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Spinoza. La politica e il moderno

E’ uscito il fascicolo 1/11 della rivista Il Pensiero (ESI), disponibile in libreria, dedicato a Spinoza. La politica e il moderno, e da me curato. Dentro vi trovate: B. De Giovanni, Spinoza e Hegel. Dialogo sul moderno; M. Adinolfi, Res quae finitae sunt. Qualche riflessione sui fondamenti ontologici dei concetti politici spinoziani; F. Pellecchia, Essenza dell’amore nell’Etica di Spinoza; Ch. Ramond, Sedizione, ribellisione e insubordinazione nella filosofia politica di Spinoza; C. Sini, Dall’etica di Spinoza a Nietzsche: profezie di un’etica futura? (e inoltre A. Gatto, Di un’impossibile confessione. Il soggetto cartesiano e la libera creazione delle verità eterne, V. Vitiello, De Trinitate. In dialogo con Piero Coda.

Qui sotto inserisco la premessa che ho scritto per la presentazione del fascicolo:

“Essere spinoziani, è l’inizio essenziale del filosofare”, così sentenziava Hegel, nelle lezioni di storia della filosofia. Celebre ma velenoso complimento, dal momento che per Hegel l’inizio è appunto soltanto un inizio: manchevole di tutto ciò che dall’inizio viene. E manchevole fin dall’inizio, visto che fin dalla prima definizione della sostanza, fin dal concetto “veramente speculativo” di causa sui, Spinoza manca per Hegel di svolgere quel che nell’inizio è contenuto.  Resta vero però che per il filosofo di Stoccarda lo spinozismo non ha mai cessato di essere una posizione fondamentale del pensiero, “un punto talmente importante della filosofia moderna – così riteneva – che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo”.

Non sorprende dunque che tutta la storia della filosofia moderna, nonostante anatemi e maledizioni, non abbia mai smesso di misurarsi con Spinoza: da Leibniz, che secondo Hegel rappresentava “l’altro lato del centro spinoziano, cioè l’esser per sé, la monade”, l’individualità, insomma, di contro all’essere in sé dell’unica sostanza , a Kant, che non sembra aver scritto la Critica della ragion pratica per altre ragioni che non fossero la  più rigorosa confutazione dello spinozismo; dal giovane Marx, che ricopiava diligentemente Spinoza nei suoi quaderni di appunti, a Nietzsche, che si entusiasmò alla scoperta di avere nell’ebreo di Amsterdam una gran “razza di precursore”.

Anche il ‘900 non ha mancato di cimentarsi col suo pensiero, anche grazie a un significativo accrescimento degli studi storiografici: dai lavori quasi pioneristici di H. A. Wolfson e L. Robinson sull’Etica sino ai due grossi volumi sistematici di Martial Gueroult su Dio e l’anima; dall’opera classica di Paul Vernière sulla fortuna di Spinoza nel pensiero francese prima della Rivoluzione, alle più recenti ricerche di E. M. Curley o di Y. Yovel (ma anche, in Italia, ai lavori di P. Di Vona, P. Cristofolini, F. Mignini, E. Giancotti e altri). A partire dagli anni Sessanta emergono anche nuove, robuste interpretazioni filosofiche, soprattutto in terra francese. Basti pensare ai testi deleuziani su Spinoza e l’espressionismo in filosofia, o alle nuove letture di Alexandre Matheron su individuo e comunità ed Étienne Balibar sul transindividuale in Spinoza, ma anche al libro di Antonio Negri sull’ontologia sovversiva dell’olandese.

Questa sorta di Spinoza-Renaissance, che data grosso modo dalla fine degli anni Sessanta e coincide almeno in Italia con una certa crisi del mainstream storicista, è in effetti segnata dall’attitudine a presentare il pensiero spinoziano come un’alternativa all’hegelismo. In odio alla dialettica, ma anche come rimedio agli sdilinquimenti post-moderni, Spinoza è parso offrire un modello di pensiero capace di collocarsi in un mondo finalmente copernicano, ‘più grande’ di qualunque coordinata critico-trascedentale o esistenziale-negativa, e in grado pure di catturare quella “commistione fra argomentazione razionale e scuola di vita”, come ha scritto M. E. Scribano, ossia fra ontologia ed etica, che sembra riprendere un altro tratto fondamentale delle preoccupazioni della filosofia contemporanea – quella, almeno, non isterilitasi in inutili formalismi.

Nel fascicolo che presentiamo al lettore qualcosa di questo ampio fascio di problemi e prospettive si può forse cogliere, anche se con accenti di misurata sorvegliatezza e secondo percorsi a volte anche critici rispetto a certe abitudini interpretative, classiche o moderne che siano. È quel che si coglie anzitutto nel saggio che apre il fascicolo. Biagio De Giovanni torna infatti proprio sul confronto fra Spinoza ed Hegel: non però per riproporre lo schema tradizionale di un superamento del primo nel secondo – secondo l’interpretazione suggerita da Hegel stesso e accolta dall’idealismo italiano, da Spaventa a Gentile – ma neppure per disegnare un’opposizione ineludibile tra i due, come nella lettura di Pierre Macherey e in generale in quella linea del marxismo francese, di stampo althusseriano, che mira a riconnettere Marx a Spinoza ‘saltando’ a piè pari la mediazione hegeliana, bensì per presentarli insieme, come “due rappresentazioni della crisi del moderno”, due “filosofi del negativo, della lotta fra adeguato e inadeguato che mai ha termine, e, in forme assai diverse, della potenza del negativo che si porta dietro l’irrequietezza della vita, la quale comprende dentro di sé anche l’esperienza della morte”.

Di un cammino decisamente fuori della tradizione onto-teologica, in particolare nella sua configurazione moderna, parla invece Carlo Sini, che nel primato spinoziano dell’etica vede profilarsi “il destino ultimo della metafisica, ovvero il suo definitivo superamento”, in virtù della crisi dell’ordinamento morale del mondo, di stampo platonico-cristiano, che si profila già in Spinoza e trova infine in Nietzsche il suo definitivo annuncio. Quel primato, l’esigenza pratica di liberazione si svolge nel luogo della teoria solo per “quel tanto che, nonostante la finitudine umana, è indispensabile e sufficiente sapere per un vivere saggio e «adeguato», o adeguatamente felice”.

Non è dunque lo Spinoza consueto quello che così si profila, lo Spinoza del Pantheismusstreit acceso da Jacobi contro Lessing, lo Spinoza che cancella il finito nell’unica sostanza e s’acquieta in un finale sapere assoluto, bensì quello che dal finito e nel finito, secondo dunque la capacità e la misura del ‘modo’, si es-pone con serenità al movimento della vita infinita.

Completano la sezione monografica del fascicolo i saggi di Ramond, Pellecchia e Adinolfi, che toccano punti sensibili dell’attuale confronto con il pensiero spinoziano. Con gli strumenti dell’analisi testuale, Charles Ramond polemizza apertamente con l’idea di Spinoza teorico della rivoluzione, e approda a un’idea della democrazia formale ed esteriore, nient’affatto deleuziano “regno della potenza intensiva”, che contrasta apertamente l’ontologia politica della multitudo. Nel testo di Pellecchia viene invece affrontato uno degli assi portanti dell’antropologia spinoziana, quello che si fonda sulla passione dell’amore, e sul progetto etico di trasformazione che lo conduce sino alla sua dislocazione nella figura culminante dell’amor Dei intellectualis. Lo scrivente, infine, prova a saggiare teoreticamente le forme del rapporto tra ontologia e politica, con particolare riguardo all’infrastruttura concettuale impiegata da Balibar per introdurre la nozione del transindividuale, in un tempo in cui torna forse a riproporsi l’esigenza di connettere la politica con spezzoni di teoria generale della realtà o della storia. Il volume è completato da una lettura di Descartes, volta a saggiare limiti e condizioni dell’”esorcismo” con il quale il cogito, inaugurando la modernità, ha provato ad assicurare se stesso contro la potentia Dei, un movimento di pensiero antipodale rispetto al de Deo con cui comincia Spinoza, che pure non poté non formare il suo linguaggio proprio nel confronto con Descartes – suo contemporaneo capitale, per dirla con Henri Gouhier.

Tutto ciò, naturalmente, con le cautele del caso. È noto che il motto che Spinoza scelse come sigillo della propria corrispondenza recava appunto la parola “caute”. Con la quale forse il pensatore olandese si riferiva meno alla propria attitudine a procedere cautamente – sulla falsariga del larvatus prodeo cartesiano – che all’invito a maneggiare il suo pensiero con tutte le precauzioni necessarie. Non solo perché gravava su di lui il sospetto di ogni possibile nefandezza, tanto che in vita poté pubblicare soltanto i giovanili Principi della filosofia di Cartesio, e, anonimo, il Trattato teologico-politico, ma perché la sua filosofia, ossia l’Ethica, quella filosofia che, sola, intendeva fosse vera e che però sapeva costituire una sfida aperta alla “religione costituita”, non smette ancora oggi di provocare il pensiero.

 

Ma perché?

"Non dimenticherò mai quel collega autorevole, e sicuramente di valore, che insegnava la fenomenologia e l’esistenzialismo heideggeriano in una prestigiosa università degli Stati Uniti e che fu mio ospite a Roma. Lo portai, tra l’altro, a vedere Campo de’ Fiori e gli mostrai la statua di Giordano Bruno. Interessante, disse, ma perché l’han bruciato?" (C. Sini).

Il punto metafisico

(A proposito delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein:
Cosa consente alla maestra di decidere che un bambino, il quale abbia eseguito correttamente nove addizioni su dieci, si è semplicemente distratto nell’unico caso errato? Perché non pensa invece che non ha ancora compreso la regola dell’addizione? La risposta è: la forma di vita. E non è, come si comprende sotto, una risposta definitiva).
 
"«Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore». Strano miscuglio di ovvietà e intuizioni profonde! Gli adulti insegnano al bambino il modo di connettere parole e cose. E come glielo insegnano? Con le parole («gli parlano»), il che implica che il bambino sa già come connettere parole cose, altrimenti nulla capirebbe" (V. Vitiello, In lotta con il linguaggio. Da Wittgenstein a Nietzsche (passando per Hegel), in Il pensiero, 2/2008, p. 120).
L’implicazione è errata, a mio avviso. Anzitutto però direi: è proprio quello che accade! O almeno: io ho fatto proprio così, coi miei figli! Io ho parlato loro ben prima che loro capissero quel che dicevo! Insegnare un nuovo comportamento di dolore non significa affatto insegnare il significato delle parole che costituiscono quel nuovo comportamento. È ben chiaro che impariamo a parlare ben prima di imparare il significato delle parole. Che impariamo a connettere parole e cose senza passare per il loro significato. Proprio questa è la ragione per cui LW parla di addestramento o di ammaestramento, al riguardo. E tutta la faccenda è proprio che non si può indicare il punto o la soglia o il meccanismo che consente di indicare che l’addestramento è completato e che solo ora si comprende davvero; che è finito l’automatismo macchinico (o animale: ma metto tra parentesi queste parole), e che siamo entrati nel regno dello spirito.
Ma non c’è in questo nulla di misterioso, perché una lettura radicale (ma fedele, per quel che conta) di LW deve mostrare che questo punto non c’è! E non c’è non perché non sia un punto (ma poi: cosa?) ma perché l’attraversamento di quel punto non è alle nostre spalle, così che lo si debba indicare (o mancare di indicare, per misteriose ragioni). Il fatto è che quel punto non lo si è mai superato una volta per tutte e definitivamente, quel passaggio o quella metabasis non si è mai compiuta, ed è perciò che non la si può indicare (ed è perciò che io non direi mai che noi siamo dentro l’area del significato, dentro l’iconologia della mente o dentro qualunque altra cosa: io non concedo questo dentro). Proprio come non si può dire una volta e per sempre (riprendo l’esempio di sopra) che per la maestra, per noi o per Dio il bambino che ha eseguito correttamente nove operazioni su dieci ha superato la fase dell’addestramento e possiede il significato concettuale della regola che ora sa applicare (mentre prima no).
Non lo si può dire per il bambino, e naturalmente non lo si può dire per noi stessi.
Si può dare molteplice seguito a quest’osservazione, che ai miei occhi è essenziale. Quel che qui brevemente aggiungo è che la decisione (è LW che parla di una decisione: non mi spiego sulla parola) si accompagna sempre a un indecidibile, e che proprio perciò non c’è motivo di dire (come fa Sini) che noi abbiamo già da sempre attraversato la soglia più di quanto si debba dire che non l’abbiamo mai attraversata (la soglia, per esempio, che tanto preme oggi, dell’animalità).
 

Vorrei e non vorrei

Chiunque abbia minimamente a cuore la filosofia, e abiti a sud di Formia e a nord di Eboli, sappia che questa settimana Carlo Sini è all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, a Napoli, per un ciclo di lezioni su Spinoza. Vi tremerà il cuore. Avete tempo oggi e domani per rompere gli indugi.

(E se venite, là ci darem la mano, là ci direm di sì)

La filosofia e lo statuto del vivente

A beneficio del mondo, metto qui sotto lo schema della relazione tenuta da Carlo Sini a Marina di Camerota, quella che m’è parsa filosoficamente più densa. Siccome è di mia mano, dico in premessa che lo schema riproduce abbastanza bene l’ordine dell’esposizione, meno bene il movimento del pensiero (com’è inevitabile, peraltro). A voi:
 
In premessa: la natura umana non ha un passato e un futuro stabilii. Qualunque affermazione ‘ assolutistica’ è, in senso stretto, ignorante: ignora ciò che l’uomo è. Solo un pensiero relazionale, del relativo (che non vuol dire un pensiero banalmente, debolmente relativistico) consente di pensare che cos’è l’uomo.
La filosofia parte del vivente. Ogni altra ‘partenza’ è inadeguata. La filosofia nasce con Parmenide. In Parmenide l’uomo è eidos phos, colui che sa. Sapere è ‘avere visto’. L’uomo è colui che, avendo visto, sa. Ciò che l’uomo ha visto, e che lo stacca da tutti gli altri esseri viventi, è la morte, il cadavere. Questo è il sapere antropologico per eccellenza.
Hegel dirà dell’uomo il medesimo: l’uomo è il photizomenos, il rischiarato, l’illuminato. Per Hegel, fin dai suoi scritti giovanili (cf. Lo spirito del cristianesimo e il suo destino) “il carattere di ogni realtà è la vita”[1]. Il mondo è la vita che accade.
Come però accade? Hegel distingue la vita immediata, indistinta, e la vita illuminata dal sapere. Non sono però due vite ma due modi d’essere della stessa vita. Non son due ‘cose’ separate: la vita è immediatamente la sua mediazione. Siamo già sempre, immediatamente, nell’evento della sua mediazione. Il che in breve significa: non ci sono sostanze metafisiche (per stare ai termini moderni: ‘soggetto’, ‘oggetto’, ecc.). Le fantasmagorie metafisiche sono nate molto spesso non per amore del sapere ma per amore del potere. Whitehead: ogni cosa prende (com-prende) un’altra cosa. Ogni vita e ogni vivente è immediatamente la relazione in cui si disegna il suo stesso vivere. Il vivente è la vita che si individua. Non c’è un assoluto essere organico e un assoluto essere inorganico. L’organico è ciò che di volta in volta si ritaglia l’inorganico come suo altro – e ciò, l’evento di questa mediazione, immediatamente.
Questo individuarsi separandosi è la relazione (l’essere-in relazione). Io e te siamo relazionati dalla nostra separazione, separati dalla nostra relazione.
Zoè, la vita nel suo primo senso immediato, è l’accadere di phos, luce del sapere che nell’uomo giunge sino al sapere la morte, come s’è detto, ma che è anzitutto un saper fare, un assumere abiti e un com-prendere. Il vivente è ‘illuminato’, si diceva, ma è illuminato dalla sua stessa prassi: ciò che vale per le forme infinitesimali del vivente come per l’uomo.
Con l’uomo – che, diceva Heidegger, è aperto al mondo, a differenza dell’animale – la ‘luce’ giunge sino a illuminare l’ente nella sua verità. L’uomo è il photizomenos photi aletheias (Hegel, ancora lo Hegel giovane). Ossia: l’animale fa quel che sa e deve fare, (oppure: patisce quel che deve patire), ma non si dà mai per lui un sapere complessivo del mondo, non si eleva mai alla luce dell’orizzonte complessivo dell’ente, l’uomo ha il mondo, è l’illuminato, è il rischiarato nel senso che sta, sa e si sa come colui che sta nel mezzo della totalità dell’ente.
Ora però quel che Hegel ci ha infine insegnato – e che non ci hanno insegnato né Parmenide né Kant (o Fichte o Schelling) –è la storicità essenziale della vita stessa. In quanto la vita è l’evento stesso del vivente che si illumina nel suo sapere; in quanto questo sapere è anzitutto un saper fare, e dunque è prassi, in tanto essa è storia. E’ Dilthey ad aver segnalato con forza questa soglia: la vita come storia.
La storicità della vita è la storicità dei suoi saperi. Anche dei saperi scientifici. Il phos, la luce, il sapere è – lo si è visto – del mondo nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo: non è solo la luce che cade sul mondo, ma è la luce in cui il mondo viene al mondo come mondo (vs. ogni lettura ‘soggettivistica’ di Hegel). Questo implica l’essenziale storicità di ogni biologia, di ogni scienza del vivente. Non avremo sempre questa biologia, e soprattutto: non avremo sempre questa architettura del sapere. Ma affermare la storicità di ogni biologia non comporta tanto un abbassamento relativistico quanto un innalzamento del relativo (del vivente in quanto vivente).
Di nuovo: sapere è essenzialmente saper fare. Il lavoro della scienza è, appunto, un lavoro. La scienza deve essa stessa liberarsi dei suoi fantasmi naturalistici e riduzionistici. Se la vita è storicità, se la scienza è (anche) il suo lavoro, allora significa che sono letteralmente ignoranti proposizioni le quali dicano ad esempio che la vita è sacra e intangibile o che, per altro verso, dicano che la vita è una scarica elettrica. E il compito della filosofia – dinanzi a simili affermazioni – deve essere quello di chiedere: fammi vedere che lavoro fai, quando intendi e dici così; mostrami le tue operazioni, come prendi e com-prendi.
Solo così possiamo comprendere come l’uomo abbia un futuro, e come abbia un passato (nel modo in cui li ‘ha’)[2].

[1] Anche L. Wittgenstein dirà, in apertura del Tractatus: il mondo è tutto ciò che accade. E nei Taccuini coevi: il mondo è la vita stessa
[2] Nella discussione, Sini ha aggiunto, in risposta a chi lo invitava a riflettere sulle possibili manipolazione genetiche e sulla necessità di tutelare la natura umana, che questa tutela non si esercita sul piano dei principi ma si misura sulle conseguenze. In breve: dobbiamo chiedere conto delle conseguenze, vedere le conseguenze. Ha poi negato che la sfera dell’etica e della politica siano separate dall’economico e svolto brevissimamente una critica del liberismo economico, evidenziando come siano profondamente insufficiente le stesse nozioni fondamentali del nostro sapere economico. Ha poi proposto la questione della libertà nei termini del numero di occasioni che ha ognuno di noi. La libertà di movimento è dove puoi e hai occasione di andare, ben più del suo astratto principio. La sinistra ha oggi il coraggio di mettere in discussione le forme correnti del capitale finanziario?
Ha poi chiarito il senso della sua ‘apologia del relativo’. La totalità non è che il sogno della parte: è ciò che sogna la parte relazionandosi all’altra parte. E anche quando affermo il carattere ‘trascendentale’ della relazione, lo dico però ‘da parte a parte’ – precisamente: dalla parte della filosofia. Il trascendentale non è che una figura della prassi filosofica. Il che non vuol dire che lo dovrei dire altrimenti, ma che devo stare sempre in guardia dalla ‘superstizione’ dell’assoluto.
Infine: bisogna smetterla di voler essere immortali. C’è anche nel cristianesimo nella sua teologia, una possibilità di pensare così il Cristo: il sepolcro è vuoto, e vuoto vuol dire che non c’è niente, che lì non ci va niente, che io sono già salvo perché lì non ci andrà nulla. Se si pensa così, si pensa in direzione di una religione della fratellanza universale, del Dio-con-noi, del Dio incarnato, cioè una religione senza il Padre nei cieli. Ma soprattutto, se si pensa così si pensa la vita come transito che non si risarcisce della mortalità procurandola agli altri (è la risposta di Freud ad Einstein sul perché la guerra: perché vogliamo essere immortali).

Rivoluzione etica

"[…] Da lunedì 9 gennaio inizio i corsi, e difficilmente riuscirò a tenere regolarmente aggiornato il mio blog. Ancor più difficile mi pare dunque la partecipazione a blog collettivi. Non so peraltro come Rivoluzione etica, appena nato, evolverà e chi vi parteciperà. Ho letto il post di esordio, e posso dire fin d’ora che il blog ha tutta la mia simpatia, anche se dalle premesse teoretiche alle conseguenze politiche io non procederei altrettanto speditamente (ma so peraltro che Sini, che credo sia caro ad entrambi, avrebbe qualcosa da ridire sul fatto che io la metta qui così, anche solo per brevità, in termini di premesse e conseguenze). Diciamo allora che aspetto metà marzo, quando avrò terminato i corsi, e mi saprò fare un’idea migliore. Che ne dici? E’ possibile?
Intanto, ti linko e, se non hai niente in contrario, dò anche visibilità alla cosa, per quanto mi è possibile, con un post".

"Caro Massimo,
ti ringrazio per la risposta e in bocca al lupo per i tuoi corsi. A proposito di Teoretica e Politica, noi siamo dell’idea che ogni gesto teoretico sia sempre implicitamente un gesto politico (si, suona molto anni ’60, lo so, ma, al di là degli slogan credo che tu abbia capito). Beh, se ci dedichi un post, ne saremo più che felici. […]".

"[…] Sì, vedo bene che ogni gesto teoretico è un gesto politico. Se, con le prudenze che hai letto, mettevo una differenza, è perché a rendere esplicito ciò che è lì implicito succedono un sacco di cose: una rivoluzione etica, diresti tu. E invece io inciampo: sull’etica, ma ancor più sulla rivoluzione!".

Il rovesciamento del platonismo con altri mezzi

Grazie a desolationrow, scopro un articolo di Carlo Sini su Schiaffino, giocatore ‘teoretico’, dotato di visione. Tra i teoretici, testa alta e palla incollata al piede, Sini mette Bernardini, Mazzola padre, Puskas, Platini o Beckenbauer "(non a caso molto ammirato da Heidegger)", ma non certo giocatori estrosi e inventivi come Maradona o Pelè (che comunque per Sini era meglio di Maradona).

Il problema è ora il seguente: decostruita la teoresi, rovesciato il platonismo, congedata la metafisica, dobbiamo per forza contentarci di giocatori muscolari o di anime belle, di Baggio o Rumenigge? Una sintesi è ormai impossibile? E un pensiero dell’archi-traccia, o della differenza, farà l’elogio della panchina?

(Derrida tifava per gli oriundi?)