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Maggioranza e minoranza, ecco dove il Pd si è spaccato

Massimo Adinolfi, Nando Santonastasopd

Nuovi gruppi parlamentari, e presto anche nuovi soggetti politici: la scissione nel Pd è ormai cosa fatta. Ma fatta perché o per cosa? Ragioni di posizionamento politico, lotte di potere, ambizioni personali contano, ovviamente. Ma hanno comunque bisogno di un vocabolario per articolarsi, di un lessico per dirsi e per spiegarsi. Siccome non sono più disponibili i vecchi schemi ideologici, la scissione cammina sui temi e le politiche di questi anni, tra antiche velleità e nuove ambizioni. Dopo dieci anni, il partito democratico non ha ancora chiaro quale debba essere il suo complessivo orizzonte culturale: se deve spingere di più sul pedale dell’innovazione, o recuperare parte del bagaglio teorico abbandonato nel corso degli anni, se essere più testardamente socialdemocratico o più spregiudicatamente liberale, se puntare di più su apertura, speranza e futuro, o se invece offrire più sicurezza, protezione, assistenza. Se reinventarsi o ritrovarsi. E se, più prosaicamente, rivendicare o ripudiare le politiche fatte stando al governo. Il dibattito apertosi dentro il Pd, soprattutto dopo il referendum del 4 dicembre, prosegue ora anche fuori, con la scissione, anche se non così fuori e lontano come appaiono le posizioni di Sinistra italiana. In ogni caso, era giusto parlare di maggioranza e minoranza, come abbiamo fatto, perché la ricerca di spazio e di identità della sinistra non è cominciata con la scissione, e non finisce con essa. Di sicuro nel vocabolario della crisi entrano tanti, forse troppi disitnguo che hanno segnato, irrimediabilmente, la storia interna del maggiore partito italiano negli ultimi anni. Rari i momenti di scelte condivise, fino allo scontro totale che ha preceduto la sconfitta dell’ex premier e della maggioranza al referendum costituzionale. Oggi che i venti di scissione sono diventati certezza, si apre una nuova fase dagli sviluppi complicati, condizionata come sarà dalla nuova prospettiva proposizionale che si intravede nella nuova legge elettorale. Ed è qui che i giochi torneranno a essere decisivi, come non è difficile prevedere.

Il Jobs act. Su articolo 18 e bonus lo scontro più duro

È uno dei nervi scoperti del Pd, il fronte forse più acceso di contrasto tra maggioranza e minoranza. La riforma del lavoro, difesa a spada tratta da Renzi, ha puntato tra le priorità al ritorno a politiche attive del lavoro, alla creazione di nuova occupazione dopo gli anni della recessione attraverso incentivi e semplificazione burocratica, all’abolizione dei vincoli sui licenziamenti chiesta a gran voce dalle imprese. Sostenuta dall’Ue, che l’ha sempre considerata giusta e moderna, la riforma è finita subito nel mirino della minoranza. L’abolizione dell’articolo 18 e la possibilità dei licenziamenti collettivi hanno creato un solco mai colmato («Errore clamoroso», disse non a caso Speranza nel giorno dell’approvazione della legge). Ma anche i modesti risultati sui nuovi posti di lavoro e sull’occupazione giovanile in particolare sono stati imputati dai “bersaniani” ai limiti oggettivi della legge.

L’Imu. La tassa sulla prima casa tra distinguo e polemiche

Altro terreno di forte scontro, l’aboliione dell’imposta sulla prima casa. Il governo Renzi e la maggioranza Pd l’hanno estesa a tutti, senza alcuna eccezione in base alle categorie di reddito come invece chiedeva la minoranza per la quale il provvedimento è stato considerato sin dall’inizio un ulteriore “regalo” al centro politico che ha sostenuto l’esecutivo. Per Renzi quella scelta è stata invece il primo passo per un progetto più complessivo di abolizione della tassazione sulle famiglie che avrebbe dovuto portare anche alla riduzione delle aliquote Irpef, sponda che la crisi del post-referendum ha reso irraggiungibile. Per la minoranza resta al contrario l’idea-forte di tassare di più i redditi e i patrimoni alti spingendo al massimo la lotta all’evasione fiscale per recuperare le risorse necessarie.

Le alleanze. Sguardi bifronti: dal centro al richiamo della sinistra

Non si sa con quale legge elettorale si andrà a votare, né quando, ma è convinzione diffusa che la legge avrà un impianto proporzionale. Le prossimen maggioranze si formeranno dunque in Parlamento: come nella prima Repubblica, salvo il fatto che la solidità e la compattezza dei partiti di allora è incomparabilmente superiore a quelle delle formazioni politiche attuali. Ciò detto, la minoranza disdegna di guardare verso il centro, mentre la maggioranza del Pd trova più facile tirare una linea di demarcazione a sinistra. Qeusto in teoria, perché per arrivare al 51% è sempre più probabile che ci sarà bisogno di formare coalizioni molto ampie, a meno di non volersi sottrarre alla prova del governo. Ma pezzi della minoranza coltivano l’illusione di riaprire il discorso con il M5S, mentre in settori della maggioranza affascina ancora il modello neocentrista del “partito della nazione”.  

Il welfare. Lotta alla povertà: piani e “strappi” senza sbocchi

La povertà e le misure per contrastarla sono state un terreno quasi inevitabile, anche dal punto di vista ideologico, di contrasto. Il governo Renzi e la maggioranza hanno sempre detto di no all’idea di un reddito di cittadinanza “modello 5 Stelle”, puntando sul reddito di inclusione e aumentando le risorse destinate al Fondo di solidarietà per le famiglie del disagio sociale. I tempi però non sono stati brevi perché il ddl illustrato dal ministro Poletti a febbraio non ha ancora completato l’iter. La minoranza ha presentato proposte se non alternative quanto meno diverse puntando soprattutto ad estendere la platea dei beneficiari degli 80 euro (in base ai componenti del nucleo familiare) attraverso la revisione del codice Isee e degli aventi diritto al bonus bebé. Dialogo spesso tra sordi ma mai interrottosi.

I diritti. Su unioni civili e cannabis uniti senza se e senza ma

Sui temi dei diritti civili, sulle materie eticamente sensibili, il partito democratico è forse meno diviso che in passato. In Parlamento e nelle Commissioni sono in discussione almeno tre argomenti delicati: la legalizzazione delle cannabis, lo ius soli, il testamento biologico. Su posizioni progressiste si trovano tanto esponenti della maggioranza quanto esponenti della minoranza. Così è stato anche al momento di votare le unioni civili, nel 2015: Renzi ne aveva fatto un punto qualificante della sua campagna per le primarie, ma quella legge ha il consenso anche di Speranza o di Rossi. Quando fu varata, si accantonò il tema della stepchild adoption, ma nelle discussioni in corso nessuno lo ha indicato come uno dei punti sui quali fare una battaglia nel prossimo futuro.

Le privatizzazioni. Forti divisioni sul mercato ma la crisi riduce le distanze

La linea della maggioranza renziana è stata chiara sin dall’inizio: mettere sul mercato quote, mai la maggioranza, dei cosiddetti campioni nazionali del sistema industriale e produttivo del Paese (da Eni a Poste) per favorire lo sviluppo della competitività attraverso il mercato e consentire l’attrazione di capitali stranieri, indispensabili alla crescita. Di tutt’altro avviso la minoranza anche se lo stesso Bersani, ministro del governo Prodi, non ha mai nascosto che certe scelte di ispirazione blairiana andavano fatte e condivise (non a caso le “lenzuolate” rimandano al suo nome). Oggi però quelle ricette non vanno più bene di fronte alla povertà e alla strategia politica delle “destre”. Non a caso lo stesso Renzi ne ha tenuto conto negli ultimi tempi rivedendo almeno parzialmente l’impostazione originaria.

Le tasse. 80 euro, Ires, Rai: i tagli non ricompongono l’intesa

«Continuare a ridurre le tasse per i cittadini, fare di tutto per incentivare il lavoro e produrre ricchezza, perché solo così riparte la nostra economia». Renzi e la maggioranza hanno insistito moltissimo su questo punto: non solo l’Imu ma anche il bonus degli 80 euro, la riduzione del canone Rai, il taglio di Iri e Ires per le imprese, l’abolizione dell’Imu agricola sono tutti provvedimenti, spiegano, che dimostrano in modo inequivocabile la scelta di avviare concretamente l’annunciata diminuzione della pressione fiscale. La minoranza replica impugnando l’addio all’Imu: non si può togliere l’imposta anche a chi dichiara redditi da un miliardo. Meglio, si insiste, dedicarsi agli investimenti che incidono di più sulla crescita. Replica di Renzi nel fiore delle polemiche: «Per i cittadini stiamo riducendo troppo poco le tasse invece per (alcuni?) i politici le stiamo riducendo troppo. Non è fantastico?».

L’Europa. Fiscal compact, che errore. Stavolta tutti lo riconoscono

È un terreno che avvicina molto maggioranza e minoranza, peraltro d’accordo su quella che oggi viene considerata una scelta-capestro per un Paese con un elevato debito pubblico. Parliamo dell’adesione al fiscal compact “imposta” dal patto tra il governo Monti e l’Unione europea e considerato quattro anni fa come un punto irrinunciabile per riconquistare la fiducia di Bruxelles. Il pareggio di bilancio, votato dal Parlamento (Pd pressoché compatto) e inserito nella Costituzione, si è rivelato con il tempo una sorta di trappola: da tempo Renzi chiede la fine di politiche di rigore e austerità dell’Ue e su questo terrno non ha trovato opposizioni interne. La minoranza chiede però che il partito si impegni per una forte politica di redistribuzione dei redditi e sul come agire le distanze interne restano.

Gli statali. Una bocciatura che apre altri fronti di contrasto

La riforma tutto sommato non aveva trovato fortissime opposizioni: la decisione di mettere mano alla macchina pubblica, specie per eliminare privilegi e distorsioni organizzative e di carriera, rilanciando finalmente la credibilità del settore, non aveva incontrato resistenze di sorta. Il diavolo però ci ha messo lo zampino, nel senso che la decisione della Consulta di bocciare tre passaggi decisivi del piano predisposto dal ministro Madia ha finito per trasformarsi in un ulteriore motivo di scontro interno anche perché capitato nel bel mezzo delle tensioni per la riforma costituzionale. Olio bollente sull’incendio, insomma. Non è un caso che anche all’interno del partito la riproposizione del ministro nella nuova squadra di governo era considerata poco probabile. Non per Renzi che sulla riconferma del “suo” ministro non ha avuto alcun dubbio rilanciandola anche con Gentiloni.

I riferimenti. Tra Schulz il socialista e Macron l’outsider

Ora che Martin Schulz si è tuffato nella campagna elettorale tedesca, staccando la Merkel nei sondaggi, c’è la possibilità di dire che forse non tutto, del vecchio bagaglio di idee della socialdemocrazia, è da buttare. Perché Schulz ha rivitalizzato la SPD, proponendo di smantellare l’indirizzo politico economico seguito dalla Germania negli ultimi anni (dalla Merkel, ma prima ancora dallo stesso Schrøeder, il cancelliere socialdemocratico che spostò il partito verso il centro): niente austerità, retromarcia sui contratti a tempo e sul salario minimo, che invece di garantire i lavoratori ne comprime i redditi. Lo slogan suona: «è tempo di maggiore giustizia sociale, è il tempo di Martin Schulz». Schulz però entusiasma solo la minoranza, perché la maggioranza renziana pensa piuttosto a Macron, il rottamatore d’Oltralpe che si candida all’Eliseo fuori dagli schemi, oltre la destra e la sinistra.

 La scuola. La riforma della discordia ha spaccato anche il partito

La riforma della scuola è stata una buccia di banana per Renzi e il Pd. Non a caso, nel governo Gentiloni manca solo la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini. Il giudizio della maggioranza, che quella riforma ha voluto e votato, è ovviamente positivo, ma si appoggia soprattutto sull’entità delle risorse messe a disposizione, sul numero delle assunzioni, sull’indizione del concorso. La filosofia della riforma – autonomia, nuovo ruolo della dirigenza, alternanza scuola-lavoro – è molto più timidamente difesa. La minoranza invece la ritirerebbe oggi stesso. E forse sottoporrebbe a revisione tutto l’indirizzo di riforma dei governi di centrosinistra dai tempi del ministro Luigi Berlinguer ad oggi. Ma la scuola è stato anche il terreno di una frattura con tradizionali mondi di riferimento della sinistra, che la minoranza vuole recuperare, che la maggioranza ha qualche difficoltà a rifondare.

Il sistema elettorale. Il ritorno al proporzionale occasione o iattura

La legge con cui voteremo sarà quasi sicuramente una legge proporzionale, più o meno corretta. Ma questo è un giudizio di fatto, che tiene conto della sconfitta di Renzi al referendum e della sentenza della Corte Costituzionale. Il giudizio di valore però è diverso: per gran parte della maggioranza, il proporzionale è quasi una iattura, e l’Italia rischia di scivolare nuovamente nel pantano di governi deboli e coalizioni litigiose. Se potesse correggere in senso maggioritario la legge, lo farebbe. Diverso l’avviso della minoranza, che considera il proporzionale il vestito ordinario delle democrazie parlamentari, e teme ogni rafforzamento dei momenti della decisione, ogni irrobustimento dell’esecutivo a scapito del Parlamento, che passi attraverso correzioni maggioritarie, collegi uninominali, soglie di sbarramento elevate.

Il Mezzogiorno. Masterplan e Patti al via tra dubbi e “resistenze”

Non ha forse assunto il rilievo di uno dei temi più caldi dello scontro interno ma di sicuro anche le politiche per il Sud hanno diviso il Pd. Almeno nel senso che i percorsi individuati per ridurre il divario, obiettivo comune a tutto il partito, non sono apparsi sempre condivisi. Renzi dopo un anno di incertezze e di distacco («Basta piagnistei, basta con la denuncia del Sud abbandonato» ecc. ecc.), forse anche sotto il peso della critica dei territori, ha dedicato al Mezzogiorno un masterplan e 16 Patti con Regioni e Città metropolitane, tutti almeno teoricamente decollati. Ma non è caso che proprio al Sud si sia consumata la fetta più ampia della sconfitta al referendum e che le resistenze di Emiliano in Puglia abbiano avuto un peso anche mediatico tutt’altro che trascurabile.

L’immigrazione. Accoglienza e inclusione ma con diversi accenti

Su questo tema non è sempre chiaro se si confrontino nel Pd diverse sensibilità o diverse politiche. Perché il partito democratico è per l’accoglienza e l’inclusione. Ma con regole, che rendano governabile il fenomeno. Cosa più facile a dirsi che a farsi. Così capita che, a seconda degli umori (o delle tragedie) gli accenti si spostino ora sulla sicurezza, ora invece sulla solidarietà. Un banco di prova sarà presto offerto dalle nuove misure varate dal governo Gentiloni: più poteri ai sindaci, che potranno allontanare dal territorio comunale soggetti responsabili di violazioni reiterate, velocizzazione delle procedure relative al diritto d’asilo, per accelerare eventuali rimpatri. La maggioranza non avrà tentennamenti, ma nella minoranza si faranno sentire posizioni più sbilanciate a sinistra, che temono svolte di carattere securitario.

Le riforme. Il referendum spartiacque su Costituzione e poteri

Dopo lo scontro sul referendum, c’è da ritenere che per un po’ non se ne riparlerà, ma questo non vuol dire che sul terreno delle riforme costituzionali non si sia prodotto una lacerazione. Non solo perché la minoranza ha votato no, mentre la maggioranza ha votato sì, ma perché il no è stato accompagnato da valutazioni perentorie: riduzione degli istituti di garanzia, pericolo di deriva autoritaria. In questione non era il superamento del bicameralismo, né il Senato delle regioni, ma l’impianto complessivo della riforma, che ricordava agli oppositori le aspirazioni di Craxi o il progetto di Berlusconi e Calderoli. Una cosa di destra, insomma, che deturpava uno dei miti fondanti della Repubblica, quello della Costituzione democratica nata dall’antifascismo. Proprio il genere di argomenti che, agli occhi dei fautori, condanna da decenni il Paese all’immobilismo in tema di riforme.

Il partito. Primarie aperte a tutti o più peso per gli iscritti

I democratici sono l’unica formazione politica attualmente in campo che conserva il nome di partito. A volte sembra un motivo di orgoglio, altre volte un inutile fardello. Di sicuro la minoranza imputa a Renzi le maggiori responsabilità per la scissione, accusandolo di non aver saputo o voluto tenere insieme una comunità. Per Renzi e i suoi, è la minoranza che rifiuta le regole democratiche del confronto e della decisione. Al fondo stanno però idee diverse sulla forma-partito. Non a caso, per la minoranza il problema è già nello statuto, che per via delle primarie aperte dà poco peso agli iscritti e proietta la leadership in un rapporto diretto coi cittadini. Cosa che per la maggioranza è, al contrario, un titolo di merito. Infine: Renzi ha fortemente voluto l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la minoranza volentieri tornerebbe indietro.

(Il Mattino, 22 febbraio 2017)

Tasse, il PD sbanda

ImmagineUna cosa di sicuro gli italiani l’hanno capita: a torto o a ragione, il Pdl vuole l’abolizione dell’Imu. Non si può dire invece che abbiano capito che cosa, al riguardo, vuole il Pd. Ieri è stato ritirato l’emendamento a firma Pd, con il quale si reintroduceva la tassazione per le dimore di lusso, ma il concetto di lusso sotteso alla proposta del partito democratico era così largo e comprensivo che chi scrive, con l’occasione, ha scoperto improvvisamente di vivere per l’appunto nel lusso, dal momento che la rendita catastale dell’appartamento di proprietà supera, sia pure di poco, il tetto dei 750 Euro indicati nell’emendamento. Poco male: bisognerà che me ne convinca, e rifaccia i pavimenti. Ma resta che nel giro di pochi mesi i democratici sono passati dalla ferma contrarietà all’abolizione totale dell’Imu all’accettazione di un compromesso col Pdl e al rinvio della prima rata; poi di nuovo alla contrarietà e al tentativo di reintrodurre la tassazione sugli immobili di maggior pregio, infine ad una frettolosa e non proprio onorevole ritirata.

Ora, un andamento così curvilineo ben difficilmente può essere attribuito ad un sapiente disegno strategico. Ma se non è strategia, di cosa si tratta? Due  sono le ipotesi. La prima è che si tratti di semplice insipienza di singoli deputati, o della difficoltà a governare un gruppo parlamentare decisamente più ampio della forza effettiva del partito (non solo elettorale) e profondamente rinnovato: sia detto, questo, a futura memoria dei laudatori a tutti i costi del rinnovamento della politica. Poiché però anche Monsieur de La Palice capirebbe senza sforzi che se c’era una cosa che il Pd non avrebbe mai potuto ottenere, in questo frangente, da Alfano e dai «governisti» del centrodestra, era proprio la riproposizione dell’Imu, allora è ragionevole propendere per la seconda ipotesi. La quale dice che: non sono pochi, nel Pd, quanti si propongono di gettare scompiglio non solo o non tanto nel campo del centrodestra – che anzi ha potuto ricompattarsi dietro lo slogan del rifiuto della tassa sulla casa – quanto nel governo e nel Pd stesso.

Naturalmente, le proposte puramente tattiche (e di una tattica mal riuscita, visti i risultati non brillantissimi) prosperano nelle fasi precongressuali, prosperano quando più attori si contendono il campo con opposte ambizioni, prosperano infine quando manca una chiara visione politica. Ora, che la prima condizione sussista è fatto legato al calendario, fa parte della fisiologia politica e non mette conto di discuterne. Quanto alla seconda, che produca capolavori di tatticismo è fin troppo evidente. Basta prendere la dichiarazione di Renzi di ieri, a proposito di Imu: “Si mettano d’accordo, per me va bene qualsiasi soluzione”. Ora, che il candidato più accreditato alla segreteria del Pd, e magari futuro leader di governo, trovi che vada bene «qualsiasi soluzione» a proposito del gettito Imu, non so bene se debba far solo sorridere o, anche, preoccupare

Quanto in ultimo alla terza condizione, mettiamola così: ricordando Luigi Spaventa, Franco Debenedetti ne ha indicato il ruolo nell’aver favorito l’evoluzione della sinistra comunista ed ex-comunista dalla «curva di Phillips a quella di Laffer». La curva di Phillips stabilisce una relazione inversa fra inflazione e disoccupazione: al decrescere della prima sale la seconda. La curva di Laffer stabilisce invece che oltre un certo limite di tassazione il prelievo  fiscale smette di crescere, perché le imposte deprimono la crescita. Ecco il tema: la sinistra e le tasse. Ora, io non so a qual punto si sia compiuta l’evoluzione della sinistra italiana. Non so neppure se l’evoluzione debba avere sempre, in ogni ciclo economico, la stessa direzione: osservando lo stato di crisi in Europa, non disdegnerei neppure chi pensasse oggi che un po’ di inflazione aiuterebbe a liberare risorse pubbliche e a combattere la disoccupazione. Quel che però si può con qualche ragionevolezza affermare di sapere, è che tra queste curve il Pd sembra ancora sbandare vistosamente, senza riuscire a prendere una direzione precisa, o a trovare una sintesi. E più passano i giorni, più viene il timore che il Pd il congresso non lo faccia sulla strada da prendere, ma sui pensierini semplici di Renzi o sulle proposte le più fumose e involute, figlie soltanto del desiderio di complicare i percorsi e accidentare il terreno. Le strade diritte, il Pd fa ancora fatica ad imboccarle.

(Il Mattino, 9 ottobre 2013)

Tasse, se lo Stato viene meno al suo compito

“Si consideri il caso del pagamento volontario delle tasse sul reddito”: ecco, è proprio quello che nessuno si sognerebbe, di questi tempi, di considerare. A giudicare dai dati diffusi in questi giorni, il problema non è che non si pagano volontariamente le tasse, è che ci sono quelli (e non sono pochi) che le tasse non le pagano affatto. E quelli che le pagano, avvertono tutto il peso di un’ingiustizia evidente, palese, smaccata. Nel mondo alla rovescia in cui ci è dato di vivere, il dipendente paga in media più del datore di lavoro: il che rende incomprensibile perché allora non sia il primo a dare lo stipendio al secondo.

Tuttavia, il filosofo che comincia il suo ragionamento da ipotesi del terzo tipo e casi improbabili come quello suggerito non è poi così bislacco come sembra. Anche perché si tratta di John Rawls, e delle sue lezioni di storia della filosofia politica. Dunque, d’accordo: non paghiamo volentieri le tasse. Ma perché? La risposta di Rawls è (grosso modo): perché non ci va di passare per fessi. Se altri non pagano, non vogliamo pagare neanche noi. Solo se fossimo certi che anche gli altri pagano, allora pagheremmo volentieri (forse). In realtà, bisognerebbe aggiungere anche altre, non trascurabili ipotesi di contorno: nessuno, infatti, sborsa volentieri un euro se vede che chi lo riscuote non fa un uso razionale del gettito raccolto. E nessuno scuce di buon grado anche un solo centesimo, se non è convinto dell’equità dello schema generale delle imposte. Ma, inserite ad hoc queste supposizioni, resta nondimeno necessaria un’autorità statale che – così dice Rawls – “alteri le condizioni di fondo” del pagamento delle tasse, e consenta a me di pensare che non sono l’unico ingenuo a  versare all’erario.

Ora, alterare le condizioni di fondo non è poca cosa, come compito fondamentale dello stato. Non è roba da stato minimo, insomma, anche se si tratta anzitutto di mettere leggi e farle rispettare: solo così si potrà stabilire quel clima di fiducia che rende pagare le tasse meno sgradevole di quanto non lo sia quando la regola è, invece, l’evasione. Siccome, d’altra parte, Rawls sta commentando la nascita dello Stato moderno e la severa dottrina hobbesiana dell’autorità, può ricostruire il profilo di uno Stato esigente, che impiega senza star troppo a discutere tutti gli strumenti coercitivi che ritiene i più opportuni per rendere stabili le entrate dello Stato. Ma il commento di Rawls era comunque (grosso modo): non c’è bisogno di supporre che i cittadini siano disonesti, per giustificare i blitz delle agenzie delle entrate e la caccia ai furbacchioni.

Orbene, questo commento dà da pensare. Perché da noi accade invece che ad ogni voce che si leva per chiedere allo Stato di impegnarsi seriamente nella lotta all’evasione, c’è sempre qualcuno che manda alti lai contro lo Stato occhiuto, lo Stato poliziesco, lo Stato etico, e via sproloquiando. Come se invece di uno stato occhiuto non avessimo noi italiani uno Stato guercio, che sembra avere un occhio solo e guardare da una sola parte: e purtroppo non dalla parte dove sono custoditi i più ingenti patrimoni.

E così, se è forse solo ad uso dei filosofi che possiamo ipotizzare che qualcuno paghi volontariamente le tasse, è ad uso di tutti che dobbiamo ipotizzare che Fiamme gialle, scontrini fiscali, tracciabilità e controlli incrociati ci vogliano eccome. Quanto poi agli argomenti che tirano in ballo il patto sociale implicito nel nostro paese, per spiegare così elevati livelli di evasione, è chiaro che non sono campati in aria. E infatti la lotta all’evasione tocca interessi costituiti e anche abitudini sociali consolidate (oltre che perseguire ladri matricolati). Però c’è anche una cosa come il patto statale, e quello, insegna Hobbes, è più importante e viene prima, molto prima.

Ché se quest’ultimo patto venisse rispettato, siccome non siamo più ad Hobbes e all’«homo homini lupus» ma a Rawls e alla costituzionalizzazione dei beni sociali primari, allora sì che sarebbe diverso. Se infatti nello schema generale delle imposte e nella loro esazione ravvisassimo più equità e giustizia sociale, e una qualche preoccupazione in più per l’uguaglianza, forse troveremmo persino qualche cittadino bislacco, del terzo tipo, disposto a pagare volentieri le tasse. Perché ce ne sono, anche in Italia ce ne sono, solo che vedano intorno a loro meno sproporzione fra i redditi, e un po’ più di rispetto per i sacrifici di chi lavora.