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Opportunità e rischi con un liceo di quattro anni

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L. Fontana, Concetto spaziale. Attese (1964)

Quattro anni invece dei tradizionali cinque anni di liceo. L’aspetto positivo della sperimentazione avviata dal ministero dell’istruzione è che, appunto, si tratta di una sperimentazione. Non dunque di una riforma fatta e finita, ma di un primo passo per provare ad abbreviare i percorsi didattici e accorciare i tempi di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, avvicinandoci così agli altri paesi europei. L’intenzione del governo non è quella di ridurre la quantità e la qualità dell’insegnamento nelle scuole secondarie superiori, ma quello di comprimerlo, in modo da svolgere i programmi in quattro anni anziché in cinque.
Una sperimentazione va valutata dopo un congruo periodo di tempo, sulla base dei risultati, ed è quindi prematuro esprimere un giudizio compiuto. Tuttavia è lecito nutrire qualche dubbio sul fatto che sia questa la strada da preferire per affrontare i problemi della scuola italiana. Che sono certamente legati all’inserimento nel mondo del lavoro e quindi al collegamento di questo mondo con quello dell’istruzione e della formazione, ma che sembrano per questo dipendere molto di più dalle condizioni del sistema universitario, che non dalla durata dei percorsi liceali.
Questo è infatti il primo dubbio: che il Ministero guardi nella direzione sbagliata, e punti a cambiare la scuola quando invece si tratterebbe anzitutto di potenziare la formazione universitaria. L’Italia ha ancora pochi laureati, a confronto con i partner europei. E per portare più giovani a laurearsi è dubbio che possa servire abbreviare gli anni di studio al liceo. Quel che occorre è invece una robusta inversione di tendenza nelle politiche condotte finora verso l’università: in termini di finanziamento del fondo ordinario per gli Atenei, ma anche di orientamento allo studio, e di borse a sostegno del diritto allo studio. Pochi ragazzi hanno chiaro in testa cosa significhi lo studio universitario, e troppo poco fanno le scuole e le università per chiarirglielo. In queste condizioni, togliere un anno non è un contributo alla chiarezza: riduce i tempi, ma c’è il rischio che aumenti le distanze.
Dalla sponda universitaria si vede bene un altro motivo di perplessità di fronte alla sperimentazione annunciata. Un buon sistema educativo assicura una buona formazione di base. Per formazione di base non intendo una formazione elementare, ma una formazione generale, sopra la quale soltanto possono innestarsi percorsi specifici. Questa esigenza è tanto avvertita, che gli ultimi dati attestano un movimento in contro tendenza rispetto agli anni precedenti, con un ritorno significativo agli istituti liceali rispetto agli altri tipi di istruzione secondaria superiore. Quello che i licei assicurano è infatti una formazione ampia, profonda, non specificamente tecnica, non immediatamente professionalizzante, in grado di aprire a ventaglio, non di chiudere e limitare, le possibilità di proseguire gli studi dopo la chiusura del ciclo scolastico. Non è vero affatto, peraltro, che le imprese abbiano bisogno di figure già dotate di abilità precise e ben delimitate: hanno bisogno semmai di giovani sempre più in grado di costruire nuove competenze anche al termine del periodo di formazione scolastico. Per dirla con una metafora biologica: non hanno bisogno di cellule specializzate, ma di cellule totipotenti. Ora, questa capacità, che nel linguaggio contemporaneo si esprime anzitutto in termini di flessibilità, si acquisisce non al termine, ma all’inizio dei processi di formazione scolastica. Di nuovo, dunque, appare il rischio che comprimere lo studio liceale non garantisca un reale vantaggio, ma comporti piuttosto una perdita.
Infine, ripensare la scuola significa ripensare anche le cose che vi si insegnano. Noi restiamo un paese povero di cultura scientifica, che di solito, quando riflette su questa carenza, non trova di meglio che chiedere, per ovviarvi,  meno cultura umanistica. Come se il gioco fra le due culture fosse ancora un gioco a somma zero. Non è così, perché la cultura è una e le sue parti possono e devono sostenersi reciprocamente. Piuttosto, è l’illusione che la scuola possa mettersi a scimmiottare quello che accade in altri luoghi della società e della vita pubblica, e che i ragazzi sono ben in grado di imparare in altro modo e per altri canali, a togliere spazio – ma anche credibilità e autorevolezza – alla formazione scolastica. Svecchiare la scuola non può significare dunque imbellettarla con qualche nuovo strumento tecnologico, dimenticandosi di curare l’impianto formativo di fondo.
Va bene sperimentare, insomma, ma senza illudersi che lo scopo della scuola sia solo quello di far prima. Pochi, maledetti e subito vale forse per qualche affare da concludere rapidamente, ma non può essere la qualità dei nostri ragazzi quando escono dal liceo.
(Il Messaggero, 8 agosto 2017)

Filosofia: un bisogno, non solo un sapere

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Ovunque, nel mondo, vi è stata una grande filosofia, lì vi è stata anche la posizione filosofica della questione del suo insegnamento, della sua trasmissione, della sua tradizione e della sua pratica. Platone, per dire non l’ultimo ma il primo arrivato, ci volle fondare su un’Accademia, e ha disseminato i suoi dialoghi di istruzioni, implicite ed esplicite, sul buon uso del logos filosofico. Dopo di lui, tutti gli altri: non solo gli antichi (per i quali era più facile: bastava fondarla, una scuola), ma anche i moderni, che hanno dovuto acconciare la materia alle esigenze (evidentemente non solo didattiche) delle istituzioni dell’epoca, la Chiesa e lo Stato. Oggi la filosofia si trova là: nell’università, dove da poco più di due secoli – dopo tutto: non un tempo lunghissimo – viene insegnata in regolari corsi di studio, e dove continua naturalmente a entrare in conflitto con le altre facoltà, come ben sapeva Kant.

Se però è vero che ci vuole una grande filosofia per porre daccapo la questione di cosa significhi insegnarla, è anche una fortuna che le grandi filosofie non si succedano l’una dopo l’altra come i cambi d’abito: ad ogni nuova stagione. Altrimenti, con la stessa frequenza, si dovrebbero richiedere riforme legislative. Thomas Kuhn diceva che ci sono periodi in cui la scienza, il sapere in genere, se ne sta tranquilla dentro i propri paradigmi, e periodi in cui invece prova a sovvertirli. Ora, in che razza di periodo viviamo, dal punto di vista del sapere filosofico?

Qualche anno fa, in un’informata guida alla filosofia contemporanea si mostrava come non fosse possibile restituire un’immagine del pensiero contemporaneo senza includervi il tratto di “fine della filosofia” che sembra sbucare fuori ovunque: perché il suo credito scientifico è ridotto al lumicino, perché la tecnica si mangia ogni cosa, perché andare a braccetto con la storia l’ha fatta precipitare in un indistinto relativismo, perché non solo la scienza ma anche altri ambiti della cultura umana che di solito si accompagnavano alla filosofia si sono un po’ stufati: la politica ad esempio, per via della famosa fine delle ideologie in Occidente, oppure l’arte, che avrebbe scelto la strada più diretta della sua riproducibilità finanziaria (Andy Warhol: fare buoni affari è la forma d’arte più affascinante).

Può darsi che questa immagine non sia generosa, che vi siano miriadi di problemi particolari su cui i filosofi possono esercitarsi con profitto, che sia non il mestiere del filosofo ma solo i suoi paramenti sacerdotali ad essere caduti in disuso. Sta di fatto che le grandi filosofie latitano, e quindi le riforme che ne investono la caratura universitaria non debbono scontrarsi coi “funzionari dell’umanità”, ma solo con quelli più prosaicamente addetti al calcolo del numero dei crediti universitari necessari per accedere alla relativa classe di concorso.

La situazione, dunque, sta così: che non è previsto, nello schema di decreto legislativo in discussione, un numero minimo di crediti nella didattica specifica della disciplina. Si insegna a insegnare la qualunque, con l’idea che in questo modo si insegna a insegnare pure la filosofia. È un’idea assai discutibile: ma chi la discute? Ci hanno provato i presidenti delle Società di filosofia con una lettera, apparsa qualche giorno fa sul Corriere della Sera, accolti da un generale silenzio. Ieri è stata la volta di Mario De Caro e Pietro Di Martino, sul Sole. Ma non è di buon senso supporre perlomeno che per insegnare filosofia, per quanto malconcia essa sia, bisogna comunque averla studiata? Se sì, come mai allora il laureato in filosofia che acceda all’insegnamento di storia e filosofia nella scuola deve avere incamerato 36 crediti in discipline filosofiche, mentre un laureato in materie antropo-pisco-pedagogiche, per lo stesso insegnamento, può fermarsi a 24?

È solo colpa della fortuna declinante di quella che una volta, molto tempo fa, era la regina delle scienze, oppure c’è il concorso di una disattenzione, almeno altrettanto colpevole, del legislatore, che mentre cambia le vie di accesso alla professione docente (con qualche merito innegabile: mettendo fine ai megaconcorsi e costruendo un percorso formativo triennale, tra scuola e università, sulla base dei posti effettivamente disponibili), cambia pure lo status della disciplina, relegandola nella serie B dei saperi? Certo, si può anche decidere che non occorre conoscere la filosofia per insegnarla, oppure che è giunta l’ora di non insegnarla affatto. Che non c’è alcun “bisogno di filosofia”, come diceva quel cane morto di Hegel, oppure che è la sua esistenza universitaria a non potersi più giustificare. Importante è dirlo però chiaro e tondo, farci magari anche un bel dibattito su, e non farlo di soppiatto, cambiando qualche numeretto, e relegando la tradizione filosofica del pensiero in una posizione puramente ancillare rispetto al resto delle scienze umane. (Ma la filosofia, infine, è davvero una scienza “umana”?)

(Il Mattino, 8 maggio 2017)

Il professore Adinolfi

Martedì, ore 19.05: il professore Adinolfi osa entrare nel suo studio, sfidando le tenebre già calate sull’edificio con poco meno di un’ora di anticipo rispetto all’orario di chiusura. Si aiuta col cellulare, riesce a raggiungere il proprio studio e a recuperare quanto aveva dimenticato. Ma al momento di uscire scopre con sommo dispetto che nel frattempo sono state chiuse le porte, e gli tocca scendere per le scale d’emergenza e scavalcare sotto la pioggia il cancello per le auto, per guadagnare l’uscita.

Mercoledì, ore 8.45. Il professore Adinolfi protesta garbatamente con il custode il quale prende nota ma dice di non sapere chi fosse di turno la sera precedente.

Mercoledì, ore 19,45. Il professore Adinolfi ha terminato di lavorare al computer ed esce dallo studio. L’edificio è di nuovo avvolto nelle tenebre. Nessuno lo ha avvertito di nulla, nessuno ha bussato alla sua porta per verificare se non vi fosse qualcuno. L’università dovrebbe chiudere alle 20, e i docenti dovrebbero lasciare l’edificio alle 19.45 (per l’appunto). Ma evidentemente i custodi di turno di sera hanno la fregola, oppure fanno i dispetti, e comunque non fanno il loro dovere, e il professore Adinolfi scende di nuovo per le scale d’emergenza alla luce del telefonino, poi scavalca il cancello e strappa il cappotto rimasto impigliato nel filo spinato.

Il professore Adinolfi s’è incazzato un po’.

Un professore a contratto all'università (e di ruolo nei licei)

"Stamattina compro l’Unità. E siccome Palazzo Giusso (all’Orientale) è occupato, faccio lezione lo stesso, mi sono procurato un’aula a Via Duomo; sono con gli studenti, e naturalmente domani sciopero, ma le occupazioni rompono il sasiccio. La Preside (del mio Liceo) ieri ha detto, mi è stato riferito, che sono alcuni professori a fomentare gli scioperi degli alunni (è da una settimana che non entrano): è questa la pochezza della "classe dirigente": il pensiero format vale soprattutto per loro. Io agli studenti ho solo detto: se occupate vi levo la confidenza, e poi sì li abbiamo fomentati un po’: domani devono assolutamente entrare, per andare in quel posto ai colleghi che non scioperano. In questi giorni se ne sono stati in piazza S. Antonio a fare pubbliche assemblee di piazza, con un microfono con la corrente allacciata per gentile concessione del Bar Commerciale: commentavano il testo della riforma, leggevano i giornali, tutto in pubblico, a viva voce. Un’esperienza formativa, secondo me: qualcosa di meglio delle stanche e rituali occupazioni degli anni novanta. Stamattina è previsto un corteo per il corso, ma men’ acque e vient’. Vento di destra!"

Il turpe segreto

All’Università della California di Los Angeles, sui professori ‘radicali’ pendono taglie. Ho letto la notizia, apparsa sul Corriere, qui. Il sito dello smascheramento è qui ("Hai un docente che non smette mai di parlare del presidente Bush, della Guerra in Iraq, del Partito Republicano o di altre questioni ideologiche che non hanno nulla a che fare con la materia di studio?", chiede Jones [il leader dell’Associazione] in un questionario. "Aiutaci a smascherare un professore e ricompensereo il tuo lavoro con denaro").

Il ‘radicale’ della settimana è tal Douglas Kellner, una tigre. Uno sguardo alla sua formazione culturale permette di trovarci infatti l’indigeribile  "intruglio del complotto mondiale", teorie marxistoide, "pedagogia critica" e una dose schiacciante di odio anti-Bush". E questo sarebbe un filosofo dell’educazione, si chiede Andrew Jones?

E chissà: forse ha ragione. Ma lui, Andrew Jones, cosa sarebbe? (Noi abbiamo Berlusconi, ma loro hanno Shawn Steel, ex presidente del partito repubblicano in California, che dichiara: "Il metodo [delle taglie] ci aiuterà una volta per tutte a mettere a nudo il turpe segreto delle università americane, oggi in mano ai comunisti").