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La nuova gauche senza complessi

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Il voto francese mostra alcune cose con una certa chiarezza.

La prima: gli elettori hanno apprezzato con Emmanuel Macron un’offerta politica nuova, non strutturata in una formazione politica di tipo tradizionale, fondata sulla capacità di aggregazione di una singola personalità.

La seconda: i partiti storici sono stati nettamente battuti, tanto a sinistra quanto a destra. Le conseguenze si sono fatte subito sentire. Fillon ha già presentato le dimissioni e dunque non guiderà il centrodestra alle prossime elezioni legislative, mentre a sinistra l’ex premier Manuel Valls ha dichiarato che il partito socialista è giunto alla fine di un ciclo, e forse alla fine della sua storia. Mi piacerebbe parlare di una ricostruzione, ha aggiunto, ma forse è presto: per ora siamo «in una fase di scomposizione, di demolizione, di decostruzione».

La terza cosa: la vittoria di Macron è stata certamente favorita dalla sua collocazione al centro dello spettro politico, dove lo spazio si era fatto più ampio che mai, dopo la vittoria di Hamon su Valls, nelle primarie del partito socialista, e quella di Fillon su Alain Juppé, a destra. Per l’elettorato francese, i due partiti tradizionali si erano dunque spostati verso le estreme, con un riflesso identitario che ha potuto forse rassicurare la base dei rispettivi schieramenti, ma non ha pagato nella competizione. L’uno e l’altro si sono fatti simili ai candidati più estremisti, e alla fine dall’uno e dall’altra sono stati scavalcati: Mélenchon ha umiliato Hamon a sinistra; la Le Pen ha superato Fillon a destra. Una débacle, insomma.

Il quarto punto riguarda la geografia politica della Francia, che esce dal voto di domenica: la Le Pen ha le sue roccaforti nel Nord Est e nel Sud della Francia; Macron vince nel Nord Ovest e nelle città, prima fra tutte Parigi.

Il quinto punto riguarda invece l’assetto istituzionale, che non ostruisce ma anzi rende possibile il passaggio da una Francia all’altra: dalla Francia di socialisti e gollisti alla Francia di macronisti e lepenisti. Anche in una fase di profonda trasformazione del sistema politico il Paese non rischia l’ingovernabilità.

La sesta istruzione che viene dal voto riguarda le piattaforme politiche uscite vincitrice dal primo turno: non potrebbero essere più distanti. E alla fine gli elettori hanno tenuto aperte entrambe le vie: quella europeista e quella antieuropeista. Per Macron, fuori dell’Unione non c’è salvezza. Per Marine Le Pen, c’è salvezza solo fuori dell’Unione europea. Non v’è dubbio che qui vi è un discrimine molto preciso: non si può dir male dell’Europa e votare Macron, come non si può dirne bene e votare Le Pen. Tutti gli altri temi della campagna elettorale presentavano molte più sfumature di quanto non ne presenti il tema europeo: per Macron, la Francia è la Francia solo in Europa; per la Le Pen l’Europa può passare, la Francia eterna resta.

Settima e ottava istruzione (a sinistra): vi può dunque essere un europeismo senza complessi, senza ipocrisie, senza colpi al cerchio e alla botte insieme. Ma ne viene anche, per conseguenza, una linea di frattura molto chiara e incomponibile con la sinistra radicale, che votando Mélenchon dichiara di vedere in Macron una novità puramente cosmetica, una mera riverniciatura delle politiche neoliberali di questi anni, una perpetuazione sfacciata dell’establishment con gli stessi mezzi anche se non con gli stessi volti. Mélenchon che prende quasi il 20%, surclassando il partito socialista di Hamon, significa: i contenuti sociali di una formazione di “vera” sinistra non possono più stare su una linea di continuità con le politiche dell’Unione. (En passant, una lezione che viene dalla storia: la sinistra che ragiona in termini di “vera” o “falsa” sinistra, perde sempre). Nei confronti dell’Ue, Mélenchon ha in effetti toni più vicini a quelli della Le Pen che a quelli di Macron: non a caso non ha detto una sola parola di sostegno per Macron, neppure turandosi il naso, in chiave repubblicana e antifascista. Il pericolo non è la destra populista e xenofoba, in definitiva, ma la megamacchina del finanzcapitalismo, per dirla con l’aspro neologismo coniato da noi da Luciano Gallino.

Il punto numero nove riguarda invece la destra nazionalista e sovranista di Marine Le Pen. Che ha conseguito un risultato storico, che forse può crescere ancora, ma che non ha sfondato e difficilmente sfonderà al secondo turno. In ogni caso, più che dire che non vi sono più la destra e la sinistra risulta che anche di destre, come di sinistre, ce ne sono due. E che anche a destra, almeno in Francia, non riescono a sommarsi, ma anzi si contrappongono duramente l’una all’altra. È questo che rende più facile parlare perciò di altri tratti discriminanti: apertura e chiusura, progresso e conservazione, globalizzazione sì o no, modernizzazione o rifiuto della modernità.

Il decimo punto, infine, è in realtà meno chiaro di tutti gli altri, e riguarda il possibile raffronto con la situazione italiana: Macron è il Renzi francese? E chi è l’emulo della Le Pen in Italia: Salvini, la Meloni o anche Grillo? È evidente che certi significanti tornano, e potranno essere decisivi nel prossimo futuro: europeismo, populismo, riformismo. Quello che però non torna – o almeno non coincide – è il confronto sul piano istituzionale ma anche l’articolazione dell’offerta politica. Noi non abbiamo il semipresidenzialismo francese, e questo fa la differenza. E spiega forse per esempio perché Renzi non ha scelto la strada solitaria di Macron. Contano poi i tempi: ci sia riuscito o no, il Pd è nato proprio per avviare quei cambiamenti nel campo della sinistra che il partito socialista francese è costretto ad affrontare solo ora. D’altra parte, a destra, dopo che c’è stato Berlusconi non c’è quasi più nulla che possa dirsi legato alle famiglie politiche del Novecento.

Ma non legato al Novecento, non legato all’establishment, non legato alla vecchia politica è anche il Movimento Cinquestelle, qui da noi. La sfida all’europeismo e alla modernizzazione viene dunque da un’altra parte, e per questo il risultato è molto meno scontato di quanto, stando ai primi sondaggi, non sarà per Emmanuel Macron, al secondo turno delle presidenziali in Francia.

(Il Mattino, 25 aprile 2017)

Chi ha paura (e disprezzo) della politica

A turkey looks around its enclosure at Seven Acres Farm in North Reading

È possibile che nel falò del 4 dicembre si bruceranno molte ambizioni. Se avesse ragione l’Economist, che ieri ha provato a ragionare sul significato del voto referendario e i possibili scenari futuri, è l’intera classe politica italiana che dovrebbe, se non bruciarsi, almeno farsi da parte, per lasciare spazio ad un «governo tecnico ad interim». L’autorevole settimanale britannico, schierandosi per il no al referendum, sostiene che la riforma costituzionale darebbe troppo potere al futuro premier. Giudizio discutibile, naturalmente, ma ancor più discutibile è il paradosso che l’Economist ne ricava. Che cosa succederebbe infatti, se a riforma approvata, gli italiani votassero Grillo alle prossime elezioni? Il timore che la riforma targata Renzi possa fare il gioco dei Cinquestelle spinge il giornale a suggerire la soluzione tecnica: per timore di un ribaltamento degli istituti della democrazia liberale, ad opera dei grillini, si suggerisce di cominciare subito con una specie di commissariamento soft, una sorta di prudente sospensione più o meno concordata, magari etero-diretta da Bruxelles.

Una simile logica è in reale proprio ciò che tiene lontana l’Unione europea dai cittadini. Perché l’argomento dell’Economist consiste in sostanza nel chiedere di sterilizzare gli effetti del pronunciamento elettorale: proprio come si continua a fare, nel tentativo di far passare in Europa riforme che si giudicano al contempo necessarie ma impopolari. Il populismo, in questo schema, è lo spauracchio, ma è anche il contraccolpo dell’ostinazione con la quale nelle capitali europee di perseguono politiche che non sono in grado di conquistare il necessario consenso.

La cosa notevole è però che questa volta è il sì il risultato da sterilizzare. È evidente, infatti, che la deriva autoritaria è un pericolo sovrastimato: l’Economist cita (e mette sgradevolmente sullo stesso piano) Mussolini e Berlusconi, ma sono paragoni del tutto privi di senso storico. Tanto Mussolini quanto Berlusconi arrivano alla guida del governo per la debolezza del sistema politico e istituzionale, e non già perché l’assetto costituzionale del paese ha tolto le garanzie e i contrappesi, facendo spazio all’uomo forte. Nel caso di Berlusconi, poi, era tanto poco forte la sua condizione che nel ’94 il suo primo governo cadde dopo pochi mesi. Dunque il raffronto storico è del tutto improponibile e va rovesciato: è la debolezza che apre la strada, se mai, a soluzioni autoritarie, non già il rafforzamento delle istituzioni.

Perciò la preoccupazione del settimanale sembra avere un altro senso, e cioè che il sì alla riforma metta in circolo troppa energia politica. Per il prudente e tecnocratico establishment dell’Unione è una condizione con cui è meglio non misurarsi.

Ma chi utilizzerà questa energia, sgombrato il campo dai timori per la democrazia (che spingono per paradosso – come si è visto – a mettere tra parentesi la democrazia): ecco ora il tema. Negli ultimi giorni, si è fatto sempre più chiaro che una parte decisiva sul risultato finale può giocarla il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Se tutta l’attenzione si è concentrata sulle esternazioni di De Luca, al di là dei toni esorbitanti, una ragione c’è. La Campania può essere veramente l’ago della bilancia. È come se sui due piatti stessero da una parte il governatore campano, e dall’altra quello della Puglia. Il sì e il no possono decidere chi dei due peserà di più. In gioco c’è sicuramente la rappresentanza delle ragioni del Sud, ma c’è anche il partito democratico e gli equilibri di tutto l’arcipelago della sinistra. È in vista di quei futuri, nuovi equilibri, che a Napoli si avvicinano a De Magistris pezzi del bassolinismo, la Cgil, i dalemiani: tutto quello che può essere manovrato contro Renzi, insomma. Nella stessa prospettiva si muove anche Emiliano, che nella futura partita congressuale proverà a giocare da principale antagonista di Renzi. Tutt’altro scenario si disegna se invece sarà il sì a prevalere, e De Luca a determinare il risultato con il voto campano. I piccoli fuochi si spegneranno, e si aprirà una fase diversa, incentrata sull’asse preferenziale fra il premier e il governatore. Questo è ovviamente solo una parte del significato che avrà il voto del 4 dicembre. Ma è una parte non piccola, perché, al di là dei futuri meccanismi elettorali o del nuovo ordinamento istituzionale, imprimerà un segno forte anche al sistema politico italiano.

(Il Mattino, 25 novembre 2016)

Il sisma e gli zero-virgola

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La terra torna a tremare ancora, nel centro Italia. Torna a fare danni, provocando crolli e seminando paure fra la popolazione. Linee elettriche saltate, treni rallentati sulle tratte ferroviarie interessate, scuole chiuse. Difficile fare un primo bilancio. Un territorio fragile, che l’incuria ha, negli anni, contribuito a indebolire, si scopre ancora una volta particolarmente vulnerabile. E vulnerabile si rivela il patrimonio edilizio italiano, e la straordinaria eredità culturale disseminato nelle città d’arte, nei paesi, nei mille borghi italiani.

D’improvviso, la discussione sul punto decimale che divide il governo italiano dalla Commissione europea che sorveglia i nostri conti appare quasi ridicola. Un’inezia, a confronto dell’emergenza che si abbatte sul nostro Paese. Certo, l’Unione europea ha le sue regole, ed è giusto che ne chieda il rispetto. Ma è giusto anche che la loro interpretazione – che ha significativi margini di flessibilità, come si è dimostrato in più di un’occasione – tenga conto delle condizioni date: dei diversi paesi membri e dell’Unione presa nel suo insieme. Ciò che allora le condizioni storiche, in questo tempo di crisi, non riescono a fare – e cioè: smuovere le autorità di Bruxelles da una linea di austerità economica di cui, per usare un eufemismo, pochi al di fuori della Germania vedono i benefici – può darsi che lo possano fare le condizioni naturali che il terremoto di ieri sera, purtroppo, ripropone con la forza di una drammatica attualità.

Nei giorni scorsi, si era capito che al governo italiano la Commissione rimproverasse una certa disinvoltura nell’ampliare il programma di investimenti pubblici per la messa in sicurezza del territorio nazionale, sulla base del margine concesso dopo il terremoto di Amatrice. Ieri, una nuova, forte scossa si è incaricata di dimostrare che, forse, l’Italia tutti i torti non li aveva. Che l’imprevedibilità e il forte rischio di nuovi episodi sismici non sono un’emergenza inventata per racimolare punti percentuali di deficit in più, ma richiedono effettivamente al Paese uno sforzo straordinario.

Si può ben dire, naturalmente, che metterla in questi termini significa strumentalizzare il terremoto di ieri. Lo si può e lo si deve dire, perché è così, perché il sisma di ieri può essere davvero lo strumento per aprire la governance europea ad una diversa considerazione degli investimenti pubblici, finora tenuti dentro il patto di stabilità e strangolati dal rigore finanziario, soprattutto nei paesi come il nostro gravati da un così alto debito pubblico.

Qualche giorno fa, parlando alla Camera, il Presidente del Consiglio aveva del resto dichiarato:

«Un Paese che ha vissuto tre terremoti come quelli dell’Aquila, dell’Emilia e quello di Amatrice, Accumuli e Arquata, può permettersi di soggiacere a regole burocratiche per non guardare alle esigenze dei propri cittadini? E’ inaccettabile anche che qualcuno lo pensi». La strumentalizzazione non era forse già tutta lì, nel mettere in fila tre terremoti relativamente distanti nel tempo, per giustificare il programma italiano di rilancio degli investimenti? Forse sì, ma l’alto rischio sismico non è tuttavia un’invenzione del governo.

Sia chiaro: nemmeno gli amici di Giobbe, quelli che dinanzi a qualunque disgrazia o sventura provavano comunque a rintracciare un disegno finalistico nell’opera del Creatore, si permetterebbero di considerare provvidenziale il terremoto di ieri sera. Forse però è provvidenziale, nel senso che costituisce una buona ventura, il fatto che il governo abbia già presentato i numeri della prossima legge di stabilità, insistendo sulla necessità di rivedere quegli aspetti della politica economica che impediscono di agire sulle leve dello sviluppo. Il sisma di ieri suona così come un «a fortiori». Permette di dire: a maggior ragione. A maggior ragione appaiono stupidi i parametri del patto di stabilità, a maggior ragione appaiono miopi vincoli assoluti di bilancio, a maggior ragione sembra suicida portare l’Europa a sbattere contro il muro del trattato di Maastricht. Se non lo è dal punto di vista dell’ortodossia economica, di cui si fanno custodi a Bruxelles, a Berlino o a Francoforte, lo è sicuramente dal punto di vista della sostenibilità politica di una simile rotta.

Il ministro Del Rio ha ricordato che in Italia gli investimenti pubblici e privati sono diminuiti di ben 110 miIardi di euro, dall’inizio della crisi. In Europa siamo a meno 250. Il ministro Calenda ha presentato le misure orientate alla ripresa degli investimenti privati, evidenziando sia la mole ingente (13 miliardi in sette anni) che la direzione (competitività e innovazione tecnologica) che, infine, il metodo (con automatismi che eliminano o almeno riducono l’intermediazione politico-burocratica). Ora Bruxelles guardi bene tutti i conti e faccia le pulci alla manovra, chieda chiarimenti e scopra le eventuali, mancate coperture; vigili, insomma, e controlli. Ma non dimentichi che ieri, tra le Marche e l’Umbria, la terra è stata di nuovo scossa. E che l’Italia, ma l’Unione intera, ha bisogno di ripartire.

(Il Mattino, 27 ottobre 2016, col titolo Se il sisma smonta gli zero-virgola dei censori europei)

D'Alema e la Ue. Veleni a sinistra

Secondo Martin Schulz, la colpa è dei governi. E segnatamente del governo italiano, che essendo un governo di centrodestra si è guardato bene dal fare il nome di D’Alema per la carica di ministro degli Esteri della UE. Il presidente dell’eurogruppo socialista in Europa indica dunque in Berlusconi il responsabile del mancato successo italiano. È prevalsa la logica dei governi, dice, e siccome D’Alema non aveva dietro di sé un governo amico, non ce l’ha fatta.
Ora, è una singolare argomentazione quella che propone come attenuante ciò che casomai dovrebbe valere come aggravante. Almeno in politica, dove c’è poco da esimersi dalle proprie responsabilità adducendo a scusante la propria debolezza, e la forza altrui. Schultz ha detto insomma che i partiti europei – e lui stesso, che ne è autorevolissimo dirigente – non hanno voce in capitolo. Non resta che prenderne atto, e magari invitare i socialisti che si riuniranno a congresso, a Praga, il 7 e 8 dicembre prossimi, a scuotersi di dosso lo spirito di rassegnazione con cui, stando almeno alle parole di Schulz, hanno affrontato questo snodo cruciale della politica europea.
Ma il punto veramente decisivo della partita giocata a Bruxelles è un altro. La logica dei governi, che secondo la ricostruzione di Schulz ha prevalso, non ha prevalso solo tra i popolari: se così fosse, quello di Schulz sarebbe l’atto di accusa di un fervente europeista contro gli interessi, anzi contro gli egoismi nazionali che tornano sempre di nuovo a soffocare i generosi slanci delle forze progressiste e socialiste. Purtroppo non è così, perché la logica dei governi ha prevalso proprio là dove una forza socialista, che sia coerente con il proprio DNA europeista e punti al rafforzamento dello spirito comunitario, avrebbe dovuto avere l’animo di contrastarla: cioè tra le proprie file, tra laburisti inglesi, socialisti spagnoli, socialdemocratici tedeschi.
Questo Schulz dovrebbe dirlo. Se infatti, tra i socialisti europei riuniti, accade che Gordon Brown si alzi, si schiarisca la voce e metta poi avanti, senza troppi giri di parole, le ragioni nazionali – sue e del suo governo –, com’è appunto accaduto, tocca o sarebbe toccato ad un partito all’altezza della situazione, quale forse in quest’occasione il PSE non è stato, far presente con qualche fierezza che il criterio di scelta del ministro degli esteri dell’Unione non può essere quello di aumentare le probabilità di vittoria (o, più realisticamente, di onorevole sconfitta) di Brown nelle elezioni britanniche del 2010. Toccava insomma proprio a Schulz, tra gli altri, indicare con chiarezza di visione le linee di azione del partito socialista in Europa e nel mondo, e far discendere da quelle una scelta di alto profilo, coerente e autorevole.
E invece Schulz ha taciuto. E invece è prevalsa la logica dei governi, ma non si può proprio dire, purtroppo, che il partito socialista si sia battuto contro: ha anzi ospitato senza imbarazzi quella logica tanto deprecata nel proprio campo, con la miopia di chi non comprende che in questo modo non si andava compiendo solo una scelta di basso livello, ma si mostrava un’acquiescenza politica preoccupante nei confronti della linea che il PSE dovrebbe, per essere credibile, non solo deprecare il giorno dopo, ma anche combattere il giorno prima.
Quest’ultimo punto, che tocca l’identità di una forza socialista in Europa, è quello che dovrebbe maggiormente preoccupare i congressisti di Praga. Non per piangere sul latte versato, ma per farsi qualche domanda. Ad esempio: se il partito popolare si presenta in Europa come una forza egemone, è solo colpa del destino, o di un certo deficit culturale e progettuale dei socialisti? Ci si può limitare a dire che è sempre solo colpa degli altri, che sono più forti, dimenticando che il compito di un partito è proprio quello di dare forza alle proprie ragioni? E si può trascurare il fatto che quelle ragioni non avranno mai la forza necessaria, se nei momenti in cui si tratta di avanzarle si preferisce invece rinunciare e accodarsi?
Qual è il senso dell’impegno dei socialisti in Europa, insomma? Può darsi infatti che essi scontino la debolezza generale dello strumento partito, che noi in Italia peraltro ben conosciamo. Ma allora sappiano almeno che hanno, proprio in quanto socialisti e come democratici, un primo, decisivo punto all’ordine del giorno del loro congresso prossimo venturo.