Com’è piccolo il teorema meridionale

old-open-window-mats-silvanIl «teorema meridionale» esiste: lo ha descritto su queste colonne Giancarlo Viesti. Esiste anzitutto in quanto la convinzione che la questione meridionale sia la questione dei meridionali e di loro soltanto – delle responsabilità delle classi dirigenti, dell’esiguità del capitale sociale, della debolezza del tessuto morale e civile, della criminalità e della corruzione che allignano dappertutto – tale convinzione è largamente diffusa nell’opinione pubblica e orienta giudizi e comportamenti sia intellettuali che politici.

Dal teorema discende infatti una conseguenza precisa: riversare risorse sul Mezzogiorno non serve a nulla. La si potrebbe dire persino così: qualunque iniziativa pubblica, qualunque investimento, qualunque incentivo andrà sprecato se non sarà preceduto da una «riforma intellettuale e morale» della società meridionale. Con ogni evidenza – voglio dire: con l’evidenza dei numeri che raccontano un progressivo disimpegno dello Stato nazionale nel Mezzogiorno – il «teorema meridionale» esiste: la seconda Repubblica ci è stata costruita su.

Ora, criticare l’infondatezza di un simile teorema non ha mai voluto significare negare le responsabilità, le esiguità e le debolezze di cui sopra. Piuttosto, riportare ogni volta e preliminarmente il discorso su un tal punto  vuol dire rinchiudersi in un’alta, nobile, ma al fondo sterile lamentazione moralistica dei mali e dei vizi del Sud. Che forse salva la coscienza, ma non per questo cambia le politiche.

Lo stesso Gramsci, che della riforma intellettuale e morale avvertiva acutamente l’esigenza per l’intera nazione, chiedeva poi: «Ma può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico?». No, non può esserci. Il capitale sociale non si accumula solo con le buone azioni, le buone pratiche e la buona educazione: ci vogliono, diceva Gramsci, le riforme economiche, un mutamento della posizione nel «mondo economico».

Dalle note di Gramsci ad oggi molte cose naturalmente sono cambiate, ma prima di tutto – va da sé – è cambiato il mondo. Se dunque nell’analisi questi cambiamenti non sono registrati, è difficile che la diagnosi risulti appropriata. Com’è dunque possibile che in un fase storica come quella attuale, dominata dai problemi dell’integrazione fra aree del continente con strutture economiche diverse, com’è possibile che la questione meridionale non richieda alcuna considerazione di ciò che succede oltre il Garigliano, e dunque nessuna preoccupazione per le politiche pubbliche chiamate a correggere eventuali squilibri e disparità? Com’è possibile che il problema del Mezzogiorno sia soltanto ed esclusivamente il Mezzogiorno, mentre nel contesto sovranazionale si parla addirittura di «mezzogiornificazione» delle periferie europee? Se il verbo non inganna, Mezzogiorno lo si può persino diventare, non solo rimanere, per effetto di politiche europee che con il capitale sociale hanno molto poco a che fare, e di politiche nazionali sempre meno concentrate su capitoli decisivi per contrastare la desertificazione umana e industriale del Sud.

In realtà, lo sviluppo di un’area depressa è necessariamente un tema nazionale e internazionale, cioè del contesto circostante. Che in verità non si limita a stare tutto intorno, ma condiziona fortemente: a volte promuovendo, per una qualche forma di contagio che la geografia economica conosce e descrive molto bene, altre volte invece frenando, per vincoli di struttura che gli economisti conoscono altrettanto bene. E che però si ignorano bellamente, quando si imbastisce solo il discorso sulle colpe del Sud, ataviche o no che siano.

Tanto tempo fa, in un illustre palazzo di Napoli, capitò che alla presentazione di un libro l’autore fosse severamente criticato da un collega per la scarsa o nulla considerazione in cui teneva elementi di storia locale. L’autore, un autorevolissimo professore con poca voglia di litigare, si limitò a rispondere con garbo che apprezzava anche lui grandemente la storia locale, se non altro perché aveva studiato insieme col collega in quello stesso palazzo. Ricordo con piacere queste alte finestre, aggiunse poi, ma ricordo anche che da esse non riuscivamo a vedere che una piccola porzione di mondo. Ecco: il teorema meridionale tiene dentro solo una porzione molto, troppo piccola del problema.

(Il Mattino, 13 febbraio 2015)

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