Archivi tag: vita

Vite autentiche e ordinarie

536658_397145433663313_1777093238_n

Un pullman, un viadotto, una gita. Poi sedili accartocciati, croci e santini fra i ciuffi d’erba, peluche. Brandelli di abiti. Un negoziante che per passione organizza pellegrinaggi verso luoghi di culto cari alla devozione popolare. Casalinghe, marescialli in pensione, insegnanti, gruppi di amici e parenti. Bambini, anche: che cosa c’è di più normale, di più ordinario, di più italiano nei nomi, nei luoghi, nelle mete di questa enorme tragedia? Le ambulanze, una scuola, il palazzetto dello sport. Mezzi ed edifici, cose e persone. Il lutto e il pianto. Il vescovo che ufficia il rito funebre, le autorità sedute in prima fila: nulla è fuori posto, tutto è non come deve essere (perché non doveva essere, non era necessario che il pullman precipitasse nel vuoto, e che tante persone morissero), ma semplicemente com’è, com’è andata e come si vede il giorno dopo, nel silenzio attonito che circonda la strada, le case, il vallone e le vite superstiti. Senza imbellettamenti, senza trucchi, senza neppure eroismi. Tutto è accaduto, tutto è vero, e nulla altera la luce uguale, indifferente e spietata di questa caldissima fine di luglio. Domani non è un altro giorno: è lo stesso giorno di oggi. Ci saranno ancora macchine, viaggi, gite, voci e risate, magliette sudate e giornali e radio accese. Un mazzo di fiori sul viadotto, e altri pellegrinaggi verso le stesse destinazioni.

Però i filosofi raccontano che la morte è un’altra cosa. 

(L’Unità, 31 luglio 2013)

Eluana, dibattito senza umanità

Quando suonano a morto le campane delle chiese di Udine, Maria (Alba Rohrwacher) è già lontana, ha già lasciato le amiche e gli altri attivisti riuniti in preghiera dinanzi ai cancelli della clinica “La quiete”, dove Luana Englaro si è spenta. Perché allora non dovrebbero valere per lei le parole rivolte a Pietro: “prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte”? Perché il rintocco delle campane, che invade lo schermo del film di Bellocchio, La bella addormentata, non dovrebbero lacerare la coscienza di Maria quanto il canto del gallo? Ma Maria è lontana per amore. La vita, la passione, la giovane età la portano lontano da dove le sue ragioni e convinzioni l’avevano fin lì condotta, e non importa se sia debolezza o forza, tradimento o buona fede: l’unica cosa che il film dimostra, è che la virtù e il corso del mondo non coincidono mai. Non nell’esistenza di Maria, ma neppure in quella degli altri protagonisti della pellicola, che nel momento decisivo, quando il presidente del Senato della Repubblica Italiana dà in aula la notizia pubblica della morte privata di una ragazza, si trovano tutti un passo prima o un passo dopo l’appuntamento che si erano dati con se stessi, con le loro proprie vite. Bellocchio non ha fatto un film a tesi: ha voluto offrire un grumo di storie che si raddensa negli ultimi giorni della vicenda Englaro intorno a un unico nodo, e all’impossibilità di scioglierlo senza che le esistenze non ne siano toccate, perfino straziate.

Nella vita, non nel Parlamento. Nel Parlamento, il decreto legge presentato il 7 febbraio 2009 dall’allora ministro Sacconi per stabilire con urgenza che “l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese” doveva contenere la soluzione: fermare il padre di Eluana, impedire che Eluana fosse ammazzata, come gridò il senatore Quagliariello in aula, in una sequenza agghiacciante e memorabile che il film ripropone.

Rivedendosi sul grande schermo, Quagliariello ha osservato giustamente che le storie raccontate nel film, mentre sullo sfondo si consuma la battaglia politico-parlamentare sul decreto Sacconi, non hanno nulla di simile al caso di Eluana: non si tratta in nessuna di esse del problema, posto da Beppino Englaro ai tribunali italiani, di rispettare la volontà della figlia, ricostruita in base a dichiarazioni e testimonianze. Proprio per questo, però, il film è in grado di consegnare alla nostra memoria la collera di Quagliariello come una delle scene madri della vicenda politica italiana degli ultimi anni. E se anche è vero che il film di Bellocchio contiene – come è stato scritto – troppe scene madri per considerarsi perfettamente riuscito, almeno dal punto di vista cinematografico, è anche vero che riesce invece a dirci, senza entrare nel dibattito legislativo sul fine vita, che cosa a quel dibattito, culminato nella stizza rabbiosa di Quagliariello, mancasse per davvero: l’umanità.

Che cos’è l’umanità? Io non saprei dire altrimenti: è la maniera di fare esperienza della morte nella vita, della vita nella morte. La vita e la morte non sono infatti come le due facce di un foglio, l’una in ogni punto opposta all’altra, e dunque destinate a non incontrarsi mai. Per questo non è mai bastato ripetere con Epicuro che quando c’è la morte non ci siamo noi, mentre quando ci siamo noi non c’è la morte, per cui non abbiamo da preoccuparci, dal momento che non la incontriamo mai. Invece la incontriamo. La vita incontra la morte, proprio in quanto è vita umana, e il film accumula situazioni in cui avviene questo incontro, una faccia del foglio si ripiega e si volta nell’altra, come in uno strano anello di Moebius in cui non si può stabilire qual è il recto e quale il verso. Queste situazioni hanno i nomi e le parole dell’amore, e del dolore, e Bellocchio presta ai suoi personaggi un tono a volte un po’ didascalico, o troppo sentenzioso, per distillarne il senso: ma non è vero che l’amore acceca, dice la giovane Maria. E il padre, il senatore Beffardi (Toni Servillo), che si appresta a votare tra molti tormenti in dissenso dal gruppo contro il decreto Sacconi: “il dolore non nobilita l’uomo”.

Mettendo con materiale d’archivio la politica sullo sfondo, il film suggerisce che di questa umanità non vi fu, in quella vicenda, quasi nessuna traccia. Non è un caso che le uniche riprese televisive proposte nel film (oltre a quelle legate a Eluana) riguardano uno straniante documentario sulla vita che gli ippopotami conducono in acqua: una vita-solo-vita, una vita interamente e sordamente naturale, muta come in una specie di acquario e sempre uguale. Ma non è vero che la vita e la morte rimangono uguali, come cantava Gucccini: rimangono tali solo se la vita viene fissata come nuda vita di contro alla morte, e la morte non viene vissuta come un’esperienza umana, di cui è possibile appropriarsi (se si è laici) o in cui (se si è credenti) è possibile affidarsi.

Ma non è vero neppure, ed è l’unico appunto che vorremmo muovere al film, al di là del suo valore estetico, che la politica è solo una commedia macabra e farsesca, e che l’unico politico serio è quello che si dimette e lascia lo scranno di senatore, invece di urlare rancoroso in Parlamento. Anche la politica ha una sua nobiltà. Che può ritrovare, se rinuncia a far coincidere il corso del mondo (magari con la forza di una pretestuosa decretazione d’urgenza) con le nostre esacerbate virtù, e prova invece ad alleviare il peso della loro mancata coincidenza nelle vite di ognuno di noi, mettendolo in un destino comune.

L’Unità, 9 settembre 2012

La cellula e i suoi proprietari

Creazione della vita artificiale, si dice. Ma, si obietta, non è affatto creazione e non è neppure vita. Non è creazione, perché la creazione procede ex nihilo, mentre nel caso del Mycoplasma mycoides JCVI-syn 1.0 c‘è del materiale di partenza: i composti chimici necessari per sintetizzare le molecole; e non è neppure vita, perché la vita consiste in molto più che non il suo motore. Quel che si sarebbe infatti ottenuto nel laboratorio di Craig Venter è solo la sostituzione del motore principale di una cellula (il suo Dna) con un motore del tutto artificiale, ma la vita non si risolve nel funzionamento del motore…

Continua su Left Wing

La filosofia e lo statuto del vivente

A beneficio del mondo, metto qui sotto lo schema della relazione tenuta da Carlo Sini a Marina di Camerota, quella che m’è parsa filosoficamente più densa. Siccome è di mia mano, dico in premessa che lo schema riproduce abbastanza bene l’ordine dell’esposizione, meno bene il movimento del pensiero (com’è inevitabile, peraltro). A voi:
 
In premessa: la natura umana non ha un passato e un futuro stabilii. Qualunque affermazione ‘ assolutistica’ è, in senso stretto, ignorante: ignora ciò che l’uomo è. Solo un pensiero relazionale, del relativo (che non vuol dire un pensiero banalmente, debolmente relativistico) consente di pensare che cos’è l’uomo.
La filosofia parte del vivente. Ogni altra ‘partenza’ è inadeguata. La filosofia nasce con Parmenide. In Parmenide l’uomo è eidos phos, colui che sa. Sapere è ‘avere visto’. L’uomo è colui che, avendo visto, sa. Ciò che l’uomo ha visto, e che lo stacca da tutti gli altri esseri viventi, è la morte, il cadavere. Questo è il sapere antropologico per eccellenza.
Hegel dirà dell’uomo il medesimo: l’uomo è il photizomenos, il rischiarato, l’illuminato. Per Hegel, fin dai suoi scritti giovanili (cf. Lo spirito del cristianesimo e il suo destino) “il carattere di ogni realtà è la vita”[1]. Il mondo è la vita che accade.
Come però accade? Hegel distingue la vita immediata, indistinta, e la vita illuminata dal sapere. Non sono però due vite ma due modi d’essere della stessa vita. Non son due ‘cose’ separate: la vita è immediatamente la sua mediazione. Siamo già sempre, immediatamente, nell’evento della sua mediazione. Il che in breve significa: non ci sono sostanze metafisiche (per stare ai termini moderni: ‘soggetto’, ‘oggetto’, ecc.). Le fantasmagorie metafisiche sono nate molto spesso non per amore del sapere ma per amore del potere. Whitehead: ogni cosa prende (com-prende) un’altra cosa. Ogni vita e ogni vivente è immediatamente la relazione in cui si disegna il suo stesso vivere. Il vivente è la vita che si individua. Non c’è un assoluto essere organico e un assoluto essere inorganico. L’organico è ciò che di volta in volta si ritaglia l’inorganico come suo altro – e ciò, l’evento di questa mediazione, immediatamente.
Questo individuarsi separandosi è la relazione (l’essere-in relazione). Io e te siamo relazionati dalla nostra separazione, separati dalla nostra relazione.
Zoè, la vita nel suo primo senso immediato, è l’accadere di phos, luce del sapere che nell’uomo giunge sino al sapere la morte, come s’è detto, ma che è anzitutto un saper fare, un assumere abiti e un com-prendere. Il vivente è ‘illuminato’, si diceva, ma è illuminato dalla sua stessa prassi: ciò che vale per le forme infinitesimali del vivente come per l’uomo.
Con l’uomo – che, diceva Heidegger, è aperto al mondo, a differenza dell’animale – la ‘luce’ giunge sino a illuminare l’ente nella sua verità. L’uomo è il photizomenos photi aletheias (Hegel, ancora lo Hegel giovane). Ossia: l’animale fa quel che sa e deve fare, (oppure: patisce quel che deve patire), ma non si dà mai per lui un sapere complessivo del mondo, non si eleva mai alla luce dell’orizzonte complessivo dell’ente, l’uomo ha il mondo, è l’illuminato, è il rischiarato nel senso che sta, sa e si sa come colui che sta nel mezzo della totalità dell’ente.
Ora però quel che Hegel ci ha infine insegnato – e che non ci hanno insegnato né Parmenide né Kant (o Fichte o Schelling) –è la storicità essenziale della vita stessa. In quanto la vita è l’evento stesso del vivente che si illumina nel suo sapere; in quanto questo sapere è anzitutto un saper fare, e dunque è prassi, in tanto essa è storia. E’ Dilthey ad aver segnalato con forza questa soglia: la vita come storia.
La storicità della vita è la storicità dei suoi saperi. Anche dei saperi scientifici. Il phos, la luce, il sapere è – lo si è visto – del mondo nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo: non è solo la luce che cade sul mondo, ma è la luce in cui il mondo viene al mondo come mondo (vs. ogni lettura ‘soggettivistica’ di Hegel). Questo implica l’essenziale storicità di ogni biologia, di ogni scienza del vivente. Non avremo sempre questa biologia, e soprattutto: non avremo sempre questa architettura del sapere. Ma affermare la storicità di ogni biologia non comporta tanto un abbassamento relativistico quanto un innalzamento del relativo (del vivente in quanto vivente).
Di nuovo: sapere è essenzialmente saper fare. Il lavoro della scienza è, appunto, un lavoro. La scienza deve essa stessa liberarsi dei suoi fantasmi naturalistici e riduzionistici. Se la vita è storicità, se la scienza è (anche) il suo lavoro, allora significa che sono letteralmente ignoranti proposizioni le quali dicano ad esempio che la vita è sacra e intangibile o che, per altro verso, dicano che la vita è una scarica elettrica. E il compito della filosofia – dinanzi a simili affermazioni – deve essere quello di chiedere: fammi vedere che lavoro fai, quando intendi e dici così; mostrami le tue operazioni, come prendi e com-prendi.
Solo così possiamo comprendere come l’uomo abbia un futuro, e come abbia un passato (nel modo in cui li ‘ha’)[2].

[1] Anche L. Wittgenstein dirà, in apertura del Tractatus: il mondo è tutto ciò che accade. E nei Taccuini coevi: il mondo è la vita stessa
[2] Nella discussione, Sini ha aggiunto, in risposta a chi lo invitava a riflettere sulle possibili manipolazione genetiche e sulla necessità di tutelare la natura umana, che questa tutela non si esercita sul piano dei principi ma si misura sulle conseguenze. In breve: dobbiamo chiedere conto delle conseguenze, vedere le conseguenze. Ha poi negato che la sfera dell’etica e della politica siano separate dall’economico e svolto brevissimamente una critica del liberismo economico, evidenziando come siano profondamente insufficiente le stesse nozioni fondamentali del nostro sapere economico. Ha poi proposto la questione della libertà nei termini del numero di occasioni che ha ognuno di noi. La libertà di movimento è dove puoi e hai occasione di andare, ben più del suo astratto principio. La sinistra ha oggi il coraggio di mettere in discussione le forme correnti del capitale finanziario?
Ha poi chiarito il senso della sua ‘apologia del relativo’. La totalità non è che il sogno della parte: è ciò che sogna la parte relazionandosi all’altra parte. E anche quando affermo il carattere ‘trascendentale’ della relazione, lo dico però ‘da parte a parte’ – precisamente: dalla parte della filosofia. Il trascendentale non è che una figura della prassi filosofica. Il che non vuol dire che lo dovrei dire altrimenti, ma che devo stare sempre in guardia dalla ‘superstizione’ dell’assoluto.
Infine: bisogna smetterla di voler essere immortali. C’è anche nel cristianesimo nella sua teologia, una possibilità di pensare così il Cristo: il sepolcro è vuoto, e vuoto vuol dire che non c’è niente, che lì non ci va niente, che io sono già salvo perché lì non ci andrà nulla. Se si pensa così, si pensa in direzione di una religione della fratellanza universale, del Dio-con-noi, del Dio incarnato, cioè una religione senza il Padre nei cieli. Ma soprattutto, se si pensa così si pensa la vita come transito che non si risarcisce della mortalità procurandola agli altri (è la risposta di Freud ad Einstein sul perché la guerra: perché vogliamo essere immortali).

Martirio

Ma se la vita è un valore supremo, se la vita è perciò indisponibile, il martire cristiano?

Si dirà: ma il martire mica si suicida, mica dispone lui della propria vita. Giusto. Ma cosa precisamente testimonia? Se è un martire, testimonia: questo vuol dire martire. E cosa testimonia, il martire? Cosa, se non che tiene più alla fede che alla vita?  Ebbene: posso io tenere più alla mia libertà, che alla vita? Mi si chiede di abiurare: io rifiuto. Mi si chiede di tradire: io rifiuto. Mi si chiede di condannare: io rifiuto. E vengo messo a morte (per esempio: mi si lascia morire di fame e sete). Se ora il sondino non può essere rifiutato, è perché chi rifiuta non testimonia nulla: nulla, s’intende, agli occhi di chi ritiene che appunto il sondino non può essere rifiutato.
Orbene, nell’articolo su Left Wing ho parlato di una catastrofe ontologica e di un disastro culturale, qui ci metto pure una grave cecità morale. Perché io voglio capire che la Chiesa non consideri la libertà di scelta e l’autonomia individuale un valore in sé, e che dunque nel suo puro esercizio io non testimonio nulla. La testimonianza sta infatti dal lato di ciò per cui scelgo: scelgo la fede, piuttosto che la vita; scelgo l’amore o l’amicizia, piuttosto che la vita; c’è un bene più grande che viene scelto, per cui ha valore di testimonianza la scelta.

Dove sta però la cecità morale? Nel fatto che è un valore più alto della vita stessa rispettare la libertà di scelta dell’altro. E’ alla Chiesa che si chiede dunque di testimoniare. Ma la Chiesa non ha più forza di testimonianza.
E infine, e dal mio punto di vista soprattutto, non è vero affatto che non testimonio. Testimonio che più della vita conta il viverla.

(Se poi siete stati così pazienti da arrivare sin qui, vi regalo il link al convegno di Radio Radicale su "Verità e menzogna su eutanasia", ma soprattutto la fulminante battuta di Ignazio Marino sull’alimentazione artificiale: "la prescrive il medico, non il cuoco" – battuta la cui fonte, sono sicuro, è il Gorgia di Platone)