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Il solerte Di Maio e la liquefazione del potere

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A. Kiefer, The Red Sea (1985)

“Ossequioso e conformista, egli ragiona più o meno così: sono consapevole del fatto che nessuna verità si nasconde nell’autorità, tuttavia continuo a prendere parte alla messa in scena obbedendole, al fine di non compromettere il corso naturale delle cose”. Naturale o forse sovrannaturale, se sei vicepresidente della Camera e stai assistendo alla liquefazione del sangue di san Gennaro, nel giorno del santo patrono della città. Ma le parole citate non possono riguardare davvero Luigi Di Maio, dal momento che si trovano in un saggio del filosofo sloveno Slavoj Zizek di vent’anni fa. Le ha ripescate però, più di recente, Mauro Magatti, per tratteggiare la figura del trickster, del briccone divino, che nell’interpretazione del sociologo milanese diviene una sorta di “nichilista adattivo”, uno che non crede a niente ma sa adattarsi bene a qualunque situazione. Uno così può partecipare ai vaffa day fin dai suoi esordi ma anche indossare per un’intera legislatura la giacca e la cravatta dell’uomo delle istituzioni e, appena ufficializzata la sua candidatura nelle primarie grilline per la premiership, baciare compunto la teca contenente il sangue del Santo. “Per la prima volta”, confessa Di Maio, come se nessuno se ne fosse accorto che l’anno scorso, e l’anno prima, e quell’altro anno ancora, Di Maio nel Duomo non c’era.

Ma la sfrontatezza, si sa, è una caratteristica del trickster. La sfrontatezza o l’impudenza, insomma la capacità di dire le cose che si vogliono dire, vere o false che siano, con una imbattibile faccia di tolla. A momenti, il Movimento Cinque Stelle sembra tutto intero assumere questa caratteristica. Come quando avanza la proposta del referendum sull’euro (di cui da un certo momento in poi si sono perse le tracce), o come quando sposa le preoccupazioni complottiste e anti-vax, salvo poi infilarsi in una serie di complicate marce indietro.

Da che pulpito, si dirà. Luigi Di Maio che omaggia San Gennaro nei panni mai indossati prima del fedele, non viene dopo Silvio Berlusconi che racconta barzellette ai grandi della Terra, o dopo Renzi che sale al governo annunciando una riforma al mese? Non hanno anche costoro assunto i tratti del trickster? Non hanno indossato maschere, raccontato frottole, inscenato una parte?

Sicuramente. Ed è forse questo che colpisce di più: la presenza di un medesimo tratto su tutto lo spettro della politica italiana. Una cosa che non si riuscirebbe invece ad attribuire alla signora Merkel. La vediamo seria, sempre dignitosa, mai sopra le righe, mai tentata dalla buffoneria o dalla demagogia. Tutto il contrario dei nostri governanti (ma faccio salva la Presidenza della Repubblica, per la fortuna di tutti noi). Quando poi succede che persino due compassati ex Presidenti del Consiglio, Enrico Letta e Romano Prodi, dimenticano l’abituale misura e, intervistati da un comico, quasi si danno di gomito, lasciandosi andare a battutine maligne e un poco rancorose all’indirizzo di Renzi, allora vien fatto di pensare che qualcosa si è guastato in profondità, e che è sempre più difficile tenere compostezza di gesti, di posture, di parole.

Magatti componeva il suo ritratto del trickster anche con altre pennellate. Oltre alla capacità di mescolare disinvoltamente e con un certo cinismo il vero e il falso, il serio e il faceto, l’alto e il basso,  questo disinvolto furbacchione – a volte licenzioso (Berlusconi), a volte sbruffone (Renzi), a volte sussiegoso (Di Maio) –  è privo di un “significante padrone”, cioè di una posizione etica, di una stabile identificazione simbolica, di una parola alla quale legarsi e che si è in grado di mantenere. E qui, in verità, sospetto che c’entri meno il carattere dei singoli e molto di più la frana ideologica della seconda Repubblica, che non ha risparmiato nessun partito politico.

Ancora. Il trickster è affetto da presentismo, vive cioè in un tempo privo di profondità, tanto nella fedeltà al passato quanto nella promessa di futuro. Gioca ogni volta tutta la partita, come se non ci fosse nient’altro. E questo è Berlusconi che fonda un partito o una coalizione a ogni nuova legislatura,  Renzi che sceglie lo slogan “Adesso!”, ma anche i Cinquestelle che non vogliono più di due legislature per i loro parlamentari (vedrete: con le dovute eccezioni), e che soprattutto vogliono fare la rivoluzione domani mattina. Salvo accorgersi, per esempio a Roma, che è maledettamente difficile cambiare anche solo di poco questo Paese.

Al trickster di Magatti manca tuttavia un elemento, che c’è nella tradizione e nel mito. L’albero genealogico del briccone divino comprende infatti divinità come Hermes, e imbroglioni come Pulcinella. E a tutti presta una caratteristica, che è quella di frequentare zone liminari, di confine, dove le regole si fanno più deboli e si infrangono più facilmente, e dove però si fa esperienza non solo della loro sospensione o distruzione, ma pure di una possibile nuova creazione. Trickster è anche il personaggio che, con la sua furbizia o con qualche scorrettezza, fa andare avanti la storia e trova nuove imprevedibili vie. Questa forse sarà l’happy end della seconda Repubblica, se e quando ne saremo venuti fuori. Ma chi o cosa riuscirà nell’impresa, rimettendo in carreggiata il Paese, questo, purtroppo, ancora non si sa.

(Il Mattino, 20 settembre 2017)

La notte più lunga d’America. La continuità contro lo choc

johns-flags-570-379.jpgQuando Percival Everett è venuto in Italia, due anni fa, per presentare il suo ultimo libro, gli hanno chiesto di Obama. Domanda inevitabile: Everett è uno dei più interessanti scrittori americani viventi e, guarda un po’, è nero. E continua a capitargli quello che ha raccontato in uno dei suoi romanzi, il quasi autobiografico «Erasure», «Cancellazione»: uno scrittore afroamericano non riesce a sfondare perché si ostina a non scrivere le storie che ci si aspetta dai neri. E cioè: violenza, emarginazione urbana,schiavismo e profondo Sud, soul e diritti civili.

Neanche Obama ha fatto quello che ci aspetta da un nero: è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Per questo, forse, la sera della prima, storica elezione – quella del 2008 – esordì con queste parole: «Se c’è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l’America sia un posto dove tutto è possibile, questa notte è la vostra risposta».

Naturalmente, se tutto è possibile, è anche possibile che solo otto anni dopo quella stessa America scelga, in un’altra notte, colma di incertezze e paure, il miliardario Donald Trump. Che non solo non è afroamericano, come i suoi capelli non smettono di dimostrare, ma è le mille miglia lontano da tutto ciò che poteva significa l’elezione di Obama alla testa della prima nazione del mondo.

E forse aveva ragione Everett, che alla domanda pensoso rispose: «Che un nero sia stato eletto alla presidenza è un segno che il paese è comunque cambiato, anche se sul piano politico ci sono ancora resistenze. Ma non necessariamente la sua elezione ha potuto cancellare cento anni di oppressione e discriminazione razziale. Esattamente come, se accadrà in futuro, l’elezione di una donna alla Casa Bianca non eliminerà né potrebbe eliminare il sessismo».

Due anni fa, Percival Everett non tirava a indovinare, formulando l’ipotesi di una donna alla Casa Bianca. Eletta al Senato quando era ancora la First Lady, Hillary ha dovuto cedere una prima volta il passo a Obama, che l’aveva sconfitta alle primarie, ma non per questoera uscita di scena. Né si è ritirata, nel 2013, dopo aver lasciato la carica di Segretario di Stato.

Perché è vero quel che è stato costantemente ripetuto nel corso di quest’ultima campagna elettorale: la Clinton è espressione dell’establishment, e Donald Trump non è arrivato sino al punto che tutto, stanotte, è possibile, se non avesse potuto sollevare, alta e muggente, l’ondata di insofferenza nei confronti dei politici di Washington.

Così oggi la partita è sorprendentemente aperta. Il miliardario sembrava, all’inizio, un personaggio improbabile. Uno che vuole tirare su un muro,«grandissimo e bellissimo», per dividere gli Stati Uniti dal Messico e fermare i flussi migratori non è quel che si dice il più presidenziale dei candidati possibili. Senza dire delle battute a sfondo sessuale o delle dichiarazioni avventurose come quelle su Obama musulmano.

È chiaro però che il giudizio che da questa parte dell’Atlantico si dà dell’America è spesso falsato da costruzioni ideologiche, da miti e narrazioni che in fondo ci presentano di quel Paese il volto più europeo (e più rassicurante). Così scegliamo di vedere dell’America New York e San Francisco, le battaglie per i diritti civili e il faro del mondo libero, la cultura laica e progressista dei campus americani e, certo, i grandi studios hollywoodianie la Silicon Valley. Del resto, gli Accademici svedesi, pure loro: non hanno dato il premio Nobel della letteratura a Bob Dylan, il menestrello del rock?

E però l’America è anche altro. Ci sono le coste e i grandi laghi, ma pure le montagne e le aree desertiche. I grattacieli e i marciapiedi delle metropoli urbane, ma pure le stazioni di servizio e e le tavole calde in mezzo al nulla.

Prendete allora una cartina e dispiegatela su un tavolo. Cominciate pure dalla costa orientale, dagli Stati del New England: lì prevale l’America liberal che vota democratico, prevale il voto istruito, e una mentalità aperta e cosmopolita. Ma se cominciate a spostarvi nel Midwest, la partita si fa subito più incerta. Negli Stati rurali è davanti il voto repubblicano, ed è decisamente meno ovvio, da quelle parti, che sia giusto aprire le porte agli immigrati (ma anche concedere il diritto di abortire). Stessa storia se vi spostate ancora più ad ovest. Lungo la costa del Pacifico, dove trionfa la new economy, si vota a maggioranza per l’Asinello democratico, ma nelle aree interne, più conservatrici, è tutta un’altra musica. Lì non è certo il massimo presentarsi come un avvocato newyorkese donna (Hillary) mentre fa effetto avere soldi, fare il macho, e abbracciare il potente partito delle armi (Trump).

I cambiamenti demografici (con conseguenti effetti elettorali) si fanno invece sentire soprattutto nel sud degli Stati Uniti. In Arizona, ad esempio, e in Texas. La popolazione ispanica, che a metà del secolo scorso valeva il 3% della popolazione, salirà nel 2050 al 30%: sono questi latinos che forse decideranno il voto. Perché Arizona e Texas sono stati tradizionalmente repubblicani, ma proprio il crescente peso delle minoranze e dei gruppi etnici, forte anche nei maggiori centri urbani del Paese, potrebbe cambiare il risultato finale. Trump ci ha messo ovviamente del suo,aprendo la sua corsa alla Casa Bianca con l’accusa rivolta alle autorità messicane di rovesciare sul suolo americano trafficanti e stupratori. Come se fosse sul set de «L’’infernale Quinlan», il film capolavoro di Orson Welles ambientato al confine tra Messico e Stati Uniti.In verità, Trump ne assume anche la parte: quella del poliziotto spiccio e dai modi autoritari, che serve la giustizia a modo suo, fabbricando prove false, se necessario, pur di acciuffare i colpevoli. (È, però, azzeccandoci).

Ma la domanda è: questi ispano-americani – e le minoranze etniche in genere – voteranno contro Trump offesi dalla sua political uncorrectness e dai provvedimenti annunciati contro gli immigrati irregolari, oppure prevarranno le preoccupazioni di carattere economico, la mancanza di lavoro, l’incertezza sul futuro? In fondo, non si può essere stanchi all’idea di doversi spingere sempre più avanti, soprattutto se non è più chiaro verso dove?

Se così fosse, avrebbero ragione quelli che scomodano la parola nichilismo a proposito del «secolo americano»,del suo inveramento nei processi di finanziarizzazione dell’economia, nell’esplosione delle tecnologie informatiche, nel trionfo della società dello spettacolo: si capirebbe perché Trump possa rappresentare agli occhi di molti il ritorno a un’America forte, sana, autentica, che sa quel che vuole e che si fa rispettare.

Quello che forse è mancato ad Obama, agli occhi di molti americani. La sua ritrosia ad usare l’«hard power», che negli ultimi tempi ha dovuto sempre più confrontarsi col protagonismo crescente della Russia di Putin, ha finito per consegnare l’immagine di un Paese incerto sul da farsi, un’America più che paziente riluttante, più che prudente rinunciataria.

Il paradosso è che dei due candidati, Trump è quello più isolazionista, pronto a riaggiornare la dottrina Monroe – quella dell’America agli americani – mentre Clinton è, secondo il filosofo e psicanalista sloveno Zizek, che ha a lungo insegnato negli States, il prototipo perfetto dell’interventismo democratico, dell’idealismo a cui però sono i droni killer ad aprire la strada.

Di paradosso in paradosso, Zizek capovolge tutta la nostra  maniera di guardare alla scena americana. Invece di parteggiare per i buoni, per il nero Obama e per la donna Hillary; invece di stare dalla parte dell’America liberal, che lotta per i diritti e contro le ingiustizie sociali, Zizek sta con il cattivo, con Trump, sta con gli «incazzati neri» che si sono stufati del riformismo inconcludente e moraleggiante che non cambia veramente le cose. Zizek si sa, è un leninista non pentito, per il quale il comunismo continua ad essere il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, mentre democratici, progressisti e riformisti di ogni specienon aboliscono proprio nulla, e coprono anzi  una realtà fatta di diseguaglianze crescenti. Zizek, insomma, è per la scossa, per lo choc, quella che secondo molti neppure il primo Presidente nero eletto otto anni fa ha saputo dare, accendendo speranze in certa parte deluse.

Ebbene, non è detto che stanotte non accada davvero qualcosa del genere.

Ma anche se si tirerà il fiato e si penserà che l’abbiamo scampata bella, il segnale è arrivato forte e chiaro anche da questa parte dell’oceano.

(Il Mattino, 8 novembre 2016)

La lotta di classe, il ritorno

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E se tornasse la lotta di classe? Come se se ne fosse mai andata! Che essa costituisca il motore della storia è, com’è noto, la tesi del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels: Londra, addì 21 febbraio 1848. Un bel po’ di anni fa, dunque. Ma la crisi ha spazzato via facili illusioni, soprattutto in Occidente, e termini e concetti che sembravano consegnati all’antiquariato delle idee tornano prepotentemente di attualità. La prima notizia è dunque questa: la political correctness ormai non viene sforacchiata solo sul terreno morale, o su quello linguistico, dove è sdoganato persino il turpiloquio, ma anche sul terreno economico e sociale (benché qui le resistenze siano molto maggiori, et pour cause).

Dopo l’agile libretto di Gallino su La lotta di classe dopo la lotta di classe, ecco allora l’ampia ricognizione di Domenico Losurdo, storico della filosofia e comunista non pentito: Lotta di classe. Una storia politica e filosofica. Losurdo intreccia problemi teorici ed analisi storica con grande rigore filologico, senza assecondare nessuna delle mode correnti, con l’obiettivo, in primo luogo, di respingere le letture economicistiche della dottrina marxiana, mostrandone in particolare gli intrecci profondi con le lotte di liberazione nazionale, e, in secondo luogo, di riportare la politica al suo grande formato: non come la volpe che sa molte cose, per dirla con Isaiah Berlin, ma come il riccio che ne sa una grande.

La lotta di classe, dunque. E il secolo appena trascorso, il cui bilancio è ancora da tracciare. Di esso, ha scritto Alain Badiou, possediamo infatti almeno tre versioni: il secolo sovietico, della grande epopea comunista; il secolo totalitario, che ha fatto esperienza dell’abisso del male; il secolo liberale, che ha visto infine trionfare la democrazia. Dopo l’89, quest’ultima descrizione si è di fatto imposta: non è dunque vero che siano finite le grandi narrazioni, come voleva Lyotard: semplicemente, una ha prevalso sulle altre, spacciando la propria vittoria per la fine della storia. Ebbene, è proprio quella che Losurdo infilza ripetutamente, complice l’attuale dissesto economico e finanziario, prendendosela non solo con Fukuyama (quello della fine della storia e del trionfo della democrazia liberale), ma anche con Ralf Dahrendorf o con Niall Ferguson – per fare solo un paio dei nomi del mainstream intellettuale dominante.

Se però leggessimo Losurdo al solo scopo di riesumare le battaglie ideologiche del secolo passato, non lo useremmo nel migliore dei modi. Ad esse è sì dedicata la parte centrale del libro, grazie alla quale siamo ripiombati negli sforzi titanici della Russia sovietica per dotarsi di un sistema industriale avanzato, oppure condotti lungo i passi che la Cina di Mao e di Deng Xiao Ping compì, per recuperare il terreno perduto nel confronto con l’Occidente, ma non si tratta del luogo di maggior frutto del libro. Losurdo mantiene infatti una sistematica subordinazione delle rivendicazioni democratiche rispetto ai conflitti di classe, che lo tiene troppo distante dal terreno effettivo dell’attuale battaglia politica. Così, mentre concede che arte, scienza o religione, benché storicamente condizionate, possono attingere un valore universale, non tributa lo stesso riconoscimento alla democrazia e ai diritti individuali, e francamente non si capisce perché.

Il libro riesce invece assai efficace quando smaschera le debolezze della sinistra di oggi. Che ha accantonato il tema del conflitto sociale, meravigliandosi poi di vedere le sue file ridursi proprio mentre più aspre si fanno nuovamente le diseguaglianze sociali ed economiche. È la sinistra beneducata che Losurdo prende di mira, quella che si è accasata presso la versione più esangue della teoria critica, fornita da Jürgen Habermas, guru della socialdemocrazia europea,  o che è rimasta affascinata dalle analisi del totalitarismo di Hannah Arendt, altro nume tutelare del pensiero politico contemporaneo. Ma anche l’altra sinistra, quella che oggi chiamiamo radicale o antagonista, non viene risparmiata. Anche Toni Negri e Slavoj Zizek vengono quasi ridicolizzati, con la loro fissa che lo Stato nazionale sarebbe un residuo del passato.

Il dilagare del populismo, al di là dell’uso corrivo della parola, trova così una sua ragione non sempre confessata nello smottamento del terreno ideologico della sinistra (ogni allusione al tentativo di mettere su un governo coi Cinque Stelle è, qui, voluta).

C’è infine, nel libro, un’altra notizia. Ed è che se anche non si vogliono riesumare le tragedie del XX secolo, resta che le sue diverse declinazioni sono ben difficilmente districabili. Losurdo lo dice subito: pensatela come volete sulla lotta di classe, ma senza la spinta dei movimenti operai il Welfare State in Europa non l’avremmo mai avuto, il liberalismo non si sarebbe spinto a tanto. E oggi che esso è in pericolo, c’è solo il rammarico che l’attuale quadro europeo sia sostanzialmente lasciato in ombra da Losurdo, mentre è lì che ci sarebbe forse bisogno di attivare nuovamente i motori di spinta.

Il Messaggero, 22 aprile 2013

La filosofia cieca col naso all’insù davanti alle torri

C’è un viaggio che la filosofia ha intrapreso da quando è sorta, e da cui forse non è mai veramente tornata: è il viaggio che Platone compì alla volta di Siracusa, la città governata dal tiranno Dionisio, convinto di poter ispirare con il suo sapere il governo della città. La cosà non andò bene: Platone finì in catene e fu venduto come schiavo, ma al di là del destino personale del filosofo (Platone o Gentile, Giordano Bruno o Martin Heidegger), la vicenda indica con forza l’iscrizione originaria della riflessione filosofica nell’orizzonte della politica. Non a caso, quando Jacques Derrida ha rispolverato quest’antica storia, parlando di una ricorrente «tentazione di Siracusa», ha anche aggiunto che «ciò di cui abbiamo bisogno ora è di un’altra figura di alleanza tra la filosofia e la politica». Non dunque di restare tutti a casa, ma di inventare nuove forme di interesse e di legame verso la cosa pubblica.

Colpisce dunque la collezione di risposte rese qualche tempo fa da una dozzina di filosofi americani (o in America letti e ascoltati) a proposito di eventi come l’11 settembre. Si chiedeva se la filosofia avesse risposto in maniera adeguata alla dimensione e al significato dell’evento, e quasi tutti gli interpellati – da Jaakko Hintikka a Simon Blackburn, da McGinn a MacIntyre – l’hanno presa alla larga, proponendo al più considerazioni di metodo, ma nessuna sostanziosa riflessione di merito. Il più drastico di tutti, Jerry Fodor, ha escluso seccamente che la filosofia abbia qualche particolare responsabilità a questo riguardo. Credendo di essere arguto, Fodor ha replicato domandando a sua volta se anche in campo artistico vi sia stata una risposta adeguata all’11 settembre, pensando in questo modo di far risaltare tutta l’improprietà della domanda. Si sbagliava, ovviamente, dal momento che le cronache artistiche e culturali di questi ultimi anni hanno offerto numerosi tentativi in tal senso. Ma è il quadro  generale che queste risposte offrono a destare più di una perplessità sul ripiegamento della filosofia, che non solo sembra assai riluttante a mettersi nuovamente in viaggio per Siracusa, ma sempre proprio voler veleggiare da un’altra parte.

Naturalmente ha ragione Richard Rorty: tra un certo fatto, anche di portata straordinaria, e la riflessione filosofica non può esserci un rapporto di causa ed effetto, e non ha dunque molto senso domandare quali siano state le conseguenze in filosofia dell’attentato al World Trade Center . Eppure, resta l’impressione che la filosofia abdichi a una sua vocazione essenziale, quando si dichiara incompetente in materia. Anche perché non è ben chiaro quale sarebbe allora la sua specifica e indiscussa competenza.

In realtà, in mezzo a filosofi che si schermiscono, qualcuno che un passo avanti lo fa c’è. Per esempio Martha Nussbaum, che vede nell’11 settembre un’occasione per riflettere su problemi di giustizia a livello globale, o John Searle, il quale assegna alla filosofia un compito di pulizia linguistica e concettuale. Che senso ha l’espressione  «guerra al terrorismo» – si chiede: si può essere in guerra contro un «metodo»? Pensieri del genere investono la filosofia di un senso politico, perché suggeriscono se non altro di esercitare qualche sorveglianza sul modo in cui gli Stati Uniti, che hanno lanciato una simile guerra, interpretano dal 2011 il loro ruolo sullo scenario internazionale. Slavoj Zizek, infine, considera essenziale non tanto dare le risposte, ma mostrare in qual modo la formulazione dei problemi sia spesso essa stessa parte dei problemi. Nel caso dell’11 settembre, Zizek per esempio si chiede se la critica del fondamentalismo religioso debba trasformarsi per noi occidentali nella santificazione delle democrazie liberali: un’opera di continua demistificazione, dunque, nel solco della novecentesca critica dell’ideologia.

Qualcosa, però, manca ancora, e quel che manca è la storia. Nussbaum chiede più empiria e più teoria, Searle più analisi del linguaggio, ma in entrambi latita la considerazione che Hegel avrebbe detto propria dello «storico pensante». È curioso però che per notare questa mancanza si debba tornare di molto indietro: al 1979 almeno, anno in cui Lyotard pubblica il suo celeberrimo rapporto sullo stato del sapere. È in quel libro, dal fortunato titolo La condizione postmoderna, che si dichiara la fine delle grandi narrazioni, cioè della filosofie moderne della storia, ed è chiaro che senza una grande narrazione un evento di grande formato come l’attacco alle torri gemelle risulta letteralmente impensabile.

Questa poi è stata, di fatto, la risposta resa dalla filosofia trent’anni dopo: quel che per Fodor è impensabile perché semplicemente esula dai compiti di una filosofia seriamente scientifica, per certi pensatori postmoderni (soprattutto di scuola francese, come Jean Baudrillard) è ugualmente impensabile, anche se alla filosofia è assegnato il sublime compito di presentarlo proprio così, negativamente, come ciò che supera ogni possibile rappresentazione, e dunque ogni trama ordinata di discorso e d’esperienza.

Nell’uno e nell’altro caso la filosofia resta purtroppo senza parole. Dal momento che però la filosofia è rimasta a bocca aperta, in base alla diagnosi lyotardiana, non solo dopo l’11 settembre ma già prima, dal momento cioè che ha considerata esaurita la spinta propulsiva della modernità ben prima che le colonne di fumo offuscassero la skyline della Grande Mela, non bisognerà invertire i rapporti di causa ed effetto? Baudrillard sostiene che un evento è ciò che resiste a una grande narrazione, ma è forse vero il contrario, che cioè proprio la rinuncia alla grande narrazione storica produce eventi grandi e inspiegabili (e  filosofi con il naso all’insù).

Di nuovo, naturalmente, ha ragione Rorty: come un evento non causa una filosofia, così una filosofia (o l’assenza di una filosofia, di un progetto teorico) non causa alcun evento. Ma proprio per questo, non si fa ancor più necessario riannodare in nuove figure di senso il rapporto tra filosofia e politica? Don DeLillo, forse il romanziere americano che più ha riflettuto sull’11 settembre, ha scritto abbastanza sconsolato che ormai «siamo fuori dalla storia e dentro la ripetizione», dentro l’insensatezza di un presente sempre uguale. Ecco: non sarà venuta l’ora di compiere, con tutte le cautele del caso, per carità, e senza arrivare fino a Siracusa, qualche timida manovra di rientro?

Godi! (l'imperativo del '68)

Gli interventi di Zizek sono sempre molto interessanti. Chiamato a riflettere sul ’68, Zizek fa alcune osservazioni degne di nota. Sostiene per esempio che il socialismo ha cominciato ad apparire vecchio, “conservatore, gerarchico, amministrativo” a partire da allora; che il capitalismo “digitale” costituisce “la verità del ’68” (e i capitalisti alla Bill Gates, vestiti in modo informale, ne sono l’icona), e Toni Negri si illude se pensa che generi da sé “i germi della futura forma di una vita nuova”; che il tollerante edonismo ereditato dal ’68 è stato “facilmente incorporato nella nostra ideologia egemonica”, facendo proprio l’imperativo consumistico del nostro tempo, perfetto rovesciamento di quello kantiano: “puoi, quindi devi!”; che le risposte post-sessantottine – forme estreme di jouissance sessuale, terrorismo, misticismo, sono figlie di una stessa sconfitta, e in fondo la perpetuano; che l’alternativa radicale rappresentata dal ’68 sta nel rifiuto del “capitalismo egemonico democratico parlamentare”.
Breve commento a rovescio. Siccome Zizek rifiuta il capitalismo egemonico democratico parlamentare, la liberazione sessuale del ’68 gli pare che sia tutta quanta finita nel consumismo edonistico degli anni seguenti.

Pane e Bernacca

Oggi, gli anonimi si spiaceranno, è la giornata dei libri non letti. Quello di Zizek sulla violenza sarà il suo prossimo libro, e dunque non l’ho letto. Zizek, professional contrarian, di libri d’altronde secondo il Guardian ne ha già scritti 33. Zizek è anche protagonista di un film, Zizek!, di cui dice che è ben fatto, anche se non sopporta il fatto che sia proprio su di lui, visto che lui si odia (e su cosa doveva essere, un film che s’intitola così?). Dice Zizek che non sopporta di essere una star, che è a Londra per motivi privati, mica perché si proietta il film, dice che non gli va la gente che lo tratta da star perché lo prende per un brillante provocatore, mentre lui non lo fa per provocare, lui pensa seriamente quel che dice (e questo è vero). Lui si vede come uno di quei predicatori che nel vecchio west cercavano di convertire i cow-boys, e non disdegnavano di ricorrere per questo a qualche vecchio trucco (anche Zizek ha dunque i suoi trucchetti). Altri gustosi particolari in cronaca.

(Resta che alla fine Zizek dice una cosa da naufragio con spettatore, confessando di amare sconsideratamente le previsioni metereologiche. E questa, noi che pure siamo cresciuti a pane e Bernacca, è l’unica cosa che non gli perdoneremo mai. Ma come? hai appena detto che credi veramente a quel che dici, insegni che la violenza rivoluzionaria è roba buona, e poi confessi che ti piace pensare in una rassicurante camera d’albergo ai fronti nuvolosi in tempestoso arrivo, ma sotto prudente controllo?)

V e Z

V sta per vendetta, e Z per Zizek.

Che a proposito di Matrix aveva scritto: il film mostra la mancanza di un progetto di azione rivoluzionaria all’altezza dei tempi. Allora i Wachowski hanno scritto V for Vendetta, e I cite mostra come esso contenga finalmente gli elementi fondamentali della dottrina politica zizekiana: subjective destitution, act, messianic element.
Subjective destitution: i rivoluzionari scelgono di esserlo, non sono costretti. E alla fine è il popolo intero che indossa la maschera di V
Act: nel film c’è un atto di violenza rivoluzionaria pura, the complete break
Messianic element: i miracoli accadono, dice Zizek, ed è un punto cruciale della sua teoria politica. Ed effettivamente V fa i miracoli, per esempio quello di distribuire con regolare plico postale milioni di maschere a tutta la città.
 
I miracoli, il rigetto del presente "anche senza  avere idea di quel che il futuro ci riserverà". (In effetti, io avevo considerato questa cosa geniale dei miracoli).
 
P.S. Sul film ha scritto anche, e con molto acume, Esc. Però ha scritto: se è contraddittorio che a fare un film spettacolare sulla spettacolare presa dei media sia la Warnerbros, questo è il punto: la contraddizione, “e il vero spettacolo sono gli spettatori inebetiti dall’orgia anarchica che tornano alle loro vite di consumatori, a consumare altre rivoluzioni”.

Può darsi che sia così, ma così dal film (dalla sala, dallo spettacolo, dall’orgia consumistica) non si esce, mentre il film cerca una via d’uscita. Se di nuovo Esc mi obietta che appunto questa è la contraddizione, posso solo osservare che lui nobilita con la parola contraddizione quella che io chiamerei più prosaicamente presa per i fondelli, come i miracoli di I cite dimostrano