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Il declino inizio’ con la cessione dell’elettronica nazionale

programma 101

«Non possiamo liquidare tutto in un esamino di storia sul digitale»: così dice Alfredo Reichlin nell’intervista che si trova al centro di Avevamo la luna, il libro bello e appassionato che Michele Mezza ha dedicato al triennio 1962-1964 (Donzelli editore). In quel giro di anni ne accaddero di cose, e la tesi di Mezza è che fu allora che il vagone dell’Italia si sganciò dal treno dell’innovazione finendo su un binario morto. Poi sono venuti i turbolenti anni Settanta e i leggeri anni Ottanta (che però piacciono tanto a Enrico Letta), fino alla caduta del Muro, a Tangentopoli e alla seconda Repubblica, ma la partita decisiva l’Italia la giocò molto prima. Perdendola. In quel triennio prese avvio l’informatizzazione delle relazioni produttive, che si sarebbe poi estesa all’intera società, e l’Italia che grazie alla Olivetti era all’avanguardia mondiale scivolò rapidamente nelle retrovie, con la vendita del ramo elettronico Olivetti agli americani della General Electric. Al di là dei contorni non chiari di quella vicenda, che il libro affronta da più lati assegnandole un valore esemplare, la tesi è che le conseguenze di quella cessione giungono purtroppo fino a noi, e spiegano il declino di questi anni. Spiegano, in particolare, la lontananza dell’Italia dai processi innovativi del capitalismo digitale. Spiegano perché, avendo dismesso l’elettronica, l’Italia si è per esempio condannata ad essere il primo paese per numero di telefonini in rapporto alla popolazione, senza però avere alcuna presenza nel campo della telefonia cellulare (continua qui)

L’Unità, 5 maggio 2013

L’insostenibile leggerezza del web

Nel 1969, Vaclav Havel, il futuro presidente della Repubblica ceca, prese carta e penna e scrisse un lungo articolo per criticare in maniera decisa lo scrittore Milan Kundera, che non era ancora l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere né era in odore di Nobel (com’è ora, meritatamente), ma era già uno degli intellettuali più famosi del paese. Ma perché parlarne oggi, visto che non cade nessuna di quelle ricorrenze grazie alle quali la storia fa capolino sui giornali quotidiani? Ve lo dico fra un momento, prima la critica di Havel.

Dunque: si era all’indomani del ’68, e Kundera aveva scritto un articolo sul destino delle piccole nazioni come quella cecoslovacca, in cui spiegava che a differenza delle grandi nazioni, le quali stanno in piedi e hanno un posto nella storia anche solo grazie al numero, le piccole il loro posto lo debbono conquistare. Secondo Kundera, con la commovente esperienza della primavera di Praga il popolo ceco aveva conquistato quel posto agli occhi del mondo intero.

Ora, Havel non intendeva certo negare il valore di quella stagione. Ma sul significato, e soprattutto sul modo di conservarne la memoria, aveva di che polemizzare. Per lui, infatti, non era ancora il momento (e forse non è mai il momento) per rivolgersi al passato con l’attitudine di chi lo celebra, considerandolo definitivamente chiuso e sigillato. Probabilmente, la stessa idea di un “destino ceco”, innalzata da Kundera, doveva spiacere ad Havel. Sicuramente non lo trovava d’accordo, anzi lo indispettiva, così come lo indispettiva lo scetticismo e l’elegante disincanto di Kundera, l’atteggiamento di inerzia politica che grazie a una vena di patriottismo esonerava da un confronto critico col presente.

Questo caso da manuale di considerazione sull’utilità e il danno della storia per la vita nascondeva in realtà anche una piega personale, che è spuntata fuori oggi. Nessuno più si appassiona alle vecchie discussioni sull’impegno politico, e anche se si ammira il coraggio di Havel, disposto a finire in carcere per le sue idee, non si censura certo la scelta di Kundera, poco propenso a mettere la propria poetica a servizio di battaglie politiche o ideologie di partito. Questioni vecchie, che si ha qualche pudore a riproporre oggi. Ma oggi, dicevo, una cosa è saltata fuori: come ha raccontato su Le Monde Pierre Assouline, Milan Kundera ha proibito a Gallimard, l’editore francese delle sue opere, di distribuirle e commercializzarle su un supposto diverso da quello cartaceo. Non vedremo mai L’immortalità o L’identità in formato e-book, insomma (non, almeno, per volontà dell’autore).

In fondo, ce lo si poteva attendere. Ne Lo scherzo, il primo romanzo di Kundera, allo studente Ludvìk tutto capita per aver scritto su una cartolina una spiritosaggine, che agli occhi dell’autorità nelle cui mani era finita aveva preso tutt’altro senso, precipitando il giovane nella disgrazia.  Cercando di scongiurare cambi di destinazione o di fruizione ai suoi scritti, Kundera spera forse di evitare che il futuro giochi ai suoi libri brutti scherzi. Nobile ma vana impresa: già Platone, che per questo si rifiutò di mettere per iscritti i suoi pensieri più reconditi, sapeva che non c’è modo di sottrarre la scrittura al suo destino di erranza.

Ho parlato sopra di opere edite da Gallimard e ho sbagliato. Perché Gallimard non ha pubblicato le opere di Kundera, al plurale, bensì l’Oeuvre: l’opera, al singolare. Una certa tendenza alla monumentalizzazione del passato era dunque evidente già l’anno scorso, quando è apparso il volume di Gallimard. Per giunta, privo degli apparati critici che fanno la fortuna di filologi e critici letterari. Kundera non ha voluto neanche questo, non sopportando l’idea che la sua opera potesse essere affidata ai sezionamenti della critica, tanto quanto oggi non sopporta che sia sbocconcellata dalle nuove possibilità di lettura offerte dalla fruizione digitale.

Un estrema difesa del libro, insomma, e delle biblioteche di carta, contro i taglia e incolla di tablet e computer. Nell’epoca della digitalizzazione del mondo, una difesa disperata. Utile forse a richiamare l’attenzione sulle sorti del principale supporto di formazione della civiltà europea degli ultimi mille anni o quasi – il libro, appunto – ma non certo a metterlo al riparo dalle sue inevitabili trasformazioni.  Che sopravviva o no, e in che forma, non sarà infatti il gesto di Kundera a deciderlo. D’altronde, è una storia che si ripete, a ogni nuovo progresso delle tecniche di riproduzione. Anche il grande tenore Caruso, a suo tempo, rifiutò di registrar dischi. Salvo cambiare idea, quando gli arrivò una proposta di contratto assai cospicua. Certo, non è la stessa cosa sentirlo registrato, ma, a parte il fatto che la musica dal vivo non è scomparsa, ben difficilmente si può pensare che ascoltare un disco sia esperienza di nessun valore.

Orbene, non so se sia vero quanto diceva Robert Musil, che non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno: non so dunque se l’opera di Kundera sarà danneggiata da una simile scelta. Forse no, forse ha raggiunto uno status tale, che non sarà l’indisponibilità elettronica (ma fino a quando?) a comprometterne la circolazione. Sospetto però che qualche ragione Havel l’avesse quando al giovane Kundera rimproverava di chiudere troppo in fretta le pagine della storia, consegnandole luttuosamente al destino. Come quelle della storia, Kundera ora chiude discutibilmente anche le pagine dei suoi romanzi, e stavolta indispettisce i posteri.

(Quanto invece al destino di piccole e grandi nazioni, di piccoli e grandi popoli, la cosa è fuori tema ma io ne approfitterei per rifletterci su, in tempi in cui la costruzione europea traballa, perché proprio non mi auguro che le riflessioni sopra i piccoli Stati e il destino che occorre loro in tempi di crisi tornino anch’esse di attualità).

L’Unità, 22 luglio 2012

Ma nell’agorà virtuale il nostro sguardo è orientato in anticipo

Mostrare il cadavere sulla pubblica piazza. Un telefono cellulare riprende, il video viene riversato in rete: poco tempo dopo, persino pochi minuti dopo tutto il mondo può vedere il volto di Gheddafi ricoperto di sangue, l’esecuzione sommaria, i ribelli esultanti. Tutto il mondo vede la stessa scena. Un tempo bisognava recarsi in piazza per assistere all’esecuzione capitale: la piazza era il luogo convenuto in cui ci si radunava per simili spettacoli; oggi invece è la rete il luogo della visibilità pubblica, in cui tutti gli occhi convergono.

Secondo il racconto ‘fantastico’ di Vico, fu Eracle, mitico eroe fondatore di città, ad aprire la prima radura nel folto del bosco, a domare la “gran selva antica della terra” e a creare il primo spazio di visibilità per l’uomo: l’ambiente aperto in cui gli uomini, dapprima sparsi e dispersi, poterono raccogliersi insieme. Le fiere furono sconfitte, la natura ridotta a cultura, ma una vita associata non sarebbe sorta se gli uomini non avessero potuto riunirsi e vedersi in un luogo comune.

Quel luogo è oggi, per molti, il web. Si scende ancora in piazza, tra i grattacieli di Zuccotti Park o dinanzi alla vasta facciata della basilica di San Giovanni, ma non c’è manifestazione che non sia preceduta dalla diffusione in rete della notizia: è infatti in rete, sui social network o nei forum, che si raccolgono le adesioni, si lanciano campagne e parole d’ordine, si moltiplica l’eco dell’evento.

Che ne è però della vista, anzi della visibilità? Se in piazza ci si va infatti anche solo per vedersi, come cambiano le cose quando la piazza diviene virtuale? Come si modifica l’esperienza del vedere, e quali conseguenze ne discendono per la vita pubblica?

Sono domande che di solito non ci facciamo, e che non sappiamo bene nemmeno come prendere. Se il vedere è la cosa più semplice del mondo – basta tirar su le palpebre – cosa vorrà dire che esso si modifica? In realtà, anche se vedere è un’attività naturale dell’occhio, i modi di vedere sono molti, e richiedono abitudini, e un’educazione dello sguardo che risente dei cambiamenti circostanti.

Orbene, c’è un modo di vedere che è sempre meno praticato. È quel guardarsi intorno, senza un preciso oggetto di mira, che si esercita proprio in luoghi pubblici come la piazza. Gli inglesi dicono: «to take a look», noi «dare uno sguardo»; loro prendono, noi, più generosi, diamo. Ma in entrambi i casi si tratta di un’esperienza che si fa per strada, e in special modo in uno spazio grande e sgombro (questo significa piazza, dal latino platea) in cui lo sguardo può muoversi liberamente, senza essere conquistati da nulla in particolare.

Per dare ancora un simile sguardo, non è necessario solo che ci sia spazio: occorre anche nutrire la disponibilità ad annoiarsi, come quando gettiamo uno sguardo oltre il finestrino, viaggiando in treno,  o lasciamo che esso si perda all’orizzonte, in un’ora di tempo libero. Ma nell’uno e nell’altro caso, e in tutti i casi analoghi, siamo ormai sedotti da una serie di apparecchi che, al primo buco di attenzione, esigono immediatamente di essere tenuti in vista. Non hai nulla da fare? Accendi lo smartphone, collegati, chatta! Nel punto in cui prima non c’era nulla, e dove proprio perciò poteva succedere qualcosa, ora c’è almeno un tablet e una connessione: c’è un sms, un video, un file da scaricare o da condividere.

Orbene, Cass Sunstein ne ha fatto addirittura una minaccia per lo spazio pubblico. Che è quel luogo in cui si sta insieme senza che si sia deciso preliminarmente cosa vedere o cosa fare: la piazza, appunto. Nell’agorà virtuale della rete, questo, però, non accade più alla stessa maniera. Succede infatti che la nostra navigazione on line sia sempre più orientata  in anticipo: il motore di ricerca completa le parole prima che le digitiamo, il portale ci viene incontro con suggerimenti d’acquisto mirati, i gruppi si formano secondo opinioni e interessi sin troppo omogenei. Al punto che la minaccia sarebbe rappresentata non tanto dalla crescente uniformità delle opinioni, ma dalla loro segmentazione e polarizzazione per cui il noto si concatena al noto, e l’uguale e il diverso non si incontrano mai. In breve: non l’uniformazione ma la disgregazione, la costruzione di un mondo di nicchie, in cui la quantità di esperienze preselezionate e individualizzate supera di gran lunga le poche volte in cui non abbiamo idea di quel che vedremo o faremo, e accettiamo di mescolarci in pubblico per confrontarci con quel che non ci aspetta. L’equivalente di una passeggiata senza cuffie nelle orecchie, di un viaggio in treno senza pc, di una serata in piazza a chiacchierare con chi ci sta. Siccome però sono proprio questi spazi vuoti a favorire l’annodarsi del legame sociale – anzitutto nelle forme banali della chiacchiera, del luogo comune o della curiosità – quel che sarebbe in pericolo quando non ci si guarda più intorno sono niente di meno che i fondamenti pubblici della vita democratica. Non siamo infatti più esposti a quel che capita, ma solo a quel che ci capta e, così, ci cattura.

Forse la prognosi può essere meno infausta, ma non è vero che la captazione della nostra attenzione è, da circa un secolo, la base non della vita pubblica, ma della pubblicità? Se perciò anche i partiti politici prendono a strutturarsi, e non solo sul web, sempre più in termini pubblicitari, non dovremo ammettere, purtroppo, che qualche motivo di preoccupazione c’è? Ma ora: chi va in piazza a dirlo?

Insuperato e superabile

Mi sembra incredibile, ma va a finire che dovrò riprenderlo dall’inizio, il dibattito acceso dall’articolo di Gianni Riotta sull’attendibilità del web. Intanto, ho letto l’articolo che gli ha dedicato Miguel Gotor, che individua e enumera un certo numero di questione. E conclude così:

"Non a caso, il primo e ancora insuperato maestro della cultura occidentale non è né Platone né Aristotele, ma Socrate, una pura invenzione virtuale che non ha lasciato nulla di scritto, a parte la disperata cronaca della sua morte dentro il potere perché in lotta con esso, un racconto tradito (nel senso di tramandato, of course) dai suoi ambiziosi discepoli".

Ora, a parte il fatto che Socrate non ha lasciato di scritto nemmeno "la disperata cronaca  della sua morte", e abbiamo solo "il racconto tradito", ma sta il fatto che egli non è per nulla "una pura invenzione virtuale", ma proprio al contrario una pura (se proprio vogliamo dire così, ma sarebbe meglio dire impura, visto che il povero Socrate un’esistenza storica l’ha avuta) invenzione scritta, e impossibile senza la scrittura. Questo (e davvero: non a caso) è un buon argomento: ma a favore della scrittura, non dell’insegnamento orale dell’insuperato maestro. (Che poi, se uno ci pensa, è insuperato e insuperabile proprio perché orale, e in realtà superabile e superato proprio per il fatto che scriviamo).

Non solo totale, ma totalizzante

"La questione fondamentale è dunque la seguente: è possibile esprimere un contenuto ultimo e supremo in un formato la cui qualifica come mezzo di comunicazione comporta l’incapacità a fornire contenuti totalizzanti?".

Lo so che il contenuto ultimo e supremo in questone è somminstrato dalla filosofia, ma non chiedetemi quale sarebbe il mezzo (oppure il medio, o il luogo), in cui si potrebbero viceversa fornire dei bei contenuti totalizzanti. La nuova rivista online Sophias schiera i nomi di Cacciari, Sini ed Eco, ma l’editoriale di presentazione – per la verità, l’unica cosa che ho letto finora – è francamente imbarazzante.

(Che poi, se l’interrogativo ha fatto sorgere in voi seri dubbi, proseguite pure così: "Il contenuto filosofico entra nel mezzo elettronico e lo disintegra nella pluralità che più si adatta al raggiungimento di una fruizione non solo totale, ma totalizzante". Che la pluralità in questione è in tutto uguale a quella di cui è capace una rivista cartacea, beh: questo è un dettaglio. Ma intanto grazie a una "capacita unica di corrispondere alla totalità multiforme dell’umano", grazie a questa corrispondenza, che permette ai "contenuti ultimi e supremi di pervadere il supporto mediatico su cui si innestano per piegarlo e informarlo della fruizione totalizzante che spetta loro essenzialmente", grazie a tutto ciò la filosofia ha finalmente la strada spianata. La network society è avvisata).