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La storia fatta a pezzi dagli occhi del presente

Warhol

A. Warhol, Cow (1976)

Ora anche il monumento a Cristoforo Colombo che si trova nel cuore di Manhattan, all’angolo sud-occidentale di Central Park, rischia di essere abbattuto. Ieri è stata la volta della decapitazione del busto in gesso del navigatore genovese, a Yonkers, al confine col Bronx; domani potrebbe toccare alla statua di Columbus Circle, fra Broadway e l’Ottava Strada, per volontà dello stesso sindaco della città, l’italo-americano Bill De Blasio, che ha istituito (quale ridicolaggine!) apposita commissione. Tempo novanta giorni, poco meno, e sapremo se la statua potrà rimanere o sarà rimossa. Intanto, sull’altra costa, quella occidentale, a Los Angeles, il Columbus Day è già stato cancellato. Il motivo è uno solo: per rispetto alle vittime di un passato di violenza e sopraffazione, i simboli dell’odio e della violenza razziale devono essere eliminati.

Ma per essere giusti fino in fondo, bisognerebbe cambiare pure i nomi alle cose: perché non sono stati i nativi americani a scegliere il nome del continente in cui essi vivevano prima che arrivassero gli esploratori europei. Se dire ogni volta “America” per noi europei vuol dire celebrare la scoperta, per loro significa invece il ricordo della conquista, e l’inizio del genocidio: è giusto? No, non lo è.

La verità è che la storia è una grande macelleria (anche se non è solo questo), e però non c’è modo di abolirla o di fare come se non fosse stata. Perciò leggere il passato senza alcuna sensibilità per la distanza storica che ci separa da esso è un errore madornale. Il suffragio universale e i diritti umani fondamentali sono conquiste del XX secolo: hanno meno di cento anni. Se noi oggi possiamo considerare ingiusto qualunque regime calpesti quei diritti, o impedisca l’esercizio del voto (alle donne, ai nullatenenti, ai neri, agli ebrei, alle più diverse minoranze etniche o religiose) non possiamo però pretendere di cancellare dalla faccia della terra i segni di una storia che non ha osservato i nostri attuali standard di giustizia. Nulla resterebbe in piedi. Cancelleremmo la storia intera, che è tutta impastata di ingiustizie e violenze, e dove il bene del progresso (se qualcuno è ancora disposto a riconoscerlo) non è separabile da soprusi di ogni genere. Di cosa è memoria il Colosseo? Per rispetto alle vittime degli spettacoli che si tenevano nell’anfiteatro, non dovremmo demolirlo? Com’è possibile, allora, che sia patrimonio dell’umanità, secondo l’Unesco? Ma più in generale: come Roma ha conquistato il mondo, con i fiori o con le armi? E quel che vale per Roma, non vale per tutti gli imperi che si sono succeduti nella storia?

Ma la storia sembra sempre di più solo una voce di Wikipedia: ciascun utente può correggerla, giudicando il passato dall’alto del presente, da cui crede di non dover mai scivolare via. Questo presentismo è veramente una malattia del presente, un regime del tempo da cui il problema della storicità si fa completamente assente. Col risultato che la più avanzata e tecnologica delle società, quella americana, finisce col guardare ai monumenti con gli occhi arcaici dei talebani.

La figura di Cristoforo Colombo è controversa? Certamente. Ma lo è tutta o quasi la storia monumentale:, scritta dai vincitori, eretta dai vincitori. Risarcire i vinti, rendere giustizia ai deboli, agli ultimi, agli offesi, non è possibile senza farla finita con le piramidi, con le cattedrali, con gli archi di trionfo e con le statue equestri. È questo che vogliamo? È questo che renderebbe il mondo più bello o più giusto, o non accadrebbe il contrario, che cioè non vi sarebbe più mondo, una cultura e una storia comune?

(Il Mattino, 2 settembre 2017)

Papa e Apple, le fedi che parlano ai giovani

Parlando a Firenze, ieri Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati agli imperfetti». Parlando ieri a Milano, all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, Tim Cook, il numero uno della Apple, ha detto: «Siamo qui per lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato». E l’una e l’altra parola – la parola sull’imperfezione e quella sul perfezionamento – sono risuonate ricche di significato, ed eloquenti, cioè capaci di parlare davvero alla platea che ascoltava. Papa Francesco ha parlato di umiltà, di disinteresse, di beatitudine: i tratti di un messaggio che danno ancora senso, secondo il Pontefice, alla vita cristiana, e che recuperano il loro valore solo se la Chiesa – ha spiegato Francesco – fa opera di pulizia al suo interno. Tim Cook ha toccato le questioni ambientali – il cambiamento climatico, l’uso delle energie rinnovabili –, poi la lotta alle discriminazioni, infine il tema della privacy, cruciale per un’azienda come la Apple, che maneggia una mole impressionante di profili e dati personali. Sono temi che fanno, tutti insieme, il catalogo del nuovo millennio, come si potrebbe dire con qualche enfasi. Senza impegnare invece un millennio intero, sono sicuramente temi che si agitano nell’opinione pubblica, fra le nuove generazioni, in molti mondi in cui non arrivano più, o arrivano stanche e vuote di significato, le parole della politica.

È un fatto: queste parole provengono da fedi che ancora alimentano moltitudini di uomini, la fede religiosa e la fede tecnologica. Non stanno sullo stesso piano, non hanno lo stesso contenuto, ma sono vissute entrambe come fedi, nel senso almeno che riscuotono fiducia, che si mantiene ancora la loro capacità di parlare del futuro dell’umanità. La fede nella politica e nella storia è invece molto più appannata, e anzi indietreggia sempre più. Cosa può cambiare il corso del mondo? Un tempo si sarebbe messo nel novero delle forze che fanno la storia anche la politica. Oggi, invece, pochi sono disposti a scommettere, o a investire sulla forza dei partiti politici e degli Stati nazionali (o delle comunità di Stati). E cosa può cambiare il cuore dell’uomo? Finite o quasi le grandi divise ideologiche, sembra che non rimanga altro che la fede religiosa in un qualche Dio trascendente.

È notevole peraltro che tanto il Papa di Roma quanto il capo dell’azienda di Cupertino mostrino di voler guardare a un «bene più alto» declinando anzitutto i temi della sostenibilità ambientale. Di nuovo: la conversione «verde» degli stili di vita, dei comportamenti individuali e collettivi, è avvertita come più urgente, e dunque come più vicina alle esigenze degli uomini di oggi, rispetto ai discorsi marcati da un forte contenuto sociale e politico. Il Papa ha pubblicato un’enciclica sull’ambiente che certo non trascura di parlare dell’ingiustizia o della povertà, ma che raggiunge con la forza della novità i fedeli quando parla della cura della casa comune, dell’inquinamento o dello spreco delle risorse ambientali. E Tim Cook, dal canto suo, pur realizzando con la sua azienda enormi profitti, riesce credibile ed entusiasma un pubblico giovanile quando si mostra preoccupato del futuro del pianeta. Come se, di nuovo, riserve di futuro fossero depositate solo nel grembo della Terra. E quindi non nelle città, non nei profani palazzi della politica, ma nei vecchi e nuovi templi della religione e della tecnologia.

Poco più di cent’anni fa, Friedrich Nietzsche scriveva che la fede nella verità, il fuoco accesso da Platone due millenni e mezzo orsono, si era ormai estinto, e che «l’ospite inquietante» dei secoli avvenire sarebbe stato il nichilismo. Questa diagnosi non è affatto estranea al nostro tempo. Se il filosofo diceva che nichilismo significa che manca la risposta al perché, manca il senso, non vuol dire però che non cresca, proprio su questa mancanza di senso, una impellente necessità di credere. Ad alimentarla non è più il progetto dispiegatosi con la modernità – fatto di diritti, libertà, emancipazione, uguaglianza – ma un altro impasto, legato contemporaneamente alla madre natura e a Dio Padre. Quel che una volta c’era di mezzo – il tempo della storia – prosegue con molto affanno, forse in attesa di rimettersi in moto sotto l’urto di altre potenze che solo ora si affacciano, o forse tornano ad affacciarsi, sulla scena del mondo. Ma prima  che questo accada, leader spirituali rimangono il Pontefice della Chiesa di Roma e il leader del marchio più carismatico in circolazione. Si può dire magari, con qualche cinismo che, lo vogliano o no, uno riempie di spiritualità la realtà del capitalismo, l’altra finisce col nascondere sotto lo spirito, un buon numero di affari. Però funzionano, mentre tutto il resto stenta parecchio a funzionare.

(Il Mattino, 11 novembre 2015)

l’Italia in surplace vive nel passato

La colpa è tutta della lingua tedesca, che crea con tanta facilità le parole lunghe e maleducate che spiacevano a Massimo Troisi, eppure sono quelle che hanno consentito allo storico delle idee, Reinhart Koselleck, di descrivere l’esperienza del tempo storico tipica della modernità in termini di: democratizzazione, temporalizzazione, accelerazione. Democratizzazione: la tradizione europea, passando nel lessico moderno, è stata riformulata in base al principio di uguaglianza che presiede alla costituzione degli ordinamenti democratici. Temporalizzazione: gli uomini scoprono in età moderna di appartenere non alla natura (o a Dio) ma alla storia, confidano perciò nel progresso e convertono l’ordinaria apprensione del presente in una fiduciosa prognosi del futuro. Prendono così ad avere una singolare fretta: prima lasciavano che il tempo scorresse sempre uguale, adesso si aspettano che tutto cambi, e cercano in ogni modo di accelerare il cambiamento.

Orbene: quanta parte della spinta storica descritta dalle parole di Koselleck è ancora percepibile nel paesaggio politico attuale? Ben poca, in realtà. La democrazia arranca: è ancora l’orizzonte della politica contemporanea, ma sempre meno si confida in essa per coltivare progetti di giustizia o di emancipazione. Anzi: le sue istituzioni sono minacciate da poteri non democratici che la svuotano di effettività, e intanto quasi nessuno si sogna oggi di esigere più ampi processi di democratizzazione della società: non nella scuola o nell’economia, non negli stili di vita e di consumo o nell’accesso all’informazione.

Quanto alla prognosi del futuro, è decisamente appannata. Non si tratta del fatto che è difficile immaginare come andranno le cose, ma è la nostra immaginazione che appare stanca e spossata, e le stesse previsioni, salvo quelle meteorologiche, suscitano sempre meno interesse. Quelli che guardano al futuro con ottimismo si contano sulle dita di una mano, e perfino i profeti di sventura hanno cambiato mestiere: niente apocalittici, tutti integrati. Negli anni settanta, il grande antropologo Ernesto De Martino raccoglieva materiali sulla fine del mondo: una mutazione antropologica era in atto, o almeno così si diceva. Finita la civiltà contadina, l’Italia entrava d’un balzo nel lotto dei paesi più industrializzati, e gli studiosi si interrogavano sgomenti sul significato di un simile passaggio d’epoca. Oggi, dal crollo delle Torri gemelle alla crisi finanziaria mondiale, motivi ce ne sarebbero per domandarsi in quale nuova età stiamo entrando, ma nessuno tenta un soprassalto di coscienza e di riflessione, e oltre lo sguardo annoiato al telegiornale o la navigazione compulsiva sul web non si va. Come se ad incuriosirci fosse oramai solo il futuro tecnologico: non che ne sarà dell’Italia o dell’Europa, non se la democrazia sopravviverà all’urto della globalizzazione, non se le migrazioni muteranno la composizione demografica del paese, ma se Steve Jobs abbia o no lasciato per noi nel cassetto l’iPhone5 o l’iPad3. L’onda emotiva sollevatasi alla sua morte è lì a confermarlo.

Figuriamoci allora se sia il caso di parlare di accelerazione. Chi volete che acceleri, se siamo invece in piena frenata? Quali sono le forze (politiche, imprenditoriali, culturali) a cui affidiamo se non i lineamenti del futuro, almeno la scommessa sul presente? In condizioni di forte mobilità sociale, oppure di crescita economica, o anche di rinnovamento dei linguaggi artistici e letterari, vi sarebbero fiches da mettere sul tavolo; ma è come se il croupier avesse già detto «rien va plus» e noi fossimo rimasti con le fiches in mano, senza neanche fare la puntata. La pallina continua a girare, ma non per noi.

Non per l’Italia, che non ne azzecca una da un bel po’, ma forse neppure per l’Europa. Nella geopolitica delle emozioni di Dominique Moisi, è l’intero Occidente che vive ormai a rilento, paralizzato dalla paura, mentre la speranza se n’è volata altrove: in Asia, ad esempio, dove c’è ancora tanto da temporalizzare, accelerare, democratizzare (quanto al mondo arabo, lì la tonalità emotiva dominante è l’umiliazione, e quindi: risentimento e voglia di riscatto). Ma se le cose stanno così, la prognosi forse è ancora incerta ma la diagnosi no: pensiamo di vivere al presente ma in realtà ci muoviamo tra cumuli di passato, dal momento che non sembriamo più in grado di costruire un futuro.

Com’è che diceva Troisi? Ricomincio da tre. Beh: da due o da tre, lui almeno ci provava, perché sapeva bene che l’importante, comunque, è ricominciare. E noi?

(Il Mattino, 12 ottobre 2011)

Ma perché?

"Non dimenticherò mai quel collega autorevole, e sicuramente di valore, che insegnava la fenomenologia e l’esistenzialismo heideggeriano in una prestigiosa università degli Stati Uniti e che fu mio ospite a Roma. Lo portai, tra l’altro, a vedere Campo de’ Fiori e gli mostrai la statua di Giordano Bruno. Interessante, disse, ma perché l’han bruciato?" (C. Sini).