Archivi tag: vitiello

Gramsci e lo stato di salute della democrazia

3356151_1229_gramsci

tre anni di guerra hanno ben portato delle modificazioni nel mondo. Ma forse questa è la maggiore di tutte le modificazioni: tre anni di guerra hanno reso sensibile il mondo». Chi scrive è Antonio Gramsci, nel1917. I bolscevichi hanno appena preso il potere in Russia, e Gramsci vi riflette nell’articolo suo forse più celebre, «La rivoluzione contro il “Capitale”». Ma nei suoi pensieri è anche il modo stesso di essere al mondo dell’uomo, così com’è stato aperto e sconvolto dal conflitto mondiale: la rottura di argini secolari entro cui un tempo scorrevano le vite degli uomini, dei popoli, delle nazioni, e l’esposizione al mondo in quanto tale. Non come un risultato della riflessione, ma come un tratto della sensibilità. Un affare del sentire, non del comprendere. Giuseppe Vacca, che riporta le parole del pensatore sardo nel suo ultimo libro, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci (Einaudi, pagine 235, euro 26) vi legge anzitutto il tema della mondializzazione della coscienza collettiva, che ritornerà anche più tardi, nei Quaderni, e i compiti che essa pone alla politica. Vincenzo Vitiello – ieri all’Istituto italiano per gli studi filosofici, insieme a Biagio De Giovanni per la presentazione del libro di Vacca – vi scorge una delle punte più alte della consapevolezza del naufragio della civiltà europea. Un tratto che si ritrova nei grandi pensatori della crisi: da Thomas Mann a Robert Musil a Ernst Jünger. Ma la lettura di Vitiello riserva una sorpresa: il Gramsci del ’17 che medita, con le sue proprie categorie, sulla finis Europae è il Gramsci più avanzato, quello che ancora parla alla nostra

coscienza, mentre il pensatore che riflette in carcere sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale, sul

fascismo, sulle varie forme dell’egemonia, sul partito «moderno Principe»,riduce bruscamente orizzonte e

profondità di analisi: non ci serve più. Un paradosso, perché sono proprio questi pensieri ad alimentare in Italia e nel mondo gli studi gramsciani. Lo stesso Vacca ha scritto questo suo ultimo libro «per mettere ordine nel processo di formazione delle categorie filosofiche e politiche di Gramsci attraverso la collocazione di Gramsci nel suo tempo». Il libro è infatti scandito dalle parole chiave del pensiero gramsciano: il concetto di egemonia, innanzitutto, poi la rivoluzione passiva nelle sue varie declinazioni, in Italia e nello scenario internazionale, poi ancora la filosofia della praxis come teoria processuale del soggetto, infine la democrazia e i partiti. Ma la profonda distanza tra Vitiello e Vacca nel modo di tornare al prigioniero di Turi, pur nella comune convinzione che il tempo di Gramsci non è il nostro, è a sua volta spia di una difficoltà dell’epoca nostra, e cioè della difficoltà di ricomporre i rapporti fra filosofia e politica, fra sfera del pensiero e ambito delle decisioni, fra sapere e potere, oggi molto più problematici che in passato. Così come problematico è lo stato attuale di salute dell’unica forma politica che gode ancora di qualche patina di legittimità, la democrazia rappresentativa. Biagio De Giovanni è tornato ad occuparsi di Gramsci proprio per mettere a tema la crisi della democrazia. Che è, più precisamente, crisi del concetto di rappresentanza. «Né ciò può far pensare a un nuovo liberalismo, sebbene sia per essere l’inizio di un’era di libertà organica»: così Gramsci, che il De Giovanni di qualche anno fa, in allontanamento dai germi totalitari del pensiero del Novecento, prendeva assai criticamente, ma che ieri ha provato a rileggere come espressione di una acuta consapevolezza che la rappresentanza democratica non regge senza elementi che temperino e contengano gli impetuosi processi di individualizzazione – e, al tempo stesso, di massificazione – dei rapporti sociali portati all’epoca di Gramsci dalla prima mondializzazione dell’economia capitalistica, e oggi dalla nuova ondata della globalizzazione. Più che la revisione del marxismo, quello che allora interessa De Giovanni è l’approccio originale di Gramsci alla crisi europea, la forbice che si apre fra cosmopolitismo dell’economia e arcigna risposta nazionalista della politica: «non sta avvenendo anche adesso?», chiede con preoccupazione. La domanda non può non rimanere senza risposta: se mai risposta ci sarà, sarà nelle cose. Che Gramsci abbia però «individuato i problemi fondamentali della democrazia dei nostri tempi e indicato una prospettiva per risolverli» è ferma convinzione di Vacca, che con queste parole chiude infatti il suo libro. E di nuovo si misura, nei toni ancor più che negli argomenti, la distanza fra un «politico pratico, un combattente» (il Gramsci di Togliatti, cui Vacca aderisce) e un aspro pensatore della crisi, come appare nelle riletture offerte da De Giovanni e Vitiello.

(Il Mattino, 9 novembre 2017)

 

Hegel


CONGRESO INTERNACIONAL

 LÓGICA DE LA CONSTITUCIÓN, CONSTITUCIÓN DE LA LÓGICA

(A la luz de 200 años de la Ciencia de la Lógica, de hegel).

16-20 de abril de 2012

Círculo de Bellas Artes – Departamento de Filosofía de la Universidad Autónoma

Colabora el Instituto Goethe de Madrid

PROGRAMA

FACULTAD DE FILOSOFÍA Y LETRAS

UNIVERSIDAD AUTÓNOMA DE MADRID (CANTOBLANCO)

(13 HORAS)

SALA DE CONFERENCIAS (PLANTA BAJA)

 LUNES, 16 

Prof. Massimo Adinolfi: Hegel y el ateísmo del mundo político.

  SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

MARTES, 17

Prof. Román G. Cuartango: Lógica de la Idea y comprensión especulativa del Estado.

SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

MIÉRCOLES 18

Prof. Ernesto Forcellino: El lugar de la lógica, entre el arte y la política.

SALA DE JUNTAS DEL DECANATO

(PRIMERA PLANTA)

JUEVES 19

Prof. Jacinto Rivera de Rosales: Constitución y realidad efectiva histórica.

(CÍRCULO DE BELLAS ARTES)

TARDES, 19.30 HORAS

LUNES 16 DE ABRIL – MODERA: Jorge Pérez de Tudela

Bernard Bourgeois :  Lógica del Estado y Estado de la Lógica

Jean-François Kervégan: La ciencia de la idea pura

 MARTES 17 DE ABRIL – MODERA: Valerio Rocco

José Luis Villacañas: Sattelzeit y Ciencia de la Lógica: el caso español de Cádiz 1812.

MESA REDONDA – Luciana Cadahia / Antonio Gómez / Valerio Rocco / Gonzalo Velasco: Sujeto, historia y política.

MIÉRCOLES 18 DE ABRIL – MODERA: Félix Duque

Jorge Pérez de Tudela : Sobre la antigua pasión de los hombres por levantar monumentos.

Vincenzo Vitiello : La constitución lógica de la Objetividad. La cuarta forma del silogismo hegeliano.

 JUEVES 19 DE ABRIL – MODERA: Félix Duque

Klaus Vieweg : El Estado como ‚Sistema de tres silogismos‘. La fundamentación lógica hegeliana de la idea del Estado.

Walter Jaeschke: Una nueva configuración del pensar y la realidad.

VIERNES 20 DE ABRIL -MODERA: Jorge Pérez de Tudela

Juan Manuel Navarro Cordón: Individuo y Estado.

Félix Duque: Sujeto y libertad.

Spinoza. La politica e il moderno

E’ uscito il fascicolo 1/11 della rivista Il Pensiero (ESI), disponibile in libreria, dedicato a Spinoza. La politica e il moderno, e da me curato. Dentro vi trovate: B. De Giovanni, Spinoza e Hegel. Dialogo sul moderno; M. Adinolfi, Res quae finitae sunt. Qualche riflessione sui fondamenti ontologici dei concetti politici spinoziani; F. Pellecchia, Essenza dell’amore nell’Etica di Spinoza; Ch. Ramond, Sedizione, ribellisione e insubordinazione nella filosofia politica di Spinoza; C. Sini, Dall’etica di Spinoza a Nietzsche: profezie di un’etica futura? (e inoltre A. Gatto, Di un’impossibile confessione. Il soggetto cartesiano e la libera creazione delle verità eterne, V. Vitiello, De Trinitate. In dialogo con Piero Coda.

Qui sotto inserisco la premessa che ho scritto per la presentazione del fascicolo:

“Essere spinoziani, è l’inizio essenziale del filosofare”, così sentenziava Hegel, nelle lezioni di storia della filosofia. Celebre ma velenoso complimento, dal momento che per Hegel l’inizio è appunto soltanto un inizio: manchevole di tutto ciò che dall’inizio viene. E manchevole fin dall’inizio, visto che fin dalla prima definizione della sostanza, fin dal concetto “veramente speculativo” di causa sui, Spinoza manca per Hegel di svolgere quel che nell’inizio è contenuto.  Resta vero però che per il filosofo di Stoccarda lo spinozismo non ha mai cessato di essere una posizione fondamentale del pensiero, “un punto talmente importante della filosofia moderna – così riteneva – che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo”.

Non sorprende dunque che tutta la storia della filosofia moderna, nonostante anatemi e maledizioni, non abbia mai smesso di misurarsi con Spinoza: da Leibniz, che secondo Hegel rappresentava “l’altro lato del centro spinoziano, cioè l’esser per sé, la monade”, l’individualità, insomma, di contro all’essere in sé dell’unica sostanza , a Kant, che non sembra aver scritto la Critica della ragion pratica per altre ragioni che non fossero la  più rigorosa confutazione dello spinozismo; dal giovane Marx, che ricopiava diligentemente Spinoza nei suoi quaderni di appunti, a Nietzsche, che si entusiasmò alla scoperta di avere nell’ebreo di Amsterdam una gran “razza di precursore”.

Anche il ‘900 non ha mancato di cimentarsi col suo pensiero, anche grazie a un significativo accrescimento degli studi storiografici: dai lavori quasi pioneristici di H. A. Wolfson e L. Robinson sull’Etica sino ai due grossi volumi sistematici di Martial Gueroult su Dio e l’anima; dall’opera classica di Paul Vernière sulla fortuna di Spinoza nel pensiero francese prima della Rivoluzione, alle più recenti ricerche di E. M. Curley o di Y. Yovel (ma anche, in Italia, ai lavori di P. Di Vona, P. Cristofolini, F. Mignini, E. Giancotti e altri). A partire dagli anni Sessanta emergono anche nuove, robuste interpretazioni filosofiche, soprattutto in terra francese. Basti pensare ai testi deleuziani su Spinoza e l’espressionismo in filosofia, o alle nuove letture di Alexandre Matheron su individuo e comunità ed Étienne Balibar sul transindividuale in Spinoza, ma anche al libro di Antonio Negri sull’ontologia sovversiva dell’olandese.

Questa sorta di Spinoza-Renaissance, che data grosso modo dalla fine degli anni Sessanta e coincide almeno in Italia con una certa crisi del mainstream storicista, è in effetti segnata dall’attitudine a presentare il pensiero spinoziano come un’alternativa all’hegelismo. In odio alla dialettica, ma anche come rimedio agli sdilinquimenti post-moderni, Spinoza è parso offrire un modello di pensiero capace di collocarsi in un mondo finalmente copernicano, ‘più grande’ di qualunque coordinata critico-trascedentale o esistenziale-negativa, e in grado pure di catturare quella “commistione fra argomentazione razionale e scuola di vita”, come ha scritto M. E. Scribano, ossia fra ontologia ed etica, che sembra riprendere un altro tratto fondamentale delle preoccupazioni della filosofia contemporanea – quella, almeno, non isterilitasi in inutili formalismi.

Nel fascicolo che presentiamo al lettore qualcosa di questo ampio fascio di problemi e prospettive si può forse cogliere, anche se con accenti di misurata sorvegliatezza e secondo percorsi a volte anche critici rispetto a certe abitudini interpretative, classiche o moderne che siano. È quel che si coglie anzitutto nel saggio che apre il fascicolo. Biagio De Giovanni torna infatti proprio sul confronto fra Spinoza ed Hegel: non però per riproporre lo schema tradizionale di un superamento del primo nel secondo – secondo l’interpretazione suggerita da Hegel stesso e accolta dall’idealismo italiano, da Spaventa a Gentile – ma neppure per disegnare un’opposizione ineludibile tra i due, come nella lettura di Pierre Macherey e in generale in quella linea del marxismo francese, di stampo althusseriano, che mira a riconnettere Marx a Spinoza ‘saltando’ a piè pari la mediazione hegeliana, bensì per presentarli insieme, come “due rappresentazioni della crisi del moderno”, due “filosofi del negativo, della lotta fra adeguato e inadeguato che mai ha termine, e, in forme assai diverse, della potenza del negativo che si porta dietro l’irrequietezza della vita, la quale comprende dentro di sé anche l’esperienza della morte”.

Di un cammino decisamente fuori della tradizione onto-teologica, in particolare nella sua configurazione moderna, parla invece Carlo Sini, che nel primato spinoziano dell’etica vede profilarsi “il destino ultimo della metafisica, ovvero il suo definitivo superamento”, in virtù della crisi dell’ordinamento morale del mondo, di stampo platonico-cristiano, che si profila già in Spinoza e trova infine in Nietzsche il suo definitivo annuncio. Quel primato, l’esigenza pratica di liberazione si svolge nel luogo della teoria solo per “quel tanto che, nonostante la finitudine umana, è indispensabile e sufficiente sapere per un vivere saggio e «adeguato», o adeguatamente felice”.

Non è dunque lo Spinoza consueto quello che così si profila, lo Spinoza del Pantheismusstreit acceso da Jacobi contro Lessing, lo Spinoza che cancella il finito nell’unica sostanza e s’acquieta in un finale sapere assoluto, bensì quello che dal finito e nel finito, secondo dunque la capacità e la misura del ‘modo’, si es-pone con serenità al movimento della vita infinita.

Completano la sezione monografica del fascicolo i saggi di Ramond, Pellecchia e Adinolfi, che toccano punti sensibili dell’attuale confronto con il pensiero spinoziano. Con gli strumenti dell’analisi testuale, Charles Ramond polemizza apertamente con l’idea di Spinoza teorico della rivoluzione, e approda a un’idea della democrazia formale ed esteriore, nient’affatto deleuziano “regno della potenza intensiva”, che contrasta apertamente l’ontologia politica della multitudo. Nel testo di Pellecchia viene invece affrontato uno degli assi portanti dell’antropologia spinoziana, quello che si fonda sulla passione dell’amore, e sul progetto etico di trasformazione che lo conduce sino alla sua dislocazione nella figura culminante dell’amor Dei intellectualis. Lo scrivente, infine, prova a saggiare teoreticamente le forme del rapporto tra ontologia e politica, con particolare riguardo all’infrastruttura concettuale impiegata da Balibar per introdurre la nozione del transindividuale, in un tempo in cui torna forse a riproporsi l’esigenza di connettere la politica con spezzoni di teoria generale della realtà o della storia. Il volume è completato da una lettura di Descartes, volta a saggiare limiti e condizioni dell’”esorcismo” con il quale il cogito, inaugurando la modernità, ha provato ad assicurare se stesso contro la potentia Dei, un movimento di pensiero antipodale rispetto al de Deo con cui comincia Spinoza, che pure non poté non formare il suo linguaggio proprio nel confronto con Descartes – suo contemporaneo capitale, per dirla con Henri Gouhier.

Tutto ciò, naturalmente, con le cautele del caso. È noto che il motto che Spinoza scelse come sigillo della propria corrispondenza recava appunto la parola “caute”. Con la quale forse il pensatore olandese si riferiva meno alla propria attitudine a procedere cautamente – sulla falsariga del larvatus prodeo cartesiano – che all’invito a maneggiare il suo pensiero con tutte le precauzioni necessarie. Non solo perché gravava su di lui il sospetto di ogni possibile nefandezza, tanto che in vita poté pubblicare soltanto i giovanili Principi della filosofia di Cartesio, e, anonimo, il Trattato teologico-politico, ma perché la sua filosofia, ossia l’Ethica, quella filosofia che, sola, intendeva fosse vera e che però sapeva costituire una sfida aperta alla “religione costituita”, non smette ancora oggi di provocare il pensiero.

 

Il punto metafisico

(A proposito delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein:
Cosa consente alla maestra di decidere che un bambino, il quale abbia eseguito correttamente nove addizioni su dieci, si è semplicemente distratto nell’unico caso errato? Perché non pensa invece che non ha ancora compreso la regola dell’addizione? La risposta è: la forma di vita. E non è, come si comprende sotto, una risposta definitiva).
 
"«Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore». Strano miscuglio di ovvietà e intuizioni profonde! Gli adulti insegnano al bambino il modo di connettere parole e cose. E come glielo insegnano? Con le parole («gli parlano»), il che implica che il bambino sa già come connettere parole cose, altrimenti nulla capirebbe" (V. Vitiello, In lotta con il linguaggio. Da Wittgenstein a Nietzsche (passando per Hegel), in Il pensiero, 2/2008, p. 120).
L’implicazione è errata, a mio avviso. Anzitutto però direi: è proprio quello che accade! O almeno: io ho fatto proprio così, coi miei figli! Io ho parlato loro ben prima che loro capissero quel che dicevo! Insegnare un nuovo comportamento di dolore non significa affatto insegnare il significato delle parole che costituiscono quel nuovo comportamento. È ben chiaro che impariamo a parlare ben prima di imparare il significato delle parole. Che impariamo a connettere parole e cose senza passare per il loro significato. Proprio questa è la ragione per cui LW parla di addestramento o di ammaestramento, al riguardo. E tutta la faccenda è proprio che non si può indicare il punto o la soglia o il meccanismo che consente di indicare che l’addestramento è completato e che solo ora si comprende davvero; che è finito l’automatismo macchinico (o animale: ma metto tra parentesi queste parole), e che siamo entrati nel regno dello spirito.
Ma non c’è in questo nulla di misterioso, perché una lettura radicale (ma fedele, per quel che conta) di LW deve mostrare che questo punto non c’è! E non c’è non perché non sia un punto (ma poi: cosa?) ma perché l’attraversamento di quel punto non è alle nostre spalle, così che lo si debba indicare (o mancare di indicare, per misteriose ragioni). Il fatto è che quel punto non lo si è mai superato una volta per tutte e definitivamente, quel passaggio o quella metabasis non si è mai compiuta, ed è perciò che non la si può indicare (ed è perciò che io non direi mai che noi siamo dentro l’area del significato, dentro l’iconologia della mente o dentro qualunque altra cosa: io non concedo questo dentro). Proprio come non si può dire una volta e per sempre (riprendo l’esempio di sopra) che per la maestra, per noi o per Dio il bambino che ha eseguito correttamente nove operazioni su dieci ha superato la fase dell’addestramento e possiede il significato concettuale della regola che ora sa applicare (mentre prima no).
Non lo si può dire per il bambino, e naturalmente non lo si può dire per noi stessi.
Si può dare molteplice seguito a quest’osservazione, che ai miei occhi è essenziale. Quel che qui brevemente aggiungo è che la decisione (è LW che parla di una decisione: non mi spiego sulla parola) si accompagna sempre a un indecidibile, e che proprio perciò non c’è motivo di dire (come fa Sini) che noi abbiamo già da sempre attraversato la soglia più di quanto si debba dire che non l’abbiamo mai attraversata (la soglia, per esempio, che tanto preme oggi, dell’animalità).
 

Duque e Vitiello

Le puntata di Europa, Occident, su Red Tv, si avviano ad essere disponibili (non scaricabili).

Qui trovate Vitiello; e qui Duque.

Buone notizie dal satellite

Sul sito di Red TV, cominciano a riapparire le puntate di Europa, Occidente. Per ora, potete ascoltare il primo colloquio, con Vincenzo Vitiello.