Centomila docenti immessi in ruolo non sono affatto pochi. I sindacati e la sinistra del Pd non sono tuttavia disposti a trattare e, pochi o molti, provano a ottenerli lo stesso «maledetti e subito»: non sembrano cioè disponibili a fare sconti al governo, e rifiutano l’idea che vi sia un nesso fra la riforma della scuola e la nuova leva di docenti di ruolo che dovrebbero entrare nella scuola. In linea di principio, dovrebbe essere esattamente il contrario, per ogni settore della pubblica amministrazione: tu cambi la pianta organica, la riduci o la incrementi in ragione di nuovi compiti, nuove mansioni, una nuova organizzazione di lavoro. Ma la partita è diventata tutta politica, le questioni di merito stanno rapidamente retrocedendo sullo sfondo, e l’obiettivo è ora incassare subito i centomila, riforma o non riforma, e, se Renzi dovesse ostinatamente rifiutarsi, provare a lasciarlo con il cerino in mano, sperando che il premier si scotti le dita con la mancata assunzione dei precari.
Il dilemma sembra infatti essere il seguente: o Renzi cede, e allora i sindacati grideranno alla vittoria, si intesteranno i nuovi assunti e sosterranno di avere vinto il braccio di ferro col governo. Oppure Renzi tirerà dritto, e allora sarà nuovamente intonata la litania di una sinistra che si è ormai allontanata dalle sue ragioni profonde, dai suoi mondi di riferimento, dai suoi valori e, infine, dalla sua identità storica. O Renzi cede, e allora la minoranza interna rialzerà la testa, avendo dimostrato il suo potere di interdizione e la capacità di condizionamento del governo. Oppure Renzi tirerà dritto, e allora si griderà all’autoritarismo strisciante, alla fine della democrazia o alla sinistra irriconoscibile, che ormai fa sue le politiche della destra.
Ovviamente, Renzi non ha nessuna voglia di dare ragione agli uni o agli altri. E ha tutto l’interesse a portare a casa la riforma. È facile infatti prevedere che se davvero si procedesse allo stralcio delle assunzioni, ogni interesse per la «buona scuola» svanirebbe all’istante. A che pro cambiare, se nel frattempo si è già ottenuto quello che si voleva? E soprattutto come cambiare, se nel frattempo si è dimostrato che il governo non ha la forza per cambiare?
Nell’assemblea che i senatori del Pd hanno tenuto qualche giorno fa, in vista dell’approdo in aula del testo di legge, si erano in realtà ascoltati accenti diversi, e osservazioni di merito su alcuni dei punti controversi (sul ruolo del dirigente scolastico, ad esempio, o sulle modalità della valutazione) che avrebbero potuto e ancora, probabilmente, potrebbero essere raccolti in una linea di mediazione. Ma imboccare questa strada sarebbe stato possibile a una condizione, che sempre meno sembra sussistere: se cioè nel Pd si fosse ragionato nei termini di un’unità che, in realtà, manca. Parliamoci chiaro, tra cambiare la riforma in alcuni suoi punti, o mettere in seria difficoltà il governo, sindacati e minoranza non sembrano avere dubbi: si tratta di mettere in difficoltà il governo.
Ora, è chiaro che Renzi questo non lo può consentire. Quanto più la partita si sposta dal merito delle questioni, tanto più diviene difficile trovare un accomodamento. Quanto più si avvicina il punto in cui in gioco è l’esistenza stessa del governo, tanto più a Renzi non rimane che un solo modo per risolvere il dilemma: dimostrare che la riforma è il piatto principale, e che le nuove assunzioni ne sono il contorno, o almeno la conseguenza. Non c’è altro modo. Spiegando in prima persona i propositi del governo in materia, Renzi ha deciso di farne un punto qualificante della sua stessa leadership. Forse dal dilemma deve provare a venire fuori così, chiedendo all’opinione pubblica del Paese se la sinistra che vuole al governo è quella di Camusso, Civati o Bersani, oppure quella che lui rappresenta. Se è da lui o dagli altri che vogliono sentirsi dire «education, education, education: le tre priorità di cui parlava Tony Blair quando portò al governo il New Labour. Ora che la sinistra socialista e socialdemocratica arretra in quasi tutto il continente, incalzata da populismi di varia specie e natura, diviene essenziale al partito democratico chiarirsi intorno ai propri compiti: non però intorno ai nuovi assunti, ma intorno alla difesa della scuola pubblica. Si tratta di buttare a mare la riforma, o di completarne il disegno? Se Renzi riesce a portare la decisione su questo punto, non è detto che in un cul de sac non ci finiscano un’altra volta i «gufi» e i «frenatori».
(Il Mattino, 22 giugno 2015)