Nel 1969, Vaclav Havel, il futuro presidente della Repubblica ceca, prese carta e penna e scrisse un lungo articolo per criticare in maniera decisa lo scrittore Milan Kundera, che non era ancora l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere né era in odore di Nobel (com’è ora, meritatamente), ma era già uno degli intellettuali più famosi del paese. Ma perché parlarne oggi, visto che non cade nessuna di quelle ricorrenze grazie alle quali la storia fa capolino sui giornali quotidiani? Ve lo dico fra un momento, prima la critica di Havel.
Dunque: si era all’indomani del ’68, e Kundera aveva scritto un articolo sul destino delle piccole nazioni come quella cecoslovacca, in cui spiegava che a differenza delle grandi nazioni, le quali stanno in piedi e hanno un posto nella storia anche solo grazie al numero, le piccole il loro posto lo debbono conquistare. Secondo Kundera, con la commovente esperienza della primavera di Praga il popolo ceco aveva conquistato quel posto agli occhi del mondo intero.
Ora, Havel non intendeva certo negare il valore di quella stagione. Ma sul significato, e soprattutto sul modo di conservarne la memoria, aveva di che polemizzare. Per lui, infatti, non era ancora il momento (e forse non è mai il momento) per rivolgersi al passato con l’attitudine di chi lo celebra, considerandolo definitivamente chiuso e sigillato. Probabilmente, la stessa idea di un “destino ceco”, innalzata da Kundera, doveva spiacere ad Havel. Sicuramente non lo trovava d’accordo, anzi lo indispettiva, così come lo indispettiva lo scetticismo e l’elegante disincanto di Kundera, l’atteggiamento di inerzia politica che grazie a una vena di patriottismo esonerava da un confronto critico col presente.
Questo caso da manuale di considerazione sull’utilità e il danno della storia per la vita nascondeva in realtà anche una piega personale, che è spuntata fuori oggi. Nessuno più si appassiona alle vecchie discussioni sull’impegno politico, e anche se si ammira il coraggio di Havel, disposto a finire in carcere per le sue idee, non si censura certo la scelta di Kundera, poco propenso a mettere la propria poetica a servizio di battaglie politiche o ideologie di partito. Questioni vecchie, che si ha qualche pudore a riproporre oggi. Ma oggi, dicevo, una cosa è saltata fuori: come ha raccontato su Le Monde Pierre Assouline, Milan Kundera ha proibito a Gallimard, l’editore francese delle sue opere, di distribuirle e commercializzarle su un supposto diverso da quello cartaceo. Non vedremo mai L’immortalità o L’identità in formato e-book, insomma (non, almeno, per volontà dell’autore).
In fondo, ce lo si poteva attendere. Ne Lo scherzo, il primo romanzo di Kundera, allo studente Ludvìk tutto capita per aver scritto su una cartolina una spiritosaggine, che agli occhi dell’autorità nelle cui mani era finita aveva preso tutt’altro senso, precipitando il giovane nella disgrazia. Cercando di scongiurare cambi di destinazione o di fruizione ai suoi scritti, Kundera spera forse di evitare che il futuro giochi ai suoi libri brutti scherzi. Nobile ma vana impresa: già Platone, che per questo si rifiutò di mettere per iscritti i suoi pensieri più reconditi, sapeva che non c’è modo di sottrarre la scrittura al suo destino di erranza.
Ho parlato sopra di opere edite da Gallimard e ho sbagliato. Perché Gallimard non ha pubblicato le opere di Kundera, al plurale, bensì l’Oeuvre: l’opera, al singolare. Una certa tendenza alla monumentalizzazione del passato era dunque evidente già l’anno scorso, quando è apparso il volume di Gallimard. Per giunta, privo degli apparati critici che fanno la fortuna di filologi e critici letterari. Kundera non ha voluto neanche questo, non sopportando l’idea che la sua opera potesse essere affidata ai sezionamenti della critica, tanto quanto oggi non sopporta che sia sbocconcellata dalle nuove possibilità di lettura offerte dalla fruizione digitale.
Un estrema difesa del libro, insomma, e delle biblioteche di carta, contro i taglia e incolla di tablet e computer. Nell’epoca della digitalizzazione del mondo, una difesa disperata. Utile forse a richiamare l’attenzione sulle sorti del principale supporto di formazione della civiltà europea degli ultimi mille anni o quasi – il libro, appunto – ma non certo a metterlo al riparo dalle sue inevitabili trasformazioni. Che sopravviva o no, e in che forma, non sarà infatti il gesto di Kundera a deciderlo. D’altronde, è una storia che si ripete, a ogni nuovo progresso delle tecniche di riproduzione. Anche il grande tenore Caruso, a suo tempo, rifiutò di registrar dischi. Salvo cambiare idea, quando gli arrivò una proposta di contratto assai cospicua. Certo, non è la stessa cosa sentirlo registrato, ma, a parte il fatto che la musica dal vivo non è scomparsa, ben difficilmente si può pensare che ascoltare un disco sia esperienza di nessun valore.
Orbene, non so se sia vero quanto diceva Robert Musil, che non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno: non so dunque se l’opera di Kundera sarà danneggiata da una simile scelta. Forse no, forse ha raggiunto uno status tale, che non sarà l’indisponibilità elettronica (ma fino a quando?) a comprometterne la circolazione. Sospetto però che qualche ragione Havel l’avesse quando al giovane Kundera rimproverava di chiudere troppo in fretta le pagine della storia, consegnandole luttuosamente al destino. Come quelle della storia, Kundera ora chiude discutibilmente anche le pagine dei suoi romanzi, e stavolta indispettisce i posteri.
(Quanto invece al destino di piccole e grandi nazioni, di piccoli e grandi popoli, la cosa è fuori tema ma io ne approfitterei per rifletterci su, in tempi in cui la costruzione europea traballa, perché proprio non mi auguro che le riflessioni sopra i piccoli Stati e il destino che occorre loro in tempi di crisi tornino anch’esse di attualità).
L’Unità, 22 luglio 2012