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Euro e democrazia. Allarme populismo

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Si può cominciare da dove la campagna elettorale è finita – dalla piazza San Giovanni di venerdì sera, gremita all’inverosimile per l’ultimo comizio-spettacolo di Grillo – per chiedersi quanto la politica italiana sia infettata dal populismo, e se le urne ci regaleranno davvero un Parlamento affollato di parlamentari che, però, non credono nella democrazia parlamentare. Che il populismo sia una sorta di febbre che innalza la temperatura politica di un paese mettendone a dura prova la fibra è giudizio largamente condiviso, anche se, almeno entro certi limiti, si tratta di una malattia fisiologica, da cui è impossibile immunizzarsi (a meno di non voler rinunciare al suffragio universale). Le ultime battute della campagna elettorale, ma forse l’intera stagione politica che volge con queste elezioni al termine, fanno però temere che siano stati raggiunti ormai i livelli di guardia: l’astensionismo è dato in aumento, non solo il Movimento 5 Stelle, ed è diffuso nel Paese il discredito nei confronti della politica tutta. Quanto poi alla sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative, sono gli stessi grillini, alfieri della democrazia diretta e della partecipazione via web, a proclamarla ad ogni occasione, trascinando in un unico giudizio le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Questo, peraltro, è il primo dei tratti caratteristici del populismo: la profonda diffidenza, il fastidio e infine il rigetto per tutte le forme della mediazione politica, identificate senz’altro con il compromesso, l’inciucio, l’imbroglio. Quando Grillo dice che i suoi uomini andranno alla Camera per aprirla come una scatoletta di tonno, lascia intendere che il Parlamento è per lui tutto meno che il luogo della rappresentanza: è piuttosto il covo dove si consumano truffe e raggiri ai danni dei cittadini. La polemica contro la partitocrazia finisce col tracimare, e investe poi anche i più alti organi costituzionali, giudicati volta a volta responsabili o conniventi.

E a proposito del tonno e di immagini simili, altro tratto evidente della retorica populista sono le espressioni grevi e sguaiate, spesso violente, che in queste settimane non ci sono state risparmiate. Sono servite per opporre al politichese una lingua presuntamente genuina, che dica finalmente pane al pane e vino al vino. Su questo terreno in Italia s’era già messa la Lega, nei cui discorsi non è infrequente che compaiano il turpiloquio e il vilipendio, ma anche Berlusconi, che ha provato a ripetere il refrain contro lo spregevole teatrino della politica, o Di Pietro, con le sue sgrammaticature da finto Bertoldo della politica. Oggi c’è Grillo, che di suo ci mette il gusto della battuta spesso denigratoria.

Poi c’è la faccenda del leader, di partiti fortemente personali e carismatici, sorti lontano dalle tradizioni politiche nazionali, che anzi rifiutano e dileggiano (con la conseguenza però che non si riesce nemmeno a capire a quali famiglie politiche europee appartengano, e dove andranno a sedersi il prossimo anno, dopo le europee). La personalizzazione della politica è fenomeno di lunga data, che procede di pari passo con la destrutturazione del sistema politico tradizionale e la sempre più significativa incidenza dei mass media. Il voto di oggi e domani fornisce nuovi, fulgidi esempi, a destra come a sinistra. A parte il solito Grillo, a destra, l’emancipazione del PdL dal suo padre fondatore è terminata il giorno in cui Alfano e compagni si sono resi conto che la campagna elettorale poteva farla solo Berlusconi, e così è stato. Dall’altra parte, appannatosi il fascino tutto personale delle narrazioni vendoliane, è accaduto che l’arcipelago residuo della sinistra antagonista si mettesse, per sopravvivere, sotto l’insegna di un nome e di un cognome, quello di Antonio Ingroia.

Populista è dunque il rifiuto della mediazione, populista è l’identificazione semplicistica con il capo, populista è infine la contrapposizione diretta e immediata fra élite e popolo. Vi sarebbe in verità un altro tratto rilevante, il nazionalismo (e addirittura il razzismo), ma per ora, per fortuna, ne abbiamo fatto l’economia, non essendo andati molto oltre le minuscole liste localistiche al Sud, e le consuete rivendicazioni territoriali della Lega. Sarà importante misurare la loro forza residua nelle regionali lombarde.

Ma alla forma principale con cui si presenta da noi la rivolta contro la casta – il ceto politico corrotto opposto alla gente onesta che lavora – forma che rimbomba nel grido grillino di piazza: “arrendetevi, siete circondati!”, si è aggiunto, complice la crisi, il sentimento di ostilità nei confronti della tecnocrazia europea. Una nuova linea di demarcazione sembra tracciarsi, a queste elezioni, fra quelli che vogliono tener l’Italia dentro l’euro, e quelli che invece pensano di tenerla fuori. Anche in questo caso, non c’è solo il roboante Grillo, ma pure la sinistra radicale e, a far da compagnia, benché più esitante, ancora il Cavaliere, che un giorno sollecita populisticamente propensioni antitedesche e un altro si ricorda invece di appartenere ancora alla famiglia del popolarismo europeo.

Quest’ultimo aspetto è però il più decisivo, benché una campagna elettorale deludente non lo abbia evidenziato abbastanza. Perché molto del nostro futuro dipenderà dall’Europa, le cui istituzioni non hanno però appeal presso l’elettorato e anzi scontano un pesante deficit di legittimità democratica, accentuato dalla crisi, che ha marginalizzato il Parlamento e la Commissione europea, esaltando il ruolo della BCE e gli accordi intergovernativi. Il contraccolpo è ancora una volta un balzo in avanti degli umori populisti, che si sollevano contro burocrati e banchieri centrali. Su questo si sarebbero dovuto misurare i partiti in campagna elettorale; su questo ci auguriamo che, almeno, vogliano farlo seriamente nel nuovo Parlamento

Il Mattino, 24 febbraio 2013

L’alleanza e le pulsioni populiste

È stato detto che il populismo esprime, sia pure in modo distorto, un’esigenza di partecipazione che i meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa non riesce più a soddisfare. Può darsi sia così. Ma in tal caso credo sia giusto prendere un po’ di fiato e poi obiettare con il più classico degli: “embé?”. Visto che per i populisti i ragionamenti sono sempre troppo intellettuali, troppo sofisticati, troppo pieni di distinzioni e parole difficili, immagino che la mia obiezione sarà apprezzata. Ma posso comunque provare ad articolarla meglio.

E cioè: nelle pulsioni populiste che percorrono le società contemporanee (non solo l’Italia) ci sarà pure del buono, anche se si esprime in modi decisamente meno buoni. Si tratterà pure di forme inedite di cittadinanza attiva, che, trovando ostruiti (oppure inutilizzabili) i canali tradizionali di espressione della volontà politica, assumono modalità diverse, più immediate e meno paludate. Resta vero tuttavia che regole e istituzioni del gioco democratico sono essenziali e dobbiamo averne cura. Perciò direi: grazie per la precisazione sociologicamente corretta, nessuno demonizzi nessuno, ma lasciateci ancora compiere lo sforzo di mettere la politica nelle forme richieste da una democrazia parlamentare, con il senso delle istituzioni e dello Stato che ciò richiede, con il profilo di una forza di governo consapevole di impegni e responsabilità nazionali e internazionali, e, da ultimo, con la consapevolezza di dover costruire un futuro possibile per questo Paese. Pigiare ossessivamente il pedale della contrapposizione fra partiti. Istituzioni, professionisti della politica, élites, caste e via denigrando da una parte e, dall’altra, il popolo o la gente di cui i movimenti populisti sarebbero diretta e genuina manifestazione, non è accettabile. Tanto meno lo è quando a rendersene protagonisti sono politici con ultradecennale esperienza alle spalle. Ma tant’è.

Lo schema di Bersani, ad ogni modo, discende da questo ragionamento. Che non è l’unico possibile, ma è quello proposto dal Pd. Il patto tra progressisti e moderati si inserisce infatti in questa delimitazione del campo di gioco, che ha una precisa linea di demarcazione nel rifiuto degli argomenti populisti contro l’Euro, contro le tasse, contro gli immigrati, contro il finanziamento pubblico ai partiti, contro i parassiti del pubblico impiego e, a detta del suocero di Grillo (se capisco), pure contro i sionisti cattivi.

Naturalmente, ci sarà sempre un populista come il comico genovese che traccerà una divisione diversa: fra il Palazzo e i cittadini, fra i partiti incistati nelle istituzioni e movimenti al fianco dei cittadini tartassati, ma sarà, per l’appunto, la rappresentazione di un populista che lucra su questo schema.

E oramai Di Pietro deve decidere se intende adottarlo oppure no. Se infatti si torna a discutere di alleanze non è per l’inguaribile deriva politicista dei partiti, ma per i pencolamenti dell’IdV, che non ha ancora chiaro se deve inseguire Grillo e gridare più forte di lui, o se accetta invece la proposta politica del Pd. E, cosa curiosa, sembra non averlo chiaro neppure Vendola. Il quale ovviamente ha tutte le ragioni di chiedere di discutere con il centrosinistra di contenuti e programmi, ma deve pure mostrare qualche preoccupazione per l’agibilità dello spazio politico in cui quei programmi dovranno essere realizzati.

Vendola tituba, Di Pietro si spolmona, il tutto perché Bersani sembra avere occhi solo per Casini. Ma non mi pare che le cose stiano così. Stanno anzi al contrario: invece di avere occhi per il proprio posizionamento presso l’elettorato, preoccupati del crescente consenso dei grillini, bisogna che la strana coppia scommetta su una nuova stagione della democrazia italiana e sulla ricostruzione civile del paese, piuttosto che sulla maniera in cui approfittare della fine poco gloriosa della seconda Repubblica. Lascino a Grillo e a suo suocero il compito di fare di tutte l’erbe un fascio. Alla fine, si scoprirà che i più legati al passato, al berlusconismo e all’Italietta sono proprio i nuovissimi populisti: urlatori quando si parla di quel che è stato, privi di voce quando si tratta del futuro.

L’Unità, 1° luglio 2012

Perché alla fine vince Vendola

Io organizzo, tu vinci: da quale modello politico il partito democratico abbia importato questa generosa formula non è dato sapere, ma dopo la Puglia di Vendola, la Napoli di De Magistris, la Milano di Pisapia, la Cagliari di Zedda, è ora la volta di Genova. Alle primarie il Pd schierava un dirigente nazionale, Roberta Pinotti, e il sindaco uscente, Marta Vincenzi. È già singolare che il sindaco si sia dovuta sottoporre alle forche caudine delle primarie: di solito al secondo mandato ci si arriva in carrozza. Ma a stranezza si è aggiunta stranezza, perché a vincere è stato il candidato indipendente, Marco Doria, che la sveltezza e la disinvoltura retorica di Vendola ha consentito di ascrivere a tambur battente a Sinistra e Libertà. Cavallerescamente (ma non troppo), i dirigenti del Pd si affrettano ora a dichiarare che il risultato ci sta tutto, è nello spirito della competizione, quando è veramente autentica; ma allora è il partito democratico che rischia di apparire, agli occhi del suo stesso elettorato, in debito di autenticità.
Di certo, la vicenda ha riaperto la discussione, anche perché Bersani ha già assicurato, con un filo di imprudenza, che se non si cambia il Porcellum il Pd ricorrerà alle primarie per la scelta dei suoi candidati al Parlamento. Che è come dare ai propri avversari, interni ed esterni, un ottimo motivo per gufare contro un accordo in materia elettorale.
Mettersi però a discutere dello strumento delle primarie significa scambiare il dito con la luna, e la luna è nientepopodimeno che l’orizzonte politico-culturale del Pd. Dove va, infatti, il Pd?  Quando scende per strada e manifesta nelle piazze, allestisce i gazebo e sente la base, pencola a sinistra: vincono i candidati più vicini alle battaglie sui diritti, sui beni comuni, sui nuovi bisogni e le nuove sofferenze sociali – candidati movimentisti, financo populisti, non sempre in sintonia coi gruppi dirigenti del partito.  Quando invece il Pd varca il portone di Palazzo Chigi e affronta la severa agenda del governo Monti, vira piuttosto verso i più tranquilli lidi del centro, e nel discorso pubblico fioriscono parole come serietà, sobrietà, responsabilità: l’anima tecnocratica prende il sopravvento, e un occhio di attenzione viene dato, prima che ai ceti popolari, ai severi corsi del mercato.
Intendiamoci: non siamo certo alla schizofrenia del partito di lotta e di governo e soprattutto, particolare non trascurabile, da qualche mese i consensi nel Pd crescono, a giudicare almeno dai sondaggi. E tuttavia la formula che Bersani non si stanca di usare: questo non è il nostro governo, non dice ancora chiaro e tondo come sarebbe, il suo governo. In buona logica, infatti, non si definisce mai nulla in termini solo  negativi. Dire di una certa cosa che non è né questo né quello, non è ancora dire che razza di cosa sia. Affermare che il Pd è un partito di centrosinistra, e spiegarsi dicendo che non è né di centro né di sinistra, non è esempio di fulgida chiarezza.
La situazione finisce con l’essere la seguente: c’è un grande partito, forse l’ultimo che possa essere così definito, forte abbastanza da poter contrattare col governo gli elementi del suo programma, ma in cui spezzoni di idee non trovano ancora un linguaggio condiviso.  La vicenda dell’articolo 18, intoccabile e riformabilissimo nello stesso tempo a seconda del dirigente che si intervista, è abbastanza indicativa. E così il Pd può essere di sinistra sì, ma non troppo, moderato ma anche no, riformista ma con juicio, e così via aggettivando. L’ancoraggio europeo nel Pse ci sarebbe, ma chi li sente i cattolici; la responsabilità nazionale funzionerebbe, ma rischia di accaparrarsela Monti; e poi c’è sempre, sornione, Casini. Semplicemente democratici, sbotta infine qualcuno, ma più per tagliar corto che per dare a vedere, finalmente, di cosa si tratta.
Intendiamoci: stiamo parlando del primo partito italiano, stando almeno ai sondaggi. Ma a sinistra ancora se la ricordano, la volta che erano il primo partito, quando, un po’ come adesso, non avevano saputo ben delineare un orizzonte politico chiaro oltre la battaglia elettorale. Niente orizzonte, niente vittoria: qualcun altro decise di scendere in campo, circondato, lui sì, da cieli azzurrini, e la vittoria, alla fine, andò a lui.

Il Mattino, 14.02.2012