1. Laborem exercens
Uno dei punti più alti della riflessione della Chiesa sul lavoro è la lettera enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Cominciamo allora da lì, dalle prime parole:
“Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature […] Solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie […]. Il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura”.
Franco Monaco ha sostenuto che questa enciclica “centrata intorno alla tesi del primato dell’uomo sul lavoro e del lavoro sul capitale, in palese dialettica con il paradigma capitalista” è forse in grado di riassumere, su questi temi, il senso di un magistero – quello degli ultimi due papi – per nulla “compiacente con il capitalismo”. Poiché però dal corpus dell’insegnamento sociale della Chiesa non è possibile far discendere alcuna opzione determinata per questo o quel sistema economico o politico, non occorre qui corroborare ulteriormente questo giudizio, o richiamare i punti consonanti con le esigenze e le preoccupazioni che nutrono il pensiero delle forze progressiste europee (che pure ci sono, e non sono pochi né irrilevanti), quanto sottolineare la forza filosofica di quell’incipit: “il lavoro costituisce in un certo senso la natura dell’uomo”. L’inciso ha il valore di un’attenuazione. Il latino quadamtenus attenua ancora di più: solo fino a un certo punto, solo in parte il lavoro costituisce la natura umana. Ma resta vero che il lavoro è piantato dentro la natura umana: solo l’uomo è persona che lavora, in un duplice senso: è persona grazie al fatto che lavora, e lavora (e non semplicemente “fa” o “produce”) grazie al fatto che è persona. La difesa della dignità della persona non può quindi prescindere dalla difesa del lavoro, e dei diritti che lo tutelano.
2. La lettera aperta degli intellettuali
Che sia in gioco la natura umana, però, è importante. Di recente, il cardinale Bagnasco ha parlato di catastrofe antropologica del nostro tempo. A questa preoccupazione si sono richiamati (Avvenire, 16 ottobre) Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Beppe Vacca. […] Anche per il Pd, partito di credenti e di non credenti, deve, a loro dire, contare la consapevolezza di una inedita crisi antropologica, radice ultima dell’attuale crisi della democrazia. Ma è chiaro che se nella nostra epoca la natura umana è sottoposta a inedite pressioni, e se il lavoro costituisce quadamtenus la natura umana, allora la preoccupazione per la catastrofe antropologica del nostro tempo non può non riguardare anche il lavoro.
Per questo, porre attenzione ai temi economici e sociali non significa affatto cercare un terreno d’intesa facile fra laici e cattolici, un campo di problemi meno scabroso e più accomodante di quello che riguarda i temi cosiddetti eticamente sensibili (come finiscono col ritenere gli autori citati). Se la natura umana è pro-vocata (in senso etimologico: portata allo scoperto, quindi manipolata), non costituisce una minore provocazione la sua a volte brutale messa a profitto.
3. Tra culturalismo e naturalismo
Ma torno al quadamtenus. La proposta di un nuovo umanesimo sta tutta in questa certa misura, in questa mediazione: nella maniera in cui la si intende e la si pratica, invece di cancellarla -cancellando anche il lavoro dai fondamenti della cittadinanza democratica. Io credo infatti che esso sia ‘saltato’ in due modi diversi, entrambi da respingere. Modi che hanno attraversato il ‘900 e, che si è persino tentati di collocare geograficamente, di qua e di là dall’Atlantico.
Se la dialettica non fosse giudicata un vecchio arnese, si potrebbe stringere in un unico plesso concettuale questi due esiti, opposti e speculari. Per prudenza li dispongo (come da altri è stato già fatto) in successione storica.
1971. Alla tv olandese discutono Michel Foucault e Noam Chomsky. Il primo non vuol sentire parlare di natura umana: il suo culturalismo diverrà, nelle semplificazioni correnti, relativismo e, infine, nichilismo. Il secondo parla quasi soltanto di natura umana, e osa farlo proprio nel campo dove era più difficile riconoscerla, nel campo cioè delle scienze umane e sociali e del linguaggio.
Orbene, è degno di nota che i due siano ‘guru’ dell’intellettualità radicale, pensatori intensamente politici (anche se lontani dalle espressioni organizzate della sinistra storica), ma che nessuno dei due riesca ad apprestare un fondamento di senso all’ideale di società più giusta che pure vorrebbe sostenere. Non il filosofo francese Foucault, per il quale giustizia e verità si risolvono nichilisticamente in effetti di potere, ma neppure lo scienziato americano Chomsky, che restringe la natura umana in uno spazio angustamente individuale, privo di aperture sulla storia e la società, come se il linguaggio e ogni altra manifestazione di senso dell’agire umano si costituissero in via privata, magari solo nel cervello di ciascuno.
4. Fini dell’uomo
Naturalismo e culturalismo non stanno però sullo stesso piano. Il primo è regredito; il secondo avanzato. Come ha spiegato Diego Marconi, nel 1971 l’onda culturalista è al suo punto più alto; ma di lì in poi indietreggia, e prende piede una prepotente tentativo di rinaturalizzazione dell’umano. Tentativo che ha parecchi complici: la fine della storia, cioè delle filosofie della storia di stampo progressista, il successo delle tecnoscienze umane (ingegneria genetica, ingegneria cognitiva) e, non da ultimo, il trionfo del pensiero neoliberista Questo è importante, mi pare, per il nostro seminario: sul piano delle idee, infatti, il neoliberismo non è che una variante del naturalismo riduzionista che – si noti! – la Chiesa combatte sotto tutte le altre forme.
Il neoliberismo si basa su un’idea di individuo avulso dalla storia e dalla società, che può contare legittimamente solo su meriti individuali (i quali meriti sono strettamente naturali, se non devono nulla agli altri uomini), un individuo che persegue esclusivamente la massimizzazione delle proprie private utilità e sta al mercato come all’unico criterio possibile di razionalità sociale. Un individuo rispetto al quale la posizione di dipendenza o di autonomia sul mercato del lavoro rappresenta un dato meramente accidentale e non strutturale. […]
5. Il medio che congiunge
Ora, io credo che il dialogo più profondo con il pensiero religioso nasca anzitutto dall’esigenza di affermare, dal non rinunciare ad affermare che verità, oggettività, senso (ciò di cui è propriamente capace l’uomo) non solo non sono mere preferenze individuali, ma si costruiscono soltanto nel luogo medio dell’esile quadamtenus, solo cioè nel lavoro, là dove storia e natura si mediano l’un l’altra.
Uno di quei luoghi medi che congiungono, per usare i ferri vecchi della filosofia, è infatti l’aratro, l’attrezzo di lavoro (l’esempio è di Hegel). L’aratro, cioè il lavoro nell’oggettività dei suoi mezzi e delle forme della sua produzione, sta a mezzo tra la materia prima da una parte, e i fini meramente soggettivi dall’altra. E costituisce, come direbbe Hegel, la verità, che poi significa l’unico luogo di visibilità, di stabilità e realtà dell’una come degli altri.
Un altro luogo medio è la persona – che sta in mezzo fra l’individuo e la società,
Un luogo medio (non supremo!) è lo stato – che sta in mezzo fra la società civile e la storia.
Lascio perdere la descrizione di questi luoghi (storicamente determinati) e di come essi cambino o siano da cambiare. Qui mi limito a dire che dobbiamo evitare la caricatura del problema, come se la sola scelta possibile fosse fra una troppo pesante gerarchizzazione dei poteri sociali, e una troppo leggera differenziazione funzionale. Ma resta vero che economia, società, politica, così descritti, a partire cioè dal ‘medio che congiunge’, non sono il campo in cui si dispiega l’agire strategico dell’uomo, ma luoghi in cui ne va del senso e dell’umanità dell’uomo. […]
Spogliare l’ambito economico come quello politico di questa valenza antropologica, ridurlo a calcolo strategico o a combinazione di forze meramente individuali significa vederselo sfuggire sul piano teorico: non poterne cioè dare ragione, così come non si può dar ragione dell’esistenza del linguaggio, ma neanche dello stato o della persona, e perfino – faccio per dire – delle società per azioni, a partire da individui atomisticamente considerati. Ma significa anche comprometterli praticamente e politicamente. È così che la crisi di certi modelli di regolazione socio-economica diviene insieme una crisi di senso.
6. Uno spettro si aggira.
[…] È dunque escluso che sia possibile cancellare quei luoghi medi dalla vista sia come oggetti teorici che come orizzonti pregnanti di vita pratica, e al tempo stesso mantenere la soglia a partire dalla quale possiamo dirci uomini e agire umanamente. Chiudo però con un breve ricordo storico (che prendo dal libro su Dossetti di Giovanni Galloni). 12 settembre 1848: discutendo di diritto allo studio, all’assistenza, al lavoro, Alexis De Tocqueville sostenne allarmato che avrebbero condotto all’accentramento statalistico di tutta la scuola e di tutta l’istruzione, di tutta la produzione e di tutta la ricchezza. E questo è comunismo, concluse preoccupato.
Ora le cose non sono andate così. Quei diritti soggettivi sono stati introdotti, senza andare a detrimento delle fondamentali libertà civili, ma anzi sostenendole e corroborandole. Come andò a finire quella volta in Francia ha il valore dell’apologo. Tocqueville osservò che lo Stato non avrebbe comunque non potuto preoccuparsi dei poveri, e domandò all’Assemblea se fosse socialismo concepire dei doveri dello Stato verso “coloro che soffrono”. E al grido che dai banchi della sinistra si levò (“sì, non c’è che questo!”) rispose che no, non era socialismo, ma carità cristiana applicata alla politica. Sia come sia, ci si può, dunque, applicare.
(Il riformista, 18/03/2012)