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La filosofia oltre l'abisso

Il 2 dicembre 1851 il colpo di Stato di Luigi Bonaparte liquida, in Francia, la seconda Repubblica. La speranza di una rivoluzione democratica in Europa sembra sepolta per sempre. Un uomo, che fino allora aveva vissuto nell’incendio della politica e della storia, e che nel ’48 era stato costretto a lasciare Napoli, scrive in lettera a Camillo De Meis: "Ci sono certi tempi, in cui lo spirito, o quel che diavolo sia, si nasconde e si ritira nel fondo dell’esistenza e degli avvenimenti. Allora la vera regina di questo mondo sembra la forza e l’arbitrio degli uomini, e la vita non ha alcun pregio". Quell’uomo era Bertrando Spaventa, e dal suo ritrarsi dal turbine degli avvenimenti per dedicarsi agli studi filosofici nascerà il filone più robusto dell’hegelismo napoletano: la nuova alba della cultura meridionale e nazionale, come ebbe a dire Benedetto Croce.
Il senso della svolta di Spaventa (che non fu solo sua personale, ma di buona parte degli hegeliani di Napoli) non fu però quello di un amaro ripiegamento interiore, di un dorato isolamento intellettuale. La "filosofia alemanna" era per Spaventa lo strumento di un progetto culturale di ricostruzione ideale e civile di tutta la nazione: la continuazione della lotta politica con altri mezzi. Non era possibile altrimenti: non lo era per chi come Spaventa sentiva la filosofia come "un principio vivente", per chi provò sempre a declinare insieme filosofia e vita nazionale, per chi aveva scritto in gioventù che "i filosofi sono i precursori della rivoluzione", e per chi, in età matura, non penso mai che i compiti più arditi della logica speculativa appartenessero ad un mondo diverso da quello in cui tuona "la potenza degli archibugi, dei cannoni e della mitraglia".
Il fatto è che il filosofo napoletano aveva trovato, come spiegò Giovanni Gentile pubblicando i suoi scritti, la "chiave d’oro" della filosofia moderna: nessun superamento dell’opposizione fra soggetto e oggetto, fra spirito e natura, fra ideale e reale, fra essere e dover essere "è possibile in linea di pura teoria". L’opposizione stessa tra teoria e prassi risultava perciò puramente teorica, cioè astratta, e a darne dimostrazione era chiamata l’intera filosofia moderna: l‘homo faber rinascimentale, l’elogio della mano di Giordano Bruno, il principio vichiano del verum factum, la scoperta della storia come orizzonte intrascendibile dell’agire umano, l’attualismo, infine, come verità definitiva della filosofia. Tutto confluiva in un unico pensiero, che lo spirito è non altro che il suo stesso farsi, e che nell’attività in cui eternamente si dispiega è principio e fine a se stesso.
Pensiero grande e terribile. Pensiero abissale, in cui sprofonda l’intera filosofia moderna. Perché esso non esalta solo la forza del pensiero che innerva l’intera realtà, ma anche il pensiero della forza, che riceve da quella proposizione una temibile patente di razionalità. Non aveva forse detto Hegel che la forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione? E questo non significava anche che la forza non può non valere come criterio ultimo di verifica della realtà e verità dello spirito?
Tutto, comunque, meno che una pacifica disputa tra dotti era allora la filosofia. E il contrario di quel che oggi, per scrollarsi di dosso le tragedie del ‘900, finisce con l’essere: una mera "voce nella conversazione dell’umanità", per dirla con Richard Rorty. Ma se è solo una voce fra tante, perché dovremmo ascoltarla, a preferenza di altre? Solo perché è una voce colta e bene informata?
Ben altrimenti la cosa doveva presentarsi a Croce e Gentile, che in modo diverso raccolsero l’eredità dell’hegelismo napoletano. In entrambi, il problema della filosofia non si presenta mai nelle forme edulcorate in cui sembra scadere oggi, come una sorta di emolliente che ci protegge dalle asprezze della storia. In entrambi, la filosofia cade in un orizzonte nazionale ed europeo che ne misura necessariamente la forza e la serietà, perché nel pensiero non può non vivere la "potenza realizzatrice". di cui parlava Spaventa.
Certo, presero strade assai diverse: furono infatti vicini nel comune impegno per la nuova Italia, ma per Gentile il fascismo doveva dare a quell’idea forza e capacità di realizzazione, mentre per Croce era piuttosto il momento più aspro di rottura con la tradizione, che bisognava riportare, modernizzandola, all’altezza del proprio tempo.
Cominciando da dove? Questa, che è per solito una domanda etico-politica, fu per lo Spaventa maturo una domanda di natura speculativa. Che Gentile risolse nell’autoposizione dello spirito, riconoscendo nel fascismo la figura storica dello spirito che si appropria assolutamente della propria origine e del proprio destino. Che Croce invece, non avendola compresa abbastanza, si limitò a relegare tra le anticaglie della vecchia metafisica: seppe così guardarsi dalla violenza filosofica e politica del gesto gentiliano, ma non sfiorò nemmeno la radicalità di quella domanda.
Spaventa no: Spaventa non poteva non provarvisi, per sperimentare il limite interno in cui il pensiero si imbatte ogni volta che cerca di afferrare se stesso. E non poteva non farlo anche perché era esperienza che temprava tutto il suo carattere, e politicamente la sua idea di libertà. Come infatti il suo pensiero speculativo fu per spiriti forti, così il suo liberalismo non fu per imbelli. Basta leggere quel che diceva al fratello Silvio, parlando di certe cattive compagnie: "È una razza di liberali che io aborro, perché non ha nessun principio che meriti questo nome: pensano – o, per dir meglio, dicono di pensare – ciò che pensa il tale e tale, che è uomo potente, ricco, e che dà dei buoni pranzi: sono un altro genere di livrea". E quanto poco, ancora oggi, abbia bisogno il paese di livree, invece che di pensieri forti, non è difficile a immaginarsi. Se almeno si vuol tenere ancora fede all’idea di libertà: perché "chi dice libertà dice libertà di tutti, e non dice privilegio di alcuni".