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I ragazzi qualsiasi che diventano fanatici dell’odio

morris Blind Time Drawnings

R. Morris, Blind Time Drawings (1973)

Tristi. Isolati. Vili. Sono così i terroristi? Così li ha dipinti, con convinzione, Kevin Spacey, l’attore americano ieri a Roma per presentare il suo ultimo film. Ma davvero erano così i fratelli Kouachi – 33 anni l’uno, 32 l’altro – e il loro amico Amedy Coulibaly, anni 32, responsabili i primi dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, l’ultimo della strage al supermercato kosher di Parigi, nel gennaio 2015? E i giovani della strage del Bataclan, sempre a Parigi? E Mohamed Lahouaiej Bouhlel: che uomo era Bouhlel, che vita conduceva colui che, sulla promenade di Nizza, ha lanciato il camion sulla folla che festeggiava il 14 luglio? Ed erano così anche gli attentatori di Londra, di Bruxelles o di Madrid? Così erano Moussa Oubakier, 17 anni, Mohamed Hychami, 24 anni, Said Aallaa, di anni 18, e gli altri membri della cellula terroristica che ha seminato il terrore sulle ramblas di Barcellona?

È impossibile tracciare un unico profilo psicologico, così come è impossibile desumere dalle loro abitudini di vita una qualche relazione con la scelta terroristica. Usano i social network, frequentano il quartiere e la moschea, a volte continuano a vivere in famiglia, le loro esistenze non sono molto diverse da quelle dei loro coetanei. Non sono più isolati dei loro compagni; probabilmente non sono nemmeno più tristi di loro: abbiamo anzi foto che li ritraggono sorridenti con un’arma da fuoco tra le mani.  Quanto alla viltà, chi può dirlo? Forse, accusandone la viltà, proviamo anzitutto a fare coraggio a noi stessi.

Però odiano con tutte le loro forze l’Occidente, l’Europa, il Paese in cui vivono. Di che natura è questo odio? Il sociologo francese Dominique Moïsi ha tracciato dopo l’11 settembre un quadro delle relazioni internazionali dominato dalle emozioni: dalla paura in Occidente, dalla speranza nei paesi asiatici emergenti, dall’umiliazione nella galassia musulmana. Questi giovani odiano perché vivono come un’umiliazione la loro storia passata e la loro presente condizione. Non basta la povertà o l’emarginazione: non tutti vivono in situazioni di disagio economico e sociale, e d’altra parte molti, la più gran parte che versa in simili condizioni, rimangono lontanissimi da scelte violente. Ma tutti sono convinti che l’Islam debba sollevarsi contro il Satana occidentale, contro i cristiani, contro i sionisti. E tutti accusano la sudditanza dei governi islamici verso gli Stati Uniti e i loro alleati. Tutti inneggiano al jihad e tutti gridano vendetta. E, certo, nessuna radicalizzazione è possibile senza che si accetti questa potente costruzione ideologica, spinta fino al parossismo dell’odio politico e religioso.

Ma di nuovo: perché questa narrazione riesce a far presa? Robert Musil diceva che l’anima è come il tarlo che scava nel legno: «può contorcersi come vuole, perfino tornare indietro, ma si lascia sempre alle spalle uno spazio vuoto». C’è un vuoto, un vuoto d’anima, dietro certe storie, certe biografie. Certo, è più facile pensare che i terroristi siano per lo più disadattati, o persone affette da seri disturbi psichici. O almeno persone fortemente condizionabili, su cui un imam infervorato può esercitare una forte influenza. Oppure, chissà, ragazzi senza arte né parte, nullità che nel gesto supremo dell’attentato, in cui sono persino disponibili a dare la loro stessa vita, provano a riscattare un’intera esistenza: innanzi ai loro stessi occhi e a quelli della loro cerchia di parenti ed amici. Secondo alcuni studiosi, occorre una forte componente narcisistica, per prendere la strada della radicalizzazione e del martirio. Ma forse, al fondo, è quel vuoto, è l’insopportabile sensazione di non aderire veramente, di non esser davvero parte del mondo pubblico in cui tutti viviamo, che li spinge sino a desiderare il “martirio”. La propria morte per la morte di quel mondo.

Neanche questa è una spiegazione, naturalmente. Ma almeno ci evita di farla semplice, di considerare i terroristi come folli o come bestie, come assolutamente altri da noi. Non è così: non lo era per i nazisti, come comprese Primo Levi; non lo sono nemmeno i vendicatori suicidi dell’Islam. Che giocano alla playstation, frequentano palestre e moschee, comprano magari quelle stesse merci che simboleggiano lo sfrenato consumismo occidentale. Fino però al giorno in cui si radicalizzano, gettandosi a capofitto nella spirale del fanatismo. Un percorso che spesso non è nemmeno lungo, che non richiede un indottrinamento particolarmente approfondito, ma che versa fiumi di benzina in quel vuoto che nessuna emancipazione sociale, economica o giuridica promette di colmare, e che in mancanza di uno spazio politico percorribile si fa incendio. Vogliono di più, vogliono sentirsi integri, giusti, puri. Vogliono disprezzare tutto ciò che ai loro occhi appare immorale, debole, meschino. E vogliono passare all’atto, combattere gli infedeli, rovesciare le democrazie atee dell’Occidente.

Hanno nomi stranieri, difficili da pronunciare, che li gettano inevitabilmente in una grande lontananza da noi. Ma l’estetica della violenza, la volontà di potenza, il vincolo di fratellanza che li stringe in un’unica sorte li abbiamo già conosciuti. E li abbiamo chiamati: fascismo.

(Il Mattino, 21 agosto 2017)

La gioventù cancellata dall’odio

Gilliam

S. Gilliam, Fire (1972)

Muoiono, e sono giovani. Uccidono, e sono giovani. Conoscete la canzone «Under the mango tree»? A Vilnius Lancastre, il protagonista del romanzo «Un’aria da Dylan» dello scrittore barcellonese Enrique Vila-Matas, il calipso leggero e scanzonato della canzone dona una lieve felicità: «e allora?», chiede. Che cosa c’è di male ad essere felici grazie a una canzonetta? Che cosa c’è di male se ogni tanto sentiamo il bisogno di respirare un po’ di leggerezza? E cos’altro respiravano, a Barcellona, Luca Russo e Bruno Gullotta, i due italiani vittime dell’attentato sulle ramblas della città catalana? Entrambi erano in vacanza a Barcellona. Bruno era con la sua famiglia, con i suoi figli, con la moglie, quando il furgone lo ha falciato, lasciandolo morire a terra dinanzi agli occhi dei suoi bambini. Luca era con la fidanzata: lei è ferita, per fortuna in modo non grave, lui è stato travolto dal furgone, volato via dalla vita e dalla gioventù per la follia omicida di terroristi forse ancora più giovani di lui.

Che cosa allora significa essere giovani? Avere la feroce determinazione di chi conduce una guerra cieca e indiscriminata contro tutto ciò che odia, o avere la libera spensieratezza di chi vuole vivere qualche giornata da turista in una delle città più giovanili d’Europa?

Nel romanzo di Vila Matas, lo scrittore incontra a un certo punto, in aeroporto, un collega, oppresso al pensiero che ai tavolini dei bar non si parli di libri, ma solo di sport, o «dell’ultimo omicidio in serie o dell’ultimo capo militare arabo detronizzato». E che sui giornali ci siano solo «Wall Street, la Siria, la Libia, l’Iraq, la Grecia, il Giappone o la florida Cina». Ma cosa c’è, nelle nostre vite? Cosa ha diritto di esserci nella vita di un giovane che vive in Occidente, in Italia, che ad agosto va in vacanza a Barcellona, che passeggia sulle ramblas, che magari il giorno prima strabuzza gli occhi dinanzi alla Sagrada Familia di Gaudì e progetta di andare il giorno dopo su, al Parc Güell, che prenota una visita al Museo Picasso o che porta i bambini allo stadio dei mitici blaugrana? E come invece si riempiono le giornate di quegli altri giovani, quelli che trascorrono quelle stesse giornate di caldo e di mare in qualche luogo nascosto, preparando l’attentato, procurandosi armi, studiando percorsi, cospirando e odiando?

Lontano da giorni tragici come quelli che viviamo, siamo disposti a considerare la superficie delle nostre vite, o quella dei nostri ragazzi, non ricca e preziosa, ma vuota e banale: l’ombrellone, la partita di calcio, una settimana da turisti perché a chi non piace viaggiare? Poi quei giorni si avvicinano, piombano tra le nostre strade – a Parigi, a Madrid, ora a Barcellona –. Succede che altri giovani, che hanno in odio (hanno in odio, o segretamente invidiano?) tutta la libertà e il consumismo dell’Occidentale laico, secolarizzato e senza Dio, si mettano al volante di un camion e seminino il terrore tra la folla. D’improvviso la prospettiva cambia. D’improvviso capiamo: non siamo noi i nichilisti, non siamo noi a rendere tutto insignificante ed insensato, non è la nostra libertà senza scopo; è il loro scopo ad essere insensato, è il loro fondamentalismo a strappare alla vita le sue ore più amichevoli e più lievi.

Quando si è giovani è strano: così cantava Guccini nella canzone per un’amica. È strano che la sorte arrivi e ti prenda per mano. Per Bruno e Luca è stata la sorte, una fatalità terribile e assurda: se solo si fossero decisi per la passeggiata un’ora prima o un’ora dopo… Ma per gli assassini che hanno lanciato il furgone contro di loro, e contro tutte le altre persone che camminavamo nella luce piena e indivisa di un pomeriggio agostano, non è stata la sorte: è stata una volontà precisa, deliberata, assoluta. È stata un progetto, un disegno, una missione di morte.

A partire dall’Ottocento, essere giovani è divenuto una categoria e insieme una forza della politica. Se ne sono nutrite le nazioni e le guerre che hanno fatto la storia d’Europa, e del mondo. Oggi alimenta una grande parte del risentimento che solleva il fondamentalismo islamico contro l’Occidente, che venga dall’altra sponda del Mediterraneo o invece sia coltivata nelle periferie delle nostre città, fra giovani radicalizzati della seconda o terza generazione di immigrati musulmani. La democrazia, per costoro, non è una via per l’integrazione e la partecipazione alla vita pubblica. Essere giovani significa voler rovesciare l’ingiustizia del mondo, che offende il loro Dio e le loro stesse esistenze. Può darsi che non scelgano soltanto, ma siano scelti, per i luoghi e le persone con cui si trovano ad essere: il modo, infatti, in cui una scelta si intreccia con una vita è spesso imperscrutabile. Ma noi sappiamo che non hanno ragione. Ci sgomentano le loro grida, e ancor più ci sgomenta la loro età. Perché noi sappiamo che si ha tutto il diritto essere giovani e felici prendendosi qualche giorno di ferie, e che anzi non c’è gioventù che valga la pena di difendere più di questa. Chissà, forse negli spazi infrasottili dell’ironia con cui si scrivono le nostre vite più leggere, anche un dio più amabile e più umano amerà sorridere tra le note di qualche sciocca melodia

(Il Mattino, 19 agosto 2017)

Se la vendetta sfida la civiltà

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Quanto peggiorerebbe la nostra vita se la risposta al terrorismo di matrice islamista fosse anch’essa di natura terroristica? Non più soltanto livelli di sicurezza più elevati o proclamazioni dello stato di emergenza, leggi antiterrorismo e inasprimenti di pene, ma un’escalation di terrorismo islamofobo, diretta contro la comunità musulmana?  Da ieri questa eventualità, terribile e angosciosa, si è fatta possibile. Ieri un uomo, Darren Osborne, ha lanciato il suo veicolo contro una folla formata da fedeli musulmani, in una zona a nord di Londra, Finsbury Park. Il furgone ha mietuto una vittima, e fatto una decina di feriti, alcuni dei quali gravi. Odio, risentimento e spirito di vendetta. Ma cosa accadrebbe, se questi sentimenti e stati d’animo si diffondessero come un virus tra la popolazione? Cosa accadrebbe se la risposta al camioncino lanciato sul London Bridge, qualche settimana fa, o all’autocarro che fa strage sulla promenade des Anglais di Nizza, lo scorso anno, fossero altre automobili, lanciate questa volta contro fedeli all’uscita di una moschea? Quasi nelle stesse ore in cui Londra veniva nuovamente insanguinata, a Parigi, sugli Champs-Elysées, un uomo ha provato a farsi esplodere lanciandosi con la sua auto, piena di bombole del gas, contro una camionetta della polizia: l’attentato è fallito e il conducente è morto, ma in Francia è scattato nuovamente l’allarme. Nel giro di ventiquattro ore, siti di informazione e giornali hanno registrato i fatti come un bollettino di guerra: a Londra un inglese di mezza età ha attaccato la folla di fedeli musulmani, durante il Ramadan, mentre a Parigi, un cittadino francese radicalizzato, noto peraltro ai servizi di intelligence, gettava un’altra volta nel terrore la capitale: metropolitana chiusa, area transennata, colonne di mezzi della polizia, sirene e agenti. A Parigi un atto terroristico compiuto probabilmente nello spirito della jihad armata; a Londra, un atto terroristico compiuto invece contro i musulmani. Nello stesso arco di tempo, nel cuore dell’Europa.

Ora, la ragione fondamentale dell’essere europei, per tutta la seconda metà del Novecento, è stata la pace. Non vi è significato più forte e più riconoscibile nell’ideale europeista di questo legame che l’Europa, dopo gli orrori delle guerre mondiali, ha saputo conquistare con la pace, la democrazia, il diritto. Noi europei siamo quelli che hanno messo da parte odi e rivalità nazionali e religiose, ostilità politiche e ambizioni di potenza ed egemonia sul continente, per costruire insieme condizioni di vita e ordinamenti collettivi fondati sulla pace. Abbiamo vissuto la caduta del Muro di Berlino come un passo decisivo nella costruzione della casa europea perché l’89 significava la fine della guerra fredda che aveva diviso l’Europa in due blocchi. E abbiamo patito le contraddizioni di una costruzione politica ancora insufficiente quando si sono incendiati i Balcani, e nuovi conflitti si sono riaperti nel cuore del continente. Infine, sappiamo ormai riconoscere, dopo i processi di decolonizzazione seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, i germi pericolosi che a lungo hanno allignato nell’idea del “buon europeo”. Come possiamo ora pensare che il futuro dell’Unione, il suo destino e il suo senso, si disperda tra paure, scoppi di violenza, focolai di terrore?

Eppure il crinale lungo il quale ci muoviamo è estremamente sottile. Darren Osborne, per ora, è solo un nome balzato drammaticamente agli onori della cronaca per una violenza stupida e insensata. Ma il senso delle cose non si decide mai una volta per tutte. Un gesto isolato, un episodio circoscritto non cambia il corso degli eventi. La vita scorre uguale. Ma noi oggi non sappiamo affatto se tale resterà. Non lo possiamo sapere. Non sappiamo se altrove non vi sia chi non pensi di fare altrettanto. Non sappiamo neppure se non vi sia chi soffia sul fuoco, chi magari cerca di esasperare le opinioni pubbliche dei paesi europei, di suscitare sentimenti di frustrazione della popolazione di fronte al diffondersi endemico di attentati terroristici, per far precipitare tutto in una spirale sempre più intensa di violenza. Darren Osborne non avrà fatto troppi calcoli e probabilmente non ha nessuno dietro di sé. Un atto individuale non ha ancora un significato collettivo. Ma se in futuro qualcuno proverà a fare invece qualche calcolo, a spostare gli equilibri politici del continente – e non solo – usando le ragioni del conflitto, i meccanismi della ritorsione, il contrappasso della vendetta?

Non sarebbe una guerra giusta, così come quella islamica non è una guerra santa, almeno ai nostri occhi. Sarebbe piuttosto una guerra strisciante, tenuta dentro i confini slabbrati della pace ma all’ombra di conflitti sempre più cruenti, e endemici, e globali. Una guerra in cui precipiterebbe e andrebbe in frantumi l’ideale stesso della modernità, e il suo corredo di valori, abitudini, stili di vita, nato e coltivato in questa parte del mondo. Cosa ci guadagneremmo, allora? A cosa potremmo mettere fine, e cosa invece si prolungherebbe indefinitamente se ci lasciassimo trascinare sul piano che gli attacchi terroristici ogni volta propongono: il numero delle vittime, le modalità dell’attentato, la cultura e l’identità religiosa come motivo di scontro? Non sarebbe questa ritornata barbarie la fine stessa del sogno europeo come lo abbiamo coltivato negli ultimi decenni?

(Il Mattino, 20 giugno 2017)

Terrore e modernità: le radici dell’Isis spiegate agli occidentali

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Disponiamo di tre paradigmi principali di interpretazione del terrorismo jihadista: il primo può esser fatto risalire alla teorizzazione dello scontro di civiltà del politologo americano Samuel Huntington; il secondo si situa nell’eredità del marxismo, e mette sotto accusa le gravi diseguaglianze economiche e sociali fra le diverse aree del pianeta; il terzo chiama in causa la religione, e più in particolare una certa visione, fortemente eretica, dell’islam. Nessuna di queste interpretazioni è sufficiente: le civiltà non sono blocchi monolitici, la povertà non basta da sola ad armare il terrorista; la religione non è vero affatto che significhi violenza, ogni qual volta voglia darsi una presenza e una rilevanza nella vita pubblica. Queste importanti correzioni si trovano, con dovizia di argomenti, nell’ultimo libro di Donatella Di Cesare, «Terrore e modernità» (Einaudi, € 12), e consentono, tra le altre cose: di opporre forte resistenza alla lettura neo-conservatrice della guerra fra l’Occidente e l’Islam; di spiegare certi sbandamenti della sinistra internazionale, indecisa se riconoscere nell’islamismo radicale un avversario o un alleato nella lotta contro il capitale; di limitare infine le pretese del laicismo di ergersi a unico, comune denominatore dei regimi democratici, col risultato di acuire, invece di risolvere, lo scontro fra cultura religiosa e cultura laica.

Ma il libro è utile anche per altre due ragioni. Perché, in primo luogo, mostra, in una prospettiva storica, il disegno politico entro il quale vanno collocati gli attacchi terroristici recenti, muovendo anzitutto dalle radici teoriche, rintracciabili nel pensiero di Sayyd Qutb (di cui tanto Osama bin Laden quanto il leader dell’autoproclamato Stato islamico, il califfo al-Baghdadi, si sono riconosciuti discepoli), e cioè nel «progetto di una teocrazia assoluta, realizzato nella umma, e affidato a una “avanguardia” rivoluzionaria che, grazie al jihad, deve fare tabula rasa di tutte le ideologie e di tutte le istituzioni precedenti». Ed è utile perché, in secondo luogo, fornisce il contesto più ampio entro il quale provare a comprendere (che non vuol dire giustificare) il fenomeno. Il contesto è descritto da tre parole: globalizzazione, modernità, sovranità. Ciascuna di queste parole designa un tratto tipico della civiltà occidentale, del quale difficilmente potremmo fare a meno: non riusciamo infatti a pensare una forma politica che deponga la categoria della sovranità; non riusciamo a pensare una civiltà che non si autocomprenda come moderna, laica e illuministica; non riusciamo a pensare le sfere dell’economia, della tecnica e della comunicazione se non in termini globali, come fenomeni illimitatamente espansivi. La tesi del libro, però, è che il terrorismo appartiene costitutivamente a questo spazio, ed è dunque illusorio ritenere che più modernità, più globalizzazione, più sovranità bastino a cancellarlo. C’è anzi il rischio che l’«insonnia poliziesca» – così la chiama la Di Cesare con un’immagine felice, presa in prestito dalla filosofia di Emmanuel Lévinas – riduca gli spazi della democrazia. La conclusione del saggio resta così aperta, com’è aperta la storia del mondo, nonostante l’utopia neoliberale della “fine della storia”: da un lato la guerra al terrore sta infatti erodendo le istituzioni democratiche; dall’altro, però, la democrazia mostra di possedere, a differenza dei regimi autocratici, «una sua insita elasticità, che potrebbe dar prova di un’inattesa resistenza nella lunga durata».

(Il Mattino, 6 giugno 2017)

Occidente e Islam sconfitti entrambi dalla Tecnica (int. a E. Severino)

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Chi è il giovane che guida un camion contro la folla, a Nizza, o che sino i due killer che in Normandia, a Saint-Etienne du Rouvray, irrompono all’interno di una chiesa, e tagliano la gola a un parroco, un uomo di 84 anni, Jacques Hamel? Chi è il terrorista? Che cosa lo muove, che cosa lo arma? La conversazione con Emanuele Severino, filosofo, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha preso le mosse da questa domanda, ma anche dal dubbio che dietro le fedi, le ideologie, le psicologie individuali e collettive, vi sia qualcos’altro, e che almeno una parola della filosofia, la parola nichilismo, aiuti a indicarlo. Chi è dunque il terrorista? Chi è il tagliagole, il kamikaze, l’uomo che uccide a sangue freddo, quello che spara indiscriminatamente a giovani, donne, bambini?

«Oggi sta diventando chiaro che il terrorismo include ma non coincide con il terrorismo fondamentalista islamico. Certo, è venuto in chiaro come siano radicalmente sbagliati i motivi che spingono quelli che non si sentono a proprio agio nelle società occidentali a reagire in modo così violento. Il terrorismo islamista è però solo la componente eminente, non l’unica. È vero tuttavia che le diverse forme di disagio trovano una giustificazione, forse persino una santificazione nella causa islamica. Ma ci sono anche casi in cui questo non avviene. Definire il terrorismo come esclusivamente terrorismo islamico fondamentalista è, dunque, improprio. Vi sono altre componenti: anzitutto il disagio, il risentimento degli emarginati. Ma anche la sublimazione di patologie mentali: la sublimazione, dico, nel senso di una giustificazione religiosa, ma anche nel senso dell’esibizione di un coraggio cieco e assoluto di fronte alla morte. Perché questa gente appartiene alla categoria dei candidati al suicidio. Temo anzi che saranno sempre di più, tra quanti pensano al suicidio, quelli che risolveranno il problema motivandolo religiosamente o politicamente o ideologicamente».

Il pensiero corre ai demoni di Födor Dostoevskij. Il rivoluzionario, il teorico, il fanatico, ma anche l’ingegnere disoccupato, il nichilista Kirillov, ossia il suicida, quello che accetta di firmare una falsa confessione, prima di togliersi la vita con un colpo alla testa, per accollarsi la responsabilità di un assassinio. E nel modo in cui si forma, nel grande romanzo russo, la cellula di rivoluzionari che dovrebbe gettare la Russia nel caos con una serie di attentati terroristici, nel modo in cui vi entrano i demoni, divorati da passioni ideologiche e motivazioni personali diverse, non vi è forse qualcosa dei profili così diversi dei terroristi che hanno agito in queste settimane: persone emarginate, ma anche ricchi rampolli della borghesia islamica? Ragazzi con gravi disturbi mentali, ma anche giovani radicalizzatisi in un crescendo di odio e fanatismo? Non avremmo ragione di usare allora come denominatore comune, una parola della filosofia (che peraltro Dostoevskij ben conosceva), la parola nichilismo?

«Se per nichilismo si intende quello che per esempio intendevano i nichilisti russi nell’800, ma anche Friedrich Nietzsche, allora sì, la categoria di nichilismo può essere appropriata. Io credo però che la categoria abbia un significato più profondo».

Qual è allora il più profondo della crisi in gioco? Che cosa dobbiamo vedere, che non vediamo quando ragioniamo sulle modalità di una strage, o anche quando ci interroghiamo intorno alle cause economiche o sociali, politiche o religiose che la ispirano?

«Credo che tutte quelle affermazioni in cui si dice che la crisi attuale non è semplicemente una crisi economica o culturale ma è una crisi molto più profonda, rimangano in realtà alla superficie. Se si va a vedere cosa indicano come il più profondo, si trova che non è tale. Certo è vero: non ci troviamo semplicemente alle soglie di una crisi economica, o culturale, ma ciò di cui propriamente si tratta è quel rovesciamento radicale e inevitabile, in cui la tradizione dell’Occidente è portata al tramonto dai protagonisti autentici della contemporaneità. Bisogna anzi parlarne al singolare: questo protagonista autentico è la Tecnica».

Severino introduce con accortezza al cuore del suo pensiero. È sempre difficile portare lo sguardo dalla superficie delle cose a ciò che avviene al di sotto di essa, e vi è sempre il rischio che questo rivolgimento dello sguardo venga considerato un modo per allontanarsi dalla drammatica attualità del conflitto in corso. Come se non contassero più i morti ammazzati, la terribile contabilità di queste settimane, le immagini concitate che rimbalzano ogni giorno sullo schermo, ma solo potenze astratte e impersonali che, nella loro nitida silhouette concettuale, trascendono però infinitamente le nostre piccole vite umane. In realtà, ciò che suona il più astratto è, per Severino e per la filosofia, il più concreto: chi pensa astrattamente, diceva Hegel, è chi non riesce a vedere la tremenda concretezza delle forze che dominano l’orizzonte del presente.

«Si parla di una terza guerra mondiale. Ne ha parlato il Papa, ma prima del Papa ne ha parlato Friedman [il riferimento è al politologo americano George Friedman, che si è dichiarato pronto a scommettere che il XXI secolo non farà eccezione: come i precedenti, anche il secolo in corso avrà il suo conflitto mondiale]. Se comincia qualcosa come una guerra non possiamo pensare che si dia una risoluzione a breve termine. Ma se ci sono gli elementi per dire che una guerra è possibile, c’è anche la possibilità di indicare l’esito inevitabile di una simile guerra».

Severino resta uno degli ultimi filosofi che mantiene alla parola filosofica il suo carattere originario, di parola vera e incontrovertibile. Mi richiama, dunque, appena provo ad usare la parola «scenario», come si trattasse della prospettazione di un corso possibile di eventi accanto ad altri, e continua:

«Vado da tempo dicendo nei miei scritti che ad uscire vittorioso da questo non breve conflitto non è nessuno dei confliggenti: né l’Occidente democratico-capitalistico, né il mondo islamico, bensì lo strumento di cui l’uno e l’altro sono costretti a servirsi. Questo strumento è la Tecnica».

Appare chiaro allora che per Severino la conflittualità più visibile, che attualmente terrorizza il mondo, non dice il più profondo dello scontro in atto. È una lotta di retroguardia, non la vera anima del conflitto. Più avanti Severino ricorderà come l’Islam, come tutte le forze della tradizione, individui in realtà nella civiltà della tecnica il suo vero nemico. Anche quando parla del Satana americano, l’Islam prende di mira l’America e l’Occidente per via del suo consumismo, del suo allontanamento dalla dimensione religiosa, e infine del suo essere un frutto della civiltà della tecnica. Così è per l’intera civiltà degli ultimi cinque secoli, figlia dell’incontro fra cristianesimo e tecnica e scienza moderna.

«Se si è d’accordo che la Tecnica è lo strumento di cui tutte le forze si servono per prevalere, allora ognuno degli avversari ha uno scopo, per raggiungere il quale gli è necessario il continuo incremento dello strumento di cui si serve. Ognuno dei contendenti deve aumentare all’infinito la potenza. Ma in questo modo l’incremento della potenza, grazie alla tecnica, occupa sempre più spesso l’area dello scopo che la forza in conflitto si propone di realizzare».

Ecco il teorema fondamentale: la Tecnica da mezzo diviene scopo, e così riduce inevitabilmente al silenzio gli scopi per i quali i confliggenti – un tempo gli USA e l’URSS, oggi l’Occidente e l’Islam – sono scesi in campo. È ciò che nel suo libro su «Islam e Prometeo» Severino ha chiamato non «pax americana», ma «pax tecnica», perché l’America, come ogni altra forza storico-politica mondiale – il capitalismo, il nazionalismo, il comunismo, ma anche l’Islam – è ad essa assoggettata.

«La tecnica che in ultimo prevarrà sarà la Tecnica capace di ascoltare quella distruzione assoluta della tradizione, che la grande filosofia ha pensato, quella distruzione radicale Nietzsche chiama per esempio «morte di Dio». Che non è una parola in libertà di un uomo un po’ folle, ma anzi ha una potenza che la cultura contemporanea e la stessa Chiesa non comprendono. La Chiesa vede nel relativismo il suo nemico, e non scorge il sottosuolo filosofico del nostro tempo dove si dimostra l’impossibilità di ogni limite che arresti l’agire dell’uomo».

Questa impossibilità di porre un limite, la parola della filosofia che dice alla tecnica «tu puoi» è, insomma, la più grande volontà di potenza. Nessun contrattacco della tradizione potrà mai prevalere su di essa, secondo Severino. E però, nel salutarlo e nel ringraziarlo per la lunga conversazione, un dubbio mi assale: ma questa fede nell’impossibilità di porre un limite all’agire dell’uomo non è, da ultimo, proprio la stessa che nutre il terrorista che lancia il suo camion sulla folla del lungomare di Nizza, o spinge a tagliare la gola a un anziano curato di provincia?

(Il Mattino, 27 luglio 2016)