) Perdonano il tradimento; 4) Sono disposte a far comandare il loro uomo; 5) Sono casalinghe perfette e fin da piccole imparano i lavori di casa; 6) Non frignano, non si appiccicano e non mettono il broncio”.

Ora, è certamente difficile accogliere in così poche righe così tanti luoghi comuni e stereotipi maschili. Improvvisamente indietro di decenni, il maschio italiano che ha risposto al sondaggio della trasmissione targata Rai vuole una donna dal fisico statuario, sempre curata, sempre sottomessa, sempre disponibile, che non si lagna mai. Rivendica naturalmente il diritto atavico alla scappatella e pretende di avere in casa la mamma, la casalinga e naturalmente l’amante, a seconda di come butta.

Ma non basta parlare di follia dinanzi a questa stupefacente capacità di esprimere in un colpo solo il maschilismo più rozzo e la più superficiale incultura, perché, a pensarci bene, se gli autori della trasmissione avessero trovato qualche motivo migliore per discettare intorno alla sorprendente preferenza italica per le donne dell’Est Europa – motivi diversi da quelli illustrati da Marta Flavi (hanno sempre unghie curatissime) o da Fabio Testi (accompagnano i loro uomini nei bordelli) – non avrebbero confezionato una trasmissione molto più decente.

L’incidente in cui è incorsa Paola Perego è talmente gigantesco, l’errore così sesquipedale, che la questione non è come mai non vi fosse nessuno, nella redazione del suo programma, in grado di vedere la montagna di triviali cliché che stava per andare in onda. La domanda è: che cosa va in onda quotidianamente da quelle parti, se si son fatti insensibili a tal punto, se non sono in grado di accorgersi di offrire una rappresentazione della donna (ma anche dell’uomo) così volgare? Bisognerebbe andarsi a guardare tutte le puntate precedenti, per chiedersi se davvero la trasmissione dedicate alle donne dell’Est fosse così fuori linea rispetto ai pomeriggi di Rai 1: così folle – come dice la presidente Maggioni.

Perché non si può far finta di non sapere che è tutto un genere di chiacchiera televisiva che ha preso questa piega. E da tempo. Si chiama infotainment, e consiste nello sposare l’informazione con l’intrattenimento. Ma lo sposalizio può andare in due modi: si può usare l’informazione per divertire, o si può fare il contrario, e provare a usare linguaggi più leggeri, divulgativi, per fare informazione. Questa seconda strada non è quasi mai percorsa, mentre la prima lo è in continuazione, pescando a piene mani dalla cronaca rosa o nera, in cerca di vicende drammatiche o pruriginose, di facili sentimentalismi o di finti sensazionalismi.

È così che funziona, bellezza: forse persino dopo la scandalosa trasmissione della Perego si troverà qualcuno disposto a metterla così, con disinvolto cinismo. Come se non vi fossero responsabilità editoriali di sorta. Come se il servizio pubblico non avesse qualche dovere in più, nel costruire i propri palinsesti. Come se tutto fosse uguale a tutto, senza possibilità alcuna di esercitare un minimo di giudizio critico su quello che va in onda.

Ma veramente non è la singola trasmissione, ciò di cui ci si dovrebbe occupare. Questa volta, peraltro, le scuse dei massimi dirigenti sono arrivate subito e la trasmissione è stata chiusa. Bene. Benissimo. Ma la domanda è: ora cosa andrà in onda, al posto di «Parliamone sabato»? Di cosa si parlerà la settimana prossima nel consueto pomeriggio della Rai? Ancora e sempre delle storie che appartengono alla nostra esistenza quotidiana: quando non si tratta di politica o di sport – gli altri piatti forti del menu televisivo, oltre allo show e, ultimamente, alla cucina – si tratta del «life», cioè della vita messa in forma di spettacolo televisivo. Nozze, are e sepoltura, diceva Giambattista Vico, e li indicava come «costumi eterni e universali», costanti che segnano la struttura stessa dell’umano. Ma il «life» è proprio questo: nozze, are e sepolture, presentate però in tv con tutta la sapienza antropologica di cui possono esser capaci tutti insieme Paola Perego, Marta Flavi e Fabio Testi (e il giornalista e la miss, a contorno).

Tutte le cerimonie con cui l’uomo marcava la propria differenza rispetto al mondo naturale e costruiva il proprio mondo culturale stanno cambiando: cambiano i costumi sessuali, cambia sia l’inizio che la fine della vita, cambia il senso del sacro. Infotainment dovrebbe significare: capirci qualcosa. E invece vuol dire: darsi di gomito, farci sopra delle risate da trivio o infarcirle dei peggiori luoghi comuni. Un errore folle, è vero, ma purtroppo c’è del metodo in questa follia.

(Il Mattino, 21 marzo 201)

Il Cavaliere resuscitato

Quando Silvio Berlusconi si alza, prende il posto di Marco Travaglio, stende finalmente il foglio che ha sventolato per tutto il tempo e comincia a elencare i processi e le condanne inflitte al giornalista, sa che ormai l’ha spuntata. La regia inquadra ogni tanto il sorrisetto di Travaglio – solitamente sicuro e beffardo, stavolta invece imbarazzato e quasi intimidito – ma Berlusconi non ha nessuna intenzione di fermarsi. L’imitazione del quadernetto, che ad ogni puntata di Servizio Pubblico Travaglio apre dinanzi agli spettatori per elencare le malefatte dei politici, e più di tutti del Cavaliere, gli sta riuscendo alla perfezione. Allora Santoro si spazientisce e accusa Berlusconi di avere violato l’intesa raggiunta prima dell’inizio del programma. La tela è squarciata, il palinsesto della trasmissione viene rivelato al pubblico. Ma l’arrabbiatura di Santoro non si spiega solo con l’improvviso strappo alle regole – che peraltro lo spettatore non comprende cosa mai dovessero regolare: il numero dei processi citabili? La lunghezza dell’intervento? La maniera di riferirsi al collega Travaglio, infangandone l’onore? – ma con ciò che sta accadendo sotto gli occhi di tutti: Berlusconi al centro della scena, sicuro di sé e soddisfatto nel doppiopetto rispolverato per l’occasione, e Santoro ridotto al ruolo di comprimarioImmagine

Evidentemente gli accordi non erano questi. Intendiamoci: Santoro porta a casa un record di ascolto che resisterà a lungo, a La7, e sarà battuto nelle prossime settimane, sulle altre reti, solo dal Festival di Sanremo, a conferma che lo spettacolo col quale siamo stati intrattenuti rientra nel genere nazional-popolare. E, del genere, il conduttore televisivo e l’ex-premier sono i campioni, opposti e speculari, da un ventennio a questa parte. Santoro ha dunque, numeri alla mano, di che festeggiare: l’operazione è riuscita. Ma il fatto è che è riuscita a tal punto che il paziente, anziché essere morto, come dice la battuta, è addirittura resuscitato. Forse Santoro se l’aspettava, forse no. Di sicuro se ne è lavato le mani: in apertura di trasmissione ha spiegato che non sarebbe toccato a lui infilzare il toro Berlusconi. Ma se il suo programma non sarà più un arena, cosa potrà ancora essere? Forse il punto più alto della parabola televisiva di Santoro verrà ricordato anche come l’inizio della sua discesa.

Quanto al Cavaliere, è presto per misurare gli effetti politici della sua performance. I sondaggisti sono molto incerti: col pubblico si saranno spostati anche i voti? Difficile a dirsi. Di certo, lo spettacolo di ieri sembrava costruito apposta per restituire l’impressione che l’Italia intera non riesce ancora a spostarsi dai termini nei quali ha pensato e rappresentato la politica negli ultimi due decenni. A cominciare dagli argomenti sciorinati da Berlusconi, attingendo al meglio del suo repertorio: la Costituzione che gli lega le mani, gli alleati che ne frenano lo slancio, i comunisti e l’invidia sociale, l’IMU da eliminare e le tasse che il suo gruppo non smette di pagare. All’appello – cosa alquanto paradossale – è mancata solo la tirata contro i giudici comunisti, colpa di un Travaglio guardingo e spaurito, che non l’ha incalzato sul terreno solito dei processi, dei bunga bunga e delle leggi ad personam. Al suo posto, new entry, il complotto della Germania cattiva, che lo ha sbalzato di sella. Santoro, in verità, ha cercato inizialmente di imputare a Berlusconi i fallimenti del suo governo, ma ha ottenuto un unico effetto: quello di rimetterlo al centro della scena, offrendogli la possibilità di scaricare su Monti tutto il peso della crisi. Altro paradosso: dopo tanta richiesta, da parte dell’opinione pubblica, di cambiamento, di rinnovamento, persino di rottamazione, l’altra sera di tutto questo non c’era traccia, e la novità dell’ultimo anno sembrava consistere solo nella recessione addossata da Berlusconi al Professore e al suo Ministero. Quanto a Bersani e al Pd, non sono mai stati citati. Non da Berlusconi, ma neppure da Santoro. Con l’ulteriore paradosso che i due sono riusciti, per tutta la serata, a starsene comodamente l’uno all’opposizione dell’altro. Come se il Paese avesse bisogno sempre solo di prendersela con qualcosa o con qualcuno, e mai di costruire una nuova maggioranza e, così, una prospettiva concreta per il Paese. Ma non è forse questo l’obiettivo ultimo del Cavaliere, visto che sa di non poter vincere? E Santoro, l’arcinemico, non ha finito col dargli così l’aiuto più grande? 

Il Messaggero, 12 gennaio 2013

La beneficenza show del Molleggiato

L’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, diceva La Rochefoucauld, con il sorriso del moralista disincantato. Ma forse, per prendere col dovuto distacco la notizia che Adriano Celentano sarà a Sanremo e devolverà in beneficenza il suo compenso – la bellezza di 350.000 euro a serata – non basta neppure servirsi della massima dell’uomo di mondo. Perché di simili omaggi ne stiamo vedendo un po’ troppi, ultimamente, e il bello è che vanno sempre alla stessa maniera. Fase uno: la Rai, o chi per Lei, cerca il personaggio di successo, il big che faccia parlare di sé e dell’evento prima, durante e dopo lo spettacolo. Fase due: si avvia la trattativa tra la parte pubblica, che mette i soldi, e la parte privata, che pratica prezzi di mercato, ossia: cifre a parecchi zeri. Fase tre: imbarazzo generale, articoli di giornale sull’opportunità della spesa, mugugni. La protesta cresce e si passa così alla fase quattro: il personaggio di successo mostra improvvisamente tutta la sua generosità, e devolve l’onorario a favore di famiglie bisognose, o di meritori istituti di ricerca, di enti assistenziali o di organizzazioni del volontariato.

Tutto bene quel che finisce bene, si dirà: però perché comincia male, e si raddrizza solo in corso d’opera? Forse in tutte e quattro le fasi, almeno stavolta, qualcosa che non va c’è. In primo luogo, non è entusiasmante la prospettiva di star lì a interrogarsi per una settimana sul significato dei monologhi di Celentano, che nell’ultimo disco ha mostrato di aver a cuore il destino del pianeta più di quanto abbia a cuore quello delle sette note. Per carità: Celentano è il Festival, un grande artista, la storia della musica italiana: non è però la storia della filosofia, e neppure la coscienza del paese. Sarà pure un segno dei tempi, ma forse non è ancora inevitabile che ci si tolga il cappello dinanzi all’interprete musicale che si atteggia a intellettuale pensoso, o al comico che si veste da profeta, o al cantautore che veste i panni del manager (salvo dimettersi quando monta il malcontento). Certo, se le università fanno a gara a concedere la laurea honoris causa a motociclisti e rocker, non ci si può sbalordire che il dubbio amletico dei nostri tempi sia se questo o quello è rock oppure lento. E però un po’ di stucco si rimane ugualmente.

In secondo luogo, non si capisce come mai alla decisione di dare tutto in beneficenza si arrivi non per uno spontaneo moto dell’animo, non per uno slancio improvviso del cuore, ma solo dopo che si è levato un chiassoso coro di disapprovazione: forse i vip diventano più buoni solo quando si accorgono che il pubblico se li vuole immaginare così. C’è un omaggio alla virtù da rendere, e coincide quasi sempre con la cura della propria immagine pubblica: è la moderna civiltà delle buone maniere, che si misura dalla disponibilità a devolvere il cachet (se fa troppo rumore).

In terzo luogo, non si capisce come vadano queste singolari trattative. Prima si accetta il principio del mercato: anche i cantanti sono professionisti. Poi, di colpo, si scopre che i valori di mercato, ottenuti grazie alla tigna di avvocati e manager, sono profondamente immorali. Mai che a qualche dirigente venga in mente che non si tratta solo di valori di mercato, ma anche di missione del servizio pubblico, che non dovrebbe accendersi o spegnersi a intermittenza, a seconda delle opportunità o degli umori della pubblica opinione.

Infine, non si capisce nemmeno come funzioni la generosità del Molleggiato. A caval donato non si guarda in bocca, d’accordo; però non si comprende perché la Rai, i cui conti non sono floridissimi, non la meriti proprio per niente. Alla Rai si spilla tutto, fino all’ultimo euro. Ma proprio perché la Rai e Sanremo sono il paese – si dice così, per spiegare l’importanza dell’evento, e della partecipazione del «Re degli ignoranti» – perché non si trova mai un cantante o un calciatore che invece di fare il bel gesto di elargire in beneficenza rinuncia alla parcella per amore del servizio pubblico? Perché la Rai non merita atti di liberalità? Certo, la gente capisce meglio che è beneficenza quella di donare a un ospedale o a una famiglia povera, ma che peccato: invece di accodarsi ai tanti che han fatto come lui, che prima han chiesto soldi e poi sono tornati sui propri passi quando han rischiato di apparire esosi, Celentano avrebbe potuto essere davvero originale: dare più valore al servizio pubblico che al suo gesto privato, ed esibirsi gratis. Di sicuro noi avremmo applaudito più convintamente. E comunque lo faremo volentieri, se ci regalerà qualche canzone in più, e qualche omelia in meno.

Il Mattino, 1° febbraio 2012

Il suo unico messaggio è: destra e sinistra pari sono

Sbaglia chi fa di Michele Santoro un guru, un profeta o un martire: lo ha detto lui ieri, e non ho difficoltà a credergli. Spero che non sbagli neanche chi ha tuttavia qualche critica da muovere: non al tipo di giornalismo che Santoro pratica, da ottimo professionista qual è, ma all’idea di libertà, di politica e di servizio pubblico in nome della quale ha avviato una rivoluzione “civile, democratica e pacifica”.

Siccome Santoro ha esordito ieri con un “argomento molto razionale”, per spiegare quale danno venga al Paese da un sistema dell’informazione non completamente libero, vorrei proporre a mia volta una critica almeno altrettanto razionale, forse persino di più. Sento però di dover prima tranquillizzare il lettore, e Santoro medesimo, visto che non perde occasione per prendersela con la stampa e con l’opposizione tutta, per via della reazione “fiacchissima”, lui dice, alla soppressione di Annozero.

Diciamo allora, chiaro e forte, che la Rai ha fatto molto male a cacciare Santoro e a rinunciare a uno dei suoi programmi di punta: su questo Santoro ha ragione da vendere. Diciamo pure che i numeri – gli ascolti televisivi, lo share, i contatti on line – danno ragione pure al nuovo “Servizio pubblico” (anche se, televisivamente parlando, c’è molto da rodare). Dopodiché però guardiamo il menu: Travaglio sui privilegi dei senatori, Valter Lavitola che gigioneggia, Vauro indignatissimo, gli sprechi della politica, Scilipoti e la compravendita dei parlamentari, la casa di Scajola, le Maserati acquistate dalla Difesa. Ospiti in studio: Mieli, Della Valle, De Magistris. (A De Magistris va la massima solidarietà per l’aggressione subita ieri per le strade di Napoli: Santoro lo invita perché faccia il politico che “scassa”, ma ora è anche l’amministratore che deve costruire, e non è semplice). Comune denominatore: il refrain su una politica tutta inadeguata, non importa se di destra o di sinistra (e invece importa, e come se importa!). Poi, certo, Scilipoti è la caricatura di se stesso, e la casa “a sua insaputa” di Scajola è al di là del bene e del male, ma l’idea che bisogna tirare una riga non fra due idee dell’Italia, due parti politiche, due sistemi di valori o due politiche economiche, bensì fra buoni e cattivi, onesti e disonesti, poveri cristi e furbi matricolati, resta purtroppo il messaggio principale, se non unico, della trasmissione.

Ed è questo che non va. Chi avesse letto Gramellini sulla Stampa mettere seriamente in discussione il diritto di voto e augurarsi la “megliocrazia”; chi avesse ascoltato Michele Salvati dire a Radio Radicale che quel che ci vorrebbe ormai è una dittatura, avrebbe trovato al fondo la stessa premessa di Santoro (e si badi: parliamo di intellettuali moderati, sinceri riformisti, persone di ottime letture!): la classe politica è così incapace e compromessa – tutta: da destra a sinistra – che possono salvarci solo gli ottimati (tipo Della Valle o Mieli?) oppure una rivoluzione: però pacifica, però civile e democratica.

Ora, in apertura Santoro ha detto due cose. La prima: a causa di un’informazione compiacente, abbiamo scoperto tardi che non stavamo affatto meglio della Germania. È il suo argomento razionale a difesa della libertà dell’informazione: non saremmo sprofondati nel baratro di una crisi finanziaria se l’informazione avesse fatto da cane da guardia. In generale è vero, è un argomento fondato. Ma ora guardiamo la trasmissione: cosa ci ha aiutato a capire della crisi? Cosa delle politiche neoliberiste degli ultimi anni o dell’attuale direttorio franco-tedesco? Nulla. E cosa ha scoperto che non sapessimo già? Nulla. Grazie al “servizio pubblico”, sappiamo che Berlusconi tocca le ragazze e presta soldi a strani imprenditori ittici: ma è così che si viene fuori dal baratro? Ed è sicuro Santoro che il Paese ci guadagna, se affonda nel ridicolo tutta la politica? Lui infatti dice così: “la politica”, come una volta si diceva “il potere” sottintendendo che, in quanto tale, è male. Ed è questo che non va, nel suo programma, perché non è vero.

Ma non è ancora il mio argomento “molto razionale”. Si tratta della seconda cosa che Santoro ha detto. Rivolgendosi ai centomila che hanno versato 10 euro, Santoro ha detto che costoro hanno acceso con il loro contributo le luci della trasmissione, e ora sanno che possono accendere quello che vogliono: Celentano, Daniele Luttazzi, Serena Dandini.

Ma è questo quello che vogliamo? È così che si esercita o si misura davvero la libertà? Si dirà: non è colpa di Santoro se deve fare la “colletta”. Giusto. Ma è una sua scelta associare alla “colletta” un’idea di libertà. Ecco, l’idea di libertà che ha Santoro somiglia all’esercizio di libertà che compiamo andando al cinema: si tratta di starsene seduti, pagare 10 euro e scegliere a quale spettacolo assistere. Nel servizio pubblico di Santoro c’è Travaglio che sul quadernetto, per far sorridere, infila pure l’allusione al Presidente della Repubblica e il pubblico dovrebbe accendere? Ma, mi perdoni il conduttore, l’idea di libertà che hanno oggi le persone che in piazza chiedono di cambiare non è questa: è molto di più. È più bella. Ed è più politica.

(L’Unità, 5 novembre 2011)