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La deriva dei talk show trasformati in tribunale

On Air Sign

È vero, Maria Elena Boschi ha mentito dinanzi al Parlamento. Aveva detto che a giudicare non può essere il tribunale dei talk show. E invece ieri è andata a “Otto e mezzo”, da Lilli Gruber, a sottoporsi al giudizio di Marco Travaglio. Più talk show di così, atteso quasi quanto la finale di X Factor, non si potrebbe.

Questo è un fatto, e i fatti hanno la testa dura: il dibattito televisivo è divenuto la sede principale innanzi alla quale un ministro della Repubblica è chiamato a rendere conto del suo operato. La ricostruzione offerta alla Camera dei Deputati conta fino a un certo punto, e infatti dal confronto di ieri non è emersa una ricostruzione alternativa, ma solo il cartellino rosso di squalifica comminato da Travaglio.

Permetteteci di esprimere qualche dubbio. In Parlamento la Boschi ha sostenuto che il governo non ha riservato alcuna corsia preferenziale a Banca Etruria, né ha riservato ad essa, o ai suoi amministratori (tra cui il padre della ministra), alcun trattamento di favore. D’altra parte, dagli incontri di cui ha parlato ieri in Commissione il presidente della Consob, Vegas, non è emerso sinora nulla che contraddica una simile versione dei fatti. Quel che è emerso, è la preoccupazione di Maria Elena Boschi per le sorti dell’istituto. Che non si è spinta sino ad accettare un invito a vedere il presidente Vegas a casa sua, alle otto del mattino. A parte ciò, è difficile immaginare che anche un solo parlamentare, di qualunque forza politica presente in Parlamento, non si interesserebbe delle sorti della banca popolare che insiste nel territorio di cui è rappresentante, qualora quella banca dovesse trovarsi in seria difficoltà. A riprova, il lettore si chieda se lui stesso non farebbe altrettanto. Di più: si chieda se non sarebbe persino doveroso, per un parlamentare, fare altrettanto.

Per Travaglio invece no. Un ministro non parla (qualunque cosa dica) con il presidente della Consob; un ministro dei rapporti col Parlamento non parla (qualunque cosa dica) di banche; un parlamentare aretina non parla (qualunque cosa dica) della banca aretina, se il padre siede nel suo consiglio di amministrazione.

Ora, può darsi che sia così, che la pubblica moralità richieda che vengano scrupolosamente osservate le severe prescrizioni formulate da Marco Travaglio: certo è che simili divieti non sono richiesti da alcuna legge dello Stato italiano, e che, soprattutto, la loro infrazione non ha avuto alcun effetto sulle sorti di Banca Etruria o dei suoi amministratori: in risoluzione l’una, mandati a casa gli altri (con strascichi giudiziari diversi, di cui in futuro conosceremo l’esito). In altre parole, quello che Travaglio ha provato a imbastire ieri è stato, con ogni evidenza, un processo alle intenzioni.

È impressionante, però, la distanza che separa la sostanza di queste contestazioni dalla realtà del sistema bancario e della sua crisi, su cui è chiamata a indagare la commissione parlamentare. Eppure, sembra ormai che il suo lavoro debba riguardare esclusivamente l’accertamento della condotta di Maria Elena Boschi. Quando, nei giorni scorsi, era in dubbio se la commissione avesse audito il banchiere Ghizzoni (un altro con cui la Boschi ha avuto l’ardire di parlare, come ha raccontato De Bortoli) sembrava che tutto il lavoro di inchiesta non avrebbe avuto alcun significato, se l’audizione fosse mancata. Quando poi s’è deciso di sentire Ghizzoni, è cominciato il conto alla rovescia, come se nient’altro valesse la pena conoscere (a parte il vincitore di X Factor).

Infine: su cosa è caduta, da ultimo, la contestazione di Travaglio? Non su un favore fatto o su una pressione esercitata, non su un interessamento illecito o su un provvedimento indebito, ma sul fatto che la Boschi ha omesso di dire in Parlamento che aveva visto Vegas o Ghizzoni: se non c’era nulla di male in quegli incontri, se era normale che si tenessero, perché allora tacerli? Come se non parlarne equivalesse a volerli tenere nascosti. Come se non dire di aver fatto una cosa equivalesse a dire di non averla fatta. Di nuovo: sono le intenzioni (supposte malevoli) che vengono condannate, comunque stiano i fatti. Una simile inversione può prodursi solo quando l’opinione pubblica si nutre ormai di una generale ermeneutica del sospetto, per cui non contano più né gli atti giudiziari né le decisioni politiche, essendo le persone moralmente squalificate in principio.

Di più: essendo squalificate e basta. La spia di questa temperie avvelenata è in un passaggio incidentale, in cui Travaglio ha negato che la Boschi potesse mai interessarsi a Banca Etruria in quanto rappresentante politica espressa da quel territorio: lei è stata eletta col Porcellum – ha detto –, non scelta dai cittadini, ma nominata dai partiti. Vale a dire: il mandato parlamentare non conferisce alcuna legittimità. Lo scranno di Travaglio è posto più in alto. Se c’è una cosa che il Pd – non solo la Boschi – pagherà politicamente a caro prezzo è il non essere riuscito a cambiare questo clima.

(Il Mattino, 15 dicembre 2017)

 

Il tramonto del talk show

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Il figlio terzogenito di Totò Riina, condannato per associazione mafiosa, che parla dal primo canale della televisione pubblica e promuove il suo libro: Riina family life (una cosa andrebbe detta pure sul confidenziale titolo in inglese, ma questa è un’altra storia). Salvo Riina che nel salotto televisivo più autorevole della Rai, «Porta a Porta», racconta com’è vivere, guardare la tv e mangiare biscotti in casa del capo dei capi della mafia e quanto bene lui volesse al padre e – immagino – quanto bene il padre volesse a lui.

Chi la mette così non concede attenuanti a Bruno Vespa: la trasmissione di ieri non s’aveva da fare. Chi invece riporta l’intervista e le domande del giornalista, e anche i suoi silenzi abbastanza sbigottiti ad ogni risposta reticente di Salvo Riina, che si tiene per sé ogni giudizio sugli omicidi e gli ergastoli del padre –  lasciando intendere che sì, insomma, d’accordo, ma cosa c’entra l’affetto di un figlio? – chi la mette in quest’altro modo ha tutto il motivo di ricordare la prima regola del giornalismo, che è quella di dare la notizia, e dunque di mettere il microfono dovunque vi sia una storia da raccontare e far conoscere all’opinione pubblica.

Nel primo caso Riina parla; nel secondo, invece, risponde. Nel primo caso Riina si prende i riflettori e la scena e fa pubblicità alla sua immane fatica letteraria; nel secondo, la luce gli finisce addosso per capire come sia possibile raccontare la domestica felicità di una famiglia mafiosa, lasciando fuori dalla porta di casa le stragi di Capaci, di via d’Amelio e tutte le altre vittime della mafia. Nel primo caso è soltanto spettacolo; nell’altro è autentico giornalismo.

Dove sta la verità? Vorrei prendere questa domanda alla lettera: vorrei soffermarmi sul «dove», cioè sul luogo, sullo studio, sul format. Non penso infatti che sia in discussione l’accuratezza dell’intervista. Nei commenti seguenti alla messa in onda, non ho trovato riprovazione per il tenore delle domande. Non direi nemmeno che si possa trattare della mancanza di un adeguato contraddittorio. Le parole più belle mi sono parse le prime pronunciate del figlio di Vito Schifani, uno degli agenti uccisi a Capaci, subito dopo la fine dell’intervista: povero lui, ha in sostanza detto Antonio Emanuele Schifani, povero lui, Salvo, che non ha potuto avere un’adolescenza normale e libera, come quella che ho potuto invece avere io. Che è come dire: anche quando la mafia vinceva in realtà perdeva, stava perdendo, e chi ha vinto sono io, in tutti questi anni ho vinto io per la vita che ho avuto e pure questa sera vinco io, perché non sono costretto a parlare a mezza bocca come Salvo Riina.

Di cosa si tratta allora? Di due cose, credo: della bardatura istituzionale che la trasmissione di Bruno Vespa si è data e anzi si è conquistata nel corso degli anni, e della stessa natura del talk show. Per l’una e per l’altra ragione è difficile ascoltare le parole del figlio di Totò Riina come le si può eventualmente leggere su un giornale, o magari in rete, su un qualunque canale video. Non è la stessa cosa: non c’è infatti, in questi ultimi casi, alcun supplemento di legittimazione ulteriore, che venga regalato all’intervistato. Faccio un esempio, per chiarire il punto: cosa si direbbe se Salvo Riina andasse come ospite in studio al Tg1 delle 20? Non sarebbe un po’ troppo? Eppure, se bastasse rilevare che di notizia si tratta in ogni caso, e anzi persino di uno scoop, non vi sarebbe ragione per non riservargli anche uno spazio del genere. A lui o magari al padre. E invece gli spazi – anche quelli televisivi – non sono affatto sedi neutrali; sono anzi spazi qualificati, connotati anzitutto dalla loro storia e dalla loro funzione. Qui non è in questione, io credo, la natura di servizio pubblico: una notizia è una notizia anche per la tv di Stato. Penso invece che si tratti di un vincolo meno formale ma non per questo meno robusto, per cui Porta a Porta ha potuto essere il luogo quasi ufficiale in cui Berlusconi firmava il contratto con gli italiani, o dove giungeva in diretta la telefonata diPapa Wojtyla. Poi, certo, anche quello dei racconti dei tanti delitti di cronaca nera, ma per l’appunto: non si può derubricare la mafia a un episodio in cronaca, da raccontare magari con qualche morbosità.

C’è poi la questione dei talk show. Questione che si è posta già con i Casamonica in studio, qualche mese fa. Anche in quel caso, veniva fatto di chiedersi se la normalità di una chiacchierata in un salotto televisivo non avesse dei limiti intrinseci: invece dell’inchiesta, il dibattito. Dove tutti prendono la parola allo stesso titolo, con pari educazione ed eleganza – altre volte dandosi invece sulla voce – senza che però si riesca a bucare per davvero la scena allestita. È l’ambiguità di ogni rappresentazione, che corre sempre il rischio di velare, invece di far vedere, la realtà rappresentata. Ma ci siamo talmente abituati a questa forma di intrattenimento televisivo, che abbiamo quasi perso memoria di altre forme di giornalismo, più scabrose, meno confezionate, più votate al reportage e meno al siparietto, più interessate alle voci che provengono dalla realtà e meno preoccupate di sé.  Se le polemiche di queste ore servissero a spingere la Rai in questa direzione, forse non sarebbero del tutto inutili.

(Il Mattino, 8 aprile 2016)