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Ha incarnato troppo il potere

xbro_science_donald_pump_on_white_display1447380428564545ccf38c7-png-pagespeed-ic-vr5jwk8exwBisogna essere onesti: fra le molte ragioni per le quali Hillary Clinton ha perso, non vi è l’essere donna. (Così come del resto, tra le ragioni per cui Trump ha vinto non vi è (per fortuna) il sessismo. Il tetto di cristallo che impedisce a una donna di diventare Presidente degli Stati Uniti d’America questa volta non c’entra. Hillary ha perso perché non era il candidato giusto, perché non era amata dai suoi stessi elettori, perché apparteneva all’establishment di Washington e alla politica di ieri, perché era una donna di molto potere che appariva distante dai ceti medi e dagli strati popolari, perché gli scandali l’avevano più che lambita, perché la sinistra clintoniana è finita da un pezzo. E perché in fondo i voti li ha chiesti solo per fermare «The Donald»: troppo poco.

Certo: è facile dirlo, con il senno di poi. Ma siccome un evento illumina il suo passato, come diceva la filosofa Hannah Arendt, è giusto chiedersi, a urne ormai aperte, perché sia andata così. Era davvero imprevedibile, oppure non si voleva vedere quello che stava capitando (e, anzi, sta capitando da un bel po’ di tempo, ormai)?

Forse tutti i motivi assommano a uno solo: la politica tradizionale ha perso, la politica muscolare ha vinto. Clinton era la politica tradizionale, era un insieme di ricette proposte senza troppe variazioni rispetto all’Amministrazione uscente, una maniera di dipingere grigio su grigio che non risponde evidentemente allo spirito del tempo, ai risentimenti, alle insofferenze e ai rancori che ribollono nella grande provincia americana: nelle pianure del Midwest, nelle aree deindustrializzate del Nord del Paese, negli Stati conservatori del Sud.

Obama sembra, a guardare oggi l’America, non esserci mai stato. Contano meno i risultati della sua Presidenza, evidentemente, che non i quindici anni di lotta al terrorismo e gli otto anni dalla grande paura del crollo economico e finanziario. Non si tratta però della performance complessiva del sistema economico, che negli States non è così fiacca come da noi, ma più profondamente della capacità degli attori politici di farsene interprete, e di impadronirsi così del destino della nazione.

Vale per l’America di Trump come per l’Europa dei populismi e dei nazionalismi che ne stanno modificando radicalmente la geografia politica. Queste nuove formazioni chiedono un’identificazione simbolica che la Clinton non è stata in grado di suscitare. Nessun feeling con l’elettorato: questo è stato il limite principale della sua candidatura, peraltro ben noto ed evidente già durante la corsa delle primarie. Perché altrimenti non si spiega come il vecchio democratico, quasi socialista, Bernie Sanders abbia potuto rimanere per mesi in campo, nonostante la Clinton avesse tutto l’appoggio del partito, e una disponibilità di mezzi infinitamente superiore. Sanders, però, era credibile quando se la prendeva con Wall Street o si rivolgeva ai giovani; Hillary Clinton non avrebbe mai potuto esserlo. Non avrebbe potuto giocare – e in effetti non ha giocato – nessuna delle carte che i nuovi, aggressivi leader populisti usano: non la carta della polemica contro le enormi ricchezze di banchieri, lobbysti e affaristi; non quella della critica della globalizzazione; non quella della politica corrotta e subalterna ai poteri forti; e neppure quella politicamente scorretta del rifiuto del diverso (che si tratti i migranti o gli omosessuali, i latinos o i musulmani). Trump, invece, queste carte le aveva tutte nel mazzo.

Se però a gettarle sul tavolo è il leader della prima potenza mondiale, è chiaro che la partita cambia per tutti. La crisi di legittimazione delle democrazie contemporanee, che non data da ieri, è certamente legata alla recessione, alla crisi fiscale, al deperimento dello Stato sociale, ai fenomeni di impoverimento e di crescita delle diseguaglianze. Ma è legata almeno altrettanto all’estenuazione del gioco politico. Così succede che appena compare un attore che sembra voler azzerare tutto e ricominciare daccapo, ecco che calamita immediatamente nuovi consensi. Con un senso di urgenza e di novità che lascia spiazzati.

Purtroppo, in prossimità dello zero politico non si trovano belle maniere e buona educazione, ma energie e passioni più immediate, persino più brutali. Che pretendono di avere, proprio in nome di questa vitale immediatezza, una verità che le forme paludate, i linguaggi forbiti non hanno più. D’improvviso il lessico politico si secca e muore, e la rappresentanza democratica prende a significare solo distanza, quindi lontananza, quindi estraneità. «Loro» contro «noi, il popolo». E tanto basta.

Non meraviglia dunque che Donald Trump, con il parrucchino giallo e la moglie modella, si sia trovato dalla parte dell’autenticità, mentre Hillary Clinton, con tutta la sua esperienza di politica navigata, si sia trovata nella scomoda e intenibile posizione della politica logora, della doppiezza e dell’ipocrisia.

No, Hillary non era la candidata che ci voleva, per fronteggiare l’urto. Non in questo momento. L’evento ha illuminato il passato e ne ha rivelato il significato. È un peccato che non getti una luce chiara anche sul futuro.

(Il Mattino, 10 novembre 2016)

Gli USA e le primarie dei populisti

2010-06_cartoon.jpgNell’aprile dello scorso anno, quando Hillary Clinton annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, si aprirono i giochi. Letteralmente. La SNAI lanciò le scommesse sulle presidenziali americane: Hillary Clinton stava a 2, Jeb Bush a 5. I favoriti erano loro. Bernie Sanders e Donald Trump non erano nemmeno quotati.

Alla vigilia del voto nello Iowa, con cui il rutilante circo delle primarie comincia a attraversare l’America, la situazione è molto diversa. Sono i due outsiders a tenere il banco nei rispettivi campi. Da una parte il socialista Sanders; dall’altra il miliardario Trump.

Le primarie, in America, sono una roba vera. E soprattutto una storia lunga molti mesi. Non si contano i candidati che, partiti con il vento in poppa, hanno dovuto ben presto ripiegare le ali e uscire di scena.

Evitiamo dunque di fare previsioni sulle sorprese che la politica americana ci riserverà nei prossimi mesi, e limitiamoci a guardare con occhi europei quello che sta accadendo.

Un paio di cose si fanno subito evidenti, nonostante le diversità di sistemi elettorali, politici e istituzionali. I favoriti della vigilia si prestavano ad essere descritti come espressione dell’establishment. Di più: una è moglie di un ex Presidente, l’altro è figlio e fratello di ex Presidenti, Hillary Clinton e Jeb Bush sono i rappresentanti delle due principali «case regnanti» degli ultimi trent’anni. L’una e l’altro possono inoltre contare sul sostegno delle rispettive macchine di partito.

I candidati che rubano loro la scena si lasciano invece rappresentare come candidati «radicali», «estremisti», «populisti». Il significato delle parole è abbastanza fluido perché un termine slitti sull’altro e mantenga contorni piuttosto vaghi. Populismo, in particolare, è una sorta di parola-baule, dentro cui ci finisce un po’ di tutto: e dunque sia le piazzate di Trump contro gli immigrati, sia le intemerate di Sanders contro i ricchi vengono catalogate sotto la voce populismo. Ma un filo comune denominatore c’è: è l’avversione contro quelli di Washington. Noi diremmo: contro il Palazzo, poco importa se a tuonare contro il Palazzo sia un miliardario che i palazzi li costruisce, oppure un politico navigato, con alle spalle una trentina d’anni di incarichi istituzionali.

Il fatto però che entrambi, almeno a giudicare dai sondaggi, abbiano fatto breccia nell’opinione pubblica indica chiaramente che l’affanno delle tradizioni politiche nazionali – la consunzione, quasi, del lessico politico-intellettuale del Novecento – non è un problema solo europeo. Qualche segnale, in fondo, era già venuto nel 2008, quando Barack Obama, primo afroamericano, sbaragliò il campo da outsiders, i favori del pronostico essendo anche quella volta di Hillary. Nell’altra metà del campo i repubblicani puntarono invece su un uomo di apparato, Mitt Romney, che evidentemente non suscitava gli entusiasmi di un elettorato già radicalizzatosi. E persero.

L’ondata populista che sta scuotendo l’Occidente – ecco un punto di differenza  – in America si riversa però dentro i partiti, mentre da noi – come in Grecia, o in Spagna – sceglie altre vie. Se l’ex sindaco di New York, Bloomberg, dovesse davvero candidarsi da indipendente, preoccupato dalle figure estreme che tengono il campo, il rovesciamento sarebbe completo: in Europa nascono nuove formazioni politiche anti-sistema; in America, sarebbe invece la risposta di sistema a doversi inventare una strada nuova.

Il confronto con l’America è però istruttivo per un’altra ragione. Gli Stati Uniti sono un Paese in salute. Obama lascia un’economia in crescita. Qualche mese fa, l’economista James Galbraith spiegava il successo di Syriza o di Podemos, con le politiche di austerità adottate dall’Unione europea in piena recessione. Al contrario, aggiungeva, Obama ha praticato una strategia keynesiana, con imponenti iniezioni di denaro pubblico e programmi di sviluppo da miliardi di dollari. Ora, la spiegazione di Galbraith può darsi funzioni in economia, ma evidentemente non funziona in politica, visto che nonostante i successi della politica economica obamiana, democratici e repubblicani faticano ad esprimere candidati in linea con le tradizioni più moderate e centriste dei rispettivi partiti. L’elettorato sembra chiedere segnali di discontinuità, e persino gesti di rottura. Li chiede in America non meno che in Europa: il che vuol dire che ce la possiamo prendere con l’euro, con la crisi o con la Merkel finché vogliamo, ma un malessere più profondo sta forse cominciando a manifestarsi. Se così fosse, vorrebbe dire che in gioco non è solo il futuro di tradizioni e ceti politici, ma il destino stesso della democrazia.

(Il Mattino, 30 gennaio 2016)

Il conflitto utile e il male minore

poli184«La Francia è in guerra. Gli atti compiuti venerdì sera a Parigi e nei pressi dello Stadio di Francia sono atti di guerra. Sono commessi da un’armata jihadista che ci combatte perché la Francia è un paese di libertà, perché la Francia è la patria dei diritti dell’uomo». Così ha parlato François Hollande ieri, dinanzi al Parlamento francese, chiedendo anche una revisione costituzionale (sui poteri del Presidente e lo stato d’assedio) che ha anzitutto un significato politico: poiché la revisione costituzionale richiede il voto dei tre quinti dell’Assemblea, su di essa deve convergere anche il centro-destra.

Ma la guerra, sul fronte esterno, è un’altra cosa. Un conto è essere in guerra, un altro è farla. Per fare la guerra, non basta l’intensificazione dei bombardamenti che avviene in queste ore, o l’approssimarsi della portaerei Charles de Gaulle alle coste del Mediterraneo orientale, ci vuole un intervento militare a terra, che spazzi via l’autoproclamatosi Stato Islamico e mandi all’inferno il Califfo Al Baghdadi.

La domanda è se sia chiara la visione che sostiene questa strategia. Chi la respinge per motivi etici e umanitari oggi non è ascoltato, ma in realtà non è mai stato ascoltato perché mai il corso della politica e quello della guerra si sono separati nella storia umana. Se accettiamo di misurarci sul terreno della politica, non possiamo quindi limitarci a chiedere se sia morale questa guerra, ma dobbiamo domandarci se sia utile.

Sul versante interno, la Francia di Hollande sembra voler prendere la strada che fu già seguita dall’America col Patrioct Act dopo l’11 settembre: la strada delle misure eccezionali. Maggiore sicurezza significa maggiori poteri ai corpi di polizia, maggiori ingerenze degli apparati dei servizi segreti. Maggiori poteri significano quindi minori diritti, minori libertà, minore privacy. Fin dove ci si può spingere? Soprattutto: fin dove serve spingersi? Vogliamo davvero che le nostre libertà scivolino via, in nome dell’emergenza? Siamo sicuri che non basti una severa, ferma applicazione delle regole del diritto – l’unico terreno sul quale, tra l’altro, esiste una dimensione europea davvero comune, costruita intorno alla Corte di giustizia e alla Corte europea dei diritti dell’uomo – e occorra invece una loro sospensione, o una loro compressione? E se questa sospensione o questa compressione vogliamo che riguardi non noi, ma solo quella fetta di popolazione di cui sospettiamo (perché musulmana, perché immigrata, o magari semplicemente perché povera), siamo sicuri che così non ne alimenteremo il risentimento di tutti costoro, finendo in questo modo con l’ingrossare le file del nemico? Si può anche non esitare dinanzi a questo interrogativo: importante è sapere che occorre affrontarlo. E naturalmente essere poi conseguenti, in un senso o nell’altro.

Sul versante esterno, certo non possiamo cavarcela dicendo che la guerra è un affare dei francesi, perché così non è. Hollande si è rivolto ai partner europei, e ha fatto bene. Non è solo poco dignitoso augurarsi che altri facciano il lavoro sporco per noi: è insensato. Non è insensato invece interrogarsi su chi sia il nemico – e chi gli alleati. Se il maggior nemico è l’ISIS, o IS, di Al Baghdadi, possiamo permetterci di non rivolgere la parola al leader siriano Assad, che l’ISIS ce l’ha di fronte, e di contro? Non è necessario accettare la logica del male minore? E possiamo pretendere di disegnare da soli, senza il concorso delle altre potenze regionali e della Russia, la mappa del vicino Oriente? Perché di questo si tratta e così è sempre stato, da quelle parti: nel bene e nel male, in quelle contrade gli europei prima, gli americani poi hanno voluto o dovuto ridisegnare la geografia, secondo le linee di interesse e le forze presenti sul terreno. Non si può sperare che questa dimensione cruda e realistica dei rapporti di forza scompaia d’incanto, e condurre una guerra solo in nome di un astratto imperativo morale, o di un altrettanto astratto furore bellicista. Non funziona l’uno, non funziona l’altro. Anche in questo caso abbiamo un esempio recente: dalla caduta di Saddam Hussein e del regime baʿthista sono trascorsi poco più di dieci anni. La guerra, allora, fu fatta: coi bombardamenti, i carri armati e tutto quanto. Nello schema di quella guerra, la fine del dittatore, la statua di Saddam nella polvere, la liberazione di un popolo, doveva  preludere all’esportazione della democrazia in tutta l’area mediorientale. Essendo Saddam Hussein il principale mandante del terrorismo mondiale, si pensava che la sua sconfitta avrebbe significato anche la fine, o perlomeno il contenimento, della minaccia terroristica. Non è andata affatto così. A distanza di dieci anni, una nuova potenza statale è sorta, compromettendo l’integrità territoriale siriana e irachena. Adesso sogna di estendere il suo dominio dal Medioriente all’intera fascia mediterranea africana. È inoltre in grado, come dimostrano i fatti di Parigi, di seminare terrore ovunque. Sembra dunque che, ben lungi dall’aver imposto la pax americana nella regione, sia stato scoperchiato un vaso di Pandora, che ora non si sa come richiudere. Con un’altra guerra: sia pure. Ma con chi si intende farla? Chi è disposto a fare cosa? Chi, tra i paesi formalmente nostri alleati dell’area – Turchia da una parte, Arabia saudita dall’altra –  è davvero pronto a farla, o a supportarla? E per avere, dopo la guerra, quale Medioriente? Queste domande non possono essere eluse. La retorica pacifista non arriva a porle, ma quella bellicista le scansa con altrettanta, irresponsabile superficialità.

(Il Mattino, 17 novembre 2015)