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Il meridionalismo dell’orgoglio terrone

Kandinsky Intorno al cerchio 1940

V. Kandinsky, Intorno al cerchio (1940)

Chissà dove un nuovo meridionalismo potrà attingere, per ripensare la questione meridionale. Lo scorso anno, Gianfranco Viesti e Carlo Trigilia hanno provato a mettere in fila gli effetti che la crisi ha avuto sull’economia del Mezzogiorno: un calo del Pil doppio di quello del Centro Nord, la caduta degli investimenti; il forte ridimensionamento del settore manifatturiero; l’ulteriore emorragia di occupazione; la crescita della povertà delle famiglie; la riattivazione dei flussi emigratori; il calo demografico per effetto di un abbassamento del tasso di natalità.

Lo scenario completo, ricordavano gli autori, deve però tenere in conto anche i segnali positivi: la forte crescita del turismo, la vivacità imprenditoriale nel settore delle start up, i settori industriali che realizzano performance positive anche negli anni più bui della crisi, la stessa tenuta degli equilibri sociali, non facile agli attuali livelli di disoccupazione.

A questo quadro vanno ad aggiungersi ora i dati confortanti che l’Istat ha fornito sulla produzione industriale nell’ultimo anno, con la Campania che cresce più della media nazionale e del Centro Nord. La direzione presa dalle politiche pubbliche, a livello nazionale e regionale, sembra insomma che stia dando i primi frutti.

A leggere però il racconto che del Meridione fornisce «Attenti al Sud», il libro che raccoglie le testimonianze di quattro scrittori meridionali («il pugliese Pino Aprile, il napoletano Maurizio De Giovanni, il calabrese Mimmo Gangemi, il lucano Salvatore Nigro») sembra che la questione meridionale non sia una questione legata alle strategie di sviluppo economico di queste terre, bensì soltanto una questione di identità. O, peggio ancora, che sia solo la questione di come sia distorta la rappresentazione più o meno stereotipata che di questa identità viene offerta nei media nazionali, nella pubblicistica corrente, da ultimo magari nelle serie televisive in stile Gomorra.

Così i quattro autori provano a raccontare un Sud diverso: Nigro sceglie di mostrare quanto sia da riscoprire la tradizione letteraria meridionale, e in particolare lucana, di cui si sa ancora troppo poco; Gangemi spiega che la Calabria è terra di ‘ndrangheta, ma questo non vuol dire affatto che tutti i calabresi siano ‘ndranghetisti; De Giovanni sostiene che i meridionali questa benedetta identità se la vedono appiccicata addosso dagli altri e finiscono col subirla; Aprile infine prova a sostenere che al mondo nessuno può essere orgoglioso della sua storia e della sua cultura più del popolo meridionale. Non solo, ma «Mentre il Nord sta dissanguando il paese, per tenere in piedi le cattedrali di una religione perduta, ovvero quella industriale, il Sud, con una scarpa e una ciabatta (come dicono a Roma), sta reinventando il mondo».

Nientemeno! Quest’ultima tesi è francamente assai ardita, ma è la più indicativa di una certa maniera di affrontare il tema del divario fra Nord e Sud sulla base di tre, caratteristiche inconfondibili, e ricorrenti in certa saggistica “sudista”, che si ritrovano anche in questo agile libretto. La prima consiste nell’insistere esclusivamente sui torti e le ingiustizie subite dal Mezzogiorno, nel corso della sua storia post-unitaria (chissà poi perché ingiustizie e torti i governanti pre-unitari non ne commettessero); la seconda consiste nell’accumunare enfaticamente la sorte del Meridione d’Italia a quella di tutti i Sud del Mondo; la terza, infine, nel ricercare percorsi di modernizzazione inediti, alternativi a quelli imposti dall’Europa e dall’Occidente, lungo i quali l’arretratezza del Sud si ritrova all’improvviso ad essere non più un handicap, ma anzi un vantaggio e, quasi, un motivo di fierezza.

Le tre caratteristiche suddette si ritrovano nitidamente esposte solo nel testo di Pino Aprile, che insiste in particolare, come in tutti i suoi libri, sulla colonizzazione del Mezzogiorno da parte del Nord. Ma si possono riconoscere anche negli altri contributi: nell’elogio della intemporale bellezza partenopea di De Giovanni, ad esempio, o nella difesa dell’Aspromonte non contaminato dall’industrializzazione di Gangemi: ogni volta, il Sud appare come una specie di miracolo, reso possibile dall’essersi tenuto in disparte dal corso principale della modernità e dalle sue brutture. E siccome i meridionali sono vittime del pregiudizio che li vuole corrotti, delinquenti o sfaticati, in tutto questo libretto non si troverà una sola parola sui loro vizi, ma solo sulle loro virtù: letterarie o morali, umane o artistiche.

Ma è poi dei vizi o delle virtù di un popolo, che si tratta? È questa la questione meridionale: una questione antropologica, scritta nei costumi, nei dialetti e nelle tradizioni del Sud? Ed è da lì che deve ripartire il nuovo meridionalismo? È lecito dubitarne. L’impressione è anzi che si commetta l’errore opposto: alla caricatura anti-meridionalista si replica infatti con una calorosa professione di fede meridionale, come se bastasse rivendicare storia e memoria per superare le contraddizioni reali che frenano lo sviluppo del Mezzogiorno. Come se la questione meridionale fosse solo una questione di orgoglio ferito, e la letteratura fosse chiamata solo a riscattare questo orgoglio: questa sarebbe la sua missione civile. Ho paura che sia il contrario, che questa riscoperta delle proprie radici, per tanti aspetti meritoria, funga solo come consolazione ai propri mali: come spesso è stato nella storia d’Italia, usa a celebrare, a volte persino a mitizzare il proprio glorioso patrimonio, per nutrire speranze future, tenendosi però alquanto discosti dalla prosaicità del presente.

(Il Mattino, 10 ottobre 2017)

 

Sud, no alla memoria inutile: il dialogo tra due intellettuali

Newman-Who's_Afraid_of_Red,_Yellow_and_Blue

B. Newman, Who’s Afraid of Red, Yellow and Blue (1966)

[Quello che segue è il dialogo tra due intellettuali del Sud sulla proposta di istituire una Giornata della memoria sudista votata quasi a maggioranza dal consiglio regionale pugliese su proposta del movimento Cinque Stelle e con l’Ok del governatore Emiliano].

Massimo Adinolfi: «La proposta di istituzione di una giornata della memoria “atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana” non sembra solo una boutade estiva. Non lo è perché da tempo è in atto un revival sudista, che si esprime nei modi più diversi: alcuni folcloristici, altri meno. Non lo è perché tocca i fondamenti di legittimazione della memoria pubblica nazionale. Non lo è perché agli inizi di luglio è stata avanzata in forma di mozione in seno al consiglio regionale della Puglia da una forza politica, il Movimento Cinque Stelle, che viene accreditata di consensi crescenti nel Paese. Non lo è, infine, perché, ben lungi dall’essere respinta,  è stata approvata a larga maggioranza, con il favore di quasi tutte le forze politiche, e anche quello del governatore Emiliano. Qual è la sua opinione, in merito?».

Gianfranco Viesti: «Mi sembra davvero un’idea infelice, presa con troppa leggerezza, forse stimolata dall’approssimarsi di un turno elettorale».

M. A.: «Io ho molte perplessità sulla sempre più frequente istituzione delle giornate della memoria, sulla proliferazione di leggi dal contenuto memoriale, spesso accompagnate dai relativi obblighi giuridici e morali, su certe modalità ufficiali di risarcimento delle vittime che sembrano voler trasformare il corso della storia in un triste seguito di pagine nere. Come se la storia non fosse altro che una macelleria di uomini e popoli. E come se l’unica posizione moralmente legittima fosse quella che si pone sempre solo dalla parte degli sconfitti.

Dietro a ciò vi sono, a parer mio, due tendenze culturali di fondo. Una l’ha individuata lo storico francese Hartog, nella sua riflessione sui regimi di storicità che corrispondono a modi diversi di vivere il rapporto col passato. Nella nostra epoca, affetta da “presentismo”, si ha sempre meno pazienza e disponibilità nei confronti della profondità storica, e sempre più la tendenza a trasformare la storia in un seguito di ricorrenze. A trasferire sul piano dei simboli ciò che andrebbe invece considerato sul piano dei processi storici effettivi. L’altra tendenza ha a che vedere con la fine dei grandi discorsi, delle grandi narrazioni, che comporta il venir meno di un’idea generale del senso dei processi storici. Prima con la storia si giustificava tutto. Ora siamo all’eccesso opposto, per cui nulla può essere più storicamente giustificato. Insomma, è come se fare l’unità d’Italia – uno dei più grandi risultati dell’età moderna – non rendesse oggi meno inaccettabili i fucili piemontesi puntati contro l’esercito borbonico.

Mi domando se vi sia ancora un terreno di legittimazione dell’unità italiana più ampio, più profondo e più forte di un mero bilancio economico, esprimibile in termini diversi da un computo delle vittime o delle perdite».

G. V.: «La ricerca storica sul processo di unificazione nazionale, così come sui tanti altri eventi del nostro passato, è certamente benvenuta. È bene portare alla luce anche gli eventi più controversi. Non sono uno storico e dunque ho una conoscenza di questi temi solo da lettore interessato. Non posso escludere che, specie nei primi decenni unitari, si sia proposta una lettura parziale degli eventi, anche nello sforzo di costruzione di un’identità nazionale in un paese in cui, per dirne una, erano ben pochi gli italiani in grado di capirsi parlando una lingua comune e non in dialetto. Bene, benissimo, quindi, ogni ricerca storica, e una discussione, su basi scientifiche, senza remore. Se il Consiglio avesse sollecitato questo, nessun problema: ma la giornata della memoria prende una posizione assai controversa. Tra l’altro, vi erano meridionali borbonici; ma tanti anti-borbonici. Per fortuna»

M.A.: «Se le pagine della storia sono tutte nere, e tutte grondano sangue, come si fa a distinguere le une dalle altre? Se ci fosse una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione, proprio come vi è una giornata per le vittime della Shoah o per le vittime del terrorismo, non vorrebbe dire che tutte queste vittime sono state allo stesso modo offese da una stessa ingiustizia storica? Ora, francamente, non mi sembra che questo sia il caso. Un conto sono le ingiustizie o le violenze perpetrate in singoli episodi della vicenda (evidentemente: non più epopea) risorgimentale, che la storiografia ufficiale ha teso forse, in passato, a ridimensionare e che è giusto non dimenticare (ma esiste davvero una storiografia ufficiale? La ricerca storica, nel nostro paese, non è sufficientemente aperta, libera, plurale?). Ben altro conto è istituire una giornata della memoria al fine di presentare il processo di unificazione come un mito costruito dai vincitori per occultare una  forma di sopraffazione del Nord ai danni del Sud. Va bene che da tempo la storia non si fa più soltanto riunendosi attorno alle “urne dei forti”, ma questo vuol dire che dell’unità d’Italia il Mezzogiorno fu solamente vittima?».

G.V.: «L’ampia evidenza storica disponibile sul regno borbonico non giustifica particolari nostalgie. Non era l’inferno, comparato ad un paradiso sabaudo. Ma la ricerca converge ad esempio nel valutare come infimo, molto più basso che negli altri stati preunitari, fosse il livello di alfabetizzazione. Un divario, quello nell’istruzione elementare, che sará colmato solo dopo un secolo, e che peserà enormemente sul ritardo economico e civile del Sud. Lo stesso vale per la grande infrastrutturazione di trasporto.
Ancora, sia il processo di unificazione monetaria, sia la scelta del regime liberoscambista possono aver danneggiato l’economia del Sud. Così come alcune delle prime politiche unitarie. È giá all’inizio del Novecento che ne scrive uno dei più grandi italiani del secolo scorso, Francesco Saverio Nitti. Ma in lui non vi è alcuna nostalgia di un regno del Sud: ma la proposta di politiche nazionali, unitarie, più attente anche allo sviluppo del Mezzogiorno, in un quadro di crescita dell’intero paese. La ricerca storico-economica ha poi messo chiaramente in luce come il divario Nord-Sud sia, dopo l’unificazione, e ancora ai tempi di Nitti, relativamente limitato; e esploda invece ai tempi del fascismo, per non richiudersi se non lievemente fino ad oggi».

M.A.: «Terrei poi su un altro piano la discussione sui centocinquant’anni di storia unitaria, e sulle ragioni per cui l’Italia si presenta ancora come un Paese troppo lungo e diviso. Anche se fosse dimostrato – e io in verità credo lo sia – che le cause della arretratezza meridionale non sono tutte imputabili al Sud, questo non vorrebbe dire che dunque sarebbe stato meglio tenersi i Borboni, o che il Regno delle due Sicilie è stato un ineguagliato faro di civiltà. È su altre basi, del tutto diverse dal rivendicazionismo storico, che va riproposta la questione meridionale. Ed è vero, certamente, che accantonarla è servito a coltivare interessi politici ed economici precisi, durante tutto il corso degli ultimi venti-trent’anni. Ma a che serve soffiare sul fuoco separatista dei simboli anti-risorgimentali, o prendersi la soddisfazione di fare dei piemontesi dei brutti ceffi, e dei brutti ceffi dei briganti fare dei nobili Robin Hood?».

G.V.: «Non vi è dubbio che sia oggi diffuso e alimentato un forte pregiudizio antimeridionale. Una lettura a senso unico, aprioristica, della realtà italiana. Lettura pericolosissima sul piano civile. Ma che, ormai da almeno un ventennio, produce effetti concreti sulle politiche; a danno del Mezzogiorno. Lettura contro cui sono pochissime le voci che si levano, specie al di sopra del Po: come messo plasticamente in luce dai silenzi e dalle reticenze, se non dagli ammiccamenti, nei confronti del referendum lombardo-veneto del prossimo 22 ottobre, espressamente mirato contro i cittadini del Centro-Sud. Bene una reazione, anche forte. Ma personalmente non la baserei su mitologie di un passato felice, ma sulla concretezza dei diritti di tutti i cittadini italiani, qui e oggi. Sui fatti del presente e del futuro. Sarebbe stato auspicabile, ad esempio, un maggiore impegno dei consiglieri e dei vertici pugliesi, di centrodestra, pentastellati, del Pd proprio sui temi delle autonomie regionali e dei diritti di cittadinanza, piuttosto che per questa celebrazione. Il punto è che richiederebbe impegno, discussione severa all’interno del proprio schieramento, e non una facile passerella».

M.A.: «Infine, vorrei porre una domanda sul significato di una memoria condivisa. Questo tema è stato posto in Italia a proposito del discrimine fascismo-antifascismo, e a quel riguardo Giorgio Napolitano, da Presidente della Repubblica, ha più volte messo in guardia dalle “false equiparazioni e banali generalizzazioni”. Non è lo steso avviso che bisogna tenere nei confronti delle vittime meridionali dell’unificazione, per evitare di dare al 1861 il significato di una morte della patria meridionale?».

G.V.: «Gli stessi movimenti politici che vogliono il referendum lombardo, ci propongono invece una giornata della memoria pugliese, o inverosimili referendum campani e calabresi, inseguendosi a vicenda. È certamente ricerca di consenso spicciolo in un elettorato scettico e incerto, che si cerca di accarezzare con questi richiami. Spiace coinvolga alcune Istituzioni, e i loro vertici. Ma è anche spia pericolosa dell’incapacità di proporre agli italiani ragionevoli profezie, di sollecitare la loro fiducia su percorsi possibili, di chiamarli a scelte alternative. Finite le grandi narrazioni, si è precipitati nel giorno per giorno. Non sapendo parlare a tutti gli italiani, si solleticano egoismi o orgogli locali: un gioco molto pericoloso».

(Il Mattino, 8 agosto 2017)