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Così Togliatti usò Gramsci

Image«Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Niente da fare: dal giugno del 1928, quando fu condannato, fino all’aprile del 1937, quando si spense, il cervello di Antonio Gramsci non smise mai di secernere pensieri, proprio in quelle condizioni difficili di detenzione e confino richieste, con parole divenute celebri, dal pubblico accusatore, Michele Isgrò.

A quelle condizioni da qualche tempo sappiamo bene che si aggiunse anche l’isolamento politico. La vicenda, che continua a interessare gli studiosi ora che l’accesso agli archivi sovietici amplia la documentazione a disposizione degli storici, è al centro dell’ultimo libro di Mauro Canali, che ha la tesi esposta fin nel titolo: Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata (Marsilio, € 19,50).

Canali torna sui punti più controversi della vicenda umana e politica di Gramsci: la frattura con Palmiro Togliatti, di cui c’è prova già nelle lettere del ’26, dunque ben prima dell’arresto e prima anche della definitiva vittoria di Stalin nella durissima lotta per il potere in corso in Unione Sovietica; il ruolo decisivo svolto da Silvestri, alias Ignazio Silone, nell’informare la polizia e sostenere i capi d’accusa contro Gramsci e gli altri dirigenti comunisti nel processone del ‘28; la «strana lettera» di Ruggiero Grieco del 10 febbraio 1928, a istruttoria ancora aperta, che danneggiò seriamente le prospettive di Gramsci e che Canali ha poco dubbi nel ritenere ispirata da Togliatti in persona.

Il libro si propone dunque di mostrare che, di sotto alla storia ufficiale costruita a tavolino dal capo comunista, sta una storia reale, fatta di dubbi e sospetti, e soprattutto di una distanza politica profonda, e mai sanata, che la gestione delle carte nel dopoguerra da parte di Togliatti ha impedito di apprezzare in tutta la sua portata e gravità.

Ora, sul piano della ricerca storiografica, così come della conoscenza biografica, il libro di Canali costituisce un avanzamento: basti pensare all’identificazione di Riccardo Lombardi, futuro leader socialista, con quel «Linge» che tiene a Milano i contatti fra Tatiana Schucht e il partito, in modo però da destare sospetti nei dirigenti comunisti, o alla pubblicazione integrale della richiesta di libertà condizionale indirizzata da Gramsci a Mussolini, e il successivo impegno del detenuto, essendo accolta la richiesta,a non «fare della propaganda né in Italia né all’estero», che contraddirebbe la vulgata di un Gramsci che fino all’ultimo non arretra di un millimetro.

Ma l’obiettivo della polemica politica, quello forse non è del tutto raggiunto. Canali mette Togliatti dinanzi a un bivio: fedeltà al gramscismo oppure «ripudio silente della guida di Gramsci, con la conseguente sudditanza del partito allo stalinismo». La scelta di Togliatti fu la seconda, condotta con tutte le prudenze e le doppiezze del caso –  salvo poi, nel dopoguerra, rimettere saldamente Gramsci alle radici del Pci. Il giudizio dello storico è netto: «La personalità di Togliatti che affiora dalla vicenda Gramsci è quello di un uomo politico tanto intelligente quanto scaltro», che passa indenne attraverso il bordighismo dei primi anni venti e il successivo stalinismo, per arrivare a compiere con la svolta di Salerno il suo capolavoro politico. Proprio questo è però il punto vero: quella svolta ricevette la sua consacrazione teorica proprio dalle carte di Gramsci.

Ora, Canali ha ragione nel ritenere che il Gramsci che a questo scopo circolò nel dopoguerra fu il Gramsci di Togliatti, frutto della sua opera di costruzione politica e ideologica, ma ha il torto di sottovalutare il fatto maggiore che con ciò si impose, e cioè che proprio così il partito comunista fu, proprio grazie a quell’operazione, quel che fu effettivamente: il Pci di Gramsci e Togliatti. È vero infatti quanto scrive in conclusione, che cioè, nell’Italia del dopoguerra Gramsci fu per Togliatti «l’àncora di salvezza» che gli consentì di sganciarsi progressivamente dalla visione coltivata negli anni di Mosca: imposta da Stalin e trasmessa pedissequamente dal segretario del Pci. Poco rileva se ne andasse della sopravvivenza stessa del comunismo italiano, o di semplice opportunismo politico, come inclina a pensare Canali. Il fatto è che quell’àncora c’era, e Togliatti seppe gettarla. È vano credere che questo fatto esca diminuito dal modo in cui il Migliore si mosse nei terribili anni Trenta. Forse è anche questo un segno di un’epoca come la nostra, povera di categorie storico-politiche: ritenere che facendo scivolare l’accortezza politica di Togliatti prima in abile scaltrezza e infine in furbizia, compromettendolo cioè moralmente, si diminuisce l’impresa politica della sua vita, la costruzione del più grande partito comunista dell’Occidente.

Che poi il pensiero di Gramsci sia stato più ricco e tormentato del suo uso politico, è, a pensar bene, quasi un’ovvietà, per un’opera che ci è ormai restituita come un classico del Novecento, come un serbatoio di idee largo e problematico, solo attingendo al quale i comunisti italiani hanno potuto cogliere il frutto politico più complesso del secolo scorso, la democrazia.

(Il Messaggero, 22 dicembre 2013)

Il Conclave e l’Italia sospesa

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Lo spirito soffia dove vuole, ma se volesse pure dare una mano all’Italia, con l’elezione del nuovo Papa, agli italiani, laici o cattolici che siano, forse non dispiacerebbe. D’accordo: la Chiesa cattolica ha una missione universale, non soltanto nazionale, e i suoi fedeli sono sparsi in tutti i continenti, e l’Europa non è più così centrale come un tempo e l’Italia lo è ancora meno. E poi i tempi di un’istituzione bimillenaria non si misurano sul piede della cronaca o dell’attualità. E soprattutto la sua sola e unica domanda – la più angosciosa, la più drammatica – non può che essere la domanda del Vangelo: «quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?». Un Papa lo si fa per quello, perché il Figlio dell’uomo possa trovare ancora servi fedeli al suo ritorno. Sulla terra, non solo in quella piccola, alquanto malandata penisoletta che è l’Italia.

Ma questa volta il Conclave cade anche in un altro contesto: nel bel mezzo di una grave crisi economica e sociale, che dura da anni, a cui si è sommata una ancora più acuta crisi politica da cui non sappiamo se e quando l’Italia saprà uscire. Per questo se un soffio dello Spirito lambisse anche l’altra sponda del Tevere neppure l’ateo più accanito, forse, potrebbe dispiacersene.

Non è facile. Quando Friedrich Nietzsche spiegò cosa mai fosse il nichilismo, l’ospite inquietante che secondo lui ci avrebbe tenuto compagnia per un paio di secoli almeno (Nietzsche scriveva alla fine dell’800, dunque pure col nichilismo siamo ancora a metà del guado), provò a descriverla come quella situazione nella quale «l’uomo rotola via dal centro verso la x». E in effetti, mai come in questi giorni  di questa caduta non si vede il punto di arresto. Mai come in questa fase l’Italia sembra aver perduto stabilità e centralità, tanto rispetto al contesto europeo e internazionale quanto rispetto al suo stesso destino storico, che non sa più decifrare. Mai come in questa congiuntura, mentre un settennato volge al termine, e una nuova legislatura fatica a incominciare, e non c’è nessuno che abbia qualcosa più di un’ipotesi arrischiata sul futuro prossimo venturo, si sente la mancanza di certezze, e forse anche il bisogno di qualche rassicurazione. Così si aspetta la fumata bianca per poter pensare: almeno questa è fatta, qualcosa finalmente comincia ad andare per il verso giusto.

Non si tratta solo di psicologismo spicciolo: c’è effettivamente nel Paese una sorta di sospensione, di finta calma, di surreale immobilità. Persino i mercati finanziari sembrano attendere gli eventi, invece di tentare di determinarli con la solita, frenetica aggressività. Forse al paese è accaduto veramente di ritrovarsi sospeso in quella grande bonaccia delle Antille che raccontò Italo Calvino: senza un alito di vento verso una qualunque direzione, la nave dei corsari che rimane ferma per mesi, a fronteggiare da lungi i galeoni dei Papisti, in un’asfissiante bonaccia. Il fatto è che se domani, se nei prossimi giorni (ma presto, per carità!) dal comignolo di San Pietro venisse fuori un filo di fumo bianco, vorrebbe dire che almeno la barca di San Pietro ha ritrovato il suo capitano ed ha ripreso il mare.

La parabola marinara di Calvino era rivolta anzitutto contro l’immobilismo del PCI di Togliatti (che infatti la prese a male). Questa volta si tratta però, più gravemente, dello stallo dell’intero sistema politico, finito in un pauroso buco di vento.

Intendiamoci: neanche per la Chiesa la navigazione potrà essere tranquilla. Quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne la sua ultima omelia, prima che si chiudessero le porte del Conclave che lo scelse papa, parlò con inusitata determinazione della «sporcizia della Chiesa», da cui bisognava liberarsi. Dopo sono venuti gli scandali, lo Ior, Vatileaks, la pedofilia, il maggiordomo infedele e la riapertura del caso Orlandi, l’acuirsi della crisi delle vocazioni e gli scontri all’interno della Curia: infine, le inaudite dimissioni del Papa. Anche Ratzinger aveva usato una parabola marinara: «spesso, Signore, la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Ma Bemedetto XVI ha lasciato, e mettere la barca in condizione di affrontare nuovamente il mare è il compito del futuro Papa: un nuovo Pontefice potrebbe averne la forza, essere il legno al quale i credenti potranno aggrapparsi.

E l’Italia? Quando l’Italia potrà salpare nuovamente, da dove potrà ripartire? Dalla saggezza di Napolitano? Sicuramente, ma ha soltanto un mese di mandato davanti a sé. Dai partiti? Ma sono investiti da un ciclone ancora più impetuoso di quello che li travolse con Tangentopoli. Dal Movimento 5 Stelle? Ma sembra lontanissimo da una qualunque idea di governo, e finanche dalle consuetudini parlamentari. Da un nuovo spirito pubblico, allora?

Ecco: se lo Spirito, che soffia dove vuole, dopo aver lasciato la Cappella Sistina mandasse qualche sbuffo pure dalle nostre parti e facesse circolare un po’ di aria nuova, di idee e di forze nuove, forse anche l’Italia potrebbe riprendere il vento.

Il Messaggero, 12.03.2013