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Se Salvini e Grillo stanno con Putin

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La risposta militare di Donald Trump all’uso delle armi chimiche da parte del regime di Bashir al-Assad ha dato uno strattone robusto all’opinione pubblica internazionale. Inorridita per l’uso del gas da parte del dittatore siriano, ma forse non altrettanto convinta delle buone ragioni dell’intervento americano: non bisognava attendere un pronunciamento formale delle Nazioni Unite? Non bisognava portare la decisione sull’impiego delle armi dinanzi a qualche foro multilaterale? Non doveva esserci l’Unione Europea a fianco dell’America? Accanto a questi dubbi che più o meno ricorrono sempre, tutte le volte che si dimostra l’inanità degli organismi sovranazionali, quasi sempre bloccati da veti reciproci e incapaci di intraprendere iniziative autonome, stanno i dubbi sul nuovo Presidente a stelle e strisce: chi è Trump? Non aveva cominciato la sua Presidenza rispolverando tentazioni isolazionistiche? Non era pappa e ciccia con Putin? E com’è possibile allora che scaraventi 59 missili Tomahawk su una base militare del regime siriano, che agisce sotto la protezione della Russia? E qual è, in generale, la strategia americana per il Medio Oriente?

A scorrere le agenzie che si susseguono in queste ore, si scopre con qualche sorpresa che il maggiore sconcerto lo si registra non tra le file della sinistra, bensì tra quelle della destra che avremmo fino a qualche giorno fa – o forse fino a un minuto prima dell’attacco – qualificato come trumpiana, entusiasta delle scorrettezze politiche del neo-Presidente, e pronta a esultare per la fine degli equivoci buonisti dell’era Obama. Trump è quello del muro al confine col Messico, dello stop all’ingresso degli stranieri, dell’incremento del bilancio della Difesa, ma da ieri è anche quello del bombardamento della base siriana di Shayrat.

In Francia, dichiarazione di Marine Le Pen: «è troppo chiedere di aspettare i risultati di un’inchiesta internazionale indipendente prima di procedere a questo tipo di attacchi?». Dichiarazione della nipote, Marion: «Questo intervento è una delusione, è un danno per l’equilibrio del mondo». Certo, la destra francese ha una vivace tradizione di antiamericanismo, a cui può attingere in circostanze come questa. Ma anche in Gran Bretagna, il leader nazionalista Nigel Farage non ha rilasciato una dichiarazione di aperto sostegno. Tutt’altro: «Molti sostenitori di Trump saranno preoccupati per questo intervento militare: come andrà a finire?».

Se veniamo in casa nostra, le prese di posizione più apertamente contrarie le leggiamo tra i Cinquestelle. Dove Grillo aveva salutato con soddisfazione la comparsa dell’uomo forte Trump, all’indomani delle elezioni presidenziali, lì il deputato Di Stefano ha potuto tuonare: «sono bastati pochi mesi per allineare Trump ad un principio storico: in USA non comandano i Presidenti ma le lobby della guerra e del petrolio». In queste parole l’antiamericanismo ideologico che un tempo albergava nel pacifismo di sinistra (ma anche in certa destra estrema) torna ad esprimersi allo stato puro, grezzo, non mescolato con le prudenze dei comunicati ufficiali del Movimento, che parlano solo di «rischio» che si sia violato il diritto internazionale e, naturalmente, lamentano l’assenza dell’ONU.

Con Salvini le cose non vanno molto diversamente. Il leader leghista, che nei mesi scorsi aveva fatto circolare tutto contento la foto che lo ritraeva in compagnia di The Donald, ora parla di «pessima idea, grave errore, regalo all’ISIS». Mentre Giorgia Meloni teme che si continui la politica di Obama, con un sostegno indiretto al fondamentalismo islamico.

C’è un fronte “sovranista”, dunque, che si salda nella critica all’azione unilaterale del presidente americano, e che vede schierati dalla stessa parte Fratelli d’Italia, la Lega Nord e i Cinquestelle. (mentre tace la voce più moderata di Forza Italia).

A sinistra le cose stanno all’opposto. Il premier Gentiloni – che si è preso del «vassallo» degli USA dal terzomondista Di Battista – non diversamente dagli altri leader europei ha parlato di una «risposta motivata» al crimine di guerra perpetrato da Assad. Matteo Renzi gli ha dato manforte: «nessuno può permettere che dei bambini vengano uccisi nel modo in cui da anni in Siria si continua a fare».

Certo, se si guarda in fondo a sinistra, e si arriva sino al neosegretario di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, si trova ancora l’opposizione dura e pura contro l’imperialismo yankee: «I missili di Trump non sono al servizio della democrazia e dei diritti umani – ha detto Acerbo –, l’attacco americano è un atto di terrorismo internazionale». Se però si lascia la sinistra antagonista i toni si fanno nuovamente responsabili. C’è il consueto richiamo al ruolo che l’Europa dovrebbe assumere sul teatro mediorientale, l’auspicio di Andrea Orlando che quello di Trump sia stato un «episodio isolato», e la preoccupazione di Enrico Letta per una politica estera americana «a zig zag». Ma il tradizionale ombrello atlantico sotto il quale la sinistra ha finito col ripararsi negli ultimi anni – dal Berlinguer che preferisce la Nato fino a Massimo D’Alema che approva le operazioni nella ex-Jugoslavia – è tornato ad aprirsi. Certo, si preferirebbe usare la coperta dell’europeismo. Ma siccome quella coperta è, nei fatti, solo un velo di ipocrisia che si squarcia ad ogni nuova crisi internazionale, al dunque la sinistra opta per l’interventismo americano anche se alla Casa Bianca non siede più il liberal Obama ma il rude miliardario Trump.

Così suona come un paradosso, quello che si disegna sullo scacchiere della politica nazionale: la destra non segue Trump e si schiera per la pace, come dice senza tema del ridicolo Salvini, mentre la sinistra vede i rischi che il neopresidente conservatore USA si accolla e li giustifica, anche se il confronto con la Russia si avvicina a un punto di non ritorno. «Ad un passo dallo scontro», scriveva ieri il premier Medvedev, mentre mandava una nave da guerra a incrociare dalle parti dei cacciatorpedinieri americani da cui è partito l’attacco. Scontro a fuoco per fortuna ancora no, ma scontro ideologico dai confini incerti tanto quanto l’intero ordine mondiale forse sì.

(Il Mattino, 8 aprile 2017)

La sinistra al tempo di Trump

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«Fare il congresso come alternativa al trumpismo, al lepenismo, al massimo al grillismo». Già, ma qual è l’alternativa? Perché le prossimi settimane si consumeranno in una lunga guerra sulle date, le scadenze, il regolamento, il tesseramento, la legge elettorali, il voto, ma poi un’alternativa a quel Cerbero a tre teste che ha preso forma «là fuori», come ha detto Renzi ieri, alla Direzione nazionale, bisognerà pure che il partito democratico la trovi.

Trumpismo vuol dire almeno due cose: nazionalismo economico e fine dell’età dei diritti. Dagli anni Novanta in poi, le sinistre riformiste sono state invece quasi tutte internazionaliste in economia e progressiste in tema di diritti civili. In particolare in Italia questo impasto ha sicuramente aiutato la sinistra, dopo l’89, a venir via dalla tradizione del comunismo nazionale. Così, l’antica contrarietà nei confronti del sistema monetario europeo – che è stato il principale veicolo di integrazione su scala continentale – si è capovolta, negli anni Novanta, nella più ferma determinazione a entrare invece nella moneta unica. E la prudenza con la quale il partito comunista seguiva i radicali nelle battaglie sui temi del divorzio e dell’aborto è invece divenuta, negli anni Novanta, la determinazione a dare al paese una legge sulle unioni civili e il divorzio breve, che sono indubbiamente frutto dell’ultima stagione di governo del Pd.

Un cambio, come si vede, assai netto. Ma ieri il Pd è stato percorso dal dubbio, che di sicuro lo accompagnerà a lungo, che quel cambio non andava nella giusta direzione, ma era parte di un moto alternato il quale, raggiunto il punto massimo di oscillazione della banda, dovrebbe procedere ora nel verso opposto.

Cosa c’è però nel verso opposto? Quale domanda è oggi prevalente: la domanda di nuovi diritti, o la domanda di sicurezza? Il partito democratico dovrebbe scommettere sulla capacità di tenere insieme i due corni del dilemma, ma trumpismo e lepenismo spingono perché si divarichino invece sempre di più. Ancora: apertura o chiusura? Democrazia significa passione per l’apertura, ma, per un contraccolpo che farebbe invidia a Hegel e alla sua logica dialettica, nel momento in cui massima è la possibilità di connessione globale fra uomini, merci, servizi, più forte si avverte il bisogno di richiudersi invece tra i propri simili, nel proprio orizzonte culturale, nazionale, etnico. La sfida ideologica e culturale è di amplissima portata.

E ancora: innovazione o protezione? Per vent’anni circa, la sinistra ha sposato la prima, portandosi fuori del recinto storico dei partiti socialisti e socialdemocratici del Novecento. La costellazione formata da Clinton, Blair, Schroeder doveva indicare, nel cielo dei valori della sinistra, il cammino. La Terza Via. E quel cammino era scandito dall’imperativo della modernizzazione, del dimagrimento dei compiti dello Stato, da parole come merito e flessibilità. Ieri queste parole non le ha usate quasi nessuno, e la preoccupazione maggiore è sembrata anzi quella di ricucire il rapporto con i tradizionali mondi di riferimento del centro sinistra: la scuola, la pubblica amministrazione, i sindacati e il mondo del lavoro.

Più Stato nell’economia; spesa sociale fuori dal patto di stabilità; piano per il lavoro straordinario. Certo il cambio di vocabolario, nella discussione interna, ieri si è avvertito. Come però si riempiono queste parole è ancora terreno di ricerca e di confronto: non facile, in mezzo a posizionamenti e tatticismi di varia natura. Al primo posto sembra essere l’esigenza di ridisegnare i contorni di uno Stato assicurativo di tipo nuovo, che si orienti non sui vincitori della globalizzazione ma sui vinti, su quelli che in questi anni sono rimasti indietro.

A loro si sono rivolti i fautori della Brexit, a loro è arrivato forte e chiaro il messaggio di Trump, e a loro rischia di arrivare anche, alle prossime presidenziali francesi, la parola altrettanto vigorosa di Marine Le Pen. Ma se le destre offrono un’interpretazione del bisogno di protezione in chiave nazionalista, di ripiegamento identitario, qual è la chiave che la sinistra è in grado di usare? Quali sono i contenitori collettivi entro cui stringere nuove reti di solidarietà, di cittadinanza, di prossimità? Finora i democratici si sono sentiti cittadini del mondo, o almeno dell’Europa. Sono stati quelli che viaggiavano con il progetto Erasmus, e solidarizzavano con i migranti. Quelli che difendevano lo «ius soli», ma pure la «lex mercatoria» che ha accompagnato l’estendersi globale dell’economia e della finanza. Ma domani?

Renzi si trova veramente su un crinale. Non solo perché, annunciando il congresso, ha chiuso la fase apertasi con la vittoria alle primarie del 2013 e deve ora ricostruire la stessa infrastruttura culturale del partito. Ma perché questo passaggio è iscritto in un mutamento epocale. Da Obama a Trump: è come il mondo è cambiato in poco meno di un decennio. Che corrisponde quasi esattamente all’arco di vita temporale del partito democratico. Il che dà l’idea che, ben oltre le schermaglie della direzione – congresso o non congresso, elezioni o non elezioni – la sfida è davvero di quelle che fan tremar le vene e i polsi.

(Il Mattino, 14 febbraio 2017)

Renzi tra autocritica e rilancio

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Un voto quasi unanime dell’Assemblea nazionale segna la ripartenza del partito democratico. La minoranza non partecipa al voto, ma dà il via libera alla proposta di Renzi di ricominciare dal Mattarellum, «l’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi». E che può tastare la voglia di elezione degli altri partiti. Il congresso viene riportato alle scadenze statutarie, quindi dopo le politiche, anche per evitare di farne solo una conta, e nel frattempo si prova a rilanciarne l’azione con una conferenza programmatica e una mobilitazione dei circoli sul territorio. C’è spazio anche per qualche spunto personale e qualche stilettata polemica, per una parola di solidarietà per il sindaco di Milano, Sala, e per un attacco frontale alla Raggi e ai Cinquestelle, ma gran parte del discorso è rivolta a ristabilire un clima di confronto civile all’interno del partito.

L’ex premier fa velocemente il bilancio dei mille giorni passati al governo, rivendica il lavoro compiuto ma non vi si dedica troppo: non è il momento di celebrarsi. L’analisi del voto è severa, senza compiacimenti per quel 41% di sì che non cambia i termini del risultato: per il Pd è stata una sonora sconfitta, soprattutto al Sud e tra i giovani. «Abbiamo straperso», dice Renzi senza giri di parole. Ma è escluso che si torni indietro, e per togliere ogni dubbio mette nella colonna sonora dell’Assemblea l’inno beffardo di Checco Zalone alla prima Repubblica. E però, a fine giornata, le idee forti per ripartire daccapo e rimettersi il partito in asse col Paese latitano un po’.

Le quattro sconfitte.

Renzi non comincia dall’analisi del voto, ma ci arriva presto. E non fa sconti, non usa giri di parole. Ammette che la via del cambiamento istituzionale come risposta alla crisi generale del Paese è ormai preclusa. La sconfitta è maturata non una ma quattro volte: nel Sud, tra i giovani, nelle periferie, sul web.  Non è poco, perché chiama in causa la natura stessa di un partito di sinistra, che proprio in quelle aree e in quelle fasce sociali dovrebbe invece riscuotere più consenso. Fa male a Renzi soprattutto non aver convinto le nuove generazioni, sia per il segno generazionale che aveva impresso alla sua leadership, sia perché le riforme costituzionali dovevano parlare del futuro della nuova Italia, e dunque convincere anzitutto loro. L’unico lenimento alla sconfitta è la consapevolezza che quelli del No non hanno una proposta politica: « C’era nel fronte del No chi diceva che in 15 giorni avrebbe fatto le sue proposte di riforma. Aspettiamo i prossimi cinque mesi».

Le riforme

Un libro racconterà l’esperienza del governo Renzi. In altri tempi, i mille giorni sarebbero forse stati ripercorsi da Renzi con il passo di una campagna napoleonica: l’ex Presidente del Consiglio deve invece limitarsi al progetto editoriale e a un’orgogliosa rivendicazione del lavoro svolto. Quando però dice che le riforme approvate dal suo governo non puzzano, ma resteranno nella storia del Paese, si sente che lo dice con convinzione. È significativo tuttavia che scelga, per riassumere il senso dell’operato del suo governo, la legge contro il caporalato, la legge sulle unioni civili, la legge sullo spreco alimentare. Il bilancio è cosa del passato, e il mio governo è già passato remoto, dice Renzi, ma intanto sceglie di non citare la buona scuola e il jobs act, e di richiamare le misure condivise da tutto lo schieramento democratico. Lo fa anche perché registra dal voto e dal dibattito interno l’esigenza di spostare più a sinistra il baricentro del partito. (Sull’orizzonte del nuovo governo Gentiloni c’è poco o nulla nel suo discorso, e così anche in quello di tutti gli altri relatori dell’Assemblea: giusto, insomma, lo spazio di una parentesi).

Il tempo dei tour è finito.

Il terreno sul quale più ampia si fa la disponibilità del Segretario è quello del partito e della sua interna organizzazione: Renzi annuncia un imminente incontro con tutti i segretari provinciali e regionali, poi una grande mobilitazione dei circoli e, più in là, una conferenza programmatica. L’accento viene portato sul noi, sul senso di appartenenza, sulla comunità dei democratici (in contrapposizione con l’azienda privata Casaleggio & associati, che procede a colpi di contratti e di penali per gli eletti del Movimento Cinquestelle). Accetta le critiche alla personalizzazione della lotta politica e rinuncia a ripartire in tour, col camper: il partito di Renzi, insomma, non si materializza neppure questa volta. Del resto, l’analisi è persino edulcorata rispetto alla realtà del partito in molte zone del Paese, e Renzi ne è chiaramente consapevole. Lo si capisce per esempio dal passaggio in cui dice che nel Mezzogiorno si è sbagliato a puntare sul notabilato locale, invece che cercare forze nuove e vive nella società. La frittura di pesce di De Luca non è stata ancora digerita.

Niente melina.

La proposta del Mattarellum è quella che ha scatenato il momento più vivace della giornata, con Giachetti che insulta il novello Davide, Speranza, sceso in campo contro Golia-Renzi («hai la faccia come il c.!», gli urla Giachetti, e parte la bagarre). Si capisce perché: era la proposta che il Pd di Bersani, con Speranza capogruppo, aveva lasciato cadere, assecondando la scelta del 2013 di votare col Porcellum. Col Mattarellum la legge elettorale mantiene un impianto maggioritario, grazie ai collegi uninominali, il che consente a Renzi di tendere una mano a Pisapia, il quale ha il non facile mandato di federare lo sparso arcipelago alla sinistra del Pd, e di spegnere o almeno attenuare le pulsioni proporzionaliste che serpeggiano in Parlamento, in quasi tutte le forze politiche: nella minoranza Pd, che la considera come una sconfessione della stagione renziana; in Forza Italia, che non avrebbe più il problema di allearsi con Salvini; nei piccoli partiti, che non avrebbero il problema di confluire nei grandi; fra gli stessi Cinquestelle, che di andare da soli fanno una religione. Ma Renzi sa che i collegi uninominali premiano il partito che ha più nomi e classe dirigente da mettere in campo e, checché se ne pensi, questa forza rimane, a tutt’oggi, il partito democratico. Di qui la proposta, e l’energico invito a non fare melina. Col Mattarellum hanno vinto sia la destra che la sinistra: quindi un accordo lo si può trovare, ha detto Renzi. E forse ci crede davvero.

Ideologia, malgrado tutto

C’è qualcosa che Renzi ha lasciato fuori? Ha fatto il bilancio del governo e l’analisi del voto; ha indicato un nuovo fronte di impegno nel partito e formulato una proposta chiara e forte sulla legge elettorale; ha menato fendenti ai grillini e qualche stilettata a Bersani & Company: che altro? Forse di altro il Pd avrebbe bisogno. Perché molti interventi – da Cuperlo a Orlando, da Martina a Del Rio – hanno ragionato di una crisi della sinistra, in Italia e in Europa, che data da molti anni. Si sono sentiti accenti preoccupati sulle diseguaglianze crescenti, sulle nuove povertà, sui populismi alimentati da paure e insicurezze, sulle nuove esigenze di protezione sociale, sulla necessità di ripensare il ruolo dello Stato, ma la distanza tra il Pd e quest’orizzonte di temi e problemi rimane ampia: sul piano  culturale e ideologico prima ancora che su quello programmatico. A quelli che pensano che le ideologie sono defunte basterebbe sussurrare due o tre nomi: Trump, Le Pen, Brexit; e aggiungere parole come: Islam, emigrazione, banche, euro. A torto o a ragione, su tutte queste parole esiste un compatto fronte di idee in cui pesca la destra europea, e i suoi emuli italiani. E la sinistra? Come legge il Pd la globalizzazione, come legge o corregge la modernizzazione del Paese, come ridefinisce il suo profilo mentre il socialismo europeo continua ad andare a rimorchio delle forze moderate e popolari, dalla Merkel, in Germania, a Fillon, in Francia? Renzi è rimasto sulla superficie, e forse non poteva fare altrimenti, per riprendere in mano il partito e guidarlo nella prossima campagna elettorale. Ma che il Pd abbia bisogno di sterrare le radici della propria storia, per ripiantarle meglio e più in profondità, è pensiero di cui, dopo il 4 dicembre, molti ormai si sono fatti persuasi.

(Il Mattino, 19 dicembre 2016)

Ha incarnato troppo il potere

xbro_science_donald_pump_on_white_display1447380428564545ccf38c7-png-pagespeed-ic-vr5jwk8exwBisogna essere onesti: fra le molte ragioni per le quali Hillary Clinton ha perso, non vi è l’essere donna. (Così come del resto, tra le ragioni per cui Trump ha vinto non vi è (per fortuna) il sessismo. Il tetto di cristallo che impedisce a una donna di diventare Presidente degli Stati Uniti d’America questa volta non c’entra. Hillary ha perso perché non era il candidato giusto, perché non era amata dai suoi stessi elettori, perché apparteneva all’establishment di Washington e alla politica di ieri, perché era una donna di molto potere che appariva distante dai ceti medi e dagli strati popolari, perché gli scandali l’avevano più che lambita, perché la sinistra clintoniana è finita da un pezzo. E perché in fondo i voti li ha chiesti solo per fermare «The Donald»: troppo poco.

Certo: è facile dirlo, con il senno di poi. Ma siccome un evento illumina il suo passato, come diceva la filosofa Hannah Arendt, è giusto chiedersi, a urne ormai aperte, perché sia andata così. Era davvero imprevedibile, oppure non si voleva vedere quello che stava capitando (e, anzi, sta capitando da un bel po’ di tempo, ormai)?

Forse tutti i motivi assommano a uno solo: la politica tradizionale ha perso, la politica muscolare ha vinto. Clinton era la politica tradizionale, era un insieme di ricette proposte senza troppe variazioni rispetto all’Amministrazione uscente, una maniera di dipingere grigio su grigio che non risponde evidentemente allo spirito del tempo, ai risentimenti, alle insofferenze e ai rancori che ribollono nella grande provincia americana: nelle pianure del Midwest, nelle aree deindustrializzate del Nord del Paese, negli Stati conservatori del Sud.

Obama sembra, a guardare oggi l’America, non esserci mai stato. Contano meno i risultati della sua Presidenza, evidentemente, che non i quindici anni di lotta al terrorismo e gli otto anni dalla grande paura del crollo economico e finanziario. Non si tratta però della performance complessiva del sistema economico, che negli States non è così fiacca come da noi, ma più profondamente della capacità degli attori politici di farsene interprete, e di impadronirsi così del destino della nazione.

Vale per l’America di Trump come per l’Europa dei populismi e dei nazionalismi che ne stanno modificando radicalmente la geografia politica. Queste nuove formazioni chiedono un’identificazione simbolica che la Clinton non è stata in grado di suscitare. Nessun feeling con l’elettorato: questo è stato il limite principale della sua candidatura, peraltro ben noto ed evidente già durante la corsa delle primarie. Perché altrimenti non si spiega come il vecchio democratico, quasi socialista, Bernie Sanders abbia potuto rimanere per mesi in campo, nonostante la Clinton avesse tutto l’appoggio del partito, e una disponibilità di mezzi infinitamente superiore. Sanders, però, era credibile quando se la prendeva con Wall Street o si rivolgeva ai giovani; Hillary Clinton non avrebbe mai potuto esserlo. Non avrebbe potuto giocare – e in effetti non ha giocato – nessuna delle carte che i nuovi, aggressivi leader populisti usano: non la carta della polemica contro le enormi ricchezze di banchieri, lobbysti e affaristi; non quella della critica della globalizzazione; non quella della politica corrotta e subalterna ai poteri forti; e neppure quella politicamente scorretta del rifiuto del diverso (che si tratti i migranti o gli omosessuali, i latinos o i musulmani). Trump, invece, queste carte le aveva tutte nel mazzo.

Se però a gettarle sul tavolo è il leader della prima potenza mondiale, è chiaro che la partita cambia per tutti. La crisi di legittimazione delle democrazie contemporanee, che non data da ieri, è certamente legata alla recessione, alla crisi fiscale, al deperimento dello Stato sociale, ai fenomeni di impoverimento e di crescita delle diseguaglianze. Ma è legata almeno altrettanto all’estenuazione del gioco politico. Così succede che appena compare un attore che sembra voler azzerare tutto e ricominciare daccapo, ecco che calamita immediatamente nuovi consensi. Con un senso di urgenza e di novità che lascia spiazzati.

Purtroppo, in prossimità dello zero politico non si trovano belle maniere e buona educazione, ma energie e passioni più immediate, persino più brutali. Che pretendono di avere, proprio in nome di questa vitale immediatezza, una verità che le forme paludate, i linguaggi forbiti non hanno più. D’improvviso il lessico politico si secca e muore, e la rappresentanza democratica prende a significare solo distanza, quindi lontananza, quindi estraneità. «Loro» contro «noi, il popolo». E tanto basta.

Non meraviglia dunque che Donald Trump, con il parrucchino giallo e la moglie modella, si sia trovato dalla parte dell’autenticità, mentre Hillary Clinton, con tutta la sua esperienza di politica navigata, si sia trovata nella scomoda e intenibile posizione della politica logora, della doppiezza e dell’ipocrisia.

No, Hillary non era la candidata che ci voleva, per fronteggiare l’urto. Non in questo momento. L’evento ha illuminato il passato e ne ha rivelato il significato. È un peccato che non getti una luce chiara anche sul futuro.

(Il Mattino, 10 novembre 2016)

La notte più lunga d’America. La continuità contro lo choc

johns-flags-570-379.jpgQuando Percival Everett è venuto in Italia, due anni fa, per presentare il suo ultimo libro, gli hanno chiesto di Obama. Domanda inevitabile: Everett è uno dei più interessanti scrittori americani viventi e, guarda un po’, è nero. E continua a capitargli quello che ha raccontato in uno dei suoi romanzi, il quasi autobiografico «Erasure», «Cancellazione»: uno scrittore afroamericano non riesce a sfondare perché si ostina a non scrivere le storie che ci si aspetta dai neri. E cioè: violenza, emarginazione urbana,schiavismo e profondo Sud, soul e diritti civili.

Neanche Obama ha fatto quello che ci aspetta da un nero: è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Per questo, forse, la sera della prima, storica elezione – quella del 2008 – esordì con queste parole: «Se c’è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l’America sia un posto dove tutto è possibile, questa notte è la vostra risposta».

Naturalmente, se tutto è possibile, è anche possibile che solo otto anni dopo quella stessa America scelga, in un’altra notte, colma di incertezze e paure, il miliardario Donald Trump. Che non solo non è afroamericano, come i suoi capelli non smettono di dimostrare, ma è le mille miglia lontano da tutto ciò che poteva significa l’elezione di Obama alla testa della prima nazione del mondo.

E forse aveva ragione Everett, che alla domanda pensoso rispose: «Che un nero sia stato eletto alla presidenza è un segno che il paese è comunque cambiato, anche se sul piano politico ci sono ancora resistenze. Ma non necessariamente la sua elezione ha potuto cancellare cento anni di oppressione e discriminazione razziale. Esattamente come, se accadrà in futuro, l’elezione di una donna alla Casa Bianca non eliminerà né potrebbe eliminare il sessismo».

Due anni fa, Percival Everett non tirava a indovinare, formulando l’ipotesi di una donna alla Casa Bianca. Eletta al Senato quando era ancora la First Lady, Hillary ha dovuto cedere una prima volta il passo a Obama, che l’aveva sconfitta alle primarie, ma non per questoera uscita di scena. Né si è ritirata, nel 2013, dopo aver lasciato la carica di Segretario di Stato.

Perché è vero quel che è stato costantemente ripetuto nel corso di quest’ultima campagna elettorale: la Clinton è espressione dell’establishment, e Donald Trump non è arrivato sino al punto che tutto, stanotte, è possibile, se non avesse potuto sollevare, alta e muggente, l’ondata di insofferenza nei confronti dei politici di Washington.

Così oggi la partita è sorprendentemente aperta. Il miliardario sembrava, all’inizio, un personaggio improbabile. Uno che vuole tirare su un muro,«grandissimo e bellissimo», per dividere gli Stati Uniti dal Messico e fermare i flussi migratori non è quel che si dice il più presidenziale dei candidati possibili. Senza dire delle battute a sfondo sessuale o delle dichiarazioni avventurose come quelle su Obama musulmano.

È chiaro però che il giudizio che da questa parte dell’Atlantico si dà dell’America è spesso falsato da costruzioni ideologiche, da miti e narrazioni che in fondo ci presentano di quel Paese il volto più europeo (e più rassicurante). Così scegliamo di vedere dell’America New York e San Francisco, le battaglie per i diritti civili e il faro del mondo libero, la cultura laica e progressista dei campus americani e, certo, i grandi studios hollywoodianie la Silicon Valley. Del resto, gli Accademici svedesi, pure loro: non hanno dato il premio Nobel della letteratura a Bob Dylan, il menestrello del rock?

E però l’America è anche altro. Ci sono le coste e i grandi laghi, ma pure le montagne e le aree desertiche. I grattacieli e i marciapiedi delle metropoli urbane, ma pure le stazioni di servizio e e le tavole calde in mezzo al nulla.

Prendete allora una cartina e dispiegatela su un tavolo. Cominciate pure dalla costa orientale, dagli Stati del New England: lì prevale l’America liberal che vota democratico, prevale il voto istruito, e una mentalità aperta e cosmopolita. Ma se cominciate a spostarvi nel Midwest, la partita si fa subito più incerta. Negli Stati rurali è davanti il voto repubblicano, ed è decisamente meno ovvio, da quelle parti, che sia giusto aprire le porte agli immigrati (ma anche concedere il diritto di abortire). Stessa storia se vi spostate ancora più ad ovest. Lungo la costa del Pacifico, dove trionfa la new economy, si vota a maggioranza per l’Asinello democratico, ma nelle aree interne, più conservatrici, è tutta un’altra musica. Lì non è certo il massimo presentarsi come un avvocato newyorkese donna (Hillary) mentre fa effetto avere soldi, fare il macho, e abbracciare il potente partito delle armi (Trump).

I cambiamenti demografici (con conseguenti effetti elettorali) si fanno invece sentire soprattutto nel sud degli Stati Uniti. In Arizona, ad esempio, e in Texas. La popolazione ispanica, che a metà del secolo scorso valeva il 3% della popolazione, salirà nel 2050 al 30%: sono questi latinos che forse decideranno il voto. Perché Arizona e Texas sono stati tradizionalmente repubblicani, ma proprio il crescente peso delle minoranze e dei gruppi etnici, forte anche nei maggiori centri urbani del Paese, potrebbe cambiare il risultato finale. Trump ci ha messo ovviamente del suo,aprendo la sua corsa alla Casa Bianca con l’accusa rivolta alle autorità messicane di rovesciare sul suolo americano trafficanti e stupratori. Come se fosse sul set de «L’’infernale Quinlan», il film capolavoro di Orson Welles ambientato al confine tra Messico e Stati Uniti.In verità, Trump ne assume anche la parte: quella del poliziotto spiccio e dai modi autoritari, che serve la giustizia a modo suo, fabbricando prove false, se necessario, pur di acciuffare i colpevoli. (È, però, azzeccandoci).

Ma la domanda è: questi ispano-americani – e le minoranze etniche in genere – voteranno contro Trump offesi dalla sua political uncorrectness e dai provvedimenti annunciati contro gli immigrati irregolari, oppure prevarranno le preoccupazioni di carattere economico, la mancanza di lavoro, l’incertezza sul futuro? In fondo, non si può essere stanchi all’idea di doversi spingere sempre più avanti, soprattutto se non è più chiaro verso dove?

Se così fosse, avrebbero ragione quelli che scomodano la parola nichilismo a proposito del «secolo americano»,del suo inveramento nei processi di finanziarizzazione dell’economia, nell’esplosione delle tecnologie informatiche, nel trionfo della società dello spettacolo: si capirebbe perché Trump possa rappresentare agli occhi di molti il ritorno a un’America forte, sana, autentica, che sa quel che vuole e che si fa rispettare.

Quello che forse è mancato ad Obama, agli occhi di molti americani. La sua ritrosia ad usare l’«hard power», che negli ultimi tempi ha dovuto sempre più confrontarsi col protagonismo crescente della Russia di Putin, ha finito per consegnare l’immagine di un Paese incerto sul da farsi, un’America più che paziente riluttante, più che prudente rinunciataria.

Il paradosso è che dei due candidati, Trump è quello più isolazionista, pronto a riaggiornare la dottrina Monroe – quella dell’America agli americani – mentre Clinton è, secondo il filosofo e psicanalista sloveno Zizek, che ha a lungo insegnato negli States, il prototipo perfetto dell’interventismo democratico, dell’idealismo a cui però sono i droni killer ad aprire la strada.

Di paradosso in paradosso, Zizek capovolge tutta la nostra  maniera di guardare alla scena americana. Invece di parteggiare per i buoni, per il nero Obama e per la donna Hillary; invece di stare dalla parte dell’America liberal, che lotta per i diritti e contro le ingiustizie sociali, Zizek sta con il cattivo, con Trump, sta con gli «incazzati neri» che si sono stufati del riformismo inconcludente e moraleggiante che non cambia veramente le cose. Zizek si sa, è un leninista non pentito, per il quale il comunismo continua ad essere il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, mentre democratici, progressisti e riformisti di ogni specienon aboliscono proprio nulla, e coprono anzi  una realtà fatta di diseguaglianze crescenti. Zizek, insomma, è per la scossa, per lo choc, quella che secondo molti neppure il primo Presidente nero eletto otto anni fa ha saputo dare, accendendo speranze in certa parte deluse.

Ebbene, non è detto che stanotte non accada davvero qualcosa del genere.

Ma anche se si tirerà il fiato e si penserà che l’abbiamo scampata bella, il segnale è arrivato forte e chiaro anche da questa parte dell’oceano.

(Il Mattino, 8 novembre 2016)

Ma il fuorionda non dice di lui nulla di nuovo

trump

Il Grande Fratello e Donald Trump: trovate le differenze. Negli studi del Grande Fratello, col favore della notte, il calciatore Stefano Bettarini sciorina con un certo orgoglio all’amico Clemente Russo, il pugile, quello che ti combina con le donne: linguaggio greve, offese e spacconate, maschilismo e sessismo come se piovesse. Donald Trump, quanto a lui: è un vip vero, e ha pure un bel pacco di milioni, come volete che si comporti un tycoon come lui, con le donne? Come Stefano Bettarini (o forse Bettarini si comporta come Trump: non so). Certo, di mezzo c’è l’Atlantico, e l’elezione del Presidente della prima superpotenza mondiale: non è la stessa cosa chiedersi se Bettarini sia degno di rimanere nella casa del Grande Fratello o domandarsi se Trump sia degno dell’altra casa, quella bianca che sta a Washington, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Ma tutti e due fanno le stesse battutacce sulle donne, cose che nell’editoriale di un giornale si fa fatica a riferire, anche prendendole fra le pinze delle virgolette.

Dunque non le riferirò. Ma non riferirò neppure quello che si trova nelle mail che scambio con un gruppo di amici rigorosamente maschi, o quel che in anni e anni di onorata carriera sui campi di calcetto più scalcagnati della periferia ho detto e sentito, al riparo da microfoni e telecamere (ho un’età: gli smartphone non stavano in tutte le tasche, o in tutti gli accappatoi). Quel che è certo, è che mi manca un buon numero di requisiti per divenire presidente degli Stati Uniti d’America. Tra questi, il non aver vinto le primarie dei repubblicani o dei democratici, e il non avere un cellulare, una casella di posta elettronica o una rete di amicizie maschili a prova di qualunque captazione.

Dite quel che volete, anzi lo dico prima io: l’ultimo candidato che potrei votare in America è Donald Trump. Tra lui e un democratico – qualunque democratico – sceglierei il democratico. Ma anche se fossi costretto a scegliere fra lui e un repubblicano, o addirittura un Bush a piacere, uno qualunque, preferirei un Bush. Insomma: non ho alcuna simpatia per l’uomo, per il politico, per il personaggio. Ma non riesco a convincermi che la partita delle presidenziali possa essere decisa da un fuori onda di dieci e più anni fa. Né riesco a rassegnarmi al venir meno della differenza fra pubblico e privato. Il caso di Bettarini è diverso: perché lui ha accettato per contratto di stare in un posto dove telecamere e microfoni gli ronzano attorno ventiquattro ore su ventiquattro. Ma Trump no, o perlomeno non gli si può chiedere di accettarlo ora per allora, con il senno di poi.

Mi si dirà però che è giusto che l’opinione pubblica sappia tutto, ma proprio tutto quello che pensa Donald Trump. Ed è vero. Ma ditemi: siete così ingenui dal non aver mai sospettato cosa pensi Trump delle donne, siete così ingenui da aver bisogno del fuori onda? Il punto non mi pare che sia questo, ma se convenga – convenga a tutti noi, non a Trump, che se la caverà egregiamente anche qualora non venisse eletto – che cada definitivamente il sapientissimo velo di ipocrisia con cui abbiamo costruito le società liberali moderne. Siamo arrivati dove siamo arrivati grazie a un buon numero di separazioni: separazione della religione dalla politica e della Chiesa dallo Stato, separazione dei poteri, separazione della morale dal diritto, separazione del cittadino dal borghese, separazione del censo dal voto, separazione anche tra pubblico e privato. Prima di smantellare tutte queste separazioni: non sarà il caso di chiedersi almeno cosa ci attende dopo?

Al diavolo Trump! Magari lo scaricano, magari subentra in corsa il vice-presidente: è il mio augurio all’America. Ma non è il caso di augurarsi, per esempio, che quello che c’è nel mio smartphone rimanga per l’appunto solo mio, senza intrusioni di sorta? Qualche anno fa, in una bella commedia di Paolo Genovese, «Perfetti sconosciuti», tre coppie (più uno) accettano per gioco, durante una cena, di rinunciare alla privacy del telefono: i messaggi saranno letti da tutti, le telefonate andranno in viva voce. Non vi racconto le cose terribili che capitano alle coppie, sotto la dittatura di quella trasparenza assoluta: potete immaginarlo (o comunque vedetevi il film). Ma insomma: senza il diaframma di una vita privata, senza la possibilità di dire bugie, non c’è vita in comune: non coniugale, ma nemmeno pubblica. Non mentire, dice il comandamento. Ed è ben detto: ma se è ben detto vuol dire che devo poter mentire, e che si mi togli la possibilità di mentire mi togli anche la possibilità di essere e valere come uomo.

Forse un Presidente degli Stati Uniti d’America non mente mai. In pubblico: d’accordo. Ma quanto alla sua vita privata, ai suoi costumi sessuali, ma anche solo agli scherzi volgari con gli amici? Sbaglio, o il più mitico presidente degli USA, John F. Kennedy, qualche piccola bugia la diceva, sulle sue marachelle private?

Il fatto è che le parole non se ne stanno più ferme là, dove vengono pronunciate: grazie alla tecnologia, ai dispositivi elettronici, alla rete, stanno ormai dappertutto ed è difficilissimo cancellarle. Capiamoci, però: questo significa che il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America non potrà più essere quel tipo di uomo che ha trascorso una serata tra amici, e l’ha raccontata a qualcuno. Forse è un bene, tanta moralità e purezza. O forse no, forse è meglio meno verità e autenticità, ma più libertà di distinguere fra le parole dette a un amico o a un pubblico ufficiale, in chiesa o in un comizio, in un sms o in un testamento.

(Il Mattino, 9 ottobre 2016)