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Da Abu Ghraib a Regeni. La tortura lato oscuro del potere

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Nella notte fra il 21 e il 22 luglio 2001, a Genova, con l’irruzione della polizia nella caserma Diaz, furono commesse violenze e sevizie qualificabili come atti di tortura. Lo ha stabilito una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma non un tribunale dello Stato italiano, perché in Italia il reato di tortura non c’è. Nonostante le norme di diritto internazionale. Nonostante la ratifica nel 1989, da parte del nostro Paese, della Convenzione ONU contro la tortura. Il libro di Donatella Di Cesare (Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, € 11), in uscita oggi, ci fa riandare a quella notte, in cui fu scritta una delle pagine più nere della storia italiana recente, ma soprattutto getta uno sguardo profondo sui meccanismi e le dinamiche che legano non accidentalmente la politica e lo Stato alla pratica della tortura.

Abbiamo preso il libro dalla fine, dalla terza parte dedicata alla livida amministrazione della tortura, perché coinvolge più direttamente l’attualità: dalla prigione di Guantanamo al caso di Giulio Regeni, dalle fotografie dell’orrore di Abu Ghraib al G8 di Genova. Non solo i lager, dunque, o le dittature: in pieno ventunesimo secolo anche lo Stato democratico tortura, si macchia ripetutamente di abusi e violazioni. E di nuovo: nonostante le dichiarazioni universali, nonostante i diritti fondamentali, nonostante costituzioni, corti e tribunali. Perché?

La tesi dell’Autrice, svolta nella prima parte del libro, dedicata alla politica della tortura, è che se la tortura torna purtroppo come «una costante della storia umana» è perché essa è iscritta sin dall’origine nella logica del dominio: «Non è entro il codice della verità, bensì entro quello del potere che la tortura va considerata». Non si tortura, insomma, per estorcere verità o per fare giustizia, ma per affermare la presa assoluta del potere sui corpi, per riattivare l’oscuro fondamento di ogni soggezione politica.

Oscuro perché nascosto, perché spostato dal centro della sfera pubblica in qualche sottoscala o in qualche stanza male illuminata, dove sia consentito infliggere dolore e seminare terrore senza dare giustificazione alcuna. In realtà, dopo l’11 settembre e la guerra globale al terrore si sono compiuti, specie nel dibattito filosofico anglo-americano, tentativi spericolati di giustificare la tortura, di costruire paraventi giuridici e dilemmi morali con i quali autorizzare la politica delle «mani sporche»: per salvare vite umane, ma in realtà per spingere lo Stato oltre i confini della sua legittimità democratica, in una terra di nessuno dove tramonta ogni idea di giustizia.

Tentativi che l’Autrice, tra le maggiori filosofe italiane, smonta con implacabile lucidità e grande rigore argomentativo. Ed è impressionante veder sfilare, in pagine molto tese e dense, la quantità di figure di linguaggio e di pensiero in cui la tortura ha potuto trovare una parvenza di presentabilità. Una fenomenologia della tortura, così recita il titolo della seconda parte del libro, che toglie il fiato. E che purtroppo si rinnova anche oggi, nelle manovre che giuristi, politici e filosofi compiono per attenuare, camuffare o difendere l’indifendibile.

Per questo «Tortura» si rivela un libro non solo importante, ma necessario. Perché trovare le parole, a cominciare da quelle che dicono la sofferenza e la sottraggono alla muta violenza che giace al fondo di ogni potere, costituisce il primo atto di resistenza. Occorre dire, occorre dire e denunciare. E occorre, in Italia, a distanza di quindici anni dai fatti di Genova, una legge: senza ulteriori rinvii.

(Il Messaggero, 11 novembre 2016)

La tortura svelata

È lecito torturare? È lecito privare un detenuto del sonno, è lecito denudarlo, è lecito restringerlo in uno spazio limitato e buio, e lasciare che nell’oscurità sia tormentato da invisibili insetti? È lecito procurargli la sensazione dell’annegamento, oppure schiaffeggiarlo ripetutamente, colpirlo all’addome, e sbatterlo con violenza contro un muro? Sono lecite le “tecniche avanzate” usate dalla Cia negli interrogatori dei presunti terroristi di Al Qaeda? A quanto pare dai documenti che il Presidente Obama ha reso pubblici, durante l’Amministrazione Bush simili pratiche venivano ritenute lecite, dal momento che, diversamente dalla tortura vera e propria, la quale comporta, secondo le convenzioni internazionali, l’afflizione di un “grave dolore fisico o sofferenza mentale”, le pratiche minuziosamente descritte nei documenti segreti dell’intelligence comportavano sì privazioni, umiliazioni o dolori fisici ridotti, ma nessun dolore grave o “danno mentale prolungato”.
La via burocratica alla tortura di Stato prevedeva dunque che venissero rispettate le forme legali, con l’accorto aiuto delle formalistiche interpretazioni del Dipartimento di Giustizia americano, capace di discettare sulla durata e l’intensità del dolore inflitto o dell’offesa patita, pur di accordare ipocritamente le necessità della lotta al terrorismo islamico con il crisma del diritto.
In realtà, è dal tempo in cui si è affermata la sovranità dello Stato moderno, dunque molto prima che esso assumesse le caratteristiche di un ordinamento liberaldemocratico, rispettoso dei diritti umani fondamentali, che si stringe il nodo che anche Obama ha dovuto sciogliere: se cioè si possa, quando gli affari di Stato lo richiedono, adottare per la salvezza della res pubblica una morale più larga e grossolana della morale valida invece per i “privati”, sudditi prima cittadini poi.
La storia ha però cercato di dare una risposta, nella misura almeno in cui il suo corso è descrivibile, sotto il profilo politico-giuridico, come il tentativo di incapsulare e assorbire il grumo di nuda forza che pure resiste alla sua integrale giuridicizzazione: e ogni volta che si strappa la tela che il diritto ha faticosamente tessuto, la sconnessione fra politica e diritto si ripresenta e si mostra nei suoi crudi lineamenti il “volto demoniaco del potere”.
Obama ha portato allo scoperto il “piccolo, sporco segreto” della democrazia americana. Il quale era segreto, certo, ma solo fino a un certo punto: non perché si fosse vista la carta intestata su cui erano descritti i metodi sbrigativi adottati dalla Cia, ma perché si conosceva, e bene, il risvolto pubblico di simili condotte: l’unilateralismo, la dottrina della guerra preventiva, l’idea che, quando è in gioco la sicurezza nazionale, né il diritto internazionale né gli organismi sovranazionali, né gli interessi e le politiche di altri paesi, per quanto amici, possono limitare il raggio d’azione degli USA. Togliere il segreto sulle “pratiche avanzate” della Cia è un gesto del tutto coerente con la nuova stagione della politica estera americana, e ne rafforza la credibilità.
Per coloro che amano definirsi realisti, la decisione di Obama è stata una mossa avventata, che indebolisce l’azione di contrasto al terrorismo. Per tutti gli altri, è stato invece un atto di grande fiducia nelle risorse di un paese democratico. E in quanto questo atto è accompagnata da una politica e ne costituisce un tassello, non è affatto il comportamento ingenuo di un’anima bella.
La politica è precisamente quel che serve per non farsi mettere dinanzi al dilemma che giustifica ogni abuso, per non rimanere ipnotizzati dall’alternativa: o la salvezza dello Stato o il rispetto dei diritti umani. Quando ci si infila in una simile aporia (e soprattutto quando la si costruisce a bella posta, come a volte purtroppo capita), allora si rischia di non avere più nessuna ragione per limitare l’impiego della forza e resistere alla limitazione dei diritti che l’asprezza del conflitto può comportare.
Naturalmente, si può ritenere che la democrazia sia in ultima istanza disarmata rispetto ai suoi nemici, che non hanno l’impaccio di un’opinione pubblica dinanzi a cui rendere ragione dei propri atti, né una coscienza giuridica alla quale rispondere; ma la democrazia è precisamente quella cosa che gli uomini hanno inventato per allontanare da loro le istanze ultime. Come ogni impresa umana, anche la democrazia può fallire, ma rinunciare al rispetto delle sue forme e delle sue garanzie, accettare la tortura non è fallire: è capitolare.