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I piagnistei, la retorica e la realtà

parola-del-sud-indicata-dalla-bussola-41426779La vera questione non è se raccontare la tragedia del Sud, i drammi del Sud, i problemi del Sud sia o no fare del piagnisteo, ma, se mai, come sia possibile che la discussione sull’economia e la società meridionale, suscitata dalla pubblicazione del rapporto Svimez, devii dai contenuti del rapporto alle modalità con cui di quei contenuti si discute.

Perché c’è una cosa e c’è l’altra: c’è una certa retorica, ma c’è anche una condizione reale. La retorica di cui parla Renzi è la retorica che ha accompagnato la progressiva deresponsabilizzazione della società meridionale, che non è stata capace, negli ultimi decenni, di contestare il disimpegno e anzi la distanza sempre più smaccata dello Stato nazionale dai problemi del Mezzogiorno. Non lo è stata, perché si è accontentata di gestire in termini clientelari i flussi di finanziamento europei. Da una parte, cioè, si riducevano gli impegni pubblici, dall’altra si lasciava ad una gestione decentrata dei fondi comunitari di che alimentare i ceti dirigenti locali. Il patto comportava evidentemente una perdita secca per il Mezzogiorno, ma era funzionale agli equilibri politici dati. Quello che dunque Renzi chiama piagnisteo è quel sottofondo di lamentazioni, in verità sempre più debole, sempre meno convinto, sempre meno percettibile. che alimentava istanze e richieste compatibili con questo quadro, senza comportare mai una sua trasformazione reale.

La cultura del piagnisteo copriva un vittimismo interessato. Chi ci ha scritto un libro su, il critico australiano Robert Hughes, ne ha fatto addirittura un tratto saliente della cultura contemporanea, ispirato a quel «politicamente corretto» per cui ogni bisogno o esigenza si camuffa da offesa alla giustizia (o all’uguaglianza, o all’umanità: insomma, ai più alti valori), per tradursi subito dopo in una querula rivendicazione di diritto.

Se questo però è il piagnisteo, si può dire che il Sud, che il rapporto Svimez ha messo nuovamente sotto i nostri occhi, rivendichi soltanto il rango di vittima, per specularci su? O non bisogna piuttosto riconoscere che il mondo è cambiato, e che per quanto sia grave il quadro delle responsabilità che si voglia imputare al Mezzogiorno, alla sua classe politica, ai vizi più o meno atavici e alle tare più o meno storiche, sta il fatto che senza un’idea e un impegno nazionale il Sud non può farcela da solo? Il quadro è cambiato realmente, strutturalmente: nell’area euro le condizioni per fare impresa nel meridione d’Italia sono peggiorate, non sono migliorate. Il volume degli investimenti è diminuito, non aumentato. La desertificazione umana, ancor prima di quella industriale, descrive flussi demografici reali, e davvero minaccia di fotografare per le regioni meridionali una condizione di sottosviluppo permanente. Il rapporto Svimez disegna per giunta una frattura forse ancora più profonda, perché non racconta solo di un divario crescente fra le aree del Paese, ma mostra i segni di uno scollamento effettivo, di una minore integrazione (per non dire di una separazione) fra i sistemi economici del Nord e del Sud. Difficile che questo non sia un problema di tutto il Paese.

Ora, Matteo Renzi può dimostrare di averlo capito. Ne ha l’occasione: la direzione nazionale, convocata per il prossimo 7 agosto dal presidente del Pd Matteo Orfini, può essere il luogo in cui una diversa consapevolezza si affaccia e entra nell’agenda politica di governo. Sarebbe peraltro un segno di non piccola discontinuità, visto che i precedenti governi Letta e Monti non pare che si siano segnalati per una spiccata vocazione meridionalista. E potrebbe addirittura essere una salutare eresia, una bestemmia o uno scandalo rispetto alla vulgata federalista e nordista della Lega, che è prevalsa in questi anni, se il maggior partito italiano si dichiarasse invece, in quella sede, «meridionalista», nell’accezione più semplice della parola: un partito che non considera un successo per l’Italia nessun cambiamento che aumenti, invece di diminuire, la distanza fra il Nord e il Sud d’Italia. Renzi deve, come può, essere ambizioso: un governo, che volesse davvero segnare un punto di svolta nel processo di riforma del Paese, non ha che da assumere il Mezzogiorno come la sua vera «frontiera», la prova decisiva che un’intera generazione è chiamata ad affrontare per legittimarsi realmente, non solo elettoralmente, agli occhi della comunità nazionale.

Hughes citava in apertura del suo libro sul piagnisteo quel passo di Tocqueville, in cui il grande studioso della democrazia notava (con un tratto di aristocratica preoccupazione) che «il desiderio di eguaglianza diventa sempre più insaziabile quanto più l’eguaglianza è completa». Cioè: quel desiderio non si soddisfa mai. Questi, che vogliono l’uguaglianza, quando cominciano non la finiscono più. E questo è il piagnisteo, soprattutto quando diviene il discorso sventolato dai capataz locali per assolvere se stessi dalle proprie responsabilità. Ma può essere invece l’avvio di una grande stagione di democratizzazione del Paese, se la maggioranza che guida il Paese ne fa il terreno per una lotta alle diseguaglianze reali. Le quali, purtroppo, si concentrano proprio qui, nel Mezzogiorno d’Italia. Ed è da qui, dunque, che bisogna partire.

(Il Mattino, 4 agosto 2015)