Il finto Masaniello

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Dal punto di vista del mercato, il trasferimento di Sarri alla Juve è solo una delle tante operazioni con cui i club ridisegnano le loro squadre, tra un campionato e l’altro.

Dal punto di vista più strettamente calcistico, poi, non fa certo meraviglia che uno dei migliori allenatori in circolazione sieda sulla panchina di una delle più prestigiose squadre europee.

Dal punto di vista della sfida professionale, infine, si tratta del massimo a cui, in Italia, un allenatore può ambire. E però, al tirar delle somme, si tratta non di Stramaccioni all’Esteghlal, blasonata squadra iraniana (auguri!), ma di Maurizio Sarri allo Juventus Football Club. E qui fare gli auguri viene più complicato.

Piuttosto: lo si scrive, lo si ripete, lo si si rimarca come se non ci si potesse credere: Sarri? Alla Juve? L’allenatore in tuta, la barba un po’ incolta e la sigaretta sempre accesa? Quello che il Milan non prese perché di sinistra? Quello che ha mostrato il dito medio ai tifosi bianconeri? Quello che i rigori li danno solo se hai la maglia a righe? Proprio lui. E Napoli, la Napoli del pallone che ne ha fatto per tre anni il suo Masaniello, si ritrova a pensare che qualcosa è andato storto, che l’ideologo si è imbrogliato con i suoi stessi dati, e invece di espugnare il Palazzo è andato ad abitarci. Uno pensa allora a Stavrogin, il celebre personaggio de «I demoni» di Dostoevskij, ma pure all’incappottato Antonio Barbacane, che davanti al Ministero invita i posteggiatori abusivi, «urbani e interurbani», a unirsi nella lotta, ma a cui in definitiva premeva, più che risolvere i problemi della categoria, ottenere almeno un posto. Per sé.

Sarri, insomma, si è sistemato. Ma stupore, amarezza e «nervatura» ti pigliano solo se, ancora una volta, hai voluto recitare la parte del lazzaro alla rivoluzione. Una parte per la quale ormai gli storici hanno un nome. Alla domanda su cosa sia il masaniellismo, Aurelio Musi ha infatti risposto una volta:

«È la tendenza a svolgere funzione di caporione aggregando più settori, popolo, popolino e popolaccio, ma senza un obiettivo politico preciso. Tutti insieme non per un progetto comune a lungo termine ma per far risaltare i bersagli più semplici e immediati».

Questa tendenza, purtroppo, Napoli ce l’ha tutta. E non parlo più, ovviamente, della Napoli calcistica. Lasciamo perdere la figura del caporione: è la mancanza dell’obiettivo politico preciso, la mancanza di un progetto comune, la mancanza di un disegno a lungo termine, che condannano la città. (A meno che non pensiate che Palazzo San Giacomo stia davvero per battere moneta). Il caporione a cui affidare il riscatto di popolo, popolino, e popolaccio viene di conseguenza.

Ora i tifosi napoletani parlano di amore tradito. Masaniello è stato consegnato o si è consegnato, è stato tradito o ha tradito: non è chiaro. Ma intanto: c’è qualche altra grande città, in Italia o in Europa, in cui si parla così tanto di amore: non solo nel calcio, nei film o nelle canzoni, ma pure nel discorso pubblico? Credo di no. Se però questo è il linguaggio a cui viene consegnata la dolente vicenda – come in fondo è già stato per Higuain, e come in futuro sarà ancora per chissà chi altri – non vorrà dire, molto più prosaicamente, che il famoso cuore di Napoli non ne vuol sapere di adottare l’ottica del mercato, che gli vanno strette le regole del gioco, che non riesce ad appassionarsi ai curricula?

Il rischio di inzuppare tutta la vicenda nell’acqua stagnante dei luoghi comuni c’è, naturalmente. Ma tra questi luoghi comuni c’è pure quello che fa del calcio solo l’oggetto di un folle amore. Dopo un Napoli-Juventus finito in parità, Sarri riprese uno dei suoi cavalli di battaglia: hai voglia a giocar bene, alla lunga il fatturato pesa, disse. Qualcuno gli avrebbe potuto obiettare che pesa pure in Formula 1, o nel basket, o in genere nello sport professionistico. E non per chissà quale perfidia del capitalismo globalizzato ma perché, per l’appunto, di sport professionistico si tratta: c’è poco da lagnarsene.

Ora di sicuro il mister non se ne potrà più lagnare, anche se gli verrà assai difficile dire che le vittorie che – ne siamo certi – otterrà sul campo saranno merito del fatturato. Ma non è la lezione che Sarri saprà trarre da questa storia quella che ci interessa, bensì ciò che la città di Napoli saprà trarne.

E non parlo solo di calcio, ovviamente. Va bene, infatti, innamorarsi dei leader che si lanciano a mani nude contro il potere, dandosi bersagli più semplici e immediati non avendo un obiettivo politico preciso: vedi alla voce masianellismo. Ma alla lunga il fatturato pesa, le risorse contano, e il futuro dipende dalla capacità di crearle e accrescerle. Se dunque anche Napoli cominciasse a pensare al fatturato, a star dentro alla logica di mercato senza lamentarsi del fatturato altrui, ma provando a far lievitare il proprio, il tramonto del sarrismo napoletano potrebbe dare buoni frutti. E forse, di anno in anno, il calcio Napoli si toglierà qualche sfizio in più, anche nei confronti della Juventus di Maurizio Sarri (uno lo scrive, lo ripete, lo sottolinea, e ancora non ci crede).

Il Mattino,

Adotta un filosofo

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L’idea, che la Fondazione Campana dei Festival sta promuovendo con il progetto “Adotta un filosofo”, di portare nelle scuole superiori uno studioso di filosofia a tenere una lezione sull’Europa – sull’identità europea, sulla costruzione europea, sul senso della storia europea (se ne ha uno) – ad Antonio Polito non è piaciuta.

Per le seguenti ragioni. Primo, scrive Polito sul Corriere del Mezzogiorno di ieri, perché «l’idea che l’Europa sia qualcosa che ha a che fare principalmente con il mondo delle idee è forse una delle cause principali della sua crisi odierna». Secondo, perché «se vogliamo ridare un senso all’idea di Europa ci serve spiegare ai cittadini cosa ha fatto per noi e che cosa può fare ancora: qualcosa di concreto, una convenienza, un fatto». Terzo, perché la cultura partenopea, in particolare, ha il difetto di considerare ancora la filosofia la regina delle discipline umanistiche, finendo così con l’identificarsi con «i voli pindarici e l’empireo platonico». Quarto, perché se vogliamo avvicinare l’Europa ai cittadini, non è il caso di puntare sulla «più sofisticata delle élite, quella accademica». Quindi molto meglio sarebbe se le scuole “adottassero” botanici, ingegneri ed economisti, cantanti e calciatori, piuttosto che filosofi. Peggio ancora se filosofi napoletani.

Avendo qualche responsabilità nella cura del progetto vorrei provare a rispondere a Polito, dandogli ragione, se vuole, su tutto o quasi: non, però sull’essenziale, cioè su cosa sia la filosofia. Perché a Polito devono avere insegnato, in anni lontani, che la filosofia è metafisica, e la metafisica è roba di voli pindarici e cieli platonici, una astruseria teologica che riguarda non questo mondo ma quell’altro. E cosa se ne fanno i nostri ragazzi dell’altro mondo astratto, puramente intellegibile, loro che sono interessati solo a questo nostro mondo sensibile e concreto: spiccio, se si può dir così?

Riguardo ai ragazzi, si vedrà: ho fiducia in loro, nella loro capacità di appassionarsi non solo a una convenienza, ma pure a un’idea, checché ne pensi Polito. Ma che poi le cose stiano nel modo in cui le mette Polito, con i filosofi astrusi da una parte e gli uomini positivi e concreti dall’altra, beh: lasciamo che a pensarlo siano coloro che, senza avvedersene, adottano non scienziati o economisti ma semplicemente una cattiva filosofia. In realtà, da un lato la filosofia è sempre stata pensiero della polis – cioè della città: della città in cui viviamo, non di un’altra –, con ambizioni a volte persino eccessive circa il modo di occuparsi e di trattare gli affari del mondo, dall’altro è una cosa curiosa: se davvero, come sostiene Polito, la causa della crisi odierna ha a che fare con il mondo delle idee, allora la prima cosa da fare sarebbe appunto quella di impegnarsi nella battaglia delle idee, anziché disertare. Polito, forse, non si è accorto di quale degenerazione culturale abbia subito la politica (e la società) nel giro di appena 10, 15 anni? Come ti confronti, con questo? A chi ti rivolgi: ai botanici?

Quando poi Polito scrive che per ridare un senso all’Europa bisognerebbe mostrare che stare in Europa ci conviene, invece di mettersi a fare grandi discorsi di filosofi, di nuovo: quasi quasi gli darei ragione. In effetti, penso anche io che l’Europa ci conviene, e molto. Non posso però non far notare che la dimensione del discorso filosofico è aperta già in queste poche parole: che cosa significa “senso” (dare un senso, avere un senso)? Chi siamo “noi” a cui l’Europa converrebbe? Siamo tutti d’accordo su cosa sia per noi “il conveniente”? (Polito pensa che Platone si occupasse solo dell’iperuranio, e invece la sua “Repubblica” è aperta proprio dalla domanda: che cos’è il conveniente, cos’è che ci conviene?) Certo, domande come queste possono procurare un lieve senso di vertigine: siccome non si sa bene come prenderle, le si classifica come astratte e fumose; si preferisce allora ignorarle, e tirare avanti. Ma sono abbastanza sicuro che non si può fare la storia d’Europa senza tentare – tentare, almeno – di darvi qualche risposta. Né saprei indicare quali saperi abbiano prevalso sulla filosofia nel tentare di rispondere a queste domande.

Non solo, ma penso pure che i nostri ragazzi non abbiano bisogno solo di conoscere la cifra dei fondi europei stanziati per le regioni meridionali, ma anche di capire cosa significa dire di una città che è europea, che in essa si respira aria d’Europa: che cos’è quest’aria, questa atmosfera? Di cosa è fatta? Da dove viene? Cos’è che la fa spirare o la tiene pulita? Non me ne voglia Polito: quest’aria non si tocca con le mani, e però la si respira e come; è maledettamente concreta e però non poggia solo su fatti, ma anche, anzi soprattutto, su idee. Chi ha sostenuto che Europa è filosofia, che c’è un nesso essenziale fra l’una e l’altra, non ha commesso un’esagerazione: parlava, io credo, della qualità di quest’aria.

Infine, c’è Napoli. Non è questa la sede per fare un bilancio della filosofia partenopea, del tasso di cultura umanistica di cui sarebbe intrisa, e se pecchi o no di platonismo (usato come sinonimo del tutto improprio di astrattezza). Il significato dell’iniziativa con cui Polito polemizza (del tutto legittimamente, per carità) è: diamo ai nostri ragazzi modo di conoscere l’Europa, la sua storia, le sue istituzioni, il suo orizzonte ideale. Ebbene, Napoli e la sua cultura e tradizione filosofica hanno tutti i titoli per poter imbastire un’“ora di educazione civica” su questo argomento. “Educazione civica: proviamoci”: era il fondo del “Corriere”, giusto ieri. Ed allora: che quest’operazione abbia un significato elitario – come se non si andasse nelle scuole, come se non si parlasse a tutti, come se il bisogno di filosofia non fosse un bisogno universalmente umano –  lo si può pensare solo di questi tempi, evidentemente perché l’aria, purtroppo, non è più la stessa.

(Il Mattino, 14 gennaio 2019, con il titolo: Perché i filosofi possono aiutare i nostri ragazzi a capire il mondo)

 

Il nuovo lessico della fede e della morale

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A un certo punto venne fuori questo ragionamento: la fede cristiana predica la misericordia, la bontà e il perdono, ma un conto è la fede cristiana, un altro sono i cristiani in carne ed ossa. Quanto a questi ultimi, chi non li conoscesse avrebbe bisogno di vivere non più di quindici giorni in mezzo a loro per sapere che non seguono affatto i principi in cui dicono di credere. Tra il dire e il fare…

A qual punto, però, venne fuori questo ragionamento? Al punto in cui lo mise Pierre Bayle, nei paragrafi 133 e seguenti dei suoi Pensieri diversi sulla cometa. Siamo nel 1682 e i pensieri di Bayle sono tra i primi segnali della nuova mentalità che nel secolo successivo, con l’illuminismo, si spanderà per l’intera Europa. Dopo più di tre secoli, non facciamo molta fatica ad essere d’accordo con Bayle, né desta scandalo la conclusione che Bayle trasse da quei suoi pensieri, che cioè è ben possibile una società di atei virtuosi, di gente che non crede in Dio e non va a messa la domenica e però si comporta bene: «Ora è quanto mai chiaro e evidente – concluse infatti – che una società di atei si comporterebbe in maniera civile e morale proprio come qualsiasi altra società».

Un conto è però se a trarre conclusioni simili è un polemista francese di famiglia protestante, un altro è se è invece il Papa della Chiesa cattolica romana. Beninteso: i tre secoli sono passati anche per Roma, e non è certo una novità dottrinale quella introdotta da Papa Francesco. Però fa lo stesso un certo effetto ascoltarlo nel corso dell’udienza generale mentre dice: «Quante volte noi vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno lì tutta la giornata o vanno tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Questo è uno scandalo! Meglio non andare in chiesa: vivi così, come fossi ateo. Ma se tu vai in chiesa, vivi come figlio, come fratello e dà una vera testimonianza». Meglio ateo che cattivo cristiano, insomma. Ovviamente, è facile per noialtri essere d’accordo con il Papa, su questo punto. Facile per quanti si sono già allontanati da tempo dagli aspetti rituali della fede religiosa. E naturalmente ancor più facile per tutti coloro che non hanno la fede, vivono in una dimensione laica e secolarizzata, e che – ancor prima che Francesco ne parlasse – erano già convinti che fra compiere una buona azione e osservare il precetto della messa domenicale fosse più importante la prima cosa. Ma per i cristiani praticanti, per quelli che ricevono i sacramenti e vivono nella comunità ecclesiastica, è un po’ meno facile. Perché il rischio è che non si comprenda più bene che cosa la religione abbia e dia in più rispetto alla morale. Se anche per il Papa sono sufficienti le opere, le buone azioni, e soprattutto «non odiare la gente», allora perché continuare a confessarsi, o a prendere la comunione? È un ben strano supplemento, il sacramento religioso, visto che può persino rivelarsi superfluo, dal punto di vista di ciò che si richiede a un uomo per vivere rettamente.

Quella dei rapporti fra morale e religione è una faccenda assai complicata: se la religione si riduce a morale, allora non si capisce a che serva tutto l’apparato istituzionale che vi è cresciuto sopra. Cristo dice a Pietro che su di lui costruirà la sua Chiesa: ma cosa l’ha costruita a fare? Se invece la religione offre qualcosa di più della morale (per esempio: una salvezza riservata esclusivamente ai propri fedeli) allora tornerà ad essere complicato preferire l’ateo buono al cristiano ipocrita (e l’autorità morale della Chiesa non potrà più valere universalmente, per ogni uomo in quanto uomo).

Non sono ovviamente questioni che si pongano per la prima volta con Papa Francesco: è infatti dai pensieri di Bayle che se ne parla. E in verità anche da prima, solo che gli scritti di Bayle si situano effettivamente su un crinale della coscienza europea, che si fa in quei decenni moderna, laica, razionale. Dopo di allora, è tutto il lessico del sacro, della fede, della grazia, del sacerdozio, del miracolo, che si mette in cerca di nuove giustificazioni, per tentare di resistere alla lenta consumazione del religioso ad opera dell’istanza morale. E però tutto il pontificato di Francesco sembra oggi mettersi sotto l’accento della morale, della carità e della misericordia cristiana come opera dell’uomo verso l’uomo, in una luce tutta laica, così laica appunto da essere preferita ad ogni sorta di omaggio ipocrita nei confronti della fede.

Cos’altro dovrebbe dire, però, il Papa? Non è così che la sua parola può farsi vicina e comprensibile all’uomo contemporaneo? Forse sì. Però è possibile misurare la novità che si viene producendo solo ricordando come siano rimbalzate di recente altre parole, spese agli inizi della modernità. Quelle di Grozio: etsi Deus non daretur. Facciamo come se Dio non ci fosse, diceva Grozio, per trovare un accordo laico fra gli uomini e vivere in pace. A riprenderle, e a ribaltare, è stato Benedetto XVI, che, tutt’al contrario, ha invitato anche chi non crede a vivere «come se Dio ci fosse»: una scommessa (su cui pure Blaise Pascal invitava a puntare) che provava a capovolgere, o almeno a resistere, all’impetuoso cammino di secolarizzazione intrapreso dall’Occidente. Le parole di Francesco – meglio vivere come si fosse atei, che dare scandalo con una fede ipocrita – sono letteralmente agli antipodi dell’invito di Ratzinger. Però è anche vero che, con esse, la resistenza che viene opposta alla secolarizzazione semplicemente si azzera. E la Chiesa pellegrina, aniziché opporsi al mondo, rischia sempre di più di confondersi con esso.

(Il Mattino, 3 gennaio 2019)

Che cosa resta dell’anno che ha stravolto la politica

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Con decreto del Presidente della Repubblica venivano convocati, giusto un anno fa, i comizi elettorali per domenica 4 marzo 2018: cominciava così l’anno che avrebbe terremotato la politica italiana, portando i Cinque Stelle alle stelle, un’inedita maggioranza grillino-leghista alla guida del Paese, e a capo del governo un professore di diritto, Giuseppe Conte, sconosciuto alla quasi totalità degli italiani.

Un risultato che non si sarebbe prodotto, se Matteo Renzi non si fosse dimesso a seguito della batosta rimediata a fine 2016, sul referendum costituzionale. Chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche, cantava Lucio Dalla. E infatti non si è andati tanto per il sottile: Renzi sbalzato di sella, il partito democratico in caduta libera, mentre Gentiloni traghetta con sobrietà l’Italia fino all’appuntamento del 4 marzo. «È stato importante rispettare il ritmo, fisiologico, di cinque anni, previsto dalla Costituzione», spiegava il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno, ma per il Pd è un bagno di sangue: alle elezioni precipita dal 40% delle Europee al 18,7%. Non va meglio alla formazione di sinistra guidata da Bersani, Fratoianni, Speranza: un misero 3,4%, che li condannerà all’irrilevanza.

Il pallino della politica italiana è da un’altra parte. A destra avviene uno storico sorpasso: la Lega primo partito, col 17,4%, con Forza Italia due punti e mezzo sotto. Dove non erano riusciti Bossi, Fini, Casini, riesce invece Matteo Salvini, che quadruplica i voti della Lega Nord e soffia lo scettro del comando a Silvio Berlusconi. Il 5 marzo Luigi Di Maio annuncia solenne: «Inizia la Terza Repubblica, quella dei cittadini». Col senno di poi si può dire: non un inizio trionfale. E soprattutto non è chiaro perché sarebbe la Repubblica dei cittadini, visto che forme e liturgie sono quelle di prima: non ci sono mica streaming e referendum a go-go (per fortuna).

La legge elettorale non consegna la maggioranza a nessuno dei tre poli in campo. I titoli giornali europei si dividono fra il fragore della vittoria populista e l’incertezza sulle prospettive post-elettorali. Il Financial Times titola: «L’Italia stila un verdetto di condanna alla sua élite»; ma in un commento aggiunge: «La coalizione non sarà costruita in un giorno». Ce ne vorranno infatti novanta, più o meno. El Pais, in Spagna, parla di vendetta elettorale e si chiede se questi italiani non siano diventati pazzi. Le Monde, in Francia, parla di cataclisma; Le Figaro di choc, e allungando le antenne rileva il sisma che scuote l’intera Europa. La Faz, in Germania, va invece al sodo: Salvini e Di Maio vogliono fare entrambi i primi ministri. Toccherà invece a Conte (la Faz non poteva neanche sospettarlo), con i due a fare da vicepremier. Infine, il New York Times, in una lunga corrispondenza da Roma, parla di un big turn verso destra.

I temi politici, in effetti, sono questi: la rivolta contro l’élite e i partiti antiestablishment, la ventata populista che allarma Bruxelles, la bancarotta della sinistra e le nuove pulsioni sovraniste, le ambizioni dei due leader e la difficoltà di comporre una maggioranza. La democrazia, però, ha le sue regole. Che prevedono: elezione dei presidenti delle due Camere, costituzione dei gruppi parlamentari, avvio delle consultazioni al Quirinale. In tutto, tre mesi.

Durante i quali ne accadono, di cose. Sullo scranno di Montecitorio viene eletto Roberto Fico l’informale, leader dell’ala movimentista dei Cinque Stelle, con simpatie a sinistra e primo, strombazzato viaggio in pullman da Termini a Montecitorio (dei successivi non si ha notizia). Al Senato va invece Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia, prima donna ad essere eletta alla seconda carica dello Stato. lunga esperienza parlamentare alle spalle. A votarli sono insieme i Cinque Stelle e il centrodestra unito, anche se Berlusconi deve ingoiare il rospo del veto di Di Maio sul nome di Paolo Romani. Ma il ragionamento del Cavaliere è quello che verrà tenuto fermo anche nei mesi successivi: meglio salvare una parvenza di unità del centrodestra. Non solo perché nelle regioni Forza Italia è alleata alla Lega, ma perché non è detto che sbocci l’amore fra Salvini e Di Maio, e se sboccia non è detto che non finisca presto. D’altra parte, dopo la cavalcata nei sondaggi della Lega, che oggi è data davanti al M5S, non è questa la domanda che ancora ci si fa? Quanto durerà questa maggioranza? Quando Salvini staccherà la spina: prima o dopo il voto europeo, o magari prima della prossima Finanziaria, per non rivivere i patemi di queste ultime, faticosissime giornate?

Ma continuiamo a svolgere la pellicola del 2018. Dunque: Fico e Casellati. Che si fanno anche un giro esplorativo, per cercare di sbloccare la situazione. Il Pd, ancora a guida renziana, non ne vuol sapere di un’intesa coi Cinque Stelle, mentre dall’altra parte c’è il nodo Berlusconi. Che durante le consultazioni, all’uscita del Quirinale, fa finta, in una memorabile scenetta, muta ma eloquente, di essere ancora lui il regista del centrodestra e di poter dettare le condizioni per un’intesa di governo.

Non andrà così: Salvini si staccherà subito dopo, anche se fra i giallo-verdi e Palazzo Chigi ci sarà ancora un ultimo ostacolo, legato alla composizione del Ministero. Il Capo dello Stato non vuole Paolo Savona al Tesoro: un nome troppo contundente verso l’Europa. Quanta ragione avesse Mattarella a preoccuparsi di tenere buoni rapporti con l’UE lo si è capito qualche mese dopo, quando il governo Conte, partito lancia in resta contro i diktat di Bruxelles, ha dovuto riscrivere daccapo la legge di Stabilità per non incorrere in una procedura di infrazione. È la cronaca di questi giorni, di velleità almeno temporaneamente sopite e di accomodamenti dell’ultimo minuto. Ma è in quelle ore decisive, in cui Mattarella stoppa il nome di Paolo Savona, che Luigi Di Maio fa la sua uscita più infelice di questo primo scorcio di legislatura, chiedendo addirittura l’impeachment del Capo dello Stato. Farà, per sua buona ventura, retromarcia nel giro di 24 ore, e non sarà l’unica volta in cui i grillini faranno il passo più lungo della gamba: con la Tav, con il ponte Morandi, con il reddito di cittadinanza, ogni volta il formato delle presunzioni supera abbondantemente il realismo delle soluzioni. Dall’altra parte, invece, Salvini sceglie di cavalcare i temi che più stanno a cuore alla Lega – dall’immigrazione alla sicurezza, passando per la legittima difesa e l’amicizia con i nazionalismi europei – con una chiara connotazione ideologica (“prima gli italiani”), ma senza allargare troppo i cordoni della borsa. Scompaiono infatti la flat tax e le accise sulla benzina, mentre si ridimensiona lo stesso obiettivo di smantellare la legge Fornero.

Però, a guardarlo retrospettivamente, sono ancora il giallo e il verde i colori del 2018. Non solo perché nei sondaggi la fiducia rimane alta, ma perché gli altri non hanno ancora ritrovato la via. Il Pd è impegnato in un percorso congressuale in cui i suoi stessi dirigenti non mostrano di credere davvero. Renzi ha realizzato un bel documentario su Firenze, Calenda pare essersi consegnato al ruolo di commentatore via twitter, mentre Zingaretti e Martina si contendono quasi nell’ombra quel che resta del partito. Nel centrodestra, invece, le ultime notizie riguardano più la famiglia Berlusconi che Forza Italia: chi cena con chi, l’ultimo dell’anno, e come sta in salute il Cavaliere.

Così va in archivio l’annus mirabilis. La sicurezza di Conte sembra cresciuta, la stella di Di Maio è un po’ appannata. Intanto è tornato Di Battista e si comincia a parlare di rimpasto. Ci sarà un po’ di tran tran, prima della prossima campagna per le europee, ma eventuali, futuri scossoni li riserverà probabilmente solo la seconda parte del 2019.

(Il Mattino, 30 dicembre 2018)

Se la democrazia deve fare i conti con il consenso cercato

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Si possono mettere in fila, uno dietro l’altro, gli elementi di cui si compone un ordinamento statale liberal-democratico? Certamente sì, e del resto non sono pochi gli autori di una biblioteca ideale che potrebbero essere chiamati a redigere un simile elenco. Un posto d’onore meriterebbero sicuramente l’austriaco Karl Popper e l’americano Robert Dahl, ma anche i nostri Bobbio e Sartori. Non sorprende, dunque, che siano proprio questi i fari principali che illuminano le pagine di «Democrazia avvelenata», il libro scritto da Dario Antiseri, Enzo Di Nuoscio e Flavio Felice (Rubbettino, pp. 189, € 13). Il cui merito principale, però, non mi sembra che stia nella ricapitolazione di una dottrina che, con accenti e sfumature diverse, costituisce pur sempre la più consueta cornice di legittimazione delle democrazie occidentali, quanto piuttosto nello spazio che viene dedicato ai temi del sapere, dell’istruzione, dell’educazione, del contributo delle scienze umane e sociali alla formazione dell’homo democraticus. Perché la democrazia attecchisca nei cuori e nelle menti degli uomini c’è bisogno infatti che sia nutrito e coltivato l’esercizio del dubbio e un’attitudine genuinamente critica, che sia solidamente stabilita la pratica del confronto e dell’argomentazione razionale, che sia diffusa la disponibilità a rifuggire dalle verità definitive (dagli schemi ideologici), che sia radicata la consapevolezza della pluralità delle prospettive etiche.

C’è bisogno, in una parola, di filosofia. «La filosofia insegna a convivere con l’incertezza senza rinunciare alla verità», è la tesi che Di Nuoscio presenta nel suo saggio. Naturalmente, la filosofia di cui parla Di Nuoscio non è quella dei sistemi metafisici totalizzanti o delle verità concluse, ma quella che strappa l’uomo ai pregiudizi del senso comune e allena alla ricerca inesauribile della verità. È la filosofia del razionalismo critico, che Dario Antiseri ha negli anni difeso e promosso nel nostro Paese, ma che si incontra abbastanza sorprendentemente con l’ermeneutica di Gadamer o, nel caso di Di Nuoscio, con quella di Luigi Pareyson. E che riceve inoltre dalla concezione cristiana della libertà e pari dignità di tutti gli uomini un apporto decisivo.

Fin qui, però, siamo in mezzo ai libri, alle scuole, alle tradizioni di pensiero. C’è pure, in queste pagine, una dose non omeopatica di neoliberalismo: di Hayek, di von Mises, di Ropke (e, nel saggio di Felice, dell’istituzionalismo di Acemoglu e Robinson). Ma il libro è scritto con una preoccupazione principale, dichiarata addirittura sulla copertina del libro, e che rimanda a un’urgenza del nostro tempo. Le democrazie rappresentative, costruite fra Otto e Novecento, si trovano oggi, scrivono gli autori, «a fare i conti con un nuovo spettro: la “democrazia del pubblico”. Assistiamo tutti i giorni a un confronto politico sempre meno concentrato nell’analisi della realtà e sulla progettazione del futuro e sempre più orientato alla ricerca del consenso immediato, attraverso sofisticate strategie comunicative». Quando si arriva alle trasformazioni della sfera pubblica, non è più chiaro se bastino iniezioni di cultura e riferimenti ideali. Naturalmente, circolano nel libro i nomi dei più illustri sostenitori contemporanei dell’importanza di una solida formazione umanistica per la pratica democratica: Amartya Sen e Martha Nussbaum. Il pantheon democratico è pieno di dèi, e ben forniti (e qui ottimamente utilizzati) sono gli arsenali argomentativi posti a difesa della democrazia dalle «tendenze disgregatrici» dell’economia come anche da quelle della comunicazione.

Cosa però si deve pensare, se si arriva al punto di dover dedicare un paragrafo al seguente argomento: «il cittadino democratico deve saper comprendere il senso di un testo»? Si deve forse mettere in dubbio che i cittadini siano in grado di capire ciò che leggono? Non è un paradosso che nell’era dell’informazione, in cui il consumo culturale si è fatto ampio e diffuso come mai in passato, non è più scontato che gli individui posseggano capacità critica nell’intelligenza di un testo? Lo è, certamente, se i media prendono ad occuparsi – com’è accaduto nelle scorse settimane – persino delle stravaganze dei «terrapiattisti», per i quali la Terra non è un geoide più o meno rotondo, bensì una specie di disco piatto. E però: così stanno le cose, per gli autori del libro. Che si offre dunque come un antidoto necessario. Che sia anche sufficiente per liberare lo spazio pubblico dai suoi veleni: anche di questo, come di ogni cosa, è salutare esercizio dubitare.

(Il Mattino, 30 dicembre 2018)

L’autonomia e il sonno del Sud

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Ma di cosa c’è bisogno perché i presidenti delle regioni del Sud, perché i parlamentari eletti nei collegi meridionali, perché i sindaci delle grandi e piccola città del Mezzogiorno prendano la parola? È un terzo del territorio nazionale, di cui il resto del Paese non vuole più saperne, eppure non si riesce a sentire una sola voce che dica forte e chiaro che l’autonomia rafforzata a cui lavorano Veneto e Lombardia rischia di essere un vero disastro: certo per il Meridione, ma anche per l’Italia intera. Sulle colonne di questo giornale Gianfranco Viesti ha provato a spiegarlo più volte: se il progetto va in porto, il Mezzogiorno riceverà meno risorse, dovrà rinunciare ad ogni prospettiva concreta di riduzione del divario con il Nord del Paese, mentre sparirà un principio di solidarietà senza del quale non esiste vera comunità politica.
Ma la classe dirigente meridionale, che dovrebbe essere sulle barricate per fermare o almeno correggere un simile disegno, non parla. O, se parla, parla d’altro. I Cinque Stelle sono impegnati a difendere il reddito di cittadinanza, e non sembrano rendersi conto che il flusso di risorse che, nel tempo, potrà spostarsi verso Nord grazie alla secessione dei ricchi è di gran lunga superiore a quello che la misura-simbolo dei grillini può dare al Sud (senza aggiungere che sposa una filosofia ben lontana dall’aggredire i nodi del ritardo strutturale del Mezzogiorno). Eppure, alle politiche, da Roma in giù hanno sfiorato e spesso superato il 50%: fra le loro file dovrebbe essere in via di formazione una nuova leva di meridionalisti, capaci di rappresentare gli interessi e le ragioni di questa parte del Paese, ma niente: non una parola, i governatori leghisti del Nord possono andare avanti, il contratto di governo non dice nulla al riguardo e loro, zitti e ossequiosi, nulla dicono.
Quanto al Pd, è in evidente stato confusionale, senza un chiaro orizzonte strategico, ripiegato su un percorso congressuale abbastanza incomprensibile ai più. E però è il centrosinistra che ha governato e ancora governa le regioni meridionali, che porta la responsabilità delle molte occasioni perdute lungo tutto l’arco della seconda Repubblica, e che avrebbe, anche solo per motivi strumentali, per mettere in difficoltà la maggioranza giallo-verde, tutti i motivi per farne terreno di battaglia politica. Ma niente anche loro: manco se ne accorgono che intanto il vento nordista ha ripreso a soffiare forte. Hanno perso il Sud, e ormai quasi non li si trova da nessuna parte. Restano a difesa dei fortilizi amministrativi, ma di riprendere l’iniziativa politica pare non abbiano più la capacità, né la voglia.
Infine, il centrodestra. Che con Berlusconi in fase declinante e l’esplosione del consenso alla Lega è finito in stand-by.  Come può infatti mettersi davvero di traverso, se un giorno sì e l’altro pure spera che finisca questa esperienza di governo e che Salvini ritorni all’ovile? Il fatto che vi tornerebbe non come un agnello ma come un lupo non cambia molto, per loro, perché di leadership alternative non ne vedono. E dunque tutti zitti, e pazienza se ormai Salvini i voti viene a prenderseli pure giù al Sud: neanche nel centrodestra si trova qualcuno che denunci la contraddizione fra la Lega nazionale che ormai prova a mettere le tende pure sotto il Garigliano, e quella veneto-lombarda che l’unità nazionale di fatto la piccona, lungo la linea molto precisa del gettito fiscale: quello che versiamo quello ci teniamo. E più non dimandare.
Questo è il quadro, drammaticamente desolante. In qualunque nazione degna di questo nome, tenere unito il Paese sarebbe la prima e più fondamentale preoccupazione. In qualunque democrazia rappresentativa minimamente funzionante, la parte svantaggiata troverebbe  una qualche forma di effettiva rappresentanza. In qualunque sistema sociale attraversato da differenze profonde e diseguaglianze accentuate, il disagio troverebbe il modo di manifestarsi. E la politica proverebbe a far propria la preoccupazione, a dare rappresentanza, a esprimere il disagio. E invece niente: nessuna idea di come contrastare l’autonomia rafforzata, nessuna proposta alternativa, nessuna volontà di unire le forze, nessuna istanza meridionalista da gettare nello stagno della politica nazionale. L’unica dialettica si svolge lungo l’asse Roma-Bruxelles, e Napoli, e Palermo, e Bari, e i sindaci e i governatori e i parlamentari nulla dicono e nulla sanno. Si spacca il Paese nell’indifferenza o forse nella rassegnazione  generale. E le Cassandre inascoltate possono solo temere che qualcuno forse si sveglierà quando sarà troppo tardi.
(Il Mattino, 20 dicembre 2018)

 

Il Don Rodrigo e i don Abbondio del sapere

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Una buona notizia e una cattiva. Quella cattiva è che l’accordo con la Scuola Normale di Pisa per la creazione di un polo di alta formazione a Napoli, d’intesa con la Federico II, è saltato. È bastato che il sindaco leghista della città toscana, come un Don Rodrigo qualunque, si mettesse a strillare che il matrimonio non s’aveva da fare, perché tutto finisse a carte quarantotto. Non diremo chi sia il don Abbondio, o se magari non ve ne sia più d’uno, ma Innominati che si pentono in questa storia non ve ne saranno. I due Atenei non convoleranno a nozze, nonostante i Rettori si fossero già da tempo trovati d’accordo su un’offerta formativa di eccellenza, che avrebbe permesso di ospitare la Scuola Normale nel cuore della città, nella sede federiciana di via Mezzocannone, e di conferire un prestigiosissimo titolo di studio, riconosciuto da entrambe le istituzioni accademiche.

La buona notizia è che il Ministero mantiene comunque l’impegno finanziario per la creazione a Napoli di una scuola di studi superiori, autonoma dalla Normale, ma inserita comunque nel circuito della didattica d’eccellenza. Può darsi che sia un compromesso soddisfacente: dopo tutto, è la prima volta che nasce, se nasce, una scuola di eccellenza nel Mezzogiorno, e le difficoltà dell’ultimo miglio dimostrano quanto poco fosse un risultato scontato. Ma un paio di considerazioni ulteriori non è possibile non farle, viste come sono andate le cose.

Perché le cose sono andate così, che due Università di prestigio internazionale e di lunghissima tradizione hanno lavorato per molti mesi a un progetto di altissima qualità – sia didattica che scientifica – che l’alzata di ingegno del sindaco di Pisa ha potuto mandare per aria dalla sera alla mattina. Nonostante i più alti vertici istituzionali del Paese lo avessero guardato con particolare favore. Nonostante il governo avesse dato il suo parere favorevole. Nonostante ci fosse già un emendamento approvato nelle sedi parlamentari. La Scuola Normale di Pisa è una scuola, e, certo, è di Pisa. Il fatto che sia una scuola, che sia cioè una sede del sapere, chiamata a coltivare in autonomia la propria vocazione culturale, i propri indirizzi di ricerca, la propria missione formativa, è, però, passato in secondo piano. In primo piano è venuto il fatto che è di Pisa, che ha sede a Pisa, in piazza dei Cavalieri, e che dunque ne andava difesa la pisanità. L’autorità accademica ha dovuto piegarsi all’autorità politica, ma aggiungo: a un’autorità politica ripiegata su ragioni grettamente localistiche. Forse è più sensato dire che una politica senza un disegno strategico e un’idea di Paese ha prevalso rispetto a istanze di interesse generale, di più ampio respiro e di più larghe vedute. Così sappiamo una volta per tutte quanta miopia si nasconda nella paroletta “territorio”, quanto corto sia il suo raggio, e quanto slabbrato e sdrucito sia un Paese che si riduca alla somma particolaristica ed egoistica dei suoi territori. Peggio: che quella somma proprio non la riesce a fare.

E questo è l’altro punto dolente della storia. Da un lato c’è il colpo inferto al sistema universitario, alla sua autonomia, dall’altro c’è il colpo inferto al Paese. Non dico al Mezzogiorno, dico al Paese: alla sua capacità di fare sistema, di creare sinergie, di tenere insieme tutte le sue parti. Anche se il leghismo ha messo la sordina ai temi federalisti, è ancora molto lontano dall’indicare e perseguire una strategia di sviluppo per il Sud. L’unica strategia che si vede, sta nella ricerca di un’autonomia rafforzata da parte delle regioni settentrionali, Veneto in testa, che toglierebbe ulteriore terreno alla parte meridionale del Paese. Purtroppo, il fatto che, con l’eccezione di De Luca, non ci sia stata voce a Napoli che abbia sostenuto il progetto federiciano, mentre il sindaco pisano faceva fuoco e fiamme in Parlamento, è segno di quanto, in mezzo a professioni altisonanti di orgoglio partenopeo, i ripiegamenti in una dimensione localistica, o addirittura folcloristica, facciano danno anche da queste parti.

Infine. Qualcuno lo dica al sanguigno sindaco di Pisa che oggi celebra la sua vittoria per la città: la Normale non è come la pizza, perché la scienza non porta l’etichetta di indicazione geografica tipica, e non diminuisce se viene diffusa ma, anzi, aumenta. Aprire una sede a Napoli avrebbe dato lustro alla Scuola: non avrebbe tolto, avrebbe aggiunto. E non c’è stato chierico nel Medioevo, e studente in tempi moderni, così come non ci sarà “millennial” nel futuro che non amerà muoversi, spostarsi e scambiare esperienze, perché di queste cose è fatto il sapere.

(Il Mattino, 14 dicembre 2018)

Il sapere calpestato

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È o non è il governo del cambiamento? E allora, se è il governo del cambiamento, gli scienziati che siedono nel Consiglio superiore della sanità possono accomodarsi alla porta. Si cambia anche lì. È prerogativa del ministro della Salute, Giulia Grillo, nominare nuovi consiglieri? E allora la prerogativa viene esercitata, con o senza interlocuzione con la comunità scientifica (più senza che con, per la verità) e i vecchi consiglieri vanno a casa. Non diversamente il collega all’Istruzione, Bussetti, si era regolato con il Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, Battiston: fuori pure lui. Poi però il ministro doveva pensare al successore, e lì le cose si sono complicate alquanto, poiché, a detta degli esperti che lavoravano al bando, dal ministero si volevano allentare un po’ troppo i criteri per individuare il nuovo nome, e così sono fioccate le dimissioni. In blocco. Il governo del cambiamento da una parte, gli accademici da un’altra.

Qualche mese fa Davide Barillari, consigliere regionale pentastellato nel Lazio, nel bel mezzo della polemica sull’obbligatorietà dei vaccini, aveva posto retoricamente la domanda decisiva: «quando si è deciso che la scienza è più importante della politica?». Già, quando? Ora i ministri del nuovo governo stanno chiarendo il significato di quella domanda, e soprattutto le sue pratiche conseguenze. Se la scienza non può essere più importante della politica, ma deve essere a quella subordinata, allora il ministro esautora, nomina o estromette come meglio gli aggrada.

E può giustificare la decisione, al di là della sua legittimità formale, in nome della «scienza democratica» alla quale inneggiava Barillari. Ma la scienza – domando – è davvero democratica? Si vota forse a maggioranza, tra gli scienziati, cosa fa il neutrino, o cosa ti combina un farmaco? Evidentemente no. Perché non è affatto questione di chi sia più importante, se la politica o la scienza, ma, semmai, di quella distinzione che faceva già Aristotele, alle origini della politica occidentale, tra le cose sulle quali ha senso deliberare (e lì ne va della politica, evidentemente), e le cose su cui non ha alcun senso deliberare perché stanno come stanno, e non ci puoi fare niente (e lì è meglio che la politica resti fuori, sennò combina solo disastri). La modernità si è abituata a ritenere – credo proprio a ragion veduta – che in questo secondo genere di cose rientrino le risultanze scientifiche, sulle quali dunque la politica non ha, o non dovrebbe avere, nulla da dire (da decidere e da votare). E invece dall’omeopatia agli ogm, dalla Xylella ai vaccini, dalle malattie portate dagli immigrati ai dibattiti sulle fonti di energia, non sembra vi sia più alcuna questione su cui si possano esibire evidenze sperimentali, o anche solo qualche pacifico dato di fatto. Non siamo, del resto, nell’epoca dei fatti alternativi e della post-verità?

Alla modificazione della sfera pubblica, per cui oggi è possibile, nel mare magno della Rete, trovare conferma alla più strampalata delle teorie, si aggiungono, nel populismo che ci governa, un altro paio di ingredienti mica da poco. Il primo è una profonda sfiducia nei confronti di quel mondo istituzionale nel quale i nuovi governanti hanno messo piede per la prima volta. Non importanti quali istituzioni finiscano nel mirino: anche se si tratta di tecnici, di esperti, o di scienziati, lavorino all’Economia, alla Salute o all’Istruzione, parliamo di un personale che svolge anche compiti amministrativi e gestionali, consultivi e non solo, e di cui dunque si diffida in principio: sono Casta pure costoro, e nessun curriculum li proteggerà.

Il secondo è una evidente immaturità democratica, una chiara insofferenza nei confronti delle molte istanze che compongono il tessuto complesso di una società plurale. Nella semplificazione populista, chi detiene il potere politico decide: punto e basta. Vedersi opporre un «non si può fare» suona come un’intollerabile limitazione dell’esercizio democratico della sovranità. Anche se ad opporre un rifiuto è, a volte, la realtà stessa.

Poi, certo: c’è la debole cultura scientifica del nostro Paese. Ma per una volta eviterei di scomodare la polemica crociana sugli pseudoconcetti, o le tirate marxiste contro la scienza borghese, la presunta dittatura dell’idealismo o la cappa spiritualista della tradizione cattolica: sarebbe fare troppo onore a faccende molto più modeste, a volte persino penose. Se proprio si vogliono trovare radici, saranno in un certo ecologismo, in un certo anticapitalismo, e in una presunta democratizzazione delle competenze che ne produce, in realtà, l’azzeramento.

Ed è un peccato, perché tutto sta cambiando, e l’impatto delle tecnoscienze sulla vita umana, individuale e sociale, richiederebbe ben altra attenzione, da parte della politica e del mondo intellettuale. E invece, alla fin fine, siamo semplicemente alla sostituzione di tecnici e consiglieri, per ragioni di bottega, di consorterie e di camarille varie.

(Il Mattino, 5 dicembre 2018)

La pesca a strascico del sindaco equilibrista

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Il Natale: quando arriva, arriva. Ma con le scadenze elettorali è uguale: quando arrivano, arrivano pure quelle. La prima cosa la diceva Renato Pozzetto, in un fortunato spot pubblicitario; la seconda Luigi De Magistris, nel discorso tenuto ieri sul palco del teatro Italia, a Roma. Lì si trattava del panettone, qui di liste elettorali: non ci si può far trovare impreparati. Anche perché non ne arriva mica una sola, di scadenza: il prossimo anno ci sono le europee. Poi ci sono le regionali, l’anno successivo. Infine le comunali, l’anno dopo ancora. Il sindaco di Napoli coltiva grandi ambizioni. Il fatto che le ambizioni politiche non siano mai disgiunte da una sua personale ricandidatura non deve gettare un velo sul progetto: che è quello di aprire nientemeno che un «terzo spazio alternativo sia al blocco dell’austerity» sia «al governo del cambiamento in cui tanti non si ritrovano». Al centro di questo terzo spazio ci sarà ovviamente lui, De Magistris: le elezioni arrivano – dicevamo – e lui si candida. Non solo non ne fa mistero, ma offre la sua disponibilità un po’ a tutti. A pezzi di partito democratico, fuoriusciti convinti che il Pd sia ormai da buttare. Ai rimasugli della fallimentare esperienza del raggruppamento di LeU, nata dal tentativo di mettere assieme Sinistra italiana e Articolo 1-Mdp (il numero di sigle di cui occorre conservare memoria per ricostruire tutte le diaspore della sinistra è quasi pari ai voti raccolti). Ai comunisti non pentiti di Rifondazione comunista, che De Magistris gratifica alzando il pugno come ai vecchi tempi. E ai più scanzonati e ribelli di tutti, quelli di “Potere al popolo”: chi meglio di loro, visto che a Napoli De Magistris non si stanca di ripetere che il potere non ce l’ha mica lui, ce l’ha il popolo sovrano? Infine –  perché no? – a Yanis Varoufakis, che tifa Napoli e mangia mozzarella, e che con il suo Movimento Diem25 propone di dar vita a una lista transnazionale.

Non tutto fila liscio, però, nel terzo spazio: perché ci sono quelli che non ne vogliono sapere dei vecchi partiti, e quelli che dai vecchi partiti tuttavia provengono; c’è Potere al popolo che a Roma non c’è voluta nemmeno andare, e Rifondazione che invece ci va convintamente, senza però mettersi (o potersi mettere) in prima fila; e c’è Varoufakis che dice niente carrozzoni, venite con noi, e Dema che risponde picche, semmai è Varoufakis che deve andare con loro.

Insomma, le solite cose. Alcune frizioni verranno forse superate, altre no. L’entusiasmo comunque è tanto, e la strategia è chiara. La strategia del sindaco, beninteso. Che sa illustrare il vasto senso della politica europea: c’è un gruppo di Visegrad e un gruppo di Maastricht, e non si può stare né con gli uni né con gli altri. Che sa spiegare contro chi fare la campagna elettorale: contro i Cinquestelle responsabili di aver portato al governo «l’uomo più a destra di questo paese», cioè Salvini. Ma che soprattutto sa come saltellare fra un’elezione e l’altra.

Mossa numero uno: candidarsi alle elezioni europee in nome dei popoli, dell’uguaglianza, della giustizia e dell’amore (l’amore c’è sempre, nei discorsi di De Magistris). Mossa numero due: dopo l’auspicata elezione, tirarla per le lunghe e rimanere alla guida del Comune il tempo necessario per arrivare sino all’appuntamento successivo, quello delle Regionali, dove De Magistris ha già da tempo dato ad intendere che vuole correre. Ovviamente, è molto più comodo scendere in campo avendo già conquistato un seggio europeo. In quel modo, il sindaco di strada può mollare senza rischi la poltrona di Palazzo San Giacomo, tanto, male che vada, mossa numero tre: rimane disponibile il paracadute di Bruxelles.

Una simile sequenza di mosse deve presentarsi però in tutt’altra veste: come un grande movimento civico, come una rete ampia di comitati territoriali, come una nuova leva di movimenti e associazioni, come un effervescente protagonismo dei popoli europei, come una semina di idee, esperienze, testimonianze. Tutto quello che ci vuole per superare la soglia di sbarramento del 4%. Dopodiché la retorica tronituante della rivoluzione partenopea verrà messa al servizio dell’impresa successiva: Palazzo Santa Lucia. Di tutto il resto – la città di Napoli e la sua ordinaria e prosaica amministrazione – si parlerà un’altra volta.

(Il Mattino, 2 dicembre 2018)

Se l’Antimafia sospetta anche di se stessa

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Siamo tutti sospettati. Tutti. A dirlo non è l’incorruttibile avvocato di Arras, Maximilien François Marie Isidore de Robespierre, ma Nicola Morra, che da pochi giorni presiede non il grande Comitato di Salute Pubblica, bensì la Commissione antimafia del Parlamento italiano. Non siamo dunque in Francia, all’epoca della Rivoluzione, ma in Italia, sotto il governo del cambiamento. E il primo partito italiano, il Movimento Cinque Stelle, manda alla guida dell’Antimafia uno dei campioni di quella cultura giustizialista che ha trovato nei pentastellati la sua più piena e più convinta espressione politica.

E cosa fa, Nicola Morra? Si insedia, si guarda intorno, scorge fra i colleghi della Commissione la senatrice Sandra Lonardo, di Forza Italia, e prontamente dichiara: «Verrà registrato ogni eventuale tentativo di ostacolare il lavoro della Commissione. Abbiamo il dovere di garantire sempre la tutela nei confronti di chi è sospettato ma abbiamo parimenti il dovere di tutelare le ragioni dello Stato. Lo Stato siamo noi, e un po’ di sano egoismo in termini di prudenza preventiva non guasta». Compreso nel suo ruolo, il Presidente Morra sceglie di esprimere in una prosa piuttosto articolata, all’altezza del complesso mandato conferitogli dal Parlamento, una cosa per lui molto semplice: della Lonardo non c’è da fidarsi né poco né punto. La Commissione non ha ancora cominciato a lavorare ma lui già immagina che la senatrice possa mettere il bastone fra le ruote alla inflessibile voglia di pulizia che lo anima. Perciò la mette in guardia preventivamente: va bene, fino a prova contraria lei è innocente, ma lui è sospettoso lo stesso.

In verità il Presidente Morra non dice che lui ha la virtù di essere sospettoso, ma lascia intendere, più gravemente, che lei, la senatrice, ha addosso l’infamia di essere sospettata. Evidentemente si ricorda dei guai giudiziari in cui la Lonardo è incorsa. Solo che di quelle vicende lontane non ricorda la conclusione vicina: Sandra Lonardo è stata recentemente assolta da qualunque addebito. È finita, nel 2008, agli arresti domiciliari – e un governo della Repubblica è caduto a seguito di quell’arresto, per le dimissioni rese da Clemente Mastella, suo marito, all’epoca ministro Guardasigilli –; poi è andata sotto processo, mentre le indagini della magistratura facevano franare l’Udeur, il suo partito; infine è stata assolta. Con formula piena.

Sentito da «Il Foglio», e vistesi contestate quelle parole improvvide (per le quali la senatrice Lonardo ha subito preannunciato querela) il Presidente della «Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere» – un organismo che solo nel nostro Paese si può credere che debba essere eternato, istituito a ogni nuova legislatura e rinnovato nei secoli dei secoli, forse per timore che, non facendolo, si finirebbe immediatamente raggiunti dal sospetto di essere complici, conniventi o collusi con la malavita organizzata – il Presidente Morra, dicevo, ha provato a metterci una pezza. Ma la pezza, come spesso capita, è risultata peggiore del buco: «Non c’è alcun intento persecutorio – ha infatti aggiunto –; essendo stata assolta, è una senatrice che ha la stessa dignità e la stessa meritevolezza di essere attenzionata». La «meritevolezza di essere attenzionati» è un’altra intricata formula che il Presidente probabilmente usa in omaggio all’alto ruolo. Ma questa volta ha spiegato con chiarezza inequivoca cosa avesse banalmente in mente, e ha concluso: «Siamo tutti sospettati, a partire dal sottoscritto».

Eh, già. Perché Morra sa che nel Comitato di Salute Pubblica succedeva effettivamente qualcosa del genere, che gli implacabili commissari che sulla base di semplici sospetti mandavano sul patibolo i nemici della rivoluzione, presto o tardi finivano a loro volta per essere raggiunti dai sospetti, e fatti fuori.

Non è quello che auguriamo al Presidente Morra, naturalmente. Ma non è quello che auguriamo neppure agli italiani, di finire prigionieri di una stagione di sospetti, di accuse motivate solo sulla base di illazioni, di giudizi morali usati come clave per stigmatizzare gli avversari politici, di omaggi solo ipocriti alle garanzie di legge e ai diritti delle persone, accompagnate da campagne mediatiche che, nei fatti, quelle garanzie e quei diritti calpestano. Il Presidente Morra ha un ruolo delicatissimo, e una tribuna autorevolissima. La ponderatezza, la cautela, l’equilibrio gli saranno necessari. Se riuscisse a trattenere l’ansia di epurare che lo agita, mantenendo l’istituzione che guida entro l’alveo suo proprio, senza impancarsi a supremo giudice morale e senza immaginare di dover procedere alla disinfestazione del Paese o delle sue aule parlamentari, siamo sicuri che ne guadagneranno i lavori della Commissione, e l’Italia tutta.

(Il Mattino, 29 novembre 2018)

Se lo scacco non diventa mai matto

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Oggi tocca alla dodicesima, e ultima. Non era mai successo che il match per il titolo di campione mondiale di scacchi vedesse un simile equilibrio. Undici partite, tutte e undici terminate in parità. Se anche oggi finisse patta tra i due contendenti – il norvegese Magnus Carlsen, detentore del titolo, e l’italoamericano Fabiano Caruana, figlio di Santina, di Francavilla sul Sinni, provincia di Potenza, doppio passaporto ma nato e vissuto negli States (anche se per alcuni anni ha difeso i colori azzurri) – allora si andrebbe agli spareggi, partite a tempo breve fino all’Armageddon finale: 5 minuti al Bianco, 5 al Nero, e appena tre secondi di bonus per mossa.

Sergio Mariotti è sbottato: “Mi chiedo che tipo di match sia mai questo”. Lo si può capire: ai bei tempi Mariotti era soprannominato “The italian fury”, il primo italiano nella storia che si sia fregiato del titolo di Grande Maestro, mentre Caruana, di cui commenta le partite, non ha proprio l’aspetto, né il gioco, di uno scalmanato.

Anche per chi non ha mai giocato a scacchi, però, viene buona la domanda di Mariotti: a che gioco giocano gli scacchisti, nell’era dei superprogrammatori, quando ormai sono venti e più anni che il computer ha superato l’uomo? Perché si danno pena di stare ore e ore davanti ad una scacchiera? Perché non la fanno finita? Se poi si è in vena di filosofeggiare, ci si può anche domandare a che gioco giocano gli uomini, in generale, perché non la fanno finita pure loro con le mille preoccupazioni umane troppo umane che li affliggono quotidianamente, quando è evidente ormai che le macchine fanno tutto meglio, giocano meglio a scacchi ma sono più brave anche a pilotare un aereo o a stilare una diagnosi?

“Non c’è dubbio che gli algoritmi siano più saggi e più bravi di noi, quando si tratta di prendere una decisione”. Se lo dice Daniel Kahneman (su “La Stampa”), che la scienza delle decisioni l’ha rivoluzionata, c’è da credergli: “Quando fornisci gli stessi dati a un algoritmo e a un essere umano, nel 50% dei casi l’algoritmo dà la risposta giusta, negli altri c’è il pareggio, e in rarissime occasioni l’essere umano prevale”. A scacchi, c’è poco da fare, l’uomo non prevale. Il fatto che la vita non si giochi su una scacchiera lascia ancora qualche margine all’uomo. Ma, come mostra Kahneman, un margine molto piccolo.

Però quei due, che strano: continuano a giocare. A disputarsi la corona mondiale. Se poi siete norvegesi, allora aggiungete stranezza a stranezza. Perché quei due giocano, e voi rimanete per ore incollati davanti alla tv, per vedere il match in diretta: i commentatori in un riquadro e le telecamere sui volti dei campioni, a volte impassibili, altre volte invece preoccupati o contrariati. E ogni tanto un breve movimento del braccio. Una mossa: nient’altro. Segni astratti: pura arte concettuale.

Carlsen partiva da favorito, l’andamento del match ha minato qualche sua certezza. Caruana sfoggia una preparazione casalinga sulle aperture a dir poco granitica. Durante la nona partita ha difeso con grande precisione; durante la decima ha attaccato con grande coraggio: una Siciliana variante Svešhnikov: posizioni sbilanciate, attacchi sull’ala di Donna e controgioco sull’ala di Re, un finale complesso e incertezza fino all’ultimo sul risultato. L’undicesima è invece filata via senza grandi sussulti. E ora l’ultima, questo pomeriggio. Caruana gioca col Bianco, e deve decidere se rischiare, o finire agli spareggi rapid, dove si suppone che il campione in carica sia più forte di lui.

Gianni Brera diceva che lo 0-0 è il risultato perfetto in una partita di calcio. Lo stesso si può dire forse di una patta a scacchi. Ma di nuovo: perché seguirne le mosse, se da qualche parte, nei circuiti di qualche cervellone, il risultato sembra già scritto? Una risposta può essere: perché non è scritto per gli uomini, che non rinunciano affatto a scriverlo da sé, misurandosi gli uni contro gli altri, nello sport più violento che esista (Kasparov), in cui la tensione e la forza si esprimono nella forma più controllata e, perciò, più intensa e più bella possibile. Una bellezza che, forse, nell’epoca dei computer si tinge di malinconia romantica per quel che il gioco è stato, ma di cui in ogni caso il computer non sa nulla.

Se infine non siete norvegesi ma italiani, tifiate o no per Caruana sappiate che sabato scorso è cominciato il 78° campionato italiano assoluto, a Salerno. In una sala bianca come sul set di “2001 Odissea nello Spazio”, non c’è Hal 9000 ma sei scacchiere e dodici giocatori, alcuni giovanissimi: Luca Moroni, il detentore del titolo, ha 18 anni; il più giovane, Francesco Sonis, ne ha soltanto 16. E ci sono gli “anziani”, e anche la battaglia generazionale è una cosa che emoziona. Andrà avanti fino al 4 dicembre. Si può seguire in diretta, in rete, e c’è massima incertezza su chi lo vincerà.

(Il Mattino, 26 novembre 2018. Nel frattempo la dodicesima partita del match è finita in parità. Si va agli spareggi).

La politica ridotta alla caccia dei voti

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Dentro la diatriba sugli inceneritori, e se farli o non farli, ci sono: una questione ambientale, relativa all’inquinamento, a quello che si produce e a quello che eventualmente si riduce; una questione economica, relativa ai costi e ai benefici di nuovi impianti, ma anche ai costi che comuni e regioni sopportano attualmente; una questione energetica, relativa all’energia che un impianto consuma e a quella che invece si ottiene con esso; una questione temporale, relativa ai tempi di realizzazione di nuove strutture, e a quel che si fa nel frattempo; una questione culturale, relativa alle abitudini di produzione e acquisto di imprese e consumatori; una questione sociale, relativa alla logistica, alla presenza degli impianti su determinati territori, e dove più e dove meno; una questione criminale, relativa alle infiltrazioni malavitose nel settore. E poi naturalmente ci sono più generali profili di politica economica, di politica industriale, di tecnologie vecchie o nuove e di direttive e raccomandazioni dell’Unione europea. Infine, c’è una questione politico-ideologica. Anche l’ultima è ovviamente legittima: sono in gioco idee, appartenenze, storie, che si intrecciano con interessi, con forze sociali ed economiche, con responsabilità amministrative passate e recenti.

Ma quel che è un po’ meno legittimo, o almeno è francamente deludente in tutto questo bailamme quasi scoppiato all’improvviso, è che l’intera faccenda si riduca a un posizionamento elettorale in vista delle prossime elezioni europee: la Lega che tenta di insediarsi anche nel Mezzogiorno, i Cinque Stelle che difendono i loro maggiori bacini elettorali e intanto provano a rendere la pariglia al Nord, gettando tra i piedi degli alleati (pardon: contraenti) di governo i tredici inceneritori della Lombardia. Lì ce ne sarebbero troppi, secondo gli uni; qui ce ne sarebbero pochi, secondo gli altri. Ma di tutte quelle questioni legate insieme nessuno prova a riprendere il filo, a sostenerne la complessità e a misurarsi con le incombenze connesse. Il fatto è che a maggio si vota con il sistema proporzionale: ognuno corre da solo e Lega e Cinque Stelle pare al momento che debbano contendersi la palma di primo partito. A distanza di poco più di un anno dal voto del 4 marzo si tasterà il polso del Paese, si misureranno i rapporti di forza, si saprà se altri scenari, voti anticipati o ribaltoni, saranno possibili.

Non siamo ancora in dirittura d’arrivo, insomma, ma siamo già in campagna elettorale. I prossimi mesi saranno d’altra parte una sorta di stress test per l’economia italiana: per le previsioni del governo sulla crescita, per lo spread, per il sistema bancario. E conseguentemente anche per la tenuta della maggioranza. L’esito delle europee potrebbe fare da detonatore di tutte le piccole o grandi crisi finora avvertite nei rapporti fra leghisti e grillini, compreso il voto di ieri sera alla Camera, col governo battuto su un emendamento che ammorbidisce la disciplina del peculato, contenuta nel ddl anticorruzione. Una materia su cui i due partiti hanno già fatto scintille.

Comunque, al di là del merito dei più importanti provvedimenti sin qui annunciati, che la prossima legge di stabilità dovrà incardinare nel bilancio dello Stato, la domanda che rimane tuttora inevasa è proprio quella che riguarda l’orizzonte temporale delle misure che si intendono mettere in campo: la data di partenza e quella di arrivo. Il contratto sottoscritto da Salvini e Di Maio vale – si son detti i due – per una legislatura. Ma figuriamoci se in politica si possono scrivere oggi cose che debbono valere per cinque, lunghissimi anni. In ogni caso, i due vicepremier danno l’impressione esattamente contraria: di esser pronti a uno showdown anche domani, se fosse necessario. Se lo spread si impenna, se i mercati complottano, o se, più realisticamente, il voto europeo indicherà nuove, possibili vie.

Poi c’è il Mezzogiorno: è immaginabile che il futuro di questa terra sia affidabile ai sussulti di questa o quella polemica giornaliera? Certo in un giorno si può compiere una rivoluzione: ma solo sul piano linguistico. La terra dei fuochi può diventare d’incanto la terra dei cuori cambiando qualche sillaba (e – temo – pescando ancora una volta in qualche vecchio stereotipo sulla gente del Sud colma di grandi passioni), ma i nodi strutturali di un’economia in grave ritardo, e di una società fortemente indebolita, non possono essere aggrediti se non ci si proietta, nei provvedimenti e soprattutto nelle assunzioni di responsabilità politica, nella capacità di spiegarsi su tutte le questioni che si annodano insieme, assumendo un orizzonte temporale molto più ampio. E infine in decisioni di carattere strategico, che tutto possono essere meno che estemporanee, prese solo in vista del prossimo voto.

Altrimenti ci vuole un attimo, e invece di cuori si ricevono picche.

(Il Mattino, 21 novembre 2018)

Pd, lo stallo di un partito in eterna attesa

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Dal tavolo della presidenza, con voce calma Matteo Orfini chiede attenzione mentre illustra i passaggi che, a norma di statuto, debbono portare il Pd al congresso. La corsa verso l’elezione del futuro segretario comincia così, con il problema di catturare l’interesse di delegati svagati e anche un po’ annoiati.

Che l’assemblea nazionale dovesse solo celebrare il fischio d’inizio, e che dunque non si sarebbe andato oltre le previste formalità si sapeva. Ma, coi tempi che corrono, finisce che uno si chiede perché allora non limitarsi a un tweet. Twitta il presidente Trump, twitta Papa Francesco, twitta persino Giuseppe Conte, che certo non è il più appariscente dei premier: non avrebbe potuto sciogliere con un tweet l’assemblea nazionale del Pd anche il suo presidente, Orfini?

In realtà, i democratici tengono alla loro differenza: sono un partito, hanno uno statuto e degli organi elettivi, si riuniscono e discutono. Tutto molto apprezzabile e meritorio, di questi tempi, se però qualcosa della discussione in corso parlasse al Paese. Che così non sia lo ha riconosciuto anche il segretario uscente Martina, con molta onestà: «Tutti avvertiamo l’insufficienza del lavoro fatto sin qui». Ivi compresa – va aggiunto – quella dell’assemblea nella quale parlava. E forse va detto pure solo che tutti si chiedono anche quando sarà che la politica tornerà a gonfiare le vele del Pd.

C’è già stata, all’opposizione, una nave che rimase a lungo immobile in mezzo al mare: «Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca, sul mare liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per acchiappare qualche raro filo di vento». Settimane, mesi, anni: la nave rimane al largo, i marinai ripuliscono le spingarde e lavano il ponte, ma le vele continuano a «pendere flosce nell’aria senza vento». Quella nave era il PCI, e chi ne fece il racconto era Italo Calvino, che un mese dopo aver pubblicato quella parabola marinara, nel ’57, lasciò il partito, accusandolo di non riuscire a schiodarsi dagli ordini del suo capitano. Ma almeno lì il capitano era Togliatti, e muoversi voleva dire mollare l’Unione Sovietica e lo stalinismo. Oggi, invece, lo stallo dipende tutto da ragioni interne. Allora era una decisione strategica e una scelta di campo, oggi è un’indecisione e una difficoltà a tenere il campo, e nessuno capisce più per chi o per cosa bisogna navigare.

Le metafore restano metafore, ma un potenziale euristico ce l’hanno: qualcosa fanno vedere, e capire. Nelle ultime settimane ci sono state: le elezioni di midterm negli Stati Uniti, l’accordo Regno Unito-Unione europea e le susseguenti dimissioni di quattro ministri del gabinetto May; le lettere scambiate dal governo italiano con la Commissione, in un orizzonte sempre più chiuso alla trattativa fra Roma e Bruxelles. Nel mentre, la maggioranza non sembra più solida come all’inizio di questa esperienza, e le occasioni di conflitto fra Lega e Cinque Stelle si moltiplicano.

Tutto, insomma, sembra muoversi nel vasto mondo; quasi nulla nel Pd. Certo, c’è il nodo delle candidature, per cui si vivisezionano le parole di Minniti, che rinvia ancora l’annuncio della sua corsa alla segreteria, mentre Zingaretti cerca di sollecitare la più ampia partecipazione alle primarie togliendo di mezzo i due euro che ogni elettore è chiamato a versare per finanziare il partito. Fa notizia l’assenza di Renzi che ha scelto di non partecipare ai lavori dell’assemblea (vuol dire che prima o poi molla tutto e se ne va? Vuol dire che lui per primo a questa assemblea non crede?), e la delegata che vorrebbe mandare tutti i dirigenti a casa: una parte in commedia che, ormai, cambiano i nomi ma si trova sempre qualcuno disponibile a recitare in una riunione del Pd.

Che altro? Nient’altro. Quando il congresso sarà celebrato, sarà probabilmente trascorso un anno dal 4 marzo, e il Pd si sarà dunque preso tutto intero il suo anno sabbatico. Il fatto che subito dopo ci saranno le elezioni europee, e che non è detto affatto che il quadro politico rimarrà immutato, in Italia e in Europa, non sembra suggerire a nessuno dei suoi leader particolare fretta. Il paradosso è che per tutti i democrat di qualunque fede tendenza e orientamento le prossime elezioni hanno un significato epocale, sono le più importanti che si siano mai celebrate per il Parlamento di Strasburgo, sono da paragonarsi a quelle dell’aprile del ’48 in Italia (e poi – non dimentichiamolo! –  c’è il fascismo alle porte): com’è che allora si continuano a celebrare, in assemblee così pletoriche, riti così estenuati?

(Il Mattino, 18 novembre 2018)

Se la filosofia è più in crisi della politica

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«Una continua crisi di legittimità>: nelle pagine dell’ultimo libro di Donatella Di Cesare (Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, pp. 179 € 15), ne va del rapporto tra la filosofia e la politica, ma ancor prima è in questione lo statuto stesso della disciplina: è un sapere accademico, da dispensare nelle aule universitarie, così che la sua presenza nello spazio pubblico è superflua, ridicola o abusiva, oppure ha una vocazione intrinsecamente politica?

In effetti: se la filosofia è davvero una scienza, come la fisica o la biologia, perché il filosofo avrebbe più titolo d’altri di occuparsi delle vicende della polis? Certo, ci sono anche le scienze umane. Anche lo storico, il sociologo o l’economista insegnano all’università, adottano metodi scientifici e danno il loro contributo al dibattito pubblico. Ma a qual titolo? Su cosa è fondata la loro presa di parola? Se, in quanto scienziati, non si occupano che di «fatti», mentre come intellettuali preoccupati della cosa pubblica non fanno che formulare «opinioni», allora anche per loro si pone un evidente problema di legittimità: la veste di scienziati non va oltre i fatti che studiano e non è quindi in grado di dare fondamento alle opinioni che manifestano.

Si può far finta di non vedere il problema, ma nondimeno esso esiste, e rimane insolubile finché si sta irremovibilmente fermi a questa sacra divisione: da una parte i fatti, dall’altra le opinioni (mentre sotto i nostri occhi accade, per singolare contrappasso, che sempre più spesso le opinioni vengono maneggiate dalle scienze demoscopiche come meri fatti, e i fatti paiono evaporare in una nuvola di opinioni). Ora, la filosofia non ha proprio modo di esser praticata, se non è in grado perlomeno di revocare in dubbio una simile distinzione. Certo, per farlo ci vuole una buona dose di sfacciataggine. Si deve fare spazio a domande del tipo: «che cos’è un fatto?», o «che cos’è un’opinione?», domande che il buon senso, oggi populisticamente omaggiato persino dalle più alte cariche di governo, non sa proprio da che parte prendere, da dove cominciare. (Tutti abbiamo opinioni circa i fatti; quasi nessuno ha opinioni sulla natura delle opinioni, o su quella di un fatto).

Sono, in effetti, domande radicali: sono – come dice giustamente Donatella Di Cesare – le domande della filosofia. Domande «meta-fisiche»: domande che trascendono l’orizzonte della «fisica» (l’orizzonte dei fatti, degli enti: l’ontologia), senza peraltro trovar casa in un altro mondo (e quindi comodo albergo nella teologia). Domande che restano in sospeso, che smarginano il mondo dei fatti e spostano continuamente il confine tra idee e cose, tra quello che cade sotto i sensi e quello che viene al pensiero.

La filosofia è insomma, nella intensa ricostruzione che offre il libro della Di Cesare, «da sempre atopica», «altamente estraniante». Ed è grazie a questa sua problematica collocazione che può non semplicemente trovarsi fuori luogo, ma anche alludere – non più che alludere – a un luogo altro, a una costitutiva inappartenenza del filosofo alla città. E, oggi, contestare la pretesa della globalizzazione capitalistica di rappresentare l’unico orizzonte possibile della storia.

Una simile contestazione prende un chiaro significato politico. Inseguendolo lungo tutto il corso della storia la Di Cesare può comporre in un unico quadro i personaggi e i concetti che gli han dato figura. Compaiono così Eraclito, il primo interprete greco del conflitto politico (per Eraclito «è la città – sostiene la Di Cesare – il paradigma ermeneutico del mondo») e quell’uomo «impossibile da classificare» che fu Socrate. Compaiono soprattutto le «cesure» e i «traumi» del Novecento: il grande errore di Heidegger, che aderisce al nazionalsocialismo, e l’angelo di Benjamin, la «lotta per il risveglio dallo spazio collettivo» di quello straordinario interprete e critico della modernità che fu Walter Benjamin. A lui si deve l’immagine più bruciante che il libro lascia meditare: il filosofo come «stracciaiolo alle prime luci del giorno – all’alba della rivoluzione».

Impossibile, tuttavia, raccogliere qui tutti i fili che il libro intreccia. Due però imprimono un segno più marcato: uno è la critica delle forme politiche moderne: Stato, sovranità, democrazia, che Di Cesare ha già declinato nei suoi libri precedenti (in particolare in «Stranieri residenti», uscito lo scorso anno, in cui si vede quanto questa filosofia si faccia solidale con la condizione del migrante, dello straniero); l’altro è la polemica nei confronti di un’idea troppo rinunciataria della filosofia, «sempre più formale, sempre meno politica», che si contenta di farsi modesta «ancilla» della democrazia. Ma le responsabilità del pensiero sono altre, più grandi e più inquietanti: questo libro è stato scritto per provare a nuovamente suscitarle. E a combattere per esse. E, forse, questi nostri tempi sono effettivamente tempi di nuove battaglie intellettuali.

(Il Mattino, 15 novembre 2018)

La sinistra in sonno vera forza dei 5Stelle

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Forse il primo significato della piazza Si-Tav di Torino è: uno spazio per l’opposizione c’è. Ed è una buona notizia per la democrazia, che ha solo da guadagnarci se scopre di non essersi incamminata su una strada a senso unico. Poi però bisognerebbe subito correggersi, per mettere il verbo al condizionale. Ci sarebbe, lo spazio, se solo ci fosse un soggetto politico che avesse la forza e l’autorevolezza – ma forse si dovrebbe dire addirittura la voglia – di occuparlo.

E invece no: il Pd è alle prese con il congresso. Anche questa è una buona notizia: non sono molte le forze politiche, nel nostro Paese, che celebrano con una qualche regolarità le assisi congressuali. Ma che dal 4 marzo ad oggi non un solo voto pare essersi spostato verso il partito democratico qualcosa vorrà pur dire.

Lo smarrimento dopo una sconfitta imprevista nelle proporzioni? E sia. L’indispensabile dibattito interno? Vada per il dibattito interno. La crisi della sinistra in tutto l’orbe terracqueo? D’accordo, prendiamone atto. La luna di miele del governo con gli italiani? Se ne vede la fine, in realtà, ma va bene: mettiamoci pure quella. Nient’altro? L’invasione delle cavallette, no? Sta di fatto che per un motivo o per l’altro, o per tutti i motivi elencati messi insieme (comprese le cavallette), l’opposizione è ancora sotto la linea di galleggiamento, ancora percorsa da dubbi – esistenziali, prima che politici – ancora priva di voce riconoscibile. A non dire dei frantumi sparsi alla sinistra del Pd, tra una lista che si scinde e un’altra che scompare, senza aver lasciata traccia apparente.

Eppure di fieno da mettere in cascina ce ne sarebbe. La piazza gremita di folla di Torino, ma non solo: le contraddizioni, soprattutto in casa grillina, sono all’ordine del giorno. I Cinque stelle non si capisce più se siano o no una forza ambientalista. Il capitolo infrastrutture – dal crollo di Genova, alla Tap, alla Tav, alle Olimpiadi mancate – è tutta una sfilza di «vorrei ma non posso», di forbici che si aprono fra le promesse fatte (tante) e gli impegni mantenuti (pochi, molto pochi). Sugli altri capitoli del programma, che il Movimento ha innalzato come vessillo, prevalgono differimenti e ridimensionamenti. Il reddito di cittadinanza si farà, ma vai a capirne i contorni, le dimensioni, il funzionamento: tutto rimandato. La riforma della prescrizione si farà, ma se ne parla nel 2020, e di qui a quella data bisognerebbe fare una riforma del processo penale di cui non si è pensato ancora nulla. E via elencando: nessuno ha capito ancora dove questa maggioranza andrà a parare su temi sensibili come la scuola, il Mezzogiorno, la sanità. A non dire, infine, dell’Europa: oggi fioccano prudenti le rassicurazioni, ma fino a ieri, tutto al contrario, si ragionava impudentemente di possibili piani B.

Ma che vuol fare il Pd? Com’è possibile che non è in grado di intercettare e raccogliere malumori, malcontenti, delusioni? Come mai continua a subire l’agenda politica dettata dalla maggioranza? È tutta colpa delle incertezze sulla leadership, di Renzi se resta o se ne va, di Minniti se si candida o meno, di Zingaretti se tira fuori gli attributi oppure no?

In politica un fattore conta più di tutti: il fattore tempo. Sul tempo si misura il capitale di fiducia accordato dai cittadini. Con il voto, i cittadini concedono cinque anni alle forze politiche che vincono le elezioni. In realtà, quella è la durata della legislatura. Il più delle volte accade che i partiti consumino il tempo a loro disposizione ben prima della scadenza naturale; molto raramente riescono a proiettarsi in cicli più lunghi, tipo la Merkel. In Italia, la seconda Repubblica è stata anzi segnata da una profonda involuzione, resa evidente dalla rapida obsolescenza dei progetti politici che avrebbero dovuto animarne la vita e rinnovarne il respiro.

Ora è difficile dire se con il voto di marzo si è aperta davvero una nuova stagione, un nuovo tempo della politica, e se dunque l’investimento dei cittadini sulle forze di maggioranza si proietterà nel lungo periodo. Il fatto che le contraddizioni di cui i Cinque Stelle danno quotidianamente prova non procurino alcun vantaggio all’opposizione lo lascerebbe pensare, ma è presto per dirlo: si vedrà alle Europee, se ci saranno solo riequilibri fra le forze di governo o se le opposizioni sapranno rialzare la testa. Intanto però è chiara almeno una cosa, che il terreno sul quale il Pd e la sinistra dovrebbero portare la sfida non può non andar oltre le punzecchiature sulle sortite infelici di Di Maio o di Toninelli, oltre pure i giudizi caustici sull’incapacità e l’incompetenza. Serve un’idea: qualcosa che duri nel tempo e su cui qualcuno voglia insistere e investire per un tempo lungo. Serve, insomma, ripensarsi daccapo, uscir fuori dalle recriminazioni e riconnettersi in profondità con la società italiana. Tutto il resto – lo si vede, ahimè, tutti i giorni – ha veramente fatto il suo tempo.

(Il Mattino, 12 novembre 2018)