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Occidente e Islam sconfitti entrambi dalla Tecnica (int. a E. Severino)

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Chi è il giovane che guida un camion contro la folla, a Nizza, o che sino i due killer che in Normandia, a Saint-Etienne du Rouvray, irrompono all’interno di una chiesa, e tagliano la gola a un parroco, un uomo di 84 anni, Jacques Hamel? Chi è il terrorista? Che cosa lo muove, che cosa lo arma? La conversazione con Emanuele Severino, filosofo, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha preso le mosse da questa domanda, ma anche dal dubbio che dietro le fedi, le ideologie, le psicologie individuali e collettive, vi sia qualcos’altro, e che almeno una parola della filosofia, la parola nichilismo, aiuti a indicarlo. Chi è dunque il terrorista? Chi è il tagliagole, il kamikaze, l’uomo che uccide a sangue freddo, quello che spara indiscriminatamente a giovani, donne, bambini?

«Oggi sta diventando chiaro che il terrorismo include ma non coincide con il terrorismo fondamentalista islamico. Certo, è venuto in chiaro come siano radicalmente sbagliati i motivi che spingono quelli che non si sentono a proprio agio nelle società occidentali a reagire in modo così violento. Il terrorismo islamista è però solo la componente eminente, non l’unica. È vero tuttavia che le diverse forme di disagio trovano una giustificazione, forse persino una santificazione nella causa islamica. Ma ci sono anche casi in cui questo non avviene. Definire il terrorismo come esclusivamente terrorismo islamico fondamentalista è, dunque, improprio. Vi sono altre componenti: anzitutto il disagio, il risentimento degli emarginati. Ma anche la sublimazione di patologie mentali: la sublimazione, dico, nel senso di una giustificazione religiosa, ma anche nel senso dell’esibizione di un coraggio cieco e assoluto di fronte alla morte. Perché questa gente appartiene alla categoria dei candidati al suicidio. Temo anzi che saranno sempre di più, tra quanti pensano al suicidio, quelli che risolveranno il problema motivandolo religiosamente o politicamente o ideologicamente».

Il pensiero corre ai demoni di Födor Dostoevskij. Il rivoluzionario, il teorico, il fanatico, ma anche l’ingegnere disoccupato, il nichilista Kirillov, ossia il suicida, quello che accetta di firmare una falsa confessione, prima di togliersi la vita con un colpo alla testa, per accollarsi la responsabilità di un assassinio. E nel modo in cui si forma, nel grande romanzo russo, la cellula di rivoluzionari che dovrebbe gettare la Russia nel caos con una serie di attentati terroristici, nel modo in cui vi entrano i demoni, divorati da passioni ideologiche e motivazioni personali diverse, non vi è forse qualcosa dei profili così diversi dei terroristi che hanno agito in queste settimane: persone emarginate, ma anche ricchi rampolli della borghesia islamica? Ragazzi con gravi disturbi mentali, ma anche giovani radicalizzatisi in un crescendo di odio e fanatismo? Non avremmo ragione di usare allora come denominatore comune, una parola della filosofia (che peraltro Dostoevskij ben conosceva), la parola nichilismo?

«Se per nichilismo si intende quello che per esempio intendevano i nichilisti russi nell’800, ma anche Friedrich Nietzsche, allora sì, la categoria di nichilismo può essere appropriata. Io credo però che la categoria abbia un significato più profondo».

Qual è allora il più profondo della crisi in gioco? Che cosa dobbiamo vedere, che non vediamo quando ragioniamo sulle modalità di una strage, o anche quando ci interroghiamo intorno alle cause economiche o sociali, politiche o religiose che la ispirano?

«Credo che tutte quelle affermazioni in cui si dice che la crisi attuale non è semplicemente una crisi economica o culturale ma è una crisi molto più profonda, rimangano in realtà alla superficie. Se si va a vedere cosa indicano come il più profondo, si trova che non è tale. Certo è vero: non ci troviamo semplicemente alle soglie di una crisi economica, o culturale, ma ciò di cui propriamente si tratta è quel rovesciamento radicale e inevitabile, in cui la tradizione dell’Occidente è portata al tramonto dai protagonisti autentici della contemporaneità. Bisogna anzi parlarne al singolare: questo protagonista autentico è la Tecnica».

Severino introduce con accortezza al cuore del suo pensiero. È sempre difficile portare lo sguardo dalla superficie delle cose a ciò che avviene al di sotto di essa, e vi è sempre il rischio che questo rivolgimento dello sguardo venga considerato un modo per allontanarsi dalla drammatica attualità del conflitto in corso. Come se non contassero più i morti ammazzati, la terribile contabilità di queste settimane, le immagini concitate che rimbalzano ogni giorno sullo schermo, ma solo potenze astratte e impersonali che, nella loro nitida silhouette concettuale, trascendono però infinitamente le nostre piccole vite umane. In realtà, ciò che suona il più astratto è, per Severino e per la filosofia, il più concreto: chi pensa astrattamente, diceva Hegel, è chi non riesce a vedere la tremenda concretezza delle forze che dominano l’orizzonte del presente.

«Si parla di una terza guerra mondiale. Ne ha parlato il Papa, ma prima del Papa ne ha parlato Friedman [il riferimento è al politologo americano George Friedman, che si è dichiarato pronto a scommettere che il XXI secolo non farà eccezione: come i precedenti, anche il secolo in corso avrà il suo conflitto mondiale]. Se comincia qualcosa come una guerra non possiamo pensare che si dia una risoluzione a breve termine. Ma se ci sono gli elementi per dire che una guerra è possibile, c’è anche la possibilità di indicare l’esito inevitabile di una simile guerra».

Severino resta uno degli ultimi filosofi che mantiene alla parola filosofica il suo carattere originario, di parola vera e incontrovertibile. Mi richiama, dunque, appena provo ad usare la parola «scenario», come si trattasse della prospettazione di un corso possibile di eventi accanto ad altri, e continua:

«Vado da tempo dicendo nei miei scritti che ad uscire vittorioso da questo non breve conflitto non è nessuno dei confliggenti: né l’Occidente democratico-capitalistico, né il mondo islamico, bensì lo strumento di cui l’uno e l’altro sono costretti a servirsi. Questo strumento è la Tecnica».

Appare chiaro allora che per Severino la conflittualità più visibile, che attualmente terrorizza il mondo, non dice il più profondo dello scontro in atto. È una lotta di retroguardia, non la vera anima del conflitto. Più avanti Severino ricorderà come l’Islam, come tutte le forze della tradizione, individui in realtà nella civiltà della tecnica il suo vero nemico. Anche quando parla del Satana americano, l’Islam prende di mira l’America e l’Occidente per via del suo consumismo, del suo allontanamento dalla dimensione religiosa, e infine del suo essere un frutto della civiltà della tecnica. Così è per l’intera civiltà degli ultimi cinque secoli, figlia dell’incontro fra cristianesimo e tecnica e scienza moderna.

«Se si è d’accordo che la Tecnica è lo strumento di cui tutte le forze si servono per prevalere, allora ognuno degli avversari ha uno scopo, per raggiungere il quale gli è necessario il continuo incremento dello strumento di cui si serve. Ognuno dei contendenti deve aumentare all’infinito la potenza. Ma in questo modo l’incremento della potenza, grazie alla tecnica, occupa sempre più spesso l’area dello scopo che la forza in conflitto si propone di realizzare».

Ecco il teorema fondamentale: la Tecnica da mezzo diviene scopo, e così riduce inevitabilmente al silenzio gli scopi per i quali i confliggenti – un tempo gli USA e l’URSS, oggi l’Occidente e l’Islam – sono scesi in campo. È ciò che nel suo libro su «Islam e Prometeo» Severino ha chiamato non «pax americana», ma «pax tecnica», perché l’America, come ogni altra forza storico-politica mondiale – il capitalismo, il nazionalismo, il comunismo, ma anche l’Islam – è ad essa assoggettata.

«La tecnica che in ultimo prevarrà sarà la Tecnica capace di ascoltare quella distruzione assoluta della tradizione, che la grande filosofia ha pensato, quella distruzione radicale Nietzsche chiama per esempio «morte di Dio». Che non è una parola in libertà di un uomo un po’ folle, ma anzi ha una potenza che la cultura contemporanea e la stessa Chiesa non comprendono. La Chiesa vede nel relativismo il suo nemico, e non scorge il sottosuolo filosofico del nostro tempo dove si dimostra l’impossibilità di ogni limite che arresti l’agire dell’uomo».

Questa impossibilità di porre un limite, la parola della filosofia che dice alla tecnica «tu puoi» è, insomma, la più grande volontà di potenza. Nessun contrattacco della tradizione potrà mai prevalere su di essa, secondo Severino. E però, nel salutarlo e nel ringraziarlo per la lunga conversazione, un dubbio mi assale: ma questa fede nell’impossibilità di porre un limite all’agire dell’uomo non è, da ultimo, proprio la stessa che nutre il terrorista che lancia il suo camion sulla folla del lungomare di Nizza, o spinge a tagliare la gola a un anziano curato di provincia?

(Il Mattino, 27 luglio 2016)

I suicidi della crisi. L’Italia nel buco nero

La morte è un buco. Ma non come i buchi che si aprono nel terreno, come i crepacci sui fianchi delle montagne o come un muro rotto. Perché è un buco profondissimo e senza contorni. Un buco privo di orli, senza transenne. Se guardate il mondo da lontano non lo vedete: l’uomo che viveva gli affanni e le delusioni della vita con grande pena e fatica, l’uomo che era al lavoro con i colleghi oppure a casa, che scherzava con gli amici la sera oppure guardava la televisione in famiglia, quell’uomo ora non c’è più; ci sono però le stesse cose di prima, la casa il lavoro la cena le stesse persone. Il mondo è uguale a prima, pieno come prima, ma lui non c’è più, è finito nel buco. Derrida diceva che la morte è ogni volta unica, ogni volta è la fine del mondo, ma è molto più intollerabile pensare che il mondo, invece, c’è ancora, continua, sopravvive, impassibile e indifferente alla morte di ognuno.

Questo pensiero non ha bisogno della scomparsa di una persona cara per trovare insopportabile, ingiusto, incomprensibile, come possa accadere oggi che in quella casa non ci sia più la ragazza che ieri si è tolta la vita perché non riesce a trovare un lavoro degno di questo nome. Come possa scorrere ancora, lento e rumoroso come prima, il traffico cittadino, nella strada in cui un commerciante si è dato fuoco perché non riesce a far fronte ai debiti. Come possano riprendere domani le attività nella fabbrica del piccolo imprenditore che oggi ha deciso di farla finita. Il mondo scorre come prima, uguale a prima, e tutto continuerebbe senza sforzo, giorno dopo giorno, se noi non ci fermassimo a riflettere sui buchi che si aprono nella pelle del mondo, se lasciassimo che il mondo si richiuda senza pietà né memoria sugli squarci improvvisi della morte.

Questa, di fermarsi; questa, di pensare; questa, a volte, di pregare, è l’opera di una cultura. Una società possiede una cultura, un senso comune, un’identità e un compito se è in grado di costruire un bordo tutto intorno al buco, come il giardiniere che recinge con cura l’aiuola, o il muratore che tira su con pazienza un muro. Da quel momento in poi, si potrà vedere il buco: qualcuno se ne ricorderà, qualcun altro imparerà qualcosa.

Ma quanto è più importante che si compia quest’opera, quando il buco si è aperto per mano di colui che, perdendo all’improvviso l’equilibrio, vi è precipitato dentro: senza apparente motivo eppure con ogni motivo. Con i motivi di una vita sentita come fallimentare, di una responsabilità percepita come troppo grande, di una solitudine sentita come irrimediabile, troppo densa e nera. Con i motivi che le cronache di questi giorni ci raccontano con sgomento: motivi che hanno messo radici e si sono arrampicati come idre nella psiche di chi si è ucciso, ma che provengono da fuori: vengono da un mutuo non concesso, da un rapporto di lavoro interrotto, da un’ingiustizia patita. Vengono insomma  dal mondo in cui noi ci siamo ancora: come prima, ma sapendo ormai che non dobbiamo lasciare che tutto vada come prima.

La morte, quanto a lei, non appartiene al morto: per questo ce ne occupiamo da vivi. Ma suicida è chi aveva tutti i motivi per non sentire più come sua neppure la vita. Perciò quanto maggiore è l’opera che spetta a noi, per restituire insieme il senso di quella morte e di quella vita. Si rimane sbigottiti di fronte alla percentuale di suicidi che in questi mesi le statistiche registrano. È la crisi: piani di vita spezzati, speranze frustrate, conti che non tornano, sguardi che non si riescono più a sostenere: tra colleghi, tra familiari, tra amici.

La crisi è però solo il nome economico di un dramma che non è meramente individuale ma sociale, sia per cause che per dimensioni, ma quel che spetta a noi di fare appartiene anche all’etica e alla politica, ed è dell’ordine di ciò che rende la politica non semplicemente un affare di potere, ma l’impegno collettivo in cerca di un senso. Perché peggio di una politica che si spende solo per il potere c’è solo una politica del tutto impotente a costruire qualcosa come un senso.

Un senso, un piccolo muricciolo intorno al buco senza margini della morte.

Il Mattino, 18 aprile 2012

Prendono la parola per l’ultima volta o forse per la prima

Le storie non sono mai tutte uguali, come non lo sono le biografie delle persone. Non lo sono neppure le vicende drammatiche raccontate dalle cronache di queste ultime settimane: operai, imbianchini, piccoli imprenditori, immigrati, che dinanzi all’impossibilità di trovare un lavoro, o di far fronte alle difficoltà economiche della propria famiglia o della propria impresa, giungono sino al gesto estremo di togliersi la vita.

Ma poi è anche vero che queste storie sono tutte uguali, o almeno dannatamente simili, perché tutte raccontano di disperazioni e fallimenti, dissesti finanziari e crisi depressive, sentimenti di impotenza o e di inutilità che, tutti, spingono a darsi la morte. Quando Emile Durkheim scrisse il suo libro capolavoro sul suicidio, nel 1897,  il suicidio era considerato un atto eminentemente individuale, persino il più individuale di tutti, quello che non poteva trovare altra spiegazione che nella psiche di colui che compie il gesto. E siccome «individuum est ineffabile», non c’è scienza dell’individuale, non erano mai stati condotti seri tentativi di ricondurre i casi di suicidio a qualche regolarità che consentisse di trovare possibili spiegazioni. Tanto meno si riteneva che queste regolarità potessero essere ricercate in fenomeni di natura sociale, legati a mutamenti nelle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni, piuttosto che a stati d’animo.

Tanto poco era tuttavia fondata una simile convinzione, che Durkheim riuscì a dimostrare come in realtà vere e proprie ‘epidemie’ di suicidi si verificassero significativamente in periodi di crisi economica (ma anche di impetuoso sviluppo), e fossero più in generale legate alle condizioni anomiche delle società industriali moderne, all’allentarsi dei vincoli sociali, all’indebolirsi dei sentimenti di appartenenza comunitaria. A noi (a coloro che restano), ancora oggi non piace pensare che nel nostro rapporto con la vita, con la morte e con il suo senso, l’ultima parola non ci appartenga, ma dipenda dalla pressione anonima e impersonale che la società esercita su di noi. Per questo, ci ostiniamo a riconoscere anche nel suicidio una dimostrazione, per quanto tragica, della libertà dell’individuo. Per quanto inspiegabile, insano o disperato ci appaia così quel gesto, per quanto incomprensibile e sconvolgente ci giunga la determinazione che il suicida mette nell’impiccarsi o nel darsi fuoco, continuiamo a considerare che anche quella sia una manifestazione della sua volontà. Dinanzi alla quale le parole, come le spiegazioni, sono di troppo, così che non resta che inchinarci dinanzi al mistero insondabile della persona e del suo dolore.

Sono nobili, umanissimi tentativi di difendere la dignità dell’uomo. Ma c’è anche un altro modo di mantenere vivo il sentimento di quella dignità. Che consiste nel cercarla non nella decisione di farla finita, bensì nella volontà di dire al mondo che la si vuol far finita, che non se ne può più, che non è giusto che una vita di sacrifici o di stenti, di lavoro o di piccoli guadagni andati in fumo, sia distrutta da un prestito non concesso o da un licenziamento.

Perché qualcosa questi suicidi dicono, qualcosa significano. E se questi uomini e queste donne non riescono più a dir nulla alle loro famiglie, agli amici e alle persone che hanno vicine, e preferiscono invece morire per non dover più dire, spiegare, giustificare, dicono però molto a tutti noi, e a tutti chiedono una spiegazione e una giustificazione. Compiono l’ultimo tentativo di dare un volto e un nome a quel che ci colpisce come una fatalità, senza volto e senza nome.

Prendono la parola, un’ultima volta. Ma forse anche la prima: almeno in un luogo pubblico, dove poter parlare a tutti. Invece di confinare queste storie nella solitudine insuperabile di esistenze private e singolari, diamo loro la dignità e il rilievo di una parola pubblica: una richiesta di aiuto ma anche un atto di accusa. Non è vero allora che le parole sono troppe, in queste circostanze: non sono mai abbastanza. Come non è mai abbastanza quel che tocca fare non a ciascuno per sé, ma a tutti  perché ognuno consideri sensata e degna la vita che gli è dato di vivere.

L’Unità, 30 marzo 2012