Archivi tag: stalin

Primarie bloccate, M5S nel caos

Nostalgic

Komar & Malamid, Stalin and the Muses (1981)

Se davvero non c’è due senza tre, allora il candidato in pectore Luigi Di Maio, che ha sciolto le riserve e attende a giorni la consacrazione, dovrebbe cominciare a tremare. L’anno scorso c’è stato il caso delle comunarie di Genova, annullate d’imperio da Grillo dopo essere state vinte da un nome a lui sgradito, Marika Cassimatis, a cui però il Tribunale ha poi dato ragione, con il caos che ne è conseguito (e la sconfitta alle elezioni). Stavolta è il turno delle regionarie siciliane, sospese dal giudice dopo il ricorso di un candidato escluso, mentre il prescelto, Giancarlo Cancelleri, è già in piena campagna elettorale. Tirerà dritto, ma il danno d’immagine c’è tutto. Le prossime consultazioni convocate dal Movimento per il prossimo 24 settembre riguarderanno invece il futuro candidato premier e, com’è ormai ufficiale, sarà la volta di Di Maio: e se a qualcuno saltasse in testa di appellarsi alla giustizia civile?

Mancano meno di due settimane, ma sulle modalità del voto non c’è ancora chiarezza: non è compromessa in questo modo la possibilità di fare campagna elettorale? Più che una votazione, al momento somiglia a una proclamazione, con cui si ratifica un nome già scrutinato dai capi del movimento, cioè Grillo e Casaleggio. Poco male: sono faccende interne a una formazione politica. Ma se qualche magistrato volesse metterci il becco, cosa succederebbe? E se davvero non c’è due senza tre?

Vi sono, in realtà, due questioni in ballo. Una riguarda i Cinquestelle, l’altra riguarda la legge sui partiti politici, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, di cui si parla di tanto in tanto, ma che al dunque non si fa mai. Su quest’ultima faccenda, non c’è molto da dire. La legge è sempre stata rimandata, per timore di ingerenze nella conduzione dei partiti, a cui, dopo gli anni del fascismo, si voleva lasciare la più ampia autonomia organizzativa. La Costituzione ne fa infatti un perno della vita democratica della nazione, ma non gli riconosce personalità giuridica. Col tempo, però, è emerso con sempre maggiore chiarezza l’interesse pubblico alla natura democratica della vita interna di un soggetto politico, così come la necessità di legare l’accesso a contributi pubblici ad una maggiore trasparenza gestionale, e dunque a una più intensa forma di regolazione giuridica. Quel che accade adesso è però paradossale. Perché da un lato la norma costituzionale rimane molto blanda, né gli statuti dei partiti sono mai stati sentiti come un vincolo giuridico in senso forte, all’interno di associazioni che rimangono di carattere privato; dall’altro però aumentano gli interventi della magistratura, che sembrano fare come se una legge ci fosse già. Non discuto le sentenze e il dato strettamente tecnico-giuridico, ma l’impressione è che i giudici facciano anche in questo caso un’attività di supplenza, aiutati dalla perdurante crisi della rappresentanza che rende facile mettere ogni volta la politica e le sue decisioni sul banco degli imputati. Meglio, allora, fare la legge e mettere ordine, invece di aprire la mattina i giornali per sapere se la campagna elettorale prosegue liscia, senza improvvisi intoppi giudiziari.

L’altra questione riguarda da vicino i grillini, che per principio fondamentale affidano ai cittadini la selezione online delle candidature. Ottimo principio. Ma vuoi per la labilità del tessuto di regole, vuoi per una pulsione assembleare che non si lascia facilmente assorbire, vuoi per la debolezza di una classe dirigente estemporanea (soprattutto in ambito locale), vuoi in ultimo per una certa approssimazione, sta di fatto che il principio a volte viene clamorosamente disatteso dall’alto, per decisione del supremo garante (Grillo), a volte viene invece azionato bruscamente dagli iscritti, per mandare all’aria accordi politici già benedetti a Roma (o a Genova).

Per una formazione che aspira ad essere il primo partito e che si appresta a scegliere il suo candidato a Palazzo Chigi con gli stessi metodi di Genova e Palermo non è un bel vedere. È pur vero che la bandiera della democrazia diretta è l’ultima che venga oggi agitata dai cosiddetti «megafoni» del movimento. Parlano di onestà, corruzione, ambiente, piccola impresa, immigrazione, ma non promettono più la palingenesi democratica: si sono accorti che l’«uno vale uno», lo streaming e la consultazione permanente non stanno in piedi senza una forte direzione politica che faccia da contrappeso. Anzi: ormai c’è solo quella. Basta vedere come si va alla incoronazione di Di Maio: con una ratifica, mica con una competizione vera e aperta.

Solo che qualcuno degli antemarcia, venuto su nei meetup della prima ora, al mito iperdemocraticista fa ancora mostra di crederci. Perciò presenta ricorso, trova un giudice che gli dà retta e cerca di riportare tutti alla casella di partenza. Non può riuscirci, perché i candidati rimangono quelli già decisi. Però: che malinconia.

(Il Mattino, 13 settembre 2017)

La lotta di classe, il ritorno

Immagine

E se tornasse la lotta di classe? Come se se ne fosse mai andata! Che essa costituisca il motore della storia è, com’è noto, la tesi del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels: Londra, addì 21 febbraio 1848. Un bel po’ di anni fa, dunque. Ma la crisi ha spazzato via facili illusioni, soprattutto in Occidente, e termini e concetti che sembravano consegnati all’antiquariato delle idee tornano prepotentemente di attualità. La prima notizia è dunque questa: la political correctness ormai non viene sforacchiata solo sul terreno morale, o su quello linguistico, dove è sdoganato persino il turpiloquio, ma anche sul terreno economico e sociale (benché qui le resistenze siano molto maggiori, et pour cause).

Dopo l’agile libretto di Gallino su La lotta di classe dopo la lotta di classe, ecco allora l’ampia ricognizione di Domenico Losurdo, storico della filosofia e comunista non pentito: Lotta di classe. Una storia politica e filosofica. Losurdo intreccia problemi teorici ed analisi storica con grande rigore filologico, senza assecondare nessuna delle mode correnti, con l’obiettivo, in primo luogo, di respingere le letture economicistiche della dottrina marxiana, mostrandone in particolare gli intrecci profondi con le lotte di liberazione nazionale, e, in secondo luogo, di riportare la politica al suo grande formato: non come la volpe che sa molte cose, per dirla con Isaiah Berlin, ma come il riccio che ne sa una grande.

La lotta di classe, dunque. E il secolo appena trascorso, il cui bilancio è ancora da tracciare. Di esso, ha scritto Alain Badiou, possediamo infatti almeno tre versioni: il secolo sovietico, della grande epopea comunista; il secolo totalitario, che ha fatto esperienza dell’abisso del male; il secolo liberale, che ha visto infine trionfare la democrazia. Dopo l’89, quest’ultima descrizione si è di fatto imposta: non è dunque vero che siano finite le grandi narrazioni, come voleva Lyotard: semplicemente, una ha prevalso sulle altre, spacciando la propria vittoria per la fine della storia. Ebbene, è proprio quella che Losurdo infilza ripetutamente, complice l’attuale dissesto economico e finanziario, prendendosela non solo con Fukuyama (quello della fine della storia e del trionfo della democrazia liberale), ma anche con Ralf Dahrendorf o con Niall Ferguson – per fare solo un paio dei nomi del mainstream intellettuale dominante.

Se però leggessimo Losurdo al solo scopo di riesumare le battaglie ideologiche del secolo passato, non lo useremmo nel migliore dei modi. Ad esse è sì dedicata la parte centrale del libro, grazie alla quale siamo ripiombati negli sforzi titanici della Russia sovietica per dotarsi di un sistema industriale avanzato, oppure condotti lungo i passi che la Cina di Mao e di Deng Xiao Ping compì, per recuperare il terreno perduto nel confronto con l’Occidente, ma non si tratta del luogo di maggior frutto del libro. Losurdo mantiene infatti una sistematica subordinazione delle rivendicazioni democratiche rispetto ai conflitti di classe, che lo tiene troppo distante dal terreno effettivo dell’attuale battaglia politica. Così, mentre concede che arte, scienza o religione, benché storicamente condizionate, possono attingere un valore universale, non tributa lo stesso riconoscimento alla democrazia e ai diritti individuali, e francamente non si capisce perché.

Il libro riesce invece assai efficace quando smaschera le debolezze della sinistra di oggi. Che ha accantonato il tema del conflitto sociale, meravigliandosi poi di vedere le sue file ridursi proprio mentre più aspre si fanno nuovamente le diseguaglianze sociali ed economiche. È la sinistra beneducata che Losurdo prende di mira, quella che si è accasata presso la versione più esangue della teoria critica, fornita da Jürgen Habermas, guru della socialdemocrazia europea,  o che è rimasta affascinata dalle analisi del totalitarismo di Hannah Arendt, altro nume tutelare del pensiero politico contemporaneo. Ma anche l’altra sinistra, quella che oggi chiamiamo radicale o antagonista, non viene risparmiata. Anche Toni Negri e Slavoj Zizek vengono quasi ridicolizzati, con la loro fissa che lo Stato nazionale sarebbe un residuo del passato.

Il dilagare del populismo, al di là dell’uso corrivo della parola, trova così una sua ragione non sempre confessata nello smottamento del terreno ideologico della sinistra (ogni allusione al tentativo di mettere su un governo coi Cinque Stelle è, qui, voluta).

C’è infine, nel libro, un’altra notizia. Ed è che se anche non si vogliono riesumare le tragedie del XX secolo, resta che le sue diverse declinazioni sono ben difficilmente districabili. Losurdo lo dice subito: pensatela come volete sulla lotta di classe, ma senza la spinta dei movimenti operai il Welfare State in Europa non l’avremmo mai avuto, il liberalismo non si sarebbe spinto a tanto. E oggi che esso è in pericolo, c’è solo il rammarico che l’attuale quadro europeo sia sostanzialmente lasciato in ombra da Losurdo, mentre è lì che ci sarebbe forse bisogno di attivare nuovamente i motori di spinta.

Il Messaggero, 22 aprile 2013