
R. Morris, Blind Time Drawings (1973)
Tristi. Isolati. Vili. Sono così i terroristi? Così li ha dipinti, con convinzione, Kevin Spacey, l’attore americano ieri a Roma per presentare il suo ultimo film. Ma davvero erano così i fratelli Kouachi – 33 anni l’uno, 32 l’altro – e il loro amico Amedy Coulibaly, anni 32, responsabili i primi dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, l’ultimo della strage al supermercato kosher di Parigi, nel gennaio 2015? E i giovani della strage del Bataclan, sempre a Parigi? E Mohamed Lahouaiej Bouhlel: che uomo era Bouhlel, che vita conduceva colui che, sulla promenade di Nizza, ha lanciato il camion sulla folla che festeggiava il 14 luglio? Ed erano così anche gli attentatori di Londra, di Bruxelles o di Madrid? Così erano Moussa Oubakier, 17 anni, Mohamed Hychami, 24 anni, Said Aallaa, di anni 18, e gli altri membri della cellula terroristica che ha seminato il terrore sulle ramblas di Barcellona?
È impossibile tracciare un unico profilo psicologico, così come è impossibile desumere dalle loro abitudini di vita una qualche relazione con la scelta terroristica. Usano i social network, frequentano il quartiere e la moschea, a volte continuano a vivere in famiglia, le loro esistenze non sono molto diverse da quelle dei loro coetanei. Non sono più isolati dei loro compagni; probabilmente non sono nemmeno più tristi di loro: abbiamo anzi foto che li ritraggono sorridenti con un’arma da fuoco tra le mani. Quanto alla viltà, chi può dirlo? Forse, accusandone la viltà, proviamo anzitutto a fare coraggio a noi stessi.
Però odiano con tutte le loro forze l’Occidente, l’Europa, il Paese in cui vivono. Di che natura è questo odio? Il sociologo francese Dominique Moïsi ha tracciato dopo l’11 settembre un quadro delle relazioni internazionali dominato dalle emozioni: dalla paura in Occidente, dalla speranza nei paesi asiatici emergenti, dall’umiliazione nella galassia musulmana. Questi giovani odiano perché vivono come un’umiliazione la loro storia passata e la loro presente condizione. Non basta la povertà o l’emarginazione: non tutti vivono in situazioni di disagio economico e sociale, e d’altra parte molti, la più gran parte che versa in simili condizioni, rimangono lontanissimi da scelte violente. Ma tutti sono convinti che l’Islam debba sollevarsi contro il Satana occidentale, contro i cristiani, contro i sionisti. E tutti accusano la sudditanza dei governi islamici verso gli Stati Uniti e i loro alleati. Tutti inneggiano al jihad e tutti gridano vendetta. E, certo, nessuna radicalizzazione è possibile senza che si accetti questa potente costruzione ideologica, spinta fino al parossismo dell’odio politico e religioso.
Ma di nuovo: perché questa narrazione riesce a far presa? Robert Musil diceva che l’anima è come il tarlo che scava nel legno: «può contorcersi come vuole, perfino tornare indietro, ma si lascia sempre alle spalle uno spazio vuoto». C’è un vuoto, un vuoto d’anima, dietro certe storie, certe biografie. Certo, è più facile pensare che i terroristi siano per lo più disadattati, o persone affette da seri disturbi psichici. O almeno persone fortemente condizionabili, su cui un imam infervorato può esercitare una forte influenza. Oppure, chissà, ragazzi senza arte né parte, nullità che nel gesto supremo dell’attentato, in cui sono persino disponibili a dare la loro stessa vita, provano a riscattare un’intera esistenza: innanzi ai loro stessi occhi e a quelli della loro cerchia di parenti ed amici. Secondo alcuni studiosi, occorre una forte componente narcisistica, per prendere la strada della radicalizzazione e del martirio. Ma forse, al fondo, è quel vuoto, è l’insopportabile sensazione di non aderire veramente, di non esser davvero parte del mondo pubblico in cui tutti viviamo, che li spinge sino a desiderare il “martirio”. La propria morte per la morte di quel mondo.
Neanche questa è una spiegazione, naturalmente. Ma almeno ci evita di farla semplice, di considerare i terroristi come folli o come bestie, come assolutamente altri da noi. Non è così: non lo era per i nazisti, come comprese Primo Levi; non lo sono nemmeno i vendicatori suicidi dell’Islam. Che giocano alla playstation, frequentano palestre e moschee, comprano magari quelle stesse merci che simboleggiano lo sfrenato consumismo occidentale. Fino però al giorno in cui si radicalizzano, gettandosi a capofitto nella spirale del fanatismo. Un percorso che spesso non è nemmeno lungo, che non richiede un indottrinamento particolarmente approfondito, ma che versa fiumi di benzina in quel vuoto che nessuna emancipazione sociale, economica o giuridica promette di colmare, e che in mancanza di uno spazio politico percorribile si fa incendio. Vogliono di più, vogliono sentirsi integri, giusti, puri. Vogliono disprezzare tutto ciò che ai loro occhi appare immorale, debole, meschino. E vogliono passare all’atto, combattere gli infedeli, rovesciare le democrazie atee dell’Occidente.
Hanno nomi stranieri, difficili da pronunciare, che li gettano inevitabilmente in una grande lontananza da noi. Ma l’estetica della violenza, la volontà di potenza, il vincolo di fratellanza che li stringe in un’unica sorte li abbiamo già conosciuti. E li abbiamo chiamati: fascismo.
(Il Mattino, 21 agosto 2017)