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L’autorevolezza e la condivisione da recuperare

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David Hockney, We Two Boys Together Clinging (1961)

La nomina del nuovo Capo della Procura di Napoli, Giovanni Melillo, non è arrivata prima dell’estate, come aveva auspicato il vice-Presidente del CSM, Legnini, ma è infine arrivata, e con un consenso più ampio di quello preventivato alla vigilia. Non c’è stato voto unanime, bensì «voto consapevole», così ha detto Legnini, ed è davvero da augurarsi che sia in tutti la consapevolezza di quanto sia difficile, e complesso, il lavoro che attende il nuovo Procuratore. Non solo per i cronici problemi organizzativi che affliggono la Procura più grande d’Italia, chiamata a fronteggiare estesi fenomeni di criminalità organizzata, di criminalità comune, di criminalità minorile, e insieme emergenze come quella ambientale – lo si è visto in queste settimane – che mettono a dura prova un territorio già segnato da profonde condizioni di degrado, ma anche per le partite, spinosissime, che le inchieste avviate da questa Procura ha aperto.

Prima fra tutte, naturalmente, l’inchiesta su Consip e il cosiddetto sistema Romeo, che ha lambito il Presidente del Consiglio Matteo Renzi prima di finire pressoché sepolta sotto una valanga di dubbi, tra fughe di notizie a ripetizione e incredibili manipolazioni del materiale raccolto tramite le intercettazioni. L’inchiesta continua a tenere banco dopo la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, che intervenendo sulla richiesta di scarcerazione dell’imprenditore napoletano ha fra l’altro detto, a chiare lettere, di non aver trovato tracce del presunto sistema. La sentenza della Corte – ne abbiamo parlato sulle colonne di questo giornale – prova a ristabilire un quadro di principi e di garanzie che troppe volte l’attività inquirente, a caccia del risultato, rischia di travolgere: ricorrendo in maniera disinvolta alla custodia cautelare; avanzando ipotesi accusatorie di comodo, formulate al solo scopo di rendere più ampia e invasiva l’attività inquirente. Se si volesse ulteriore conferma delle responsabilità che gravano, in materia, sul Capo della Procura basterà riflettere sulle parole usate dinanzi al Csm da Nunzio Fragliasso, in questi mesi facente funzioni in attesa della nomina del nuovo Capo. Fragliasso ha spiegato che lui era per iscrivere nel registro degli indagati, per traffico di influenze illecite, insieme all’amico imprenditore Carlo Russo, anche Tiziano Renzi. Cosa che peraltro sarebbe in seguito accaduta per iniziativa della procura di Roma. Di diverso avviso sono stati però i pm titolari dell’inchiesta, nonostante la posizione di Tiziano Renzi fosse del tutto analoga a quella di Russo. Come spiegare questo diverso atteggiamento, se non perché indagare il padre dell’ex Presidente del Consiglio per traffico di influenze non avrebbe consentito, in base alla legge, di tenere sotto controllo il suo cellulare? In una vicenda così delicata, in grado di destabilizzare l’assetto politico e istituzionale del Paese, sono state dunque compiute scelte perlomeno opinabili, a detta degli stessi vertici della Procura napoletana. A cui non spetta naturalmente il compito di ridurre l’autonomia e l’indipendenza dei singoli magistrati, stabilita costituzionalmente: non di questo si tratta, ma sì di restituire autorevolezza di guida e condivisione di indirizzi. Autorevolezza e condivisione che forse non hanno costituito negli ultimi mesi e anni argine sufficientemente alto e robusto per incanalare il lavoro dei pm nel loro alveo naturale.

E infatti le inchieste sono tracimate un po’ ovunque, coinvolgendo per mille rivoli un’intera classe dirigente. Se oggi la notizia della nomina del nuovo Capo della Procura apre «Il Mattino» è perché queste vicende sono state epicentro di una crisi profonda nei rapporti fra giustizia e politica. E non solo. Dalla Procura napoletana sono stati tirati in ballo tutti o quasi: esponenti politici di spicco, ma anche vertici delle forze dell’ordine, vertici degli ordini professionali, autorità portuali, dirigenti ospedalieri, amministratori locali. Peccato però che di risultanze processuali se ne siano viste davvero pochine, a fronte di una mole amplissima di indagini che non hanno mai smesso di alimentare le cronache giudiziarie, e di formare quindi, e allarmare, la pubblica opinione. Una simile sproporzione contiene una distorsione preoccupante, che altera la fisiologia dei rapporti fra i poteri, e ha per giunta l’effetto non secondario di allontanare energie, intelligenze e professionalità da una sfera pubblica sempre più rappresentata come i bassifondi di una società deliquenziale.

Non è l’unica sproporzione. Lo scorso anno il Csm, in visita nel distretto giudiziario di Napoli, si è soffermato sulle molte criticità ed emergenze degli uffici, e in particolare sul numero abnorme di sentenze passate in giudicato e rimaste ineseguite, con danno per la sicurezza pubblica ma anche per l’economia. In un territorio a così alta densità criminale, un simile schiaffo alla giustizia è intollerabile. Ed è ovvio che non solo i cittadini, ma anche la magistratura inquirente, quanto quella giudicante, ne traggono motivo di sconforto e di desolazione. È importante che anche su questi aspetti, che concernono l’efficienza e l’efficacia della giustizia, si ascoltino le voci dei capi degli uffici. Al nuovo Capo della Procura toccherà dunque anche rimotivare la squadra, gli aggiunti, i coordinatori, i sostituti, fissare gli aspetti organizzativi, concertare i rapporti con gli uffici giudicanti, razionalizzare le risorse, declinare le specializzazioni, individuare le priorità, e in generale assicurare un esercizio corretto e uniforme dell’azione penale.

Un compito enorme, che è bene cominciare subito. Perché chi ben comincia è già a metà dell’opera: il detto è ispirato a un certo ottimismo, ma per una volta vogliamo consentircelo.

(Il Mattino, 28 luglio 2017)

Una lezione di diritto e di storia

 

Banchetto

Mannuel Blasco, Banchetto offerto da Picasso in onore di H. Rousseau, Il Doganiere (1960)

La sentenza della Cassazione di accoglimento del ricorso di Alfredo Romeo contro l’ordinanza di custodia cautelare a suo carico contiene una piccola lezione di diritto, che conviene seguire nei suoi snodi principali. Romeo – lo si ricorderà – è finito in carcere accusato di condotte corruttive nell’ambito di un’attività investigativa che, partita dagli appalti all’ospedale Cardarelli, si è poi estesa ai rapporti con la centrale di acquisti pubblici Consip. La rete delle intercettazioni è stata gettata per pescare di tutto e di più, e nell’indagine è finito dentro anche il padre di Matteo Renzi, Tiziano, su cui si indaga per traffico di influenze illecite. Nel corso degli ultimi sei o sette mesi se ne sono però viste di tutti i colori: la Procura di Roma – per competenza divenuta titolare della parte dell’inchiesta che riguarda Consip – ha di fatto sconfessato il lavoro svolto dal Noe dei Carabinieri a cui la Procura napoletana aveva affidato le indagini; clamorose fughe di notizie si sono moltiplicate, intrecciate, accavallate; il pm napoletano John Henry Woodcock è finito sotto indagine disciplinare; infine, e soprattutto, il lavoro dei pm romani ha portato alla luce gravi manipolazioni del contenuto delle intercettazioni allegate all’inchiesta, opera del capitano Scafarto, con livelli di responsabilità tutti però ancora da chiarire.

Cosa c’è ora di nuovo nel pronunciamento della Cassazione? Una gragnuola di dubbi sul modo in cui si è proceduto sin qui. La Cassazione si rivolge al Tribunale del riesame, invitandola a riconsiderare i motivi del ricorso. E già qui c’è una prima lezione: contro un certo andazzo a motivare “in fotocopia” i provvedimenti, la Suprema Corte ricorda che l’apprezzamento del Tribunale deve essere «autonomo». Ciò in breve significa che se in fase di indagini preliminari sono state autorizzate intercettazioni (il cuore dell’indagine, per non dire il suo intero contenuto), non basta che il Tribunale faccia in seguito propria quell’autorizzazione: in presenza di eccezioni della difesa deve prendersi il disturbo di riconsiderare la materia per offrire una «autonoma valutazione» della legittimità delle captazioni effettuate.

Non basta. La Corte trova necessario ricordare che le intercettazioni non si autorizzano ex post, sulla base di quello che risulta dall’acquisizione del loro contenuto. Quindi, anche se l’ipotesi accusatoria dovesse in seguito cadere o essere riformulata, non per questo verrebbe meno il fondamento di legittimità di quegli atti. Si tratta di un principio di elementare buon senso, oltre che di diritto, che però viene sistematicamente utilizzato in modo furbesco. E la Cassazione non lo manda a dire. Spiega anzi in modo del tutto esplicito che soprattutto nell’impiego di strumenti di captazione particolarmente invasivi (i cosiddetti trojan informatici),  ci vuole un «onere motivazionale rafforzato». Non va bene – dice insomma la Cassazione: e meno male che lo dice! – che certi fatti si inquadrino sbrigativamente come fatti di criminalità organizzata allo scopo non di perseguire davvero l’ipotesi accusatoria, ma di vedersi autorizzare le intercettazioni. Questo è un altro, cattivo andazzo a cui la sentenza di ieri cerca per fortuna di mettere uno stop. Lo fa naturalmente affermando «un quadro di principi», ma non è ovviamente un caso che lo faccia proprio in questa circostanza, a proposito del caso Consip.

L’ultima lezione riguarda la custodia cautelare. Qui il giudizio della Corte è particolarmente severo, e colpisce ancor più in quanto vi è stata di recente, nel 2015, una riforma legislativa volta a rendere più stringenti e più rigorosi i motivi che rendono possibile l’adozione della misura. Se in materia di intercettazioni la politica fatica maledettamente a mettere paletti, in materia di custodia cautelare la politica i paletti ha cercato di metterli, ma a quanto pare ci pensa la magistratura a dribblarli. Evidentemente la riforma non è entrata nella cultura e nella prassi dei giudici italiani. La Cassazione infatti è costretta a ricordare che si può mandare in carcere qualcuno prima del processo se il pericolo di inquinamento delle prove è «concreto». Poi però aggiunge che non bisogna nemmeno che questo concreto pericolo si risolva in una mera «clausola di stile» priva di significato, come invece troppo spesso accade, ad esempio quando ci si limita a richiamare i molteplici fronti investigativi in cui l’indagato è coinvolto per desumerne una qualche pericolosità.

Qui, però, in maniera niente affatto accidentale, arriva anche un’ultima, forte critica all’inchiesta napoletana: la Corte infatti dichiara di non comprendere dall’ordinanza impugnata «di quali contenuti operativi consista ed in quali forme e modalità concrete s’inveri il “metodo”, o il “sistema” di gestione dell’attività imprenditoriale da parte del Romeo». Se non si vede il metodo, non si scorge il sistema, c’è il rischio – questo sì concreto – che gran parte delle accuse costruite per tirar dentro un’unica trama di aderenze connivenze e influenze l’imprenditore e il pubblico funzionario, il politico e il faccendiere, il parente e il generale, e insomma Napoli e Roma, gli affari e la politica, sia destinato a cadere come un castello di carte. Quest’ultima però non è una lezione di diritto, ma se mai una desolante lezione di storia. La storia politica e giudiziaria di questi anni, che ancora deve essere scritta.

(Il Mattino, 26 luglio 2017)

Consip, le fughe di notizie fanno una matrioska

fuga

 

L’ultima è l’indagine della Procura di Napoli per rivelazione di segreto d’ufficio, in relazione alla pubblicazione del libro di Marco Lillo sul caso Consip, uscito nelle scorse settimane. Comincia ad essere difficile tenere il conto di tutte queste fughe di notizie. Ma è un fatto che i rivoli lungo i quali è continuata a scorrere la materia dell’inchiesta si sono moltiplicati nel tempo, e l’acqua arriva ormai da tutte le parti, e quando stai per dire: ecco, adesso smette, non fai in tempo ad aprire bocca che l’acqua torna con violenza. Non è la malacqua che inonda Napoli nel bellissimo romanzo di Nicola Pugliese, ma è l’acqua che attorno a questo caso non ha mai spesso di venir giù, e che per la prima volta spinge la Procura napoletana a cercare di trovare il rubinetto che perde: è una notizia anche questa. Una prima volta. Che purtroppo fotografa ancora una volta una situazione confusa, complicata, tesa, in cui si trova ormai da mesi il Palazzo di Giustizia partenopeo, secondo alcuni divisa in partiti, con riflessi inevitabili sulla complessiva efficienza ed efficacia della sua azione, secondo altri semplicemente costretta ad un’affannosa rincorsa degli eventi, la cui gravità è, peraltro, difficile sovrastimare. E intanto sono giorni centoquarantanove che si attende un nuovo Capo dell’Ufficio.

L’ultima fuga di notizie riguarda l’informativa riservata di mille e passa pagine del 9 gennaio scorso stesa dal Noe (il nucleo dei carabinieri a cui il Pm Woodcock aveva affidato le indagini su Consip), informativa che secondo gli avvocati dell’imprenditore Romeo starebbe al centro della ricostruzione giornalistica offerta da Lillo nel suo recentissimo instant book. Ma prima c’è stata la fuga di notizie che permise a Marco Lillo, nello scorso dicembre, di firmare lo scoop sul caso Consip, dando la notizia di un possibile coinvolgimento del padre di Matteo Renzi, Tiziano, prima ancora che questi venisse raggiunto da un avviso di garanzia. La fuga di notizie di dicembre ne rivelava a sua volta un’altra: quella che aveva permesso all’amministratore delegato di Consip, Marroni, di bonificare il suo ufficio, e per la quale è finito sotto inchiesta, fra gli altri, il ministro Luca Lotti. Ma grazie a un’altra fuga di notizie noi sappiamo che dalle parti di quella stessa Procura che indagava sulla fuga di notizie denunciata da Marco Lillo (sulla base, come s’è detto, di una fuga di notizie che gli permetteva di fare lo scoop, e di portare il caso alla ribalta nazionale), cioè dall’iniziativa del capitano Scafarto di informare i servizi, già nello scorso agosto, potrebbe essere venuto l’innesco della fuga di notizie arrivata fino all’orecchio di Marroni, che ebbe il non trascurabile effetto collaterale di estendere il raggio dell’inchiesta fino ai piani alti della politica nazionale, messi a rumore dalle notizie incontrollate che giungevano da Napoli.

Qui finisce, per ora, la matrioska delle fughe di notizie e comincia invece quella delle imprese del capitano Scafarto (che questa volta non seguiremo nel dettaglio: ne facciamo grazia al lettore), responsabile di gravi manipolazioni nelle carte dell’inchiesta. E comincia pure il capitolo dei contrasti fra la Procura di Napoli e quella di Roma, reso pubblico – ad onta dei comunicati ufficiali – con la revoca delle indagini al Noe, subito dopo il trasferimento di competenze nella Capitale, e culminato pochi giorni fa nell’avviso di garanzia al Pm napoletano Woodcock (per la fuga di notizie di dicembre).

Ottimo e abbondante, diceva del rancio un ruffianissimo Sordi ne «La grande guerra». E invece è uno schifo, rispondeva burbero il generale: niente grassi e poca pasta, una sciacquatura di marmitte. Poi però il generale, lontano dalle truppe, ammetteva che meglio di così quella brodaglia proprio non la si poteva fare, e che aveva inteso dare solo un contentino alle truppe.

Ecco: decida il Csm, che oggi dovrebbe provare a trovare un’intesa sul nome del nuovo capo della Procura, se tutta la malacqua che in questi mesi si è continuata a riversare sui giornali merita di essere considerata ottima e abbondante, o se invece non sia uno schifo. Ma soprattutto decida se davvero non si possa fare nulla, e se lasciare la Procura di Napoli senza una guida per i prossimi mesi sia accettabile, in una situazione del genere. Una situazione che richiederebbe il massimo di tranquillità, di unità, di compattezza, e che invece vede aprirsi continuamente nuove falle. Non mancheranno certamente le voci che daranno all’opinione pubblica piena garanzia che il lavoro procede in maniera serena, ordinata e regolare, e non vogliamo affatto dubitarne. Non possiamo però non augurarci che si vada oltre le assicurazioni di rito, si trovi il modo di superare l’impasse che impedisce al Csm di arrivare a una nomina, e alla Procura più grande d’Italia, ricca di altissime professionalità e di grandi competenze e capacità,  la possibilità di ripartire con il piede giusto.

(Il Mattino, 6 luglio 2017)

L’altra faccia della gogna

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Tanto tuonò che piovve. Per presunte irregolarità che graverebbero non solo sull’inchiesta Consip, ma anche su quella che ha riguardato, circa due anni fa, la cooperativa Cpl Concordia, il Consiglio Superiore della magistratura ha aperto un’indagine, affidata alla prima Commissione: quella che si occupa, in particolare, di trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale. Sotto osservazione finisce dunque il lavoro del Pm John Woodcock, titolare di entrambe le inchieste.

Cosa hanno che non vanno, quelle inchieste? È presto per dirlo, e comunque non compete al Csm occuparsene nel merito. Ma le similitudini sono impressionanti, e gettano dubbi serissimi sul metodo di conduzione delle indagini. Perché nell’uno e nell’altro caso ci sono state fughe di notizie clamorose, che hanno provocato enorme rumore nell’opinione pubblica, giungendo a lambire tutte e due le volte Matteo Renzi. Nell’uno e nell’altro caso si sono trovati errori: causali o no che fossero (e francamente viene sempre più difficile crederlo), quegli errori non erano privi di conseguenze, ma anzi giustificavano le qualificazioni giuridiche dei fatti che potevano autorizzare da un lato il mantenimento della competenza in capo alla procura napoletana, dall’altro l’uso esteso di intercettazioni che a prescindere da qualunque rilevanza penale arricchivano il racconto mediatico. E tutte e due le volte c’è stato in seguito passaggio di competenze; nel caso delle opere da affidare alla Cpl Concordia non ci sono poi stati i tanto attesi sviluppi giudiziari; nel caso di Consip ancora non si sa.

Ma quello che si sa, evidentemente, è già abbastanza perché il compassato Csm non se ne stia più semplicemente alla finestra. C’è  il timore che in una Procura della Repubblica italiana si cucinino con enorme spregiudicatezza prove per portare avanti inchieste che toccano i più alti vertici dello Stato: l’organo di autogoverno della magistratura ha il dovere di intervenire con ponderatezza ma anche con la massima tempestività, come si usa dire. È difficile, infatti, immaginare un motivo di conflitto tra politica e giustizia più grave di questo.

Il punto vero però non è Renzi, il padre Tiziano o i petali del giglio magico. E non è neppure Luca Lotti, investito dalla grave accusa di aver informato l’ad di Consip Luigi Marroni dell’esistenza di un’indagine che lo riguardava. Ieri in Senato, il ministro dello Sport e il partito democratico hanno tirato un gran sospiro di sollievo, perché mentre i bersaniani di Mdp sparavano ad alzo zero contro Lotti, esponenti del centrodestra votavano insieme con la maggioranza la mozione che impegnava il governo a rinnovare i vertici della Consip. È evidente che in quest’ultimo scorcio di legislatura i fuoriusciti dal Pd provano a dimostrare che può esistere una formazione politica a sinistra dei democratici, e che anzi il Pd di Renzi ha poco o nulla il cuore a sinistra, tanto è vero che prende i voti del centrodestra e si prepara a governare con Berlusconi. Un pezzo di questa dimostrazione si è voluto fornire ieri.

Ma tutta questa partita giocata sullo spartiacque rappresentato ormai quasi per antonomasia da Matteo Renzi, poco o nulla c’entra con l’orgasmo giustizialista che raggiunge il suo acme sui media, piuttosto che nel luogo deputato dell’aula di tribunale. Se si fa lo sforzo di proseguire la lettura dei quotidiani oltre l’attualità politica, fino alle pagine di cronaca, ecco infatti quel che si trovava ieri: che per le presunte tangenti su appalti Trenitalia sono andati assolti tutti e tredici gli imputati che avevano dovuto affrontare il processo. Eppure sette anni fa erano fioccate accuse pesanti a carico di dirigenti e imprenditori. Ed erano state spiccate ordinanze di custodia cautelare per alcune delle persone coinvolte. L’anno dopo, nel 2011, era cominciato il dibattito. Che ieri però si è conclusa con la formula: il fatto non sussiste.

Per dirla poeticamente: un altro sentiero che finisce nel nulla. Ma quanta sofferenza, e quanta ingiustizia ha prodotto l’indagine? Ieri l’ingegnere Raffaele Arena, uno di quelli che si svegliarono sette anni fa con la guardia di finanza alla porta di casa, pronta a tradurlo in carcere, ha raccontato a questo giornale l’angoscia, il dolore e la vergogna provata. Una vita distrutta, una carriera annientata, e il compagno di cella che ti dà una mano perché tu non dia seguito a propositi suicidi. Dinanzi a queste sventure, non si può rispondere che sono cose che capitano.  Non può capitare che qualche innocente ci finisca di mezzo per la cattiva convinzione che l’opinione pubblica sostiene, e a volte finanche acclama: che dove circola denaro pubblico c’è per forza corruzione, e politici e funzionari sono già solo per questo colpevoli, si tratta solo di beccarli. Questo giubilo che accompagna le accuse, quando si riversano sui giornali, è l’opposto della giustizia e del diritto. E siccome si alza quando gli imputati sono eccellenti, copre e giustifica tutte le storture del sistema: le intercettazioni irrilevanti date in pasto ai giornali, le indagini prive di concreti elementi di prova, le disfunzioni e i ritardi degli uffici, i processi che non finiscono mai. Ma chi ne soffre di più non sono i potenti, sono tutti gli altri. Anzi: siamo noialtri, e sono tutti coloro che rischiano di finire stritolati dalla presunzione di colpevolezza che purtroppo finisce per accompagnare ogni processo.

(Il Mattino, 21 giugno 2017)

Il caso Consip, la Polizia e i cavalieri senza macchia

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Con il titolo: «Io servo lo Stato, non il governo», «Repubblica» ha pubblicato ieri, nelle pagine interne, un’intervista al Capo della Polizia Franco Gabrielli che avrebbe meritato la prima pagina. Gliela diamo noi oggi. Non potendo citarla per esteso, ci limitiamo a riproporne un brano su cui vale la pena soffermarsi, il seguente: «il livello di disonestà intellettuale utilizzato nella vicenda Consip per sostenere che in questo Paese esistono pochi cavalieri bianchi le cui mani vengono legate da vertici di Polizia corrivi con la Politica e le sue convenienze, servi di un progetto eversivo che avrebbe dovuto cambiare prima la Costituzione e poi mettere in un angolo la magistratura, è pari solo allo sconforto che provo pensando al pregiudizio da cui questa falsità muove».

Si tratta della vicenda Consip. Che però viene collocata dal Capo della Polizia in un contesto molto più grande, in cui si muoverebbe chi trama per fermare un progetto politico che con la connivenza dei vertici di Polizia avrebbe puntato a cambiare in senso eversivo la Costituzione e a colpire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (che tuttavia, giova ricordarlo, non era minimamente toccata dalla riforma costituzionale sottoposta a referendum).

Gabrielli non dice se pensa a settori dell’opinione pubblica o a corpi dello Stato. Ma proprio tra le pagine di «Repubblica» (e degli altri quotidiani che ne han riportato la notizia, come «Il Mattino») si trova un brano della possibile risposta. Nuove rivelazioni hanno infatti riguardato ieri la figura del capitano Scafarto, responsabile di manipolazioni nella trascrizione delle intercettazioni che puntavano a inguaiare il padre del Presidente del Consiglio, Tiziano Renzi. Finora stava ancora in piedi, almeno a livello teorico, l’ipotesi che le falsificazioni fossero dovuto a errori materiali, a fretta o a negligenza. Trattandosi di un’indagine che lambiva le massime cariche dello Stato, era già da chiedersi come il Noe, il nucleo investigativo del capitano Scafarto, potesse continuare a godere di così piena fiducia da parte della Procura napoletana e dei pm che conducevano l’inchiesta. Ma ieri si è saputo che la Procura di Roma, che indaga sull’operato del prode capitano, gli ha contestato messaggi da cui trasparirebbe in maniera evidente, per non dire letterale, il carattere intenzionale della manipolazione, orchestrata per mandare in galera Tiziano Renzi. Questo Scafarto chiede infatti ai colleghi di reparto di verificare da chi fosse stata pronunciata la famosa frase sull’incontro con Tiziano. E avuta conferma che a pronunciarla era stato non Romeo, ma Bocchino, Scafarto avrebbe chiesto di poter avere lui stesso le trascrizioni, per poi modificarne il senso in modo da ricondurre la frase all’imprenditore ora in carcere. Se confermato, non vi sarebbe altro modo per descrivere un simile comportamento se non: fabbricare prove false a carico di un familiare del premier, per distruggerne la figura politica. Domanda: è di questa pasta che è fatto il partito dei cavalieri bianchi che combattono a difesa della legalità? Se è così, è in gioco molto di più di una semplice disonestà intellettuale.

Ovunque vadano a parare indagini che sono ancora in corso, siamo di fronte a scenari che definire inquietanti equivale a minimizzare. Difficile trovare episodi di uguale gravità nel passato recente. Il fatto che Gabrielli debba concedere una lunga intervista, nel corso della quale lascia intravedere quali possano essere le motivazioni dei bianchi cavalieri per costruire simili macchinazioni (fermare Renzi, colpire chi vuole mettere la mordacchia alla magistratura), non può non destare il più vivo allarme. Tanto più che Gabrielli è costretto a scendere in campo non certo per difendere il potere politico, ma solo per difendere il suo onore e quello della polizia.

In discussione è infatti la norma, introdotta lo scorso anno, che prevede l’obbligo per la polizia giudiziaria di trasmettere lungo la scala gerarchica le notizie sulle informative di reato. In parole povere, a seguire gli sviluppi delle indagini non è solo la magistratura ma anche la polizia. Questa norma è avversata dal CSM, che la vorrebbe modificare perché vi ravvisa – spiega Gabrielli – «un tentativo fraudolento di sterilizzare l’azione della magistratura. Una grave interferenza nel segreto delle sue indagini. Come se il sottoscritto e i vertici delle forze dell’ordine non avessero giurato fedeltà alla Costituzione, ma alla maggioranza di governo del momento». Di nuovo: sono parole che per la loro gravità meriterebbero la prima pagina. Ma Gabrielli ha ragione da vendere. E non ha solo le ragioni di un servitore dello Stato, la cui lealtà non può essere messa in dubbio, e quelle del buon senso, dal momento che, oltre ad essere offensivo, è pure sciocco credere che il capo della Polizia non abbia comunque, da prefetti e questori, le notizie che gli consentono il pieno esercizio delle sue responsabilità, ma ha anche le ragioni che il caso Consip mette purtroppo sotto i nostri occhi: nuclei investigativi che finiscono alle dirette dipendenze del pm di fiducia, che stringono con lui un rapporto diretto e personale all’ombra del quale possono, a quanto pare, depistare indagini o costruire prove false.

Sia chiaro, il Csm non difende nessuna delle alterazioni compiute nel corso delle indagini napoletane su Tiziano Renzi. Difende però un potere, quello del pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari, di disporre direttamente e pienamente della polizia giudiziaria senza interferenze e senza, soprattutto, che intervengano altri profili di responsabilità, in una relazione che vicende come il caso Consip mostrano però quanto intimo, anzi arbitrario e incestuoso, possa diventare quel rapporto, e quanto sostegno possa dare al protagonismo di certa magistratura requirente. Che, in un sistema che non prevede la separazione delle carriere, gode della stessa autonomia di statuto del giudice, ma finisce con l’avere in più, nella fase preliminare in cui incomparabilmente maggiore è la sua libera discrezionalità nel portare avanti le indagini, una guardia scelta di pretoriani nella propria stretta disponibilità.

Così succede che mentre l’attuale ordinamento viene difeso con l’argomento dell’unitarietà della cultura della giurisdizione, che pm e giudici devono condividere (ma a proposito: che fine fa, in questa bella condivisione, l’avvocato? Che parte rimane alla difesa?), nel Paese e presso l’opinione pubblica finisce col prevalere un’unica, monolitica cultura: quella dell’accusa, al punto che perfino Franco Gabrielli, il capo della Polizia, si vede costretto a doversi difendere sdegnato sulle pagine di un giornale.

Quelle ombre che offendono la democrazia

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Una manipolazione deliberata: con questa ipotesi accusatoria i magistrati romani hanno sentito ieri il capitano Gianpaolo Scarfato, del Noe, il nucleo investigativo dei carabinieri che aveva condotto le indagini sul caso Consip, fino alla revoca da parte della Procura di Roma. Se l’accusa dovesse essere confermata, si disegnerebbe uno scenario a dir poco allarmante, in cui un’inchiesta viene orientata da tentativi di depistaggio condotti al fine di colpire Tiziano Renzi, e, indirettamente, il Presidente del Consiglio dell’epoca. Attribuendo falsamente all’imprenditore Alfredo Romeo una frase pronunciata in realtà dal suo consulente, l’ex politico Italo Bocchino, si voleva evidentemente costruire un rapporto che giustificasse il sospetto di traffico di influenze, il reato per il quale Tiziano Renzi è stato raggiunto da un avviso di garanzia. E su cui tutta la stampa si è gettata, come una muta di cani all’inseguimento della ambita preda.

Ma più preoccupante ancora – per i poteri pubblici e per l’ordinamento democratico – è che questa storiaccia non sarebbe saltata fuori se il capo della Procura di Roma non avesse preso l’iniziativa di togliere l’indagine al Noe, a seguito di una fuga di notizie che evidentemente a Roma avevano qualche ragione di ritenere ispirata dagli ambienti napoletani. Qualche ragione, e una grandissima lungimiranza.

Quando si diffuse la clamorosa notizia della revoca, scrivemmo già che qualcosa tra Napoli e Roma non doveva essere andata per il verso giusto: ci sono motivi – ci chiedevamo – per cui a Roma non vogliono più saperne del Noe?  C’è da vedere, nei motivi del loro impiego, un particolare affiatamento con i magistrati del pubblico ministero, oppure «siamo dinanzi a uno scenario assai inquietante, in cui ciascuno si fida solo dei suoi, e Roma non si fida più di quelli di Napoli?».

Parlavamo infine di una girandola di dubbi e di illazioni: ora quella girandola ha ripreso vorticosamente a girare. Ed è difficile sopravvalutare la gravità dello scenario che emerge in queste ore: non per iniziativa di parti politiche interessate, ma per le verifiche condotte dai pm romani.

È inutile dire che ad essere lesa da simili operazioni e a riceverne un danno, qualora dovessero essere confermate, è in primo luogo la magistratura, la sua funzione di autonomia e indipendenza: storicamente pensata come un  argine costituzionale alle prevaricazioni del potere esecutivo, rischia di divenire un riparo all’ombra del quale diverrebbe possibile condurre operazioni più che torbide nei confronti di altri poteri dello Stato.

Non bisogna rendere giudizi affrettati e non bisogna correre subito alle conclusioni, ma è bene tuttavia avere chiara quale partita è in gioco. Colpisce infatti quello che in questi mesi è accaduto, e quello che evidentemente continua ad accadere. Anche perché, lo si ricorderà, questa non è la prima volta che il nome di Matteo Renzi finisce sui giornali per vicende giudiziarie poco chiare, alimentate da intercettazioni che immancabilmente finiscono sui giornali, con i quali si cucinano titoli e si fabbricano opinioni poi difficili da cancellare, e che in seguito si scoprono manifestamente infondate. La prima volta è stata con l’inchiesta Cpl-Concordia, per appalti vinti dalla cooperativa emiliana a Ischia. E anche in quel caso: nastri, intercettazioni, trascrizioni, e un castello di accuse finite in nulla dopo il trasferimento dell’inchiesta per competenze in Emilia.

Ora, a quanto pare, ci risiamo.

Lo abbiamo scritto un mese fa, e lo scriviamo di nuovo adesso: gettiamo acqua sul fuoco, aspettiamo di vederci più chiaro e diamo credito alle iniziative delle Procure. Ma fermiamoci anche a riflettere su quanto pesanti sono queste distorsioni della vita pubblica del Paese, sul modo in cui inquinano – perché di inquinamento si tratta – la normale dialettica politica e la stessa tenuta democratica del Paese. Nessuno parlerà dunque di complotti o di trappole. Se risulterà che la manipolazione c’è effettivamente stata e sarà possibile parlare magari di errore materiale, di svista, persino di dabbenaggine, per carità di Patria: facciamo ogni sforzo per prendere per buona una simile versione e tiriamocene fuori. Però non lasciamo cadere gli interrogativi che questa vicenda pone, e teniamoli presenti, almeno, alla prossima riapertura del circo mediatico-giudiziario. Alla prossima iniziativa di qualche pm in cerca di notorietà, alle prossima pietanze che ci verranno servite sul piatto sempre ricco del giustizialismo nostrano. Facciamolo, perché ne va della libertà e dei diritti di tutti.

(Il Mattino, 11 aprile 2017)

Le indagini al tempo della gogna

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Procedimento al momento contro ignoti, e revoca dell’indagine al Noe dei Carabinieri. Si vedrà in seguito quale sviluppo avrà la clamorosa iniziativa della Procura di Roma, ma si vede già adesso che qualcosa di grave è accaduto, visto che le indagini sono passate dal Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, cui le aveva delegato la Procura di Napoli, al Nucleo investigativo di Roma dell’Arma. Ci sono motivi per cui a Roma non vogliono più saperne del Noe? Da Napoli il procuratore reggente, Nunzio Fragliasso, fa sapere naturalmente che c’è perfetta sintonia fra i due uffici inquirenti. Ma qualcosa di distonico deve essere per forza accaduto lungo l’Appia antica, nel passaggio di competenza da Napoli a Roma, visto che quello che Roma ha coperto con omissis, nei provvedimenti adottati in questi giorni, è finito ugualmente sui giornali. La girandola dei dubbi e delle illazioni cresce: che c’azzecca, avrebbe detto il Di Pietro dei bei tempi, il nucleo operativo che si occupa di tutela dell’ambiente con la materia Consip, gli appalti e tutto il resto? C’è da vedere nei motivi del loro impiego un particolare affiatamento con i magistrati del pubblico ministero, com’è normale nel funzionamento di qualunque ufficio, oppure siamo dinanzi a uno scenario assai inquietante, in cui ciascuno si fida solo dei suoi – e Roma non si fida più di quelli di Napoli?

Mentre pongo questo interrogativo, mi accorgo che l’essere anche solo arrivati dinanzi a un punto di domanda del genere indica già che una china pericolosissima è spalancata innanzi al Paese, e grande è il rischio di finirci dentro inseguendo la ridda di indiscrezioni ed ipotesi che si affollano in queste ore. La Procura di Napoli fa bene a provare a gettare acqua sul fuoco, così come quella di Roma fa bene a far filtrare soltanto motivi di malumore e irritazione e nulla più.

Ma se un normale cittadino, per qualunque motivo raggiunto da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, fosse messo dinanzi all’interrogativo che ho prima formulato, credo che sarebbe semplicemente atterrito all’ipotesi di una conduzione delle indagini non dico privatistica, ma fondata su rapporti fiduciari di tipo personale. Un timore che nessuno dovrebbe mai nutrire, un pensiero che in uno stato di diritto non dovrebbe mai potersi affacciare alla mente di qualcuno. In questo caso, invece, non solo è inevitabile che si affacci, ma siccome non parliamo soltanto di semplici cittadini, ma di personaggi pubblici, non c’è riga che esca sui giornali che non abbia dirompenti effetti politici: non c’è allora da fermarsi un attimo e da riflettere allarmati? È possibile che l’Italia debba infilarsi per l’ennesima volta in un tunnel fatto di rivelazioni di segreti investigativi, di uso indebito delle intercettazioni, di fango nel ventilatore che schizza da ogni parte, a prescindere da qualunque risultanza processuali o rilevanza penale?

È possibile che dobbiamo orientarci su scenari tanto opachi, tanto limacciosi? E infatti: c’è già quello che tira fuori la profezia di D’Alema di due anni fa, che Renzi sarebbe caduto per mano giudiziaria (profezia invero facile a farsi, in Italia, vista la frequenza con cui queste cadute si sono prodotte nel nostro Paese), quell’altro che ricomincia a parlare di complotti e poteri forti – un must della politica italiana –, quell’altro ancora che sposta invece l’attenzione sullo scontro in atto tra i carabinieri, con il coinvolgimento del Comandante Generale, Tullio Del Sette, appena prorogato alla guida dell’Arma. Del Sette è pure quello che aveva esautorato il capitano Ultimo dalla guida del Noe. Spostato ai servizi, dove ritroviamo adesso il capitano? Proprio nell’indagine del Noe che, tra gli altri, ha tirato in ballo pure Del Sette, per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. C’è di che rimanere sconcertati.

Fermarsi a riflettere, dicevo. Evitare, per quanto è ancora possibile, di condurre la lotta politica sulla base di questi materiali. Evitare la barbarie giustizialista che spicca una sentenza di colpevolezza a carico di chiunque veda il suo nome trascritto in qualunque atto d’indagine. Evitare insomma di mettere inavvertitamente nelle tasche sempre più magre della democrazia, insieme al pezzo di carta ritrovato dai carabinieri con le sigle e le cifre, il sasso che la manda definitivamente a fondo.

I miracoli non sono fatti per convertire, diceva Pascal, ma per condannare. Così è anche per tutta la materia che dalle Procure finisce in pasto all’opinione pubblica: è fatta non per informare, ma per condannare. E una cosa è certa, ahimè: di miracoloso non vi è proprio nulla nella fuga di notizie che infiamma il dibattito pubblico.

(Il Mattino, 6 marzo 2017)

Qualche domanda alla sinistra

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Quello che si legge in questi giorni a proposito di Tiziano Renzi e Luca Lotti proviene pari pari da note informative stese dai carabinieri: c’è qualcuno che veda un problema, in questo? C’è qualcuno, in questo Paese, che ne tragga un motivo di preoccupazione, qualcuno che osi domandarsi cosa vi sia di liberale, in tutto questo, a quale civiltà giuridica appartenga tutto questo?

Domande da Cassandra, dubbi che nessuno ascolta. Tutta l’intellettualità democratica, di sinistra e perbene prova di nuovo il piacere sottile di mettersi dalla parte della ragione, della morale e della giustizia per dare addosso al potente finalmente sbalzato di sella. Il meccanismo del capro espiatorio scatta ancora una volta. Siccome a prendere la parola sono garantisti a tutto tondo, non mancano mai di aggiungere con il giusto sussiego che i giudizi che rendono prescindono dagli sviluppi giudiziari della vicenda e prendono in considerazione solo l’opportunità politica. E dopo questa premessa chiedono, con finta pensosità: è opportuno questo gran daffare di papà Renzi? È opportuno circondarsi di amici d’infanzia, piazzarne uno qua e uno là? Sono opportune certe frequentazioni, certi incontri, certi finanziamenti? Tutto ciò è inopportuno, si dice. Ma non ci si chiede mai se non sia assai più inopportuno – anzi: profondamente guasto e nocivo per il Paese – alimentare queste domande con le carte passate dai carabinieri. Perché di questo si tratta: non di riscontro o di valutazioni di un giudice terzo, non di intercettazioni che inchiodano a una qualche responsabilità, ma, appunto, di informative, cioè di atti interni all’indagine in cui gli investigatori avanzano sospetti e ipotesi che vengono diffusi prima ancora di acquisire lo status di prove.

Lo spaccato che le indagini offrono appartiene senz’altro alla sociologia del potere politico italiano, e non dice gran che di nuovo. Fornisce se mai la radiografia di una democrazia immatura, asfittica, in cui la tanto famosa circolazione delle élite non manca mai di incepparsi, in cui le relazioni informali, amicali, personali, mantengono una forte vischiosità, in cui piccole ambizioni attecchiscono tenaci e spesso finiscono col sovrastare ogni sincera idealità. Ci sono ovunque – non solo nella società politica ma pure nella società civile – i cerchi magici, i raggi magici, i gigli magici. E dalla politica si vorrebbe che se ne spazzassero via un bel po’.

Ma regolare i conti grazie alle informative delle forze di pubblica sicurezza è un’altra cosa. Alzare la voce e dire la propria dopo l’ennesima propalazione di segreti investigativi tutt’altra cosa. Così ogni discrimine salta, ogni garanzia è travolta. In un regolare processo, qualcuno avrebbe già chiesto: ma i soldi di cui Romeo parla o scrive, dove sono? Qualcuno li ha trovati? È sufficiente che qualcuno provi ad avvicinare una persona per considerarla avvicinata? Basta che qualcuno dica di vedere cosa può fare per considerare la cosa fatta? Non lo è, ovviamente. Ma quando monta la canea, queste appaiono domande ipocrite, distinzioni da Azzeccagarbugli, scrupoli causidici degni di un vecchio gesuita imbroglione. Già: siamo tutti severissimi giansenisti, con la reputazione degli altri.

Nel frastuono che così si produce è ridotta a un filo la voce di Cassandra che ammonisce: badate che non sono prove, non sono processi, non sono sentenze, sono resoconti di indagini che aspettano ancora di essere valutati dalla stessa magistratura, atti che non solo non è detto che reggano in un tribunale, ma che in un tribunale non è neppure detto che arrivino.

Su cosa allora dovremmo regolare il tono della nostra indignazione? Sulle trattorie in cui qualcuno dice, parola sua, di aver visto Tiziano Renzi infilarsi quasi di soppiatto per confabulare segretamente, o sul modo in cui cresce e si alimenta la campagna di stampa, e sugli effetti politici che produce, indipendentemente da eventuali, futuri esiti processuali? Cosa dovrebbe starci più a cuore, che nei prossimi giorni arrivino sui giornali montagne di intercettazioni che inchiodino finalmente i politici alle loro responsabilità, o che il normale corso della vita politica del Paese non sia messo un’altra volta a soqquadro dalle inchieste della magistratura, prima che vengano concluse e in qualunque modo si concludano? E qual è, in definitiva, l’abito che ci piacerebbe indossare, la psicologia con cui volentieri ci identificheremmo: quella dell’inflessibile pubblico accusatore, o quella del mite avvocato difensore?

Questa domanda rivela più di ogni altra di quali umori viva l’attuale momento storico, credo. La verità è che la democrazia dovrebbe, per sua natura, patrocinare la causa dei deboli. Siccome non esercita più questa funzione, o la assolve molto poco, i risentimenti e le invidie che si accumulano si scaricano sul sistema della giustizia. Non potendo la democrazia essere a difesa dei deboli, si fa della giustizia il luogo in cui si accusano i forti (o quelli che appaiono tali).

Ma non è uno scambio salutare, né conveniente, né liberale. Anche perché lascia in realtà i cittadini sullo sfondo, nella sadica posizione dello spettatore, mentre sulla scena (e dietro di essa) si consuma il vero regolamento di conti.

E quando per giunta sarà finito, nessuno ci garantisce che non ci sveglieremo – noi, non Lotti o Renzi – nello stesso, triste mattino di Josef K., che venne arrestato perché qualcuno, ma non si seppe mai chi, doveva averlo diffamato.

(Il Mattino, 4 marzo 2017)