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A Matteo critiche vecchie. Alleanze inutili col proporzionale

PRESENTAZIONE DEL LIBRO QUEL CHE RESTA DI MARX

Cosa significhi reinventare un «partito popolare e nazionale, un partito della nazione», dentro un nuovo sistema proporzionale, dopo venticinque anni di seconda Repubblica? «È tutto da vedere», mi risponde Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, ma di certo non è cosa che si vedesse dai commenti seguiti al voto amministrativo di domenica.

«Secondo me i commenti risentono ancora di un clima e di uno stile formatosi durante gli anni della seconda Repubblica. Non ci si rende conto che il maggioritario è finito. Un ciclo politico è compiuto. Qualunque proiezione sul futuro di dati che provengono da elezioni amministrative è perciò da prendere con le pinze. Tanto più che, in generale, è difficile comparare e proiettare il voto delle elezioni amministrative sul piano politico nazionale».

Eppure son tutti lì a ragionare di coalizioni e schieramenti, anche solo per mettere in difficoltà Renzi. Prodi prova a incollare i pezzi del centrosinistra. Orlando chiede primarie di coalizione. Veltroni dice no all’autosufficienza.

Però Il modo in cui si forma l’orientamento dei cittadini verso (o contro) la politica prescinde largamente da questa discussione. Le prossime elezioni si faranno con una legge proporzionale. Con il proporzionale i governi si formano in Parlamento, molto più che col maggioritario. Gli elettori votano per il partito preferito da ciascuno. Quello che poi determina gli equilibri di governo è la qualità, l’efficacia dell’offerta politica.

D’Alimonte su «Il Sole 24 Ore» scrive che il voto di Genova, di Sesto San Giovanni, di Pistoia (ma anche di Padova, che è andata al Pd) dimostra che ormai tutto è contendibile.

L’unico dato generale e generalizzabile è che hanno perso tutti. È un ulteriore segnale di sgretolamento, di frana: non dico nemmeno di un sistema di partiti, ma di un paesaggio politico. Soprattutto nelle elezioni locali, è ancora più difficile parlare di partiti, che non svolgono più alcuna vera funzione rappresentativa. Dire allora che il centrodestra quando è unito vince, può vincere, è persino ovvio, prevedibile e in verità anche previsto, in situazioni come quelle liguri, di Genova o Spezia, che conosco da vicino. Ma questo cosa ha a che fare col tema di come prepararsi alle elezioni politiche?

Cosa allora vi ha a che fare? Nell’editoriale che ho scritto ieri, ho provato anch’io a mettere da parte le mere sommatorie elettorali e a indicare nelle questioni europee il terreno decisivo della sfida.

Innanzitutto la parte maggioritaria dell’elettorato deciderà in base al bilancio su cinque anni di governo Renzi-Gentiloni: come si fa a ignorarlo? E l’intera legislatura è stata incentrata sul nesso fra Italia ed Europa. Ebbene, è da vedere come si costruirà l’agenda europea dopo le elezioni tedesche e soprattutto chi darà le carte. Da noi conterà la capacità di dire veridicamente ai cittadini, senza imbrogliare, come e perché determinati problemi sono problemi europei.

Ma se è il rapporto con l’Europa a determinare l’agenda, non è complicato per i democratici immaginare dimettere insieme una coalizione di centrosinistra, in vista di una futura alleanza di governo? Dove sono i «buoni europei», a sinistra del Pd?

Ma non è questione di sinistra o destra. I cittadini votano in base ai problemi i più diversi, alle esasperazioni più diffuse, a insoddisfazioni, interessi corporativi, o anche a grandi visioni e grandi narrazioni. Non credo che i cittadini siano molto appassionati di queste categorie di destra/sinistra. Certo c’è una storia, una sedimentazione di valori, ceti politici diversi, culture diverse, che si dicono di destra o di sinistra. Ma non se ne può parlare in base a semplici etichette. È evidente che c’è una certa continuità in un arco di forze che va dai moderati di centro fino a Pisapia: ma a che serve cominciare dalle etichette? È questo il problema che definisce l’agenda politica con cui si deve misurare una leadership?

Provo allora a fare l’avvocato del diavolo e ti chiedo: ma quelli che invece dicono che una forza di sinistra non può condividere strutturalmente l’impianto politico e istituzionale di questa Unione europea, che in essa istanze di sinistra non possono trovare spazio, che l’euro è l’equivalente di quello che sono stati Reagan e Thatcher negli anni Ottanta?

Se, per essere di sinistra, invece che di far pesare le questioni nazionali sul modo in cui si compone l’agenda europea, si tratta di dire: “questa Europa è fallita”, non condivido ma capisco: è legittimo. Ma poi chi dice così non si può mettere insieme con chi pensa: “ma come è fallita? Vediamo invece cosa realisticamente è successo, in base a una cartografia sobria, realistica, del mondo”. Come si fa a dire ad esempio, come fa Veltroni, che per essere di sinistra bisogna fare la lotta alla precarizzazione? La precarizzazione è il modo in cui si riflette sui governi e le nazioni di tutto il mondo questo tipo di globalizzazione. Ed è quanto meno un problema di dimensioni europee. Non possiamo parlare delle cose italiane a prescindere dal contesto. E il nostro contesto storico, economico, la parte che ci spetta in un concerto plurinazionale si decide in Europa. Quello diventa un grande discrimine. Aggiungo: chi ha cambiato il paradigma del rapporto con l’Europa, anche rispetto al centrosinistra degli anni passati, si chiama Matteo Renzi. Sembra poco ma non lo è. Prima si trattava sott’acqua: l’Europa era sentita come vincolo, invece che come responsabilità condivisa. Renzi ha invertito la tendenza. È ancora difficile e non è diventato ancora oggetto di un diverso racconto del Paese, ma questo è il tema.

Nel Novecento, l’essere di sinistra si definiva in base al contesto internazionale, e in base ai mondi sociali di riferimento: l’una e l’altra cosa. La mia impressione è che dopo l’89, essendo mutato il quadro internazionale, la sinistra ha sentito sempre meno la necessità di collocare istanze e rivendicazioni dentro un contesto più ampio di quello nazionale. Non ce la fa più. Prima, quando c’erano i paesi del socialismo reale, viveva quel rapporto come un motivo identitario, oggi lo subisce soltanto.

Diciamo però che quello che è stato importante nel comunismo italiano è il modo in cui ha cercato di interpretare l’interesse della nazione italiana. Per il resto, a parte il PCI, non c’è alcuna grande e gloriosa storia del comunismo in Europa. Però certo: oggi la declinazione dell’interesse nazionale è insieme la declinazione dell’interesse europeo.

Un’ultima cosa voglio chiedertela sul partito. A che punto è il “partito pensante” annunciato da Renzi durante il congresso?

Se devo trovare una connessione fra la leadership di Renzi è un universo identitario dico altro, dico il governo di questi cinque anni. Tutto il resto è da rifare. Ma il problema non è Renzi e nemmeno i suoi difetti. S’è fatto un Congresso due mesi fa: se ci fosse un’alternativa a Renzi sarebbe già emersa. Il Pd rimane però la forza centrale per come ha incorporato il nesso Italia-Europa. Non basta, ma è il punto al quale siamo.

Quel punto è parecchio condizionato dall’esito del referendum costituzionale.

Il referendum è stato uno spartiacque drammatico. Ma chi lo ha perso è il Paese. Si può discutere di come è stata condotta la campagna referendaria (male, almeno al 70%). Ma il referendum non era sul governo; era sull’ossatura politico-istituzionale di questo Paese, in pezzi da vent’anni. Ma dove sono le forze che provano a spiegare che il deficit di competitività di cui soffre l’Italia almeno dal 2001 è una conseguenza dell’impalcatura politico-istituzionale, e che il referendum serviva per spezzare la rete di interessi corporativi e diffusi che rendono molto difficile fare dell’Italia un Paese come la Francia o la Germania?

Già, dove sono queste forze? Saluto Beppe Vacca e noto che mantiene nella voce l’equilibrio fra l’analisi senza indulgenze dello stato del sistema politico e una certa serenità e fiducia nel prossimo futuro. Davvero il miglior commento delle sue parole è in quelle di Gramsci: «Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

(Il Mattino, 28 giugno 2017)

Sinistra senza voce di fronte alle urla della nuova destra

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Come quello che dice: capotavola è dove mi siedo io, così nel Pd (ma anche fuori del Pd) non sono pochi quelli che dicono che sinistra è là dove si trovano loro. Così l’ha messa Renzi ieri, e almeno su questo bisogna dargli ragione: non c’è persona di sinistra, da Marx in giù, che non abbia pensato almeno una volta che di sinistra sono solo le cose che dice lui.

Ma la giornata di ieri, e i fatti di questi settimane, raccontano tutt’altra cosa. Mentre il partito democratico avviava il suo percorso congressuale, con le dimissioni di Renzi, Nicola Fratoianni veniva eletto segretario della neonata formazione di Sinistra italiana. Di sinistre ce ne sarebbero, anzi ce ne sono dunque due, ufficialmente parlando. Però non basta. Perché in mezzo a quelle due ce ne sono già altre tre o quattro, se pure dai contorni ancora ufficiosi: c’è “Possibile”, il movimento di Pippo Civati; c’è il campo progressista di Giuliano Pisapia, in via di costituzione; c’è il drappello di Sinistra e Libertà, guidato da Arturo Scotto, che ha lasciato Sinistra italiana ancor prima che tenesse il congresso; e c’è la neonata associazione “Consenso” di D’Alema, che vorrebbe tanto fagocitare tutte le altre. E infine c’è la minoranza che uscirà dal Pd, in tutto o in parte, ma che non si sa ancora se farà un’altra cosa, diversa da tutte le altre, oppure si unirà a questa o quell’altra formazione già esistente.

In questa situazione, sarebbe facile fare dell’ironia, se la rappresentazione che la sinistra offre in questa fase non esprimesse un dramma vero, una difficoltà reale nell’affrontare uno dei frangenti più difficili della sua storia. Come un film già visto: la destra ritorna infatti prepotente, con parole d’ordine e identità ben riconoscibili, da Trump alla Le Pen, e la sinistra per tutta risposta si divide. Manca solo l’accusa di socialfascismo, perché il remake del Novecento sia completo.

Ieri Veltroni ha detto che il Pd è nato da una fusione, non da una scissione. È stata cioè una singolare eccezione. Perché nella sua storia la sinistra ha offerto molti più esempi di divisione che non di unione. Certo, li ha offerti su un terreno ogni volta diverso, perché le vicende storiche non si ripetono mai uguali, ma con almeno un motivo comune, rintracciabile nella presunzione di possedere una qualche ragione autentica, che la compromissione col potere, oppure con il governo, o con la modernità, o ancora, in termini politici, con il centro e i moderati ogni volta, rischierebbe di disperdere e consumare.

Non c’è altro modo di spiegare come i tre alfieri della minoranza, Rossi Speranza ed Emiliano, abbiano potuto ritrovarsi sotto la bandiera della rivoluzione socialista. Nessuno di loro può presentarsi infatti come un rivoluzionario di professione. Nessuno di loro ha trascorsi massimalisti. Nessuno di loro appartiene alla sinistra antagonista e anticapitalista. Però tutti e tre imputano al partito democratico di Matteo Renzi di aver smarrito le ragioni vere della sinistra, quelle che ne preservano l’autentica sostanza.

Intendiamoci: non mancano sicuramente motivi di più bassa lega per spiegare le manovre di questi giorni: i posti, le liste, la leadership. Ma resta il fatto che la coperta sotto la quale questo gioco si svolge è offerta da quel significante vuoto – si dice così – che viene riempito dall’interpretazione di volta in volta offerta di ciò che è veramente di sinistra.

Una parola-baule, insomma, dentro la quale ci si infilano cose molto diverse. E che però Renzi ieri non ha voluto lasciare alla minoranza, contestandone la pretesa di mantenerne il copyright. Di più: accusando i suoi avversari di conservare della sinistra solo la fraseologia, la prosopopea, i simboli del passato e le bandiere, senza però preoccuparsi minimamente di dargli forma compiutamente sul terreno concreto dell’azione di riforma.

Con i termini che ha impiegato – inclusione, attenzione alle periferie, diritti, terzo settore, ambiente – Renzi ha provato a sgranare il rosario di ciò che il Pd dovrà essere, o almeno di ciò che dovrà discutere, al congresso. Intanto però, ai nastri di partenza si può trovare, nel campionario delle idee della sinistra di oggi, tanto l’inno alla modernità, quanto la critica radicale della modernità; tanto l’europeismo più acceso quanto l’antieuropeismo più preoccupato; tanto il cambiamento della Costituzione quanto la sua tetragona difesa.

Secondo Bobbio, è uguaglianza il discrimine lungo il quale si costituisce l’identità della sinistra. Ma strumenti, politiche, istituzioni che debbono servire per contrastare le disuguaglianze non discendono univocamente da quella semplice idea. Basta vedere.

In primo luogo, le istituzioni. Renzi si è speso su una riforma della Costituzione che doveva dare al Paese istituzioni più semplici e meglio funzionanti. Per la minoranza che il 4 dicembre ha votato no, quelle riforme agevolavano una pericolosa deriva autoritaria: riducevano gli spazi di democrazia, compromettevano garanzie fondamentali. Erano parte di una cultura politica che privilegia il momento della decisione rispetto a quello della partecipazione. In altre parole: erano di destra. Stessa cosa l’Italicum: per Renzi, la nuova legge elettorale definiva finalmente i lineamenti di una democrazia decidente; per le minoranze, in combinato disposto con la riforma costituzionale, metteva in pericolo gli equilibri democratici del Paese.

In secondo luogo, le politiche. Il governo Renzi è intervenuto con leggi di riforma in diversi settori: nella pubblica amministrazione, nella scuola, nella giustizia, nel lavoro. Gli accenti che ha usato la minoranza in queste settimane di passione non hanno mai previsto una sola parola di difesa dell’attività di governo. Sbagliato il Jobs act, che nelle intenzioni del governo modernizza il mercato del lavoro, mentre per l’altra sinistra porta la macchia incancellabile di avere il gradimento di Confindustria e l’ostilità dei sindacati. Sbagliata la posizione sul referendum anti-trivelle: per la sinistra di governo bisognava contrastare ostilità preconcette, di carattere puramente ideologico, mentre per l’altra sinistra bisognava piuttosto contrastare i petrolieri, e magari il potere corruttivo dei loro denari. Sbagliata la riforma della scuola, che per il governo andava in direzione di una maggiore autonomia scolastica, e per gli oppositori invece mortificava irreparabilmente la figura docente. E ancora: sulla giustizia, la sinistra contiene fermenti garantisti e livori giustizialisti; sugli 80 euro, per gli uni sono stati la più grande operazione di redistribuzione fatta in questi anni; per altri sono stati poco più di una mancetta – come i bonus ai 18enni o ai docenti della scuola –, soldi che sarebbero stati meglio spesi in investimenti infrastrutturali.

Infine gli strumenti, cioè il partito. Renzi ha sicuramente assecondato una certa voga anti-politica. Di tagliare poltrone non ha mai rinunciato a parlare. Dell’abolizione del finanziamento pubblico ha fatto quasi un punto d’onore. Quanto però a valorizzare il partito come comunità, o come strumento di elaborazione intellettuale, non ha mai avuto molta voglia. Gli iscritti sono così calati: fisiologicamente per gli uni, patologicamente per gli altri. Il che si è tradotto in convinzioni di segno opposto anche in questa materia: sulla natura della leadership, sull’uso dei nuovi strumenti di comunicazione, sull’importanza del radicamento territoriale, sulle funzioni da assegnare alla dirigenza del partito.

Insomma, il partito democratico – e più in generale il frastagliato arcipelago della sinistra – ha dovuto in questi anni discutere praticamente su tutto, provando a fornire declinazioni diverse su ciascuno di quei temi. Ma nella stretta finale le distinzioni vengono meno, le differenziazioni sfumano, e rimane il significante da riempire sempre allo stesso modo: da un lato ci sono quelli che Renzi è un intruso (e un sopruso), dall’altro quelli che le anticaglie meglio mollarle una volta per tutte, la sinistra non può più essere quella.

E allora cos’è? È Zeman, ha detto una volta D’Alema e anche a lui, almeno su questo, bisogna dargli ragione: gioca bene ma prende tanti gol. A dire il vero, fa pure qualche autogol.

(Il Mattino, 20 febbraio 2017)

La veloce parabola di un’utopia

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C’è qualcosa che non è andato per il verso giusto, nel partito democratico, se Rossi Speranza ed Emiliano, tutti candidati della minoranza alla segreteria di un partito nel quale non è affatto detto che rimarranno, tengono oggi una manifestazione sotto la parola d’ordine della «rivoluzione socialista».

Non è la parola «socialista» fuori posto, dal momento che proprio il Pd ha completato quell’approdo nel socialismo europeo che non era riuscito né al Pds né ai Ds. Achille Occhetto, dopo l’89, ne aveva fatto anzi quasi un punto d’onore, di non lasciare la tradizione comunista per passare in quella socialista. E invece è andata così, e non poteva che andare in tal modo, perché l’unica famiglia politica europea in cui poteva riconoscersi il Pd, partito che doveva riunire tutte le tradizioni del riformismo italiano in un soggetto politico unitario, era il partito socialista.

Ma rivoluzione? Non era il Pd il risultato dell’avvicinamento della sinistra italiana all’area di governo? Da dove viene questa pulsione a rovesciare tutto il percorso compiuto finora dai democratici?  L’uso della parola indica in realtà l’esigenza di marcare la propria identità di sinistra dopo anni che vengono oggi, nel momento della rottura, avvertiti come anni di disorientamento, di smarrimento, di tradimento di storie ed ideali. Anni in cui la sinistra ha governato ma, evidentemente, senza più esser se stessa, almeno per i tre rivoluzionari. La parola «rivoluzione» viene usata allora nel suo significato astronomico: dopo un lungo giro, si torna alla casella di partenza. Che forse non sarà il ’21, oppure il ’45, ma non può essere neppure il 2007, l’anno in cui Veltroni vince le primarie e prende la guida del Pd. E, a dire il vero, non può essere nemmeno il ’96, quando nasce l’Ulivo di Prodi: che socialista non era ma democristiano di sinistra. La rivoluzione di Rossi Speranza ed Emiliano non ha una data assegnabile, ma addita un’origine mitica da qualche parte nel passato: pura e non contaminata dai compromessi accettati per andare al governo. L’euro, le riforme sul lavoro, quella delle pensioni, le liberalizzazioni, il pareggio di bilancio: è possibile che i tre abbiano di qui in avanti per tutti questi capitoli del ventennio trascorso solo parole di critica, per provare a coagularsi con tutto quello che si muove alla sinistra del Pd.

Questo balzo di tigre nel passato fa però sorgere il sospetto che avesse ragione D’Alema quando, a un anno dalla nascita del Pd, nel 2008, descriveva il Pd come un «amalgama mal riuscito». La sua motivazione ideologica più forte doveva stare nel superamento delle divisioni sociali, culturali e politiche che avevano dato forma alla prima Repubblica. In questi termini ne aveva parlato lo storico Roberto Gualtieri, oggi europarlamentare, nel seminario di Orvieto organizzato da Ds e Margherita nel 2006, proprio in vista della nascita del Pd. In quell’occasione il segretario dei Ds di allora, Piero Fassino, aveva sostenuto che era venuto meno il fattore che aveva enfatizzato le differenze tra le diverse culture riformiste italiane socialiste, liberaldemocratiche, cattoliche: il Muro, la divisione del mondo in due. Ma i fatti testimoniano un’altra cosa: se davvero Rossi Emiliano e Speranza compiranno, al grido di “rivoluzione”, il secondo passo fuori dal Pd – il primo avendolo già compiuto D’Alema, con il varo dell’associazione “Consenso” – e se pure il grosso dei bersaniani seguirà, si dovrà dire che la vera motivazione a stare sotto uno stesso tetto risiedeva in realtà nel contesto istituzionale: nell’impianto maggioritario della seconda Repubblica, tendenzialmente bipartitico, e nella personalizzazione della leadership politica. Si trattava insomma di un matrimonio di convenienza: per sfidare il centrodestra tenuto insieme da Berlusconi, ci voleva qualcosa di più di una coalizione fra forze eterogenee. La “macchina da guerra” di Occhetto, nel ’94, non era bastata, l’Ulivo si era rotto e l’Unione si era rivelata una confusa accozzaglia.

Ora però il contesto è mutato di nuovo: con la sconfitta di Renzi al referendum il sistema vira daccapo verso soluzioni di tipo proporzionale – senza premi di lista, senza collegi uninominali, senza correttivi di tipo maggioritario – e allora ognuno può tornare a vestire i panni che gli somigliano di più, senza neppure dover sopportare la fatica di essere minoranza.

Una tal fatica si è fatta negli anni sempre più insopportabile, e questa è un’altra, profonda trasformazione di sistema che ha inciso su giudizi e comportamenti. I partiti sono sempre di più come cozze attaccate allo scoglio dell’istituzione: non riescono a vivere di una vita propria, intorno ai circoli o alle sezioni. Non riescono ad essere un vero soggetto collettivo, una “comunità di destino”, con la conseguenza che prevedono sempre meno spazi di azione effettiva per le minoranze. Dove sono infatti le minoranze nei Cinquestelle, o in Forza Italia, o negli altri partitini che punteggiano il panorama politico? Il Pd, da questo punto di vista, costituiva non la regola ma l’eccezione. Per quanto prepotente si voglia ritenere il piglio di Renzi, anche in questo caso è una logica di sistema a prevalere, più che l’interpretazione personale che ne offrono i protagonisti.

E tuttavia: davvero non era possibile trovare nel Pd un denominatore comune? Che è quanto dire: davvero il Pd non ha più una «mission» davanti a sé? Quando al Lingotto di Torino, proprio là dove Renzi pare oggi intenzionato a tornare per rilanciare la sua corsa alla segreteria, Walter Veltroni tenne il suo primo discorso da segretario in pectore dei democratici, disse, fra le altre cose, che l’Europa stava andando a destra perché la sinistra in quegli anni era apparsa «imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa». Questa doveva essere il «focus imaginarius» del partito democratico. Ed esso era posto abbastanza lontano dalle origini perché alla guida del partito potessero succedersi, dopo Veltroni, un democristiano di lungo corso come Dario Franceschini, un pragmatico comunista emiliano come Pierluigi Bersani, un ex sindacalista socialista della CGIL come Guglielmo Epifani, infine un altro democristiano, come Matteo Renzi, che però non possiede nessuno dei tratti riconducibili alle storie della prima Repubblica. A guardarla così, questa vicenda appare tutto meno che monolitica, e il Pd la cosa più contendibile che ci sia stata sul mercato politico italiano in tutti questi anni.

Perché allora questa vicenda appare alla minoranza ormai priva di futuro? È una domanda che, come spesso capita, ha una risposta nobile e una meno nobile. La risposta nobile fa riferimento alla linea del partito, che deve essere addirittura rivoluzionata dopo anni di timidezze nei confronti delle politiche neoliberiste dominanti. Il baricentro del partito deve essere spostato più a sinistra e non può certo essere Renzi a farlo. Questa risposta coglie almeno in parte nel segno, anche se ha il difetto di trascurare che quasi tutti quelli che vogliono oggi cambiare drasticamente l’indirizzo politico e culturale del partito ne hanno condiviso la rotta, più o meno sempre la stessa nonostante il pendolo dei segretari. La risposta meno nobile fa invece il seguente ragionamento: posto pure che il congresso non consenta alla minoranza di contendere effettivamente la leadership di Renzi, quale probabilità ha il segretario di sopravvivere a una eventuale sconfitta elettorale? Nessuna. E allora perché non aspettare che si schianti, per poi ricominciare daccapo? C’è, d’altra parte, altro modo di ricominciare che non passi attraverso le urne? Non è stato così con Bersani (e prima con l’Unione, con l’Ulivo, con Occhetto?). Se questo ragionamento non passa, non sarà che la minoranza vuole garanzie sulle prossime liste che Renzi non è disposto a dare? Ma questa risposta è meno nobile, e in un momento così drammatico non dovrebbe nemmeno sfiorarci la mente.

(Il Mattino, 18 febbraio 2017)

Dal Pci al Pd, il partito divora i propri dirigenti

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Riavvolgiamo il film. Perché il partito democratico, con meno di dieci anni di vita, ha già una storia movimentata da raccontare. I segretari del Pd sono stati, finora, cinque: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani e, da ultimo, Matteo Renzi. Mai si è trattato di una semplice successione: a un leader fortemente legittimato dal percorso congressuale ha sempre fatto seguito una figura di compromesso, chiamato a gestire le dolorose dimissioni del predecessore, successive a una disavventura elettorale. Così è stato nel passaggio dal Veltroni a Franceschini, così anche nel passaggio da Bersani a Epifani: così potrebbe andare oggi, se Matteo Renzi presentasse davvero, in Direzione, le dimissioni da segretario del partito, in vista dell’indizione di un nuovo congresso.

Ma anche se così non fosse, resta il fatto che nei partiti democratici la soluzione inventata per scongiurare dilanianti lotte di successione, cioè la monarchia ereditaria, non è praticabile.  Non ci sono figli primogeniti, e i figli che ci sono amano sempre meno i padri.

Veltroni è il primo, nel 2007. Il partito democratico è appena nato, e l’ex segretario dei DS vince le primarie con un consenso largo, superiore al 75%. Unici avversari di peso sono Enrico Letta (11%) e Rosi Bindi (12%), ma il grosso della Margherita e dei DS si schiera con Veltroni. Più per necessità che per convinzione. La sorte del governo Prodi, sostenuto da una coalizione debole, eterogenea e rissosa, è già segnata, e Veltroni appare a molti l’unico dotato di un carisma più ampio rispetto alla base elettorale di provenienza. Questo è sempre stato un cruccio dello schieramento progressista: scegliere uomini che guardino al di là del recinto storico della sinistra. Così è stato per Prodi e l’Ulivo, in uno schema che prevedeva ancora un accordo di coalizione, e così è con Veltroni, che ha l’aura del democratico senza aggettivi (cioè senza connotazioni marcate di sinistra) prima ancora che i democratici nascano. Lui intona il mantra della «vocazione maggioritaria» e butta giù Prodi perché convinto di poter vincere marcando la discontinuità con il passato.

Infatti perde. Finisce (in compagnia dell’Italia dei Valori), dietro di quasi dieci punti rispetto alla coalizione di centrodestra.

Alla guida del partito Veltroni resiste un altro annetto, sempre più logorato dagli avversari interni, primo fra tutti D’Alema, che non gli perdonano di avere accelerato la caduta di Prodi e la fine della legislatura. La sconfitta alle regionali in Sardegna, a inizio 2009, è il secondo colpo che lo manda al tappeto.

Segretario diviene Franceschini, fino ad allora vice di Veltroni. Ma ci sono le elezioni europee a giugno: un po’ per questo, un po’ per timore di lacerazioni interne, Franceschini viene eletto dall’Assemblea nazionale e le primarie rinviate in autunno.

Sarà sfida con Bersani (e Ignazio Marino candidato di complemento). Vince Bersani, cioè vince la ditta. Ma quattro anni dopo è già l’addio. Anche questa volta ci vogliono due scosse per buttar giù il segretario. La prima sono le elezioni, che Bersani riesce a non vincere (il Pd scende al 25%). La seconda il naufragio delle candidature al Quirinale prima di Franco Marini, poi di Romano Prodi. Viene rieletto Napolitano, ma per Bersani è troppo: «uno su quattro ha tradito», ripete come un povero Cristo nel Getsemani, e tra i sospettati ci finiscono i renziani, che ne vogliono minare la leadership, ma pure D’Alema, che il segretario non aveva voluto lanciare nella corsa al Colle.

Il Pd riparte daccapo. Renzi, che aveva perso un anno prima la sfida con Bersani, diviene la sola carta da giocare. Il mantra è la rottamazione, e funziona. Renzi prende il 67% (Cuperlo il 18%, Civati il 14%). Il vento in poppa lo sostiene fino allo scorso anno, quando pure lui subisce la legge dei due rovesci. Il primo sono le amministrative; il secondo, micidiale, il referendum del 4 dicembre.

Non sappiamo ancora se quest’oggi Renzi manterrà le redini del partito o si tufferà in una nuova battaglia congressuale: quel che sappiamo è che la vicenda del Pd è comunque attraversata da un grande scialo di personale politico, che si consuma più rapidamente di quanto non accadesse un tempo. Non ci sono più i segretari a vita di una volta, questo è chiaro. Ma colpisce pure la debolezza del collante. L’addio di Civati o di Fassina nella stagione renziana valgono quanto l’addio di Rutelli con l’avvento di Bersani. E la ventilata scissione di D’Alema – con la nascita di ConSenso dalle ceneri della battaglia referendaria – vale quanto il varo dell’associazione Red, sempre ad opera di D’Alema, durante la segreteria Veltroni. Di questi movimenti si possono dare due spiegazioni.  Si può pensare che sono inevitabili in un partito che non riesce ad essere un vero soggetto collettivo, ma solo una macchina per selezionare rappresentanti. Con la conseguenza che quelli che non ce la fanno non trovano altre ragioni per restare e se ne vanno (o, se restano, remano contro). Oppure si può pensare che la politica non è uno sport per signorine, e tradimenti e regolamenti di conti sono per questo all’ordine del giorno. Nel Pd ma non solo. Come andò infatti con Alessandro Natta, che perse la segreteria del partito comunista mentre era ancora in ospedale, ad opera dei rottamatori d’allora, Occhetto, D’Alema e gli altri quarantenni? E cosa capitò a Achille Occhetto? Lui che si era spinto oltre le colonne d’ercole del ‘900, imponendo il cambio del nome ai comunisti, fallì a sorpresa il quorum dell’elezione a segretario durante il congresso del 1991, grazie a un’accorta regia dei suoi secondi, Veltroni e D’Alema in testa? I quali poi lo lasciarono lì, mezzo morto alla guida del partito, salvo presentargli il conto dopo la sconfitta con Berlusconi, nel ’94.

Insomma: con questa lista di precedenti, c’è poco da star sereni. La minoranza lo sa e sposta ogni volta un centimetro più su l’asticella delle sue richieste. Forse però oggi sapremo se questo gioco continuerà ancora a lungo, o se Renzi ha infine deciso di saltare.

(Il Mattino, 13 febbraio 2013)

Il lungo tormento dei post-Pci e la fine del sogno democrat

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«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise», così diceva Vico nella Scienza Nuova: se vuoi sapere qual è la natura di una cosa, guarda com’è nata. Ora, il partito democratico è stato fondato nell’ottobre del 2007, sotto il secondo e periclitante governo Prodi, di cui ha probabilmente accelerato la caduta. L’anno successivo, sotto la guida di Veltroni, si è presentato alle elezioni e le ha perse. Quest’anno si è invece presentato sotto la guida di Bersani, e le ha «non vinte». Tra l’uno e l’altro, è stato retto per meno di un anno anche da Dario Franceschini, nel 2009. È partito con il 33,1 di Veltroni, è arrivato con il 25,4 di Bersani. La sua storia è tutta qui, in queste poche righe. E non è detto che continuerà ancora.

Ma per descriverne la natura occorre guardare più indietro. È sempre Vico che insegna: «le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze», e voleva dire: spurie, apocrife e mescolate. Così è stato per il Pd. Dietro il partito democratico c’è stato infatti il tentativo di irrobustire la creatura politica che, negli anni Novanta, aveva consentito alla sinistra ex-comunista, già transitata attraverso il Pds e i Ds, di andare al governo: non da solo, ma insieme con la sinistra democristiana, che nel frattempo aveva dato vita prima al partito popolare, poi alla Margherita, con la confluenza di piccole componenti liberal-democratiche. Un «amalgama mal riuscito», disse una volta D’Alema, e alla luce di com’è andata, è difficile dargli torto.

È vero però che le culture politiche che avevano fatto la prima Repubblica dovevano comunque provare a rimescolarsi e innovarsi, dopo le tre profonde fratture che avevano terremotato il sistema politico italiano: la caduta del Muro, l’inchiesta Mani Pulite e l’uscita della lira dallo SME (è infatti dai tempi della rivoluzione francese che crisi finanziarie e crisi politiche vanno a braccetto). Il primo frutto del rimescolamento è stato l’Ulivo, nel ’96; il secondo, l’Unione, nel 2006; il terzo, il Pd. Il terzo doveva rappresentare il coronamento di un progetto politico lungo un decennio: rischia invece di esserne la fine. Perché non si sono mai veramente ricomposti due opposti progetti: quello di chi spingeva per accelerare la trasformazione delle culture politiche di origine, e quello di chi invece cercava di preservarne le caratteristiche distintive. Col Pd, ha prevalso il primo progetto, senza che però le tensioni fossero veramente risolte. La drammatica crisi di queste ore le ha di nuovo portate in superficie.

Se però si guarda dentro il fitto scambio di accuse, veleni e sospetti di queste ore, si trova qualcosa di più di un confronto tra ex-comunisti ed ex-democristiani. Si trovano due idee diverse di riforma della politica e della società. Il guaio è che anche queste faticano ad amalgamarsi. Una è nata negli anni Novanta, quando la sinistra europea cercava una «terza via» tra la socialdemocrazia del passato e la vulgata liberista del presente. Un libro di Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair, dice forse più cose del suo stesso contenuto: «Oltre la destra e la sinistra». Il fatto è che, senza mai veramente imboccarla, il Pd ha cercato comunque di proseguire per questa via, anche quando nel resto d’Europa veniva abbandonata, o almeno fortemente riconsiderata. Non perché dovevano tornare con forza la nostalgia di una sinistra fortemente identitaria e refrattaria al cambiamento, ma perché nel fuoco della crisi le sue risposte sono apparse subalterne alla ricette monetariste su cui è stata costruita l’Europa dell’euro.

E siamo alle vicende degli ultimi mesi: la segreteria Bersani ha provato a sterzare e prendere un’altra via, ma lo ha fatto mentre nel frattempo il vento del «cambiamento» così speso evocato aveva incrinato seriamente gli altri elementi intorno a cui soltanto può costruirsi un partito, e cioè l’organizzazione e il gruppo dirigente. Finiti sotto accusa delle virulente campagne anti-casta, all’ombra delle quali è esploso il fenomeno Grillo, non c’era più una cultura politica condivisa che facesse da scudo alle campagna moralizzatrici (e spesso semplicemente denigratrici). E, purtroppo, nessun partito può sopravvivere quando i suoi stessi iscritti, militanti e simpatizzanti finiscono col non nutrire più né fiducia né stima per la propria memoria storica e per gli uomini che la rappresentano. Le lacrime di ieri di Bersani, a cui va l’onore delle armi, mostrano che il compito di ristabilire una «connessione sentimentale» coi propri elettori e con il paese è ormai affare di una nuova generazione. Con o senza il Pd.

Il Mattino e Il Messaggero, 21 aprile 2013

Veltroni e il complesso di Robertino

Se c’è una cosa che bisogna usare con precauzione, è il principio di precauzione. L’uso incontrollato produce infatti seri danni collaterali. È così nella vita privata ed è così nella vita pubblica. Per la prima, chiunque abbia ad esempio una moglie troppo premurosa, maledettamente ansiosa, sa di cosa parlo. Tuo figlio vuol tornare da solo a casa, all’uscita da scuola? Basta che nella mente del coniuge si affacci la mera possibilità che lungo il percorso si appostino ladri, assassini e in generale brutte compagnie, per escludere che gli si possa dare il permesso. Naturalmente tutto ciò è molto improbabile, ma cosa vuoi che sia una probabilità più o meno grande a fronte di così gravi pericoli? Ci vuole accortezza. La prudenza non è mai troppa…

(continua su Left Wing)

Chiarimento

Ho tempo di leggere solo il titolo del Corriere: "Casini rilancia al centro – Verso un partito della nazione -".
Ora rileggetevi il discorso di Veltroni a Spello, in apertura della campagna elettorale (cosa che m’è toccato di fare) e ditemi se quel discorso non era il discorso del segretario del partito della nazione.

Neanche se dici burzocco

Quando ero piccolo, quella del titolo era forse tra le frasi che sentivo più spesso. Era il no più inamovibile che potesse venire da mio padre. Non che la parola ‘burzocco’ avesse qualche magico significato, ai miei occhi (e alle mie orecchie), ma dava bene l’idea che nessun argomento avrebbe potuto smuovere mio padre: non solo quelli sensati, ma neppure quelli insensati.
Ci si poteva convincere a poco prezzo di un’evidenza, che la vita pubblica conferma a ogni passo: che spesso hanno corso e sono più forti le insensatezze rispetto alle poche cose sensate che uno riesca a dire. (In realtà, poi, dedicandosi allo studio della filosofia, uno poteva anche farsi venire il sospetto che ‘burzocco’ funzionasse un po’ come l’id quo maius cogitar nequit della prova di Anselmo. L’intenzione con la quale si significava l’iperbole di ogni possibile richiesta di senso era più o meno la stessa).

Neanche se dici ‘burzocco’: io sono convinto che Walter Veltroni abbia guidato il partito democratico un po’ così. Tutti vedono il lato del ‘ma anche’, il lato per il quale, incapace di dare una rotta determinata al PD, Veltroni finiva col voler tenere tutto insieme (così ad esempio Stefano Menichini su Europa). Io invece trovo che lo stile della sua risposta fosse un po’ come quello di mio padre, sensate o insensate che fossero le richieste degli elettori, della base, dei dirigenti del partito: il punto vero (e con esso l’identità del PD) si collocava ben al di là del passato brutto e cattivo, oltre le tradizioni di provenienza, oltre gli schemi dei vecchi partiti, oltre le forme tradizionali di organizzazione, oltre lo schema destra/sinistra, oltre l’età anagrafica, oltre la militanza, oltre le appartenenze, persino oltre la possibilità di dire ‘burzocco’. Così oltre che nessuno ha mai saputo dove fosse, e come quindi andasse argomentato.

(A onor del vero, mio padre scherzava. E per lo più usava quelle parole – soprattutto negli ultimi anni – per respingere qualunque richiesta di spostarlo di qualche millimetro quadrato dalla sua sedia, dalla sua calcolatrice, dai suoi fogli. Un’irremovibilità che magari).

Altezze, titoli

In effetti, il passaggio che aveva colpito i più attenti osservatori politici era il seguente:

"Bene, non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti, come vedete, e non sarei all’altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate che avvengono dentro questo partito".

Sto parlando dell’intervento di Luca Sofri nella Direzione nazionale, in ottobre, così come l’ha riportato lui medesimo, di suo proprio pugno. Se si fosse compreso subito che si trattava di puro understatement, perché in realtà Luca Sofri è all’altezza delle discussioni molto approfondite ed elaborate che avvengono dentro il PD, il passaggio in questione non avrebbe avuto il clamore che ha avuto (tra coloro, almeno, che non essendo nella Direzione si sono chiesti come si faccia a stare nella Direzione non essendo all’altezza delle discussioni che si tengono colà). E l’attenzione sarebbe andata subito a quest’altro passaggio, che immediatamente precede:

"Trovo pazzesco che sia data cittadinanza a contestazioni che non rappresentano nessuno. Nessuno. Veltroni è diventato leader del PD per fare il leader del PD, non per vincere le elezioni pochi mesi dopo. Sfido chiunque contesti l’attuale segreteria a dire a nome di chi parla. Dei voti ottenuti con un sistema elettorale senza preferenze? Gli unici qui dentro che parlano a nome di qualcuno sono coloro che hanno preso voti alle primarie dell’anno scorso".

Che questo fosse il punto vero, e non a quale altezza discutesse Luca Sofri, è finalmente chiaro a tutti, dal momento che ieri Sofri ha ripetuto la stessa tesi. Tesi che non mi pare però che discenda impeccabilmente dallo statuto del partito democratico, dal quale si evince invece che nel partito esistono anche altri organi elettivi, oltre al Segretario nazionale, concorrenti alla formazione dell’indirizzo politico, i cui componenti qualche diritto di prender parola e interloquire dovrebbero quindi poterlo avere. Né poi mi pare che la tesi discenda da una considerazione minimamente aderente alla realtà delle cose. Sofri si chiede tuttavia perché, se mai ci fosse alcunché da mediare con D’Alema, non ci sarebbe da mediare anche con lui o con chiunque altro: e forse il fatto stesso che si ponga la domanda può valere abbondantemente come risposta, per lo meno in termini di sano buon senso (Sofri dice che nei partiti normali questo non accadrebbe, e mi piacerebbe che facesse il suo esempio di partito normale). Ma anche a voler rinunciare agli esempi e al buon senso, non è chiaro perché un qualunque segretario di circolo del PD, tanto per stare bassi, non potrebbe contestare la linea politica del segretario, pur non essendosi candidato alle primarie. O perché, poniamo, Morassut, il giorno che lo volesse, non potrebbe dire che, per esempio, per lui le cose non vanno per il verso giusto: anche lui infatti non è passato per le primarie e dunque non avrebbe – iuxta Sophri principia – titolo. In questo modo, un bel mucchio di iscritti dovrebbe fare amabilmente la cortesia di non contestare, o anche semplicemente di non interloquire. Ma Sofri potrebbe dire, magnanimo: contestino pure, ci mancherebbe, sia chiaro però che lo faranno solo e soltanto a loro proprio nome. Il che, a ben vedere, è giusto.

Solo che non significa niente. Lui, per esempio, propone il suo bel ragionamento a nome di chi?  A suo nome soltanto, evidentemente (non essendosi purtroppo candidato alle primarie), il che non toglie che le sue ragioni potrebbero essere valide, validissime, e che dunque Veltroni potrebbe in qualche modo decidere di tenerne debitamente conto. Se dunque Marini D’Alema Rutelli Fassino (o Morassut o il mio segretario di circolo) hanno perlomeno la stessa legittimità di Luca Sofri a parlare a loro proprio nome, il problema di mediare con le loro ragioni si porrà se sono buone e valide le ragioni medesime, e se sono rappresentative al modo in cui si rappresentano in un partito le idee e le ragioni. Se no, no.

Ma di certo, messa così, c’è in ultimo da ricredersi sull’understatement, cioè sull’altezza delle discussioni di Sofri o per lo meno sul modo in cui si discute in un partito normale, secondo lui.

Aggiornamento

Luca Sofri oggi si è spiegato anche meglio. Il problema, per lui, è che formalmente Massimo D’Alema (o qualunque altro membro della Direzione Nazionale) non ha più titolo di Irene Tinagli. a cui nessuno si è preso la briga di inviare Fassino per una mediazione. Sicché giustamente Luca Sofri si domanda: "Ma perché le diffidenze di Massimo D’Alema – con tutto il rispetto e l’ammirazione eccetera – dovrebbero [sott. mia] incatenare e bloccare il dibattito nel PD più di quelle di un qualunque membro della Direzione Nazionale quale lui è insieme ad altri duecento e passa?".

Si apprende poi dal blog di Squonk che "dovrebbero" significa: "formalmente dovrebbero".  L’avverbio è importante, spiega Sofri al cugino scemo di Squonk. Sicché anche Luca Sofri capirà che se lui pone un problema formale la risposta è scema abbastanza perché si sia tutti d’accordo: formalmente non dovrebbero. Il che però – di nuovo – non significa un beneamato nulla. Fassino non è formalmente tenuto a mediare (né Sofri è tenuto formalmente a scrivere questi commenti sul suo blog). E infatti nessuno glielo ha chiesto formalmente, ed è molto dubbio che la mediazione di Fassino (ammesso che esista: non ne so nulla) abbia questo carattere formale che Luca Sofri dice che non ha ragione di avere. Se Fassino va da D’alema e non da Tinagli la ragione non è formale: e quindi? Ha presente Sofri la forza argomentativa di un: embé? Chissà poi perché Luca Sofri usa un argomento formale (Io, Irene e Massimo siamo tutti allo stesso titolo membri della Direzione) per dire cose per nulla formali. Chissà perché usa un argomento formale per dire che c’è "condiscendenza generale verso atteggiamenti complottardi e golpistici" (addirittura!). Se qualcuno gli dicesse che non c’è traccia formale di atteggiamenti complottardi e golpistici lui cosa replicherebbe?
La cosa più preoccupante è però che quella che i giornali chiamano la mediazione di Fassino (o qualunque altra cosa sia) diventa nel giro di un post per Luca Sofri – che evidentemente ha davvero il problema dell’altezza delle discussioni all’interno di un partito – una forma di condiscendenza verso atteggiamenti complottardi e golpistici (addirittura!). Lui evidentemente immagina che sul futuro del PD i titolati a parlare con Veltroni sono Adinolfi, Letta, Bindi, e non mi ricordo chi altri, altrimenti son complotti, o condiscendenza a complotti. Immagini pure. Formalmente lui, come chiunque, può immaginare quel che vuole. Non gli obietterò mai che formalmente non può farlo. Ma che è in realtà una scemenza, questo sì.

Oltre le ideologie

Che cos’è il partito democratico? Bisogna attraversare non solo il mare di persone che riempiva sabato il Circo Massimo, ma anche il mare di parole che il segretario ha impiegato, in un discorso retoricamente assai riuscito, per arrivare al punto. Al Circo Massimo, Veltroni ha rivendicato la maniera perfettamente coerente con la quale il partito, "svincolato finalmente dai vecchi ideologismi", si è tenuto in linea con il discorso del Lingotto dello scorso anno: "questo siamo: un partito libero – ha detto –, che non teme né di apparire moderato agli occhi di alcuni, né di sembrare estremista agli occhi di altri, perché null’altro è che un grande partito riformista". Il passaggio non è stata salutato dal più vigoroso degli applausi, ma naturalmente la sua forza si misurerà nelle prossime settimane e mesi, nel modo in cui "l’opposizione di popolo" del "partito riformista di massa" saprà rendere il proprio profilo politico e programmatico chiaramente riconoscibile agli occhi del Paese.
Intanto, però, c’è qualcosa che non va: qualunque partito, anche il più in salute, ha un problema, se appare in maniera sensibilmente diversa da com’è. E soprattutto se gli accade di apparire in modi diametralmente opposti a settori diversi dell’opinione pubblica. Certo, Veltroni ha voluto dire che la tempra del partito democratico è dimostrata dal fatto che non si fa condizionare dal modo in cui agli uni e agli altri appare la sua azione, dal momento che il suo consenso è abbastanza robusto da consentirgli di non giocare solamente di rimessa. Il PD non è per fortuna come quel tizio che, nella canzone di Jannacci, andrebbe volentieri al proprio funerale, per vedere di nascosto l’effetto che fa. E infatti la manifestazione di ieri era l’opposto di un funerale: era una festa, aveva i colori e i toni di una festa, di un rito collettivo che, come s’è visto, non ha affatto esaurito la sua funzione in democrazia.
E però, se agli altri si appare diversi da come si è, se l’attività e il programma di un partito viene letto dagli uni in termini opposti al modo in cui viene letta dagli altri, un problema c’è, effettivamente: se non altro perché un terzo dei voti sarà pure il massimo mai conseguito da un partito riformista in Italia, ma ne occorrono molti altri per governare questo paese.
Quello che nelle parole del segretario del PD vuole essere un punto di forza può così rivelarsi, e di fatto si è già rivelato fin dalla campagna elettorale, una debolezza. E la ragione di questa difficoltà nel mettere a fuoco la fisionomia del partito democratico, sta forse nelle stesse parole scelte per definirne l’identità.
Come è possibile infatti fornire una chiave di interpretazione unitaria del proprio agire politico se si rivendica come valore fondante del partito lo svincolamento dalle vecchie ideologie: non solo in quanto vecchie, ma proprio in quanto ideologie?
Certo, nel linguaggio politico e nel senso comune, la parola ‘ideologia’ riesce indifendibile. La si sacrifichi, dunque, però con un minimo di consapevolezza del fatto che il discorso, ormai più che ventennale, sulla fine delle ideologie, è parte integrante dell’ideologia che lo stesso Veltroni ha criticato, affermando che dietro la crisi finanziaria di queste settimane si riconosce il ritratto della destra – come dire: non crediate che non vi siano precise connotazioni politiche e ideologiche nel discorso pubblico nazionale e internazionale, che ha accompagnato la globalizzazione.
Ma passi per la parola: qualcosa, però, deve pur prenderne il posto. Qualcosa che, al di là della stella polare di Veltroni, "rappresentata dagli interessi generali del paese", consenta di capire da che parte stare quando si tratta di scegliere: e cioè chi interpreta e come si interpretano quegli interessi. Qualcosa, insomma, che dia nuovi strumenti per orientarsi in un mondo che si diverte a smentire tutte le previsioni sulla fine della politica e l’autogoverno dell’economia. Qualcosa, infine, un po’ più incisivo di quella coloritura, che rimane il tratto distintivo della retorica politica di Veltroni.
La quale, a ben vedere, ha due elementi ‘ideologici’ irrinunciabili: il registro morale in cui voltare la contrapposizione politica, e l’appello all’eroismo dell’uomo comune. Elementi forse efficaci quando si tratta di parlare ai propri militanti e simpatizzanti, un po’ meno quando si tratta di ampliare il proprio consenso e di cercare di apparire per quel che davvero si è, sul terreno propriamente politico e non solo su quello morale.
Che poi questo sia il tempo in cui un tratto politico-ideologico preciso e distinto non guasta affatto, a destra, fateci caso, lo si è capito benissimo.
L’ha capito Tremonti, l’ha capito Bossi, e l’ha capito pure Berlusconi. Tra i leader del centrodestra, quello che meno se l’è sentita di dare forza ideologica alle proprie parole, ma che anzi si è speso per sancire anche lui il superamento, lo svincolamento, la fine delle ideologie, è stato, comprensibilmente, Gianfranco Fini. Che infatti si è ritagliato egregiamente un ruolo istituzionale, e non è più un leader politico.

Alcibiade e il nuovismo

«Sono uno studente e credo nel potere della cultura», recita un cartello dietro il quale si nasconde un ragazzo lentigginoso che pare uscito da un telefilm americano. Poi spiega: «Alcibiade prendeva in giro Socrate accusandolo di insegnare sempre le vecchie idee. Socrate rispose che si scusava con Alcibiade di non essere un uomo colto come lui, che “di idee nuove ne aveva ogni giorno”. Non è la presunta novità delle idee a contare, ma la loro qualità e il loro valore».

Comunque la pensiate sulla manifestazione del PD di ieri, il miglior attacco resta questo, di Fabrizio Rondolino, su la Stampa, tanto più che nel seguito Rondolino si occupa proprio di quel che di nuovo c’è nella "sinistra post-politica" del veltronismo.

(Però non mi è chiaro. "Sinistra post-politica" vuol dire, per Rondolino: non è che non ci sia più la sinistra, è che non c’è più la politica, sicché la sinistra sopravvive o può sopravvivere solo su un piano – per dir così – estetico?)

Per un parere, chiederemo a Moggi

"Lo Stato non è giocatore, è arbitro. Per questo può anche scendere in campo, per aiutare pro-tempore un’azienda di credito in crisi. Ma non può alterare l’intero campionato"
Ora, è proprio dal punto di vista calcistico che a me questo passaggio di Veltroni fa problema.

Opposizione ondulante

Sotto un titolo gentile, l’articolo di oggi, su Il Mattino:

Venerdì si apre l’Assemblea Costituente del Pd. Se la grammatica ha un senso, “costituente” vuol dire: che si costituisce. Se poi lo ha anche la logica, questo significa che non si è ancora “costituito”. Il problema dell’opposizione è tutto qui. Forse è troppo semplice, addirittura semplicistico, ma è precisamente in questi termini che la vede l’uomo della strada. Più precisamente: l’uomo dell’autobus, che ieri mattina leggeva il giornale sulla linea 10 che lo portava dalla provincia in città. E che chiedeva al signore seduto al suo fianco, non retoricamente ma con sincero smarrimento, se fosse lui a non aver capito: ma il partito democratico c’è o non c’è?
C’è, ma non si vede. C’è, ma agisce nell’ombra, anzi all’ombra del governo. C’è, ed ha persino una vocazione maggioritaria, così maggioritaria da non aver avuto bisogno di stringere intese politiche, programmatiche o elettorali con altri partiti – salvo scoprire, il 14 aprile scorso (e ancora domenica, alle amministrative siciliane) la piccola differenza consonantica che separa la vocazione dalla votazione.
In realtà, il partito democratico un’alleanza l’ha stretta: con l’Italia dei valori. Perché meravigliarsi, dunque, se il segretario del partito costituente e da costituire ha visto strapparsi “la tela del dialogo possibile” proprio sui temi sui quali più nettamente si disegna il profilo del partito che già c’è, quello di Antonio Di Pietro: la giustizia, le intercettazioni, le leggi ad personam, l’antiberlusconismo?
Il fatto è che in realtà non di una tela si trattava, ma di una robusta ragnatela. La quale celava (e cela ancora) il rischio che chiunque non sia al centro a tessere i fili si trovi invischiato nel poco gradevole ruolo di mosca cocchiera – quello appunto che Berlusconi ha finora immaginato di riservare a Veltroni, mostrandosi non a caso preoccupato non tanto per gli effetti nel paese dei suoi ultimi atti di governo, ma per le conseguenze che potrebbero prodursi nel Pd, a danno del periclitante segretario.
Se perciò l’opposizione sembra ora trovarsi tra la Scilla di una subalternità politica nei confronti del centrodestra e la Cariddi di una subalternità girotondina nei confronti di Di Pietro, è perché, preoccupato di quale aggettivo scegliere per connotare il proprio ruolo di opposizione, dura o dialogante, costruttiva o intransigente, il partito democratico si è semplicemente dimenticato di giocarlo, quel ruolo. Che significa: trovare interlocutori politici, collegare forze e interessi sociali ed economici, costruire un’idea di riforma del sistema politico che non sia semplicemente funzionale al Cavaliere, e un’agenda politica che non sia scandita dalle emergenze di volta in volta individuate dal centrodestra.
Sottrarsi a quella scomoda alternativa non è però semplice, perché, a bene vedere, essa è iscritta nella sua più antica fibra. Che fu intrecciata durante il lungo autunno della prima repubblica, quando dall’impotenza politica dell’opposizione nacque l’idea un po’ balzana del partito che non c’è: “un partito con un programma di riforme istituzionali ed economiche, con una moralità nuova, con gente credibile e non compromessa”, scrisse Eugenio Scalfari su Repubblica, nel lontano dicembre 1991, con parole che Veltroni (allora tra i più convinti sostenitori del rassemblement proposto da Scalfari), potrebbe ancora oggi fare proprie. Scalfari mise su il suo pantheon formato da uomini il cui denominatore comune era costituito da “onestà, impegno civile, competenza e decenza nazionale”, delineando così un partito che in effetti non era un partito, dal momento che nessuno dei requisiti indicati allora poteva offrire altro che una bandiera morale. Un partito che non c’era e che, non essendo un partito, continuò pacatamente, serenamente, a non esserci.
Oggi, preoccupati di non riproporre entro il Pd lo schema delle vecchie appartenenze partitiche, i dirigenti del Pd stanno pericolosamente prendendo un’analoga china, giustificando così tutti i dubbi raccolti ieri mattina sull’autolinea numero 10.
E alla vigilia dell’assemblea costituente, timorosi dell’attivismo delle Fondazioni, sembrano voler dimostrare che più ancora che dal formarsi di correnti, sono terrorizzati all’idea di doverlo fare per davvero un partito che, finalmente, ci sia.

Dovuto, probabilmente

I filosofi, questi fantastici affabulatori: "Il segretario del Pd ha dovuto [corsivo mio] giocare il ruolo del perfetto continuatore, sia rispetto al governo Prodi sia rispetto all’Amministrazione Veltroni. E per questo, probabilmente [corsivo mio], l’ha pagata cara" (M. Cacciari). D’accordo: nessun chieda le dimissioni di Veltroni: ma una moratoria sulle scemenze?

(Spero che sia tutta colpa del giornale)

Nel mare aperto si può affondare

“Sono convinto che soprattutto oggi la politica debba essere veloce e aperta com’è la società, e debba coltivare l’ambizione di conquistare non le "casematte" degli interessi particolari […], ma il "mare aperto" di un’opinione pubblica nella quale convivono condizioni sociali diverse nel corso di una stessa vita, nella quale abitano più dubbi che certezze, più disponibilità che identità blindate”: sono parole di Walter Veltroni, e si leggono nella Prefazione al libro di Barack Obama, L’audacia della speranza, pubblicato lo scorso anno, quando ancora il 14 aprile non era, almeno nelle sue proporzioni, immaginabile. La convinzione che l’allora Sindaco di Roma manifestava a proposito di ciò che la politica deve essere ha avuto poi modo di tradursi in una dolorosa sfida politica ed elettorale. A causa di una congiuntura particolare, il partito democratico ha dovuto mettere necessariamente in campo la velocità e l’apertura auspicate da Veltroni, e presentarsi alle elezioni ancor prima che del partito si costruisse l’intera architettura. A causa poi di un risultato non brillante, ha dovuto all’indomani del voto chiedere per sé anche un altro aggettivo: non solo veloce nelle decisioni e aperto nelle candidature, ma anche paziente e lungimirante nel disegnare una prospettiva politica che superasse il 2008, per fissare l’appuntamento con la vittoria un po’ più in là negli anni – anche se intanto il ballottaggio alle Comunali di Roma incombe, e nessuno può dire più, come il poeta, “io sol combatterò, procomberò sol io”. Comunque vadano le cose nella capitale, il partito democratico ha effettivamente accarezzato, con la sua guida nuova di zecca, l’idea secondo la quale la politica, per esser “bella” (un altro aggettivo che Veltroni ha dispensato negli anni a piene mani), deve alleggerirsi del peso degli interessi particolari e, così liberata, rendersi piacevole anzitutto agli occhi dell’opinione pubblica che si esprime sui grandi giornali.
Solo che gli interessi particolari capita che coincidano a volte con gli interessi reali, fin quasi ad essere la stessa cosa, come il successo della Lega sembra avere dimostrato in maniera lampante. Tutto si può pensare della Lega, meno infatti che sia un partito veloce e aperto. Tutto si può dire di essa meno che goda di particolare favore presso l’opinione pubblica. Tutto, infine, le si può attribuire, meno la propensione a lasciarsi abitare dai dubbi: se non è blindata la sua identità, non si può dire quale lo sarebbe. La Lega ha la stessa classe dirigente da qualche legislatura a questa parte, e lungi dall’inseguire novità ripropone la stessa ricetta, convincente o no che sia, praticamente da quando è nata. Naturalmente, col senno di poi riesce facile dire che il successo elettorale della Lega fa giustizia di molte chiacchiere sulla crisi dei partiti, sui nuovi modelli di organizzazione degli interessi, leggeri e privi o quasi di una solida struttura territoriale, sulla predominanza della rappresentazione mediatica rispetto alla rappresentanza reale degli interessi.
In realtà, come erano sbagliate prima le infatuazioni per la modernità liquida e le identità plurali, così è sbagliato rimpiangere adesso i solidi partiti della prima Repubblica e prendere la loro tetragona identità a modello. Che però si possano lasciar perdere le robuste casematte per approfittare dell’aleatorio favore di vento di cui si gode in mare aperto si è rivelato, alla prova dei fatti, un errore. E lo è ancor più se si considera che non vi è motivo alcuno per rimanere intrappolati in una simile contrapposizione: come se gli interessi particolari si dovessero vergognare di sé e non lasciarsi rappresentare alla luce del sole, e d’altra parte l’opinione pubblica non fosse innervata da interessi molto particolari che spiegano a volte più di ogni altra cosa la direzione e i salti di vento.
Chissà, comunque, cosa avrà pensato Obama, della prefazione. Dopo la vittoria di Hillary Clinton alle primarie in Pennsylvania, però, si ripresenta anche al di là dell’oceano la preoccupazione che il candidato affascinante, che ha tutte le ragioni per piacere, che gode di buona stampa, che ha le simpatie di Hollywood, che parla in nome del nuovo, della velocità e della leggerezza, e che infine ha maggiore capacità di parlare al futuro e alle nuove generazioni, possa essere, al presente, elettoralmente debole. La Clinton, di cui si riconoscono competenza e serietà per considerarle però prerogative da establishment – roba vecchia, quindi – ha in realtà preso più voti di Obama in quegli Stati che potrebbero fare la differenza contro McCain. È da vedere se il partito democratico originale, quello americano, sia più o meno paziente e lungimirante di quello nostrano, e se sia disposto a mettere da parte la preoccupazione di vincere le prossime elezioni presidenziali, per rimontare però fiduciosamente più in là.