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Vino Nobile di Montepulciano

(Scruton a Walter gli fa un baffo: questo, finora, è forse il pezzo migliore della serie)
 
 
«È come se la natura, anch’essa artista in paese d’artisti, avesse voluto, su questo estremo limite di Toscana, riassumere in una sola tutte le impressioni delle antiche guerre, una città si stacca su quella specie di capo a cui mette fine l’immensa ondulazione dei poggi: Montepulciano, vero gioiello di guerra, di una bellezza feroce, incastonato ne’ suoi bastioni con disegno netto come un rilievo di geometria e contornato dalla strada. Ma al di là di questa piazza forte si svolge un paesaggio tutto in pianura e al di là ancora un’altra linea di montagne lontane…». Così Paul Bourget descriveva il paesaggio su cui si staglia il profilo severo di Montepulciano. Posto sulla dorsale che separa la Val d’Orcia e la Valdichiana – fra i territori più belli dell’intera Toscana – Montepulciano raccoglie in sé tutte le note distintive della terra di confine. La sua struttura urbana, la sua posizione, rivelano un destino fatto di secolari contese, come le guerre combattute fra Siena e Firenze per controllare avamposti strategici rivolti a sud. Ne deriva una mirabile commistione, o un creativo contrasto, fra la dolcezza delle colline circostanti – disegnate dai filari ininterrotti dei cipressi, punteggiate di vigne ed oliveti – e l’asperità delle battaglie, consentendoci semmai d’immaginare soldati impegnati a guerreggiare o, nelle taverne, distratti dal mangiar forte e dal bere solenne. Un sapiente equilibrio di corposità e gentilezza, nobiltà e vigore. Ne è emblema, all’interno del borgo, la ‘Piazza Grande’ – rimodellata fra Quattrocento e Cinquecento secondo il gusto rinascimentale – con l’austera mole del palazzo comunale e la ruvida facciata incompiuta del Duomo. E anche nel ‘suo’ vino, il ‘Nobile di Montepulciano’, sono intrecciati stoffa signorile e corposo vigore.    
Come per ogni lembo di Toscana, anche qui la cultura della vite ha origini antiche e prestigiose. In un documento risalente alla metà del Cinquecento – redatto dal cantiniere del papa – si esalta il vino di Montepulciano «perfettissimo tanto il verno quanto la state, odorifero, polputo, non agrestino, né carico di colore, sicché è vino da Signori». E nel Seicento, Francesco Redi lascia che Bacco stesso ne celebri le doti: «Bella Arianna con bianca mano / versa la manna di Montepulciano / … / Montepulciano d’ogni vino è Re!».
Nel 1980, il Vino Nobile di Montepulciano ha ricevuto il riconoscimento della Docg, ricuperando progressivamente l’antico prestigio. La sua produzione è ora sottoposta ad un rigoroso disciplinare, che riguarda la zona di produzione (estesa al solo territorio di Montepulciano, esclusa la zona della Valdichiana, consentendo la scelta delle uve solo per i vigneti situati ad un’altitudine compresa fra i 250 e i 600 metri sul livello del mare) e l’affinamento (anch’esso effettuabile solo entro il comune di Montepulciano). Il vitigno base per la realizzazione del ‘Nobile’ è una selezione ‘clonale’ di Sangiovese Grosso – qui denominata ‘Prugnolo Gentile’ – cui può essere aggiunta una minima percentuale di Canaiolo nero ed altri vitigni autorizzati entro la provincia di Siena. Dopo una attenta selezione dei grappoli, occorre destinare il vino ad un processo di maturazione minimo di due anni in botti di rovere o castagno e successivamente in bottiglia. Se sottoposto ad un periodo di invecchiamento di almeno tre anni, il Vino Nobile di Montepulciano può ricevere la qualificazione ‘Riserva’. Raggiunge (e talvolta supera) i 12-13° di alcol e ha ottima capacità d’invecchiare.
È vino dalla preziosa stoffa cromatica, ove l’intensità del rosso rubino volge, col tempo, in un denso granato dai riflessi aranciati. Nei profumi s’alternano con eleganza ed equilibrio le note fruttate del sottobosco (mora, mirtillo), i toni balsamici della liquirizia, gli accenti speziati della vaniglia, sentori minerali e tostati. Al palato si rivela di solida struttura, con una grana di tannini fitta e setosa, dal finale ampio e di grande persistenza. Nelle annate di maggior pregio può valere come vino da meditazione.
Direi che l’abbinamento letterario è qui obbligato. Si beva dunque il Nobile di Montepulciano accompagnandolo con le Stanze per la Giostra di Angiolo Ambrogini detto il Poliziano – illustre figlio di questa terra (dal nome latino della sua patria: Mons Politianus, deriva peraltro anche l’appellativo con cui è conosciuto).
 Si tratta anche d’un vino superbo e severo, sicché, per quanto riguarda i richiami filosofici, arrischio l’accostamento con l’opera di Hegel. Penso, ad esempio, alla Filosofia dello spirito jenese.
 
by Walter 

Serpico, Mann, Plotino e Schelling

La volta scorsa ci siamo soffermati sul Taurasi – vino campano di grande struttura – lodando il vitigno da cui è tratto, l’aglianico d’origine greca. Ma l’aglianico si offre come preziosa base per molti altri vini di altissimo prestigio (campani e lucani), nati dalla dedizione di vignaioli sapienti. È questo il caso del Serpico – a base di aglianico in purezza, appunto – prodotto dalle cantine Feudi di San Gregorio, i cui vigneti insistono sui medesimi territori che, al tempo del pontificato di Gregorio Magno, costituivano il cosiddetto Patrimonium Sancti Petri. Il nome Serpico nasce invece in omaggio di Sorbo Serpico, il borgo ove sorge la cantina di produzione. È vino che si rivela incisiva espressione della sua terra di provenienza, solidale alle boscose valli d’Irpinia. Gran parte delle uve adoperate per la vinificazione sono ottenute da viti centenarie ‘prefillosseriche’, situate ad un’altitudine di 400 metri sul livello del mare. La raccolta avviene manualmente, e con attenta cernita dei grappoli, fra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre, per consegnare poi il vino ad un affinamento di 14 mesi in carati di rovere nuovo.
Alla vista il Serpico si presenta con denso impatto cromatico, di rubino con fondo purpureo, fino ai toni cupi della melanzana. Le fitte venature dei colori si intrecciano ad una trama olfattiva quanto mai articolata, in cui si avvicendano e fondono i frutti di bosco (mora, ribes nero) e la confettura di ciliegia, così come i toni speziati della cannella e dei chiodi di garofano. Ma il bouquet accoglie anche richiami di menta, tabacco, cacao e caffè, su fondo vanigliato. In bocca rivela tutta la sua complessità e ricca struttura. È vino ‘carnoso’, di superba concentrazione, dai tannini armonici, e che si dispiega con densa cremosità e morbidezza, richiamando anche al gusto i frutti di bosco. Il finale, di lunga persistenza, sprigiona note balsamiche. Ha 13,5° di alcol e attitudine all’invecchiamento. 
Direi che un vino come il Serpico ben si addice alle prime brume autunnali e ai primi freddi – evocando insieme impressioni visive che fanno pensare a quadri di Brueghel –  come a condividerne le pause che si accompagnano al lento ridursi delle giornate, e prestarsi così a letture complesse e profonde.
Lo trovo adatto, per esempio, ad accompagnare un’opera somma come Der Zauberberg (‘La montagna incantata’) di Thomas Mann.
In filosofia mi pare possa accordarsi con complesse geometrie speculative dalle radici neoplatoniche. Lo si gusti, dunque, provando a misurarsi con intrecci di pensiero esposti anche alla inquieta interrogazione del ‘divino’: dalle Enneadi di Plotino fino a Schelling, ad un’opera ‘inesauribile’ come la Philosophie der Offenbarung (‘Filosofia della rivelazione’). E proprio dalla Filosofia della rivelazione, infine, traiamo questa riflessione che dischiude ad una sapiente ‘simbolica’ del vino, evocandone la costitutiva ambiguità: «Il vino non è un immediato dono della natura, come il grano. È un succo spremuto con la forza, che passando attraverso una sorta di morte, ottiene una vita spirituale, nella quale (rinchiuso e conservato per così dire come un segreto) può durare più a lungo e dimostrare continuamente un carattere determinato, anzi individuale; ma esso dimostra la sua natura per così dire demoniaca o spirituale attraverso quella punizione che lo colpisce al tempo del fiorire della vite. Il vino è dunque il dono del dio già spiritualizzato […] è il dono che risveglia la vita più alta dello spirito e fa sorgere le gioie nascoste e i più profondi dolori della vita».
 
p.s. Tornando al testo della scorsa settimana, ho appena appreso che il prestigioso annuario dei vini “Gambero Rosso 2006” ha giudicato il Taurasi Vigna Cinque Querce 2001 di Salvatore Molettieri miglior vino rosso dell’anno. Si tratta di un riconoscimento altissimo e quanto mai meritato per un vignaiolo di ‘vera origine’.
by Walter