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Gli ultimi fuochi di una legislatura a luci e ombre

lorenzetti

Non è stata una legislatura buttata via, né forse il Paese se lo sarebbe mai potuto permettere. Ma le condizioni da cui ha preso le mosse non facevano certo sperare per il meglio, visto che dalle urne non era uscita alcuna maggioranza omogenea, e visto che nel Palazzo entravano per la prima volta, prendendo più voti di tutti gli altri partiti, i Cinquestelle, quelli che avrebbero voluto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno.

Si sono succeduti ben tre governi – Letta Renzi Gentiloni –, tutti a guida Pd, ma si sono dissolte, già nel 2013, le coalizioni che si erano formate prima del voto: subito è andata in fumo quella di centrosinistra, con Sinistra e Libertà che non è entrata nel governo di larghe intese guidato da Enrico Letta; qualche mese dopo è finito invece il Popolo della Libertà, con la decadenza dal Senato di Silvio Berlusconi, che esce dalla maggioranza, e la decisione di Angelino Alfano di continuare ad appoggiare il governo, dando vita al Nuovo Centrodestra.

L’altra, grande frattura si è prodotta sul finire dello scorso anno, con la sconfitta al referendum della riforma costituzionale fortemente voluta da Matteo Renzi. E avversata in misura abnorme da larghi settori del mondo politico e intellettuale come una involuzione autoritaria del sistema istituzionale. Anche l’Italicum – la legge elettorale presentata in “combinato disposto” con la riforma costituzionale – non è andato in porto, e al suo posto abbiamo oggi una legge, il Rosatellum, che ci restituisce il proporzionale senza però darci la cultura e i partiti politici che l’avevano degnamente interpretato nel corso della prima Repubblica: da questo punto di vista, la XVII legislatura lascia l’Italia in mezzo al guado, in un quadro politicamente pieno di incognite e senza chiare indicazioni sulla strada da intraprendere per dotare il Paese di un set di regole efficace e condiviso.

Il partito democratico ha portato, nel corso di questi anni, il peso principale dell’azione di governo. Per quasi tre anni, l’inquilino di Palazzo Chigi, Renzi, è stato anche il segretario del partito: una situazione che a sinistra non si era mai verificata. Di qui gran parte delle tensioni che hanno attraversato il campo del centrosinistra, fino alla scissione promossa da Bersani e D’Alema. Ne viene anche che il giudizio sulla legislatura è prevalentemente un giudizio sull’operato del governo Renzi, anche se il governo Gentiloni, con il calo crescente di popolarità di Renzi, ha guadagnato col passare tempo una sua propria fisionomia.

Con uno stile più morbido e meno battagliero del suo predecessore, Gentiloni ha proseguito in larga parte il lavoro del precedente Ministero – del quale è stato a lungo parte come ministro degli Esteri –, dando forse un segno più marcato soprattutto in fatto di politiche migratorie. Il ministro Minniti è riuscito a limitare il numero degli sbarchi, e a imporre una diversa attenzione al tema da parte dell’Unione Europea. Nell’ultimo scorcio di legislatura il Pd ha provato a far passare anche la legge sullo ius soli, ma non essendovi le condizioni politiche (per l’ostilità di Lega e Cinquestelle in particolare, e le forti perplessità degli alleati centristi) la legge non è passata. Un provvedimento del genere forse non poteva essere infilato nella coda della legislatura: resta però un punto discriminante tra le forze politiche e per il lavoro del prossimo Parlamento.

In tema di diritti, il centrosinistra ha portato a casa alcuni, rilevanti risultati: il biotestamento e la legge sulle unioni civili sono i più significativi, visto che se ne è cominciato a parlare diverse legislature fa. Materie a lungo e a tal punto controverse, che il centrodestra ha prontamente dichiarato di voler fare macchina indietro, qualora tornasse in futuro ad avere la maggioranza. Ma anche la legge sul dopo di noi, quella sul divorzio breve, o quella contro il caporalato meritano di essere ricordate.

Altri capitoli dell’attività di governo attirano un giudizio più contrastato. Due riforme hanno in particolare segnato la legislatura: il jobs act e la buona scuola, spesso finite al centro della discussione sull’operato dell’esecutivo Renzi.

L’intervento sul mercato del lavoro è stato il più incisivo che sulla materia sia stato attuato dai tempi della riforma del 1970. E i numeri sugli occupati danno ragione al governo. La battaglia sul jobs act ha assunto però un significato ideologico – pro o contro l’articolo 18 – a prescindere dall’obsolescenza del sistema delle tutele. La realtà è che difficilmente i futuri governi potranno ritornare allo status quo ante, al di là di dichiarazioni elettorali di facciata. È tuttavia rimasto incompleto il capitolo delle politiche attive sul lavoro, che questa legislatura lascia dunque in eredità alla prossima. In tema di politiche sociali va riconosciuto al governo Gentiloni di avere da ultimo introdotto il reddito di inclusione, destinato a persone in condizioni di povertà: l’italia era rimasto uno degli ultimi Paesi UE a non avere una misura di questo tipo.

Diverso il discorso sulla buona scuola. Sono stati fatti investimenti cospicui, sia in termini di edilizia scolastica che di nuove immissioni in ruolo, dopo anni di inerzia. Ma  l’architettura normativa è risultata fragile, e i punti qualificanti del progetto – dal ruolo dei dirigenti scolastici all’offerta formativa – non hanno dato affatto il segno di un cambiamento effettivo. L’attenzione riservata alla scuola si è così tradotta in un cumulo di polemiche su cose pensate in un modo e realizzate in un altro: vale per i meccanismi assunzionali e vale per l’alternanza scuola lavoro. La stessa cosa è successa nel mondo della ricerca e dell’università: una vera inversione di tendenza si è registrata solo nell’ultima legge di stabilità, che ha finalmente destinato nuovi fondi per il diritto allo studio e per nuovi ricercatori.

Capitolo giustizia. È stato approvato il nuovo codice dei reati ambientali, è stata riscritto il diritto fallimentare, è passata la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma i nodi principali sono ancora tutti lì: il ricorso abnorme alla custodia cautelare (nonostante le nuove disposizioni di legge), la piaga delle intercettazioni a strascico e la loro diffusione indiscriminata, l’allungamento dei tempi della prescrizione. Da ultimo la brutta pagina della riforma del codice antimafia, che contrasta apertamente lo spirito liberale e garantista con il quale il governo Renzi aveva inizialmente annunciato i suoi 12 punti di riforma sulla giustizia. Sul piano ordinamentale, poi, è rimasta al palo la riforma del Csm, e anche la responsabilità civile dei giudici, riformata, sembra lasciare sostanzialmente le cose come prima.

Sul versante della politica estera, l’Italia ha mantenuto immutati i suoi tradizionali riferimenti: più facile farlo ieri per la coppia Renzi-Gentiloni, che si confrontava con Obama alla Casa Bianca, che non oggi per Gentiloni-Alfano, che hanno come dirimpettaio Donald Trump. Ma è in Europa che l’Italia deve misurare la sua capacità di influenza. Il ruolo che il Paese può giocare dipende da una credibilità che ha in parte riconquistato, dopo il punto più basso toccato nel 2011, ma che in altra parte deve ancora riguadagnare, riuscendo a incidere su un rinnovato percorso di integrazione europea. La legislatura che verrà sarà decisiva per lo schieramento europeista, che non può contentarsi di sventolare bandiere ideali, ma dovrà offrire riposte effettive su tutti i terreni sui quali costruire una nuova identità europea, dalla difesa comune alle politiche fiscali alla riforma delle istituzioni europee.

La legislatura non è stata buttata via, dicevamo all’inizio. Qualcosa si è mosso, e le condizioni economiche in cui il governo Gentiloni lascia il Paese sono migliori di quelle in cui l’ha trovato il governo Letta, quasi cinque anni fa. La pubblica amministrazione rimane però una palla al piede del Paese, si è preferito sostenere la domanda interna con i bonus anziché elevare gli investimenti pubblici, e la spesa pubblica improduttiva continua a gravare sul Paese, nonostante la promessa spending review che doveva superare la filosofia dei tagli lineari.

Un bilancio sereno dovrebbe farsi su tutti questi terreni, ma è difficile che la campagna elettorale saprà offrircene l’occasione. La legislatura finisce con il tema banche sugli scudi, ma non per la (buona) riforma degli istituti popolari, bensì per le frequentazioni inopportune di Maria Elena Boschi. Se non è populismo questo.

(Il Mattino, 27 dicembre 2017)

 

 

 

 

 

 

Una crisi e cinque strade

cinque strade

Come andrà a finire? Renzi tornerà a Palazzo Chigi? O sarà la volta di Luigi Di Maio, un inedito assoluto per il nostro Paese? E se invece arrivasse prima la coalizione di centrodestra: a chi toccherebbe l’incarico di formare il governo? E se non si formerà alcuna maggioranza? Sarà il Presidente della Repubblica a tenere le redini della politica italiana, sostenendo un governo istituzionale che eviti un rapido ritorno alle urne? La scorsa legislatura viene concludendosi praticamente alla sua scadenza naturale, nonostante dal voto non fosse uscita, nel 2013, alcuna maggioranza omogenea. Succederà la stessa cosa? Oppure stiamo per entrare in un periodo di forte instabilità politica?

A nessuna di queste domande è possibile oggi dare risposta. Quel che si può fare, è indicare i possibili scenari che sono dinanzi al Paese. Quale di essi prenderà forma dipenderà certo dai risultati elettorali, ma non solo. Ci vogliono i numeri, ma anche la politica. Prendiamo il caso della Germania: a tre mesi dal voto, la Merkel non è ancora riuscita a formare il governo. Il suo 30% (più il 7% dei cristiano-sociali bavaresi) non fa maggioranza. L’ipotesi di una coalizione con Verdi e Liberali è fallita, e ora i popolari cercheranno di rifare la grande coalizione con i socialdemocratici di Martin Schulz, ma l’esito delle trattative non è affatto scontato. Nuove elezioni o governi di minoranza dalla corta prospettiva sono dietro l’angolo, mentre cresce in maniera inquietante il consenso all’estrema destra antieuropeista.

Le cose, qui in Italia, non è detto che vadano molto diversamente. Vediamo. Il primo scenario da considerare era considerato, fino a un anno fa, il più probabile: il partito democratico primo partito, Renzi alla guida del governo. Dalla sera del 4 dicembre ad oggi, questa ipotesi non ha fatto che calare in popolarità. Certo, gli italiani decidono in grande maggioranza cosa votare solo nei giorni immediatamente precedenti il voto, e già in passato si sono registrati significative variazioni percentuali significative durante la campagna elettorale. Diciamo allora che una cosa è presso che certa: la possibilità per Matteo Renzi di tornare a Palazzo Chigi è legata a questa unica ipotesi, che il Pd arrivi davanti a tutti. Se questo accadesse, è ragionevole pensare che una maggioranza si formerà, presumibilmente con gli alleati moderati e centristi con i quali il Pd ha governato in questa legislatura. Una eventuale vittoria di Renzi avrebbe un effetto anche sugli altri schieramenti: mentre infatti la Lega non ha alcuna intenzione di governare col Pd, Forza Italia è sicuramente più disponibile. Ma è possibile che voti in soccorso arrivino anche da sinistra, una volta che la vittoria di Renzi avrà sancito il fallimento del progetto di Liberi e Uguali, messo in piedi solo per offrire un’alternativa al Pd agli elettori di sinistra.

Se però il Pd finisce dietro, Renzi rischia di uscire definitivamente di scena, e la responsabilità di formare il governo spetterà ai Cinquestelle, o al centrodestra. Nel primo caso, l’unica cosa certa è che il candidato premier di un futuro governo pentastellato è solo uno: Luigi Di Maio. Non sono previste subordinate. Questo significa che eventuali trattative con altre forze politiche non riguarderebbero in ogni caso Palazzo Chigi. Ma, a parte questa, altre certezze non vi sono. Nessun sondaggio accredita la possibilità di un monocolore grillino: dunque Di Maio dovrà cercarsi i voti in Parlamento. Escluso che il partito democratico o Forza Italia possano dare il via libera a un governo guidato dall’attuale vicepresidente della Camera, rimangono due possibilità: che Di Maio vada al governo con i voti di Liberi e Uguali; che invece vi vada con i voti della Lega. La prima ipotesi è quella che Pierluigi Bersani sta provando a tenere al caldo. Da quelle parti, l’unica pregiudiziale, infatti, è verso Renzi: di tutto il resto si può discutere. La seconda ipotesi è quella che sembra di decifrare dietro cose come la decisione dei Cinquestelle di far mancare il numero legale sull’ultimo provvedimento al Senato: lo ius soli. È successo ieri. Lega (e centristi) hanno gradito, e un possibile terreno di intesa viene di fatto a consolidarsi.

Se sarà invece il centrodestra ad arrivare davanti a tutti, bisognerà anzitutto misurare i rapporti di forza interni alla coalizione. Certo, se i voti di Forza Italia, sommati a        quelli della Lega e di Fratelli d’Italia, fossero sufficienti, o quasi, il governo sarebbe cosa fatta (mentre è ancora tutto da fare il nome dell’eventuale premier). Più probabile è che però non raggiungano la maggioranza, e allora bisognerà trovare nuovi consensi. Se Forza Italia prende più voti della Lega (e più facilmente se lo scarto tra i due partiti è sufficientemente ampio), si può ipotizzare che nasca una grande coalizione anche da noi. Ma non è detto affatto che basterà sommare i voti di Forza Italia e Pd, e quasi sicuramente la Lega non sarebbe della partita. È già successo nel corso di questa legislatura: la Lega non è entrata nel governo Letta, che invece Forza Italia ha sostenuto. Se il pallino sarà nelle mani di Forza Italia, è però possibile che anche Liberi e Uguali sia della partita: dopotutto, è la formazione alla quale hanno aderito le più alte cariche dello Stato (un fatto privo di precedenti: che la Legislatura termini con i presidenti delle due Camere arruolati entrambi in una formazione di sinistra che non fa parte della coalizione di governo), e dunque si può ritenere che il senso di responsabilità istituzionale alla fine prevalga. Soprattutto se questo esito determinerà, com’è probabile, anche un cambio di segreteria nel partito democratico.

Resta ancora un altro scenario, che delineiamo per ultimo ma che non è affatto il meno probabile. Ed è lo scenario che si determinerà qualora nessuna delle ipotesi fin qui descritte prendesse sufficiente consistenza: che si fa se il Pd non sarà il primo partito, oppure se la grande coalizione non ha numeri sufficienti, o ancora se i Cinquestelle da soli non ce la fanno e se non trovano alleati con i quali governare? Che succede se il centrodestra si spacca, se il Pd implode, se la frammentazione non trova un punto di ricomposizione intorno a una formula sufficientemente autorevole, e se, più semplicemente, non ci sono i numeri per nessuna delle soluzioni prospettate? A quel punto, la fisarmonica della Presidenza della Repubblica, che nei periodi di stabilità può chiudersi, dovrà necessariamente riaprirsi, e il ruolo di Mattarella crescerà proporzionalmente al grado di difficoltà in cui si ritroverà il quadro politico. Si può cioè pensare che il Quirinale, prima di rassegnarsi a nuove elezioni, provi a dare l’incarico di formare il governo a qualche figura di particolare prestigio e autorevolezza (il futuro Presidente del Senato? Il governatore della Bce Draghi? Il Presidente della Corte Costituzionale Grossi?), capace di raccogliere in Parlamento un consenso sufficiente a far nascere un nuovo Esecutivo. Nel quale è possibile che non siedano esponenti politici – ed è la soluzione più probabile – o che invece i partiti siano rappresentati al più alto livello, in modo da garantire la tenuta del patto di governo – ma è la soluzione meno probabile. Un governo tecnico-istituzionale, che sarà (non è la prima volta) chiamato a “fare le riforme”. Quali poi siano le riforme in grado di far funzionare il sistema politico istituzionale non è più chiaro a nessuno, essendo naufragati tutti i precedenti tentativi di tirare il Paese fuori da questa infinita transizione.

Così succederà che il discrimine fra le forze politiche, in campagna elettorale, non corrisponderà alle vere linee del confronto politico, in Italia e altrove decise essenzialmente da due grandi questioni: il rapporto con l’Europa, e la questione migranti. Che il giorno dopo il voto si rimescolino le carte, è dunque più che probabile.

(Il Mattino, 24 dicembre 2017)

Intellettuali folgorati dai populisti

vanvera-pensa

Lo scollamento fra il sistema politico e il Paese sta tutto in un numero, che campeggiava ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera, in cima all’editoriale di Galli della Loggia. Il 58% degli italiani non si riconosce nei partiti che hanno governato il Paese durante tutto il corso della seconda Repubblica, di destra o di sinistra che fossero. Ora, quel numero è falso. O perlomeno: è frutto di una somma, di per sé discutibile, fra il tasso di affluenza previsto (non si sa da chi) alle elezioni politiche del prossimo anno, e le dimensioni del voto per i Cinquestelle (la cui stima viene affidata ai sondaggi, abbondantemente arrotondati per eccesso). Ci sono, in vero, modi intellettualmente molto più limpidi di schierare un giornale.

Ma non è ovviamente dei numeri e delle percentuali che vale la pena discutere, quanto piuttosto del ragionamento in cui vengono inseriti. Che è grosso modo il seguente: metà del Paese non ne può più di una classe dirigente sempre uguale a se stessa; il Movimento Cinquestelle non è un movimento eversivo, perché non usa le armi; dunque non c’è motivo – oppure: la classe politica italiana non offre alcun motivo – per non votare i Cinquestelle.

Se questo ragionamento è corretto, allora vuol dire che il Corriere della Sera, per mano di uno delle sue firme più prestigiose, non troverebbe molto da obiettare, e nulla da temere, da un voto che equivalesse semplicemente a un rifiuto, a una espressione di insofferenza, a un moto di rigetto. Come il protagonista del film “Quinto potere”, il commentatore televisivo Howard Beale, si tratta semplicemente di gridare a pieni polmoni: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più». In una maniera che ricorda per la verità altri tempi e altri regimi, Galli trova che l’unica cosa che resta da fare ai politici (a quelli che ci sono stati finora), è un atto di contrizione: fare pubblica ammenda, confessare i propri sbagli, e poi togliersi rapidamente di mezzo. E questo vale per tutti, senza distinzioni di sorta.

Nell’analisi di Galli non entra nient’altro: le posizioni europeiste o anti-europeiste di questa o quella forza politica, l’atlantismo o il putinismo, le politiche del lavoro o quelle migratorie, le posizioni nella materia dei diritti o la cultura (o piuttosto incultura) costituzionale. Non entra nulla, nessuna grande questione da cui invece dipende il futuro del nostro Paese. Il discrimine, lo spartiacque passa solo ed esclusivamente fra la classe politica che ha mal governato negli ultimi vent’anni da una parte, e dall’altra i Cinqustelle, che non avendo governato sono mondi da ogni responsabilità.

E non sono, per la fortuna di tutti, una forza eversiva. Inutile agitare spauracchi. Evidentemente basta questo, nel giudizio dell’editorialista del Corriere, per costruire attorno a Grillo e Di Maio il profilo di una forza affidabile, alla quale è possibile – e forse persino doveroso, visto il discredito di tutte le altre formazioni politiche – mettere nelle loro mani Palazzo Chigi.

Ora, è chiaro che non di eversione democratica si tratta, e salvo momenti di propaganda o di polemica spicciola, non c’è, seriamente parlando, nessuno il quale pensi che i grillini sono pronti a impugnare i fucili e a mettere le bombe. Si tratta però di populismo della più bell’acqua, a cui Galli della Loggia tiene disinvoltamente bordone. Non a caso, degli sforzi che pure i Cinquestelle fanno, per declinare un programma politico-elettorale e inventarsi un profilo di classe dirigente seria e preparata, nell’editoriale di Galli non c’è nessuna traccia. Nessuna proposta viene ripresa, e nessuna disamina viene condotta: ai Cinquestelle è sufficiente non esser compromessi con il passato, per meritarsi il 58% che Galli mette di fatto sotto le loro insegne. Come se non votare e votare per il M5S fossero la stessa cosa. Come se a non essere degni della fiducia di chi si astiene fossero tutti, meno però i grillini.

Ma mi sia permesso ancora un altro paio di osservazioni. Anzitutto, di prese di posizione così, di editoriali così se ne sono già visti, in questi anni. Articoli in cui si chiedeva di fare piazza pulita, mani pulite, tutto pulito, dopo i quali però i miracolosi cambiamenti che ci si attendeva dal repulisti non arrivavano mai. Non sono mai arrivati. Erano un inganno, oppure ci si ingannava: sta di fatto che purtroppo Galli della Loggia perpetua quell’inganno ancora oggi. In secondo luogo, è sorprendente che Galli non dia un minimo di prospettiva storica alle sue considerazioni, né provi a condurre un confronto con altri Paesi europei. Che per esempio hanno percentuali di affluenza al voto simile all’Italia, e in cui i meccanismi democratici rischiano di incepparsi come da noi. Lo stato di salute delle democrazie occidentali non è florido, ma che i Cinquestelle siano la cura miracolosa, invece che un’espressione della patologia del sistema, questo andrebbe forse argomentato con qualcosa di più di uno scoppio di insofferenza verso tutti gli altri.

E forse, a proposito di patologie, è da chiedersi se non sia in essa da comprendere anche una così desolante bancarotta di un pezzo del nostro ceto intellettuale, questa dichiarata volontà di fare le cose semplici, sostituendo a un’analisi politica circostanziata nient’altro che un gesto di impazienza. Non possiamo chiamarlo, con Gramsci, “sovversivismo delle classi dirigenti”, perché altrimenti Galli rispolvera il suo pezzo retorico sui Cinquestelle che non sono eversivi. Ma è qualcosa, tuttavia, che sul piano delle forme ideologiche e culturali gli somiglia molto, molto da vicino.

(Il Mattino, 27 novembre 2017)

Il piano B: fare da stampella a M5S

Sostegno

Fassino, il mediatore del Pd, ha confessato la sua impressione a denti stretti: Bersani e compagni vogliono tenersi le mani libere. La questione è molto meno programmatica che politica. Non si tratta di concedere qualcosa in più sulle pensioni o sul lavoro, di cambiare la legge di Stabilità o di votare il biotestamento, ma della volontà di valutare soltanto dopo il voto cosa fare. Non c’è dunque solo l’ostinazione, dietro l’indisponibilità di Mdp a esplorare concretamente la possibilità di un accordo con il Pd. Trasferire la politica sul lettino dello psicanalista, o farne una questione di caratteri, di personalità che non si “prendono”, non serve a gran che. Certo, ci sono molte cose che concorrono insieme, nella lacerazione apparentemente insanabile che si è prodotta a sinistra: lo stile leaderistico di Matteo Renzi, che dal giorno in cui ha preso le redini del Partito democratico ha lasciato assai poco spazio ai suoi avversari interni, ma anche la difficoltà, per gente come Bersani o D’Alema, a fare la minoranza dentro un partito (e una tradizione) del quale hanno sempre rappresentato il corpaccione centrale. Poi concorre il controsenso di mettere insieme, sotto elezioni, ciò che si è appena separato, ma anche una buona dose di risentimento, che probabilmente non manca in nessuno dei protagonisti coinvolti in questa vicenda. Ma esaurite le ragioni personali, le questioni di stile e le professioni di coerenza, resta un punto che è tutto politico: quello innanzi al quale i partiti sono posti da una legge elettorale che non predispone un meccanismo obbligato di formazione della maggioranza. Il che significa che si può andare in Parlamento e vedere lì, il giorno dopo il voto, da che parte voltarsi.

È già stato così, negli anni della prima Repubblica. Senonché da quegli anni ci distinguono un paio di cose: la distanza storica prodottasi dopo due decenni di spirito maggioritario (dico spirito, perché il sistema elettorale e istituzionale si è adeguato solo parzialmente), e soprattutto la diversa configurazione di un sistema dei partiti di ben altra solidità, che di fatto limitava le formule politiche sperimentabili in Parlamento. Oggi, la situazione è ben diversa. Se – com’è probabile – dalle urne non uscirà una coalizione vincente, potrà accadere di tutto: che si formi una grande coalizione fra il Pd e il centrodestra, o con Forza Italia senza la Lega; che si formi una coalizione fra il Pd e le formazioni alla sua sinistra; che le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra si scompaginino e si formi una specie di “coalizione nazionale”, pur di evitare nuove elezioni; che vadano al governo i Cinquestelle con l’appoggio esterno della Lega; che vadano al governo i Cinquestelle con l’appoggio esterno della sinistra; che più d’una di queste soluzioni vengano tentate nel corso della legislatura grazie a soluzioni tecnico-istituzionali e/o provvidenziali cambi di casacca.

In queste condizioni, per Mdp, che ha scritto nel suo atto di nascita la volontà di infliggere un ridimensionamento al partito democratico, non c’è motivo per trovare un’intesa con Renzi. L’obiezione: così si fa vincere il centrodestra non ha molta presa, perché Mdp punta piuttosto sulla non vittoria di tutti, nessuno escluso.

Bersani del resto, sa cos’è una non vittoria: è in questi termini che valutò infatti il risultato nel 2013. E per la verità sembra adesso che si avvii ad interpretarlo proprio come provò a fare allora, quando accettò l’infausto streaming con i Cinquestelle pur di ottenere il lasciapassare alla formazione di un governo di minoranza. Ora le parti sarebbero rovesciate, e chissà se Di Maio ci regalerebbe uno streaming con Bersani (o con Speranza) per avere lui il via libera, nel caso in cui i Cinquestelle fossero il primo partito. Ma quel che però rimane costante, in questa ipotesi come nell’altra, è il dato di subalternità di questo pezzo della sinistra storica. Non una dimostrazione di intelligente pragmatismo, ma una prova di disarmante arrendevolezza. Nel 2013 mancò del tutto la capacità di vedere l’evidenza: che un partito entrato in Parlamento a colpi di vaffa day, con il proposito di aprirlo come una scatoletta di tonno, non avrebbe mai compiuto la trasformazione in una forza di governo nel giro di 24 ore, né avrebbe mai potuto accettare di fare lo junior partner del Pd.  Oggi, manca altrettanto la capacità di leggere le conseguenze di un accordo coi Cinquestelle da posizioni di minoranza: la consumazione delle sue residue ragioni, in cui si brucerebbe definitivamente ogni ambizione di autonomia politica e culturale.

E però Mdp continua ad avere in testa due linee. Una dichiarata: tocca a noi recuperare i voti che a sinistra finiscono nell’astensione; l’altra taciuta, inconfessabile e sconsolata: non tocca a noi, non è toccato a noi, ma casomai ai Cinquestelle. Rivendicando la prima idea pensa ancora di poter dimostrare a Renzi che ha preso la strada sbagliata, e al Pd che deve fare macchina indietro e mollare Renzi. Coltivando la seconda, è a un passo dallo sbaraccare definitivamente il campo. Finché tiene alla prima, accusa il Pd di imitare, nelle politiche, il centrodestra; trafficando con la seconda, finisce con l’ammettere di essere pronto se non a imitare, certo a farsi accompagnare con le dande da Grillo e Di Maio, e a conferire loro i pochi voti rimastigli.

(Il Mattino, 23 novembre 2017)

La sinistra rissosa in cerca d’autore

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Il fuoco di sbarramento contro l’iniziativa presa dal partito democratico dopo l’ultima direzione si è alzato subito, appena la proposta ha cominciato ad assumere qualche consistenza. È bastato che andasse bene l’incontro fra il mediatore del Pd, Piero Fassino, e Giuliano Pisapia, e che quest’ultimo rendesse noto l’incoraggiamento ricevuto da Romano Prodi, perché dall’altra parte della barricata si sentissero le voci in dissenso di Mdp e di Sinistra Italiana. Per loro, la partita è chiusa e non c’è appello all’unità che tenga. Nessuna preoccupazione per una vittoria del centrodestra può giustificare la fine delle ostilità con il Pd. E non basta neppure mettere a verbale che non c’è alcun premier in pectore della costruenda coalizione per indurre i fuoriusciti del Pd, e le altre formazioni di sinistra, a trovare un accordo prima del voto.

Dopo il voto, casomai: così ha lasciato intendere Bersani, invitando a leggere la legge elettorale. «Non vince nessuno, ci si ritrova comunque in Parlamento», ha detto. Ed è una dichiarazione per un verso banale, ma per altro verso rivelativa. Banale in primo luogo, perché fotografa una realtà a tutti nota: la probabilità che in Parlamento arrivi una maggioranza autosufficiente, omogenea e coesa è molto bassa, per non dire nulla. La spinta a convergere su candidati comuni nei collegi uninominali è, così, troppo debole, mentre è più allettante la prospettiva di avere un peso determinante nei complicati giochi parlamentari che seguiranno, compreso un’eventuale governo a cinque stelle. Ma la dichiarazione è anche rivelativa di una collocazione tattica, cioè semplicemente temporanea, di qui alle elezioni, da parte di Bersani e compagni. Come, del resto, potrebbe essere altrimenti? Salvo ragioni anagrafiche (che valgono per i più giovani) a guidare Mdp ci sono quelli che hanno votato le riforme del lavoro, dal pacchetto Treu al Jobs Act, le riforme delle pensioni, da Lamberto Dini alla Fornero, il pareggio in bilancio in Costituzione e le politiche di austerità del governo Monti. A occhio e croce: una ventina d’anni. Che ora trovino motivi per essere assolutamente intransigenti e considerino per esempio di non poter votare la legge di bilancio firmata da Gentiloni: questo si può spiegare non certo in ragione di una profonda revisione ideologica e programmatica – che nessuno si è accorto essere stata condotta, in questi ultimi mesi – ma semplicemente in ragione di un’esigenza contingente, quella di superare il Pd renziano. Per la qual cosa non bastano certo i tentativi di appeasement di Fassino, e i distinguo della minoranza guidata da Orlando: ci vuole il passaggio sacrificale della sconfitta alle elezioni.

La cosa è così chiara, che quel che è da chiedersi è, se mai, perché il Pd si ostini comunque a cercare un’intesa a sinistra. Io direi che valgono tre considerazioni. La prima è anch’essa banale: non sposterà molto in termini di consenso, ma al Pd conviene rendere evidente che a rifiutare ogni appello all’unità sono quelli di Mdp. La seconda considerazione è che, in uno schema a prevalenza proporzionale, disporre di un ‘marchio’ di sinistra significa comunque ampliare l’offerta. Metterla in termini di marchio è sgradevole e persino ingeneroso, ma è per dire che anche da questo lato della barricata vi possono essere ragioni puramente tattiche per portare avanti il tentativo. Infine, non c’è dubbio che l’eventuale riduzione della conflittualità a sinistra può servire almeno a rendere un po’ più evidente il profilo politico che il partito democratico intende assumere, un profilo oggi oscurato da una nuvolaglia di parole spese in discussioni totalmente improduttive.

Dopodiché, però, resta appunto il compito di determinare questo profilo in maniera chiara e incisiva. Marco Damilano, neo-direttore de «L’Espresso», nel novero dei fatti respingenti che tengono lontano dalle urne l’elettorato di sinistra, insieme agli scontri, alle divisioni, ai risentimenti, ai partitini improvvisati e ai veti incrociati, ha messo pure le manovre di Renzi «che dopo una legislatura tutta giocata su una strategia di raccolta di voti centristi, moderati, post-berlusconiani, a poche settimane dal voto si converte alle alleanze a sinistra». Difficile dargli torto. Queste conversioni dell’ultimora ben difficilmente riescono vincenti. Ma soprattutto contraddicono l’idea che Renzi aveva provato a dare di sé, come del leader che fa una cosa nuova, e che non cancella certo ma ridetermina i tratti di una sinistra riformista. Del resto, quale partito, avendo governato per cinque anni, ha mai vinto le elezioni senza rivendicare i risultati di una legislatura? Per farsi di nuovo capire dal Paese, fare la faccia contrita – come chiedono Speranza, Bersani e gli altri – non serve a nulla, mentre può servire qualcosa spiegare in quale direzione si vuol cambiare il Paese.

(Il Mattino, 20 novembre 2017)

E’ partito l’avviso di sfratto

Messerschmidt

Mozione di sfiducia per Luigi De Magistris. Firmata: Roberto Fico, Matteo Brambilla e il Movimento Cinquestelle. Dunque i grillini provano a fare sul serio anche a Napoli. E battono il loro primo colpo, da quando sono presenti in città, nel momento in cui massima è la difficoltà del sindaco di Napoli, e massima è anche l’eco del voto siciliano. Ci sono già state, è vero, le vittorie di Roma e Torino, ma quelle esperienze amministrative non hanno finora dato motivi di lustro particolari. La Raggi, a Roma, si sta rivelando un fallimento, e anche la Appendino, a Torino, dopo i primi mesi di luna di miele, comincia a sentire la fatica dell’amministrazione. Meglio dunque mettersi in scia del successo nell’isola. Anche se infatti è stato il centrodestra a spuntarla, il sentiment – come oggi si dice – è positivo e la sensazione che la ruota giri a favore dei Cinquesteĺle è forte.

Così, dopo anni di appeasement, anni in cui non si capiva se i grillini potevano considerarsi una proiezione nazionale degli umori espressi a Napoli da De Magistris, o viceversa De Magistris un precipitato locale di un fenomeno di rigetto della politica tradizionale già diffuso su scala nazionale, le cose sono infine venute a un chiarimento: Fico vuole candidarsi a sindaco di Napoli, i Cinquestelle non possono più accontentarsi di andare in scia. In realtà non era vera né l’una né l’altra cosa, Dema e Cinquestelle non sono sovrapponibili. Ma è chiaro che – date pure tutte le differenze – non possono esserci a Napoli due movimenti antisistema, due movimenti populisti, due formazioni in lotta contro tutti e tutto.

Il dado, dunque, è tratto. E il salto da Brambilla a Fico, quanto a peso politico, non è piccolo: nel 2016, il Movimento ebbe la bella idea di candidare contro De Magistris un volenteroso attivista, dal cognome inconfondibilmente settentrionale, oltretutto tifoso juventino: non proprio una scelta aggressiva. Così come non è stata finora aggressiva la condotta in consiglio comunale. Ma ora lo scenario è cambiato, il Movimento Cinque Stelle è il primo partito d’Italia, e a Napoli – ha spiegato Fico – «c’è la possibilità che la giunta salti». Bisogna allora farsi trovare pronti. L’annuncio di ieri, con la presentazione di una mozione di sfiducia per le condizioni in cui si trova il bilancio cittadino, e la richiesta di una «operazione trasparenza a salvaguardia del Comune e di tutti i cittadini napoletani» segna l’inizio delle ostilità.

De Magistris ha reagito abbozzando, provando a smorzare il significato dell’iniziativa, giudicando legittimo che una forza politica di opposizione «in un momento difficile per la città, provi a dare una spallata a sindaco». Il fatto è che per la città è un momento difficile, ma pure per il suo sindaco. Che avverte segni di scollamento nella sua maggioranza. Che intanto cerca di costruirsi un futuro politico oltre l’esperienza municipale. E che soprattutto si trova in una difficilissima impasse: ad ogni passo che fa in cerca di una soluzione istituzionale alle difficoltà amministrative e di bilancio in cui versa il Comune di Napoli, più fortemente sente l’insofferenza di un pezzo dei movimenti. E se viceversa continua a giocare alla rivoluzione, reclutando su Facebook «i combattenti nell’esercito popolare di lotta per i beni comuni», sente che gli si fa il vuoto istituzionale intorno. Ma quanto a lungo può funzionare scomodare la Costituzione e le lotte di popolo per l’accordo sul trasporto pubblico? Più alzi i toni, più in realtà misuri lo scollamento dalle fatiche quotidiane della città. Più ci dai dentro con la retorica, più dimostri tutta la stanchezza e l’affanno amministrativo.

Buon ultimi, i Cinquestelle si sono dunque messi a fare opposizione. L’onesto Brambilla rimane lì, a fare la sua figura da comprimario, e intanto scende in campo Roberto Fico (a cui peraltro Di Maio ha sbarrato la strada sul piano nazionale). Se le cose in tutta Italia arridono al movimento, perché Napoli dovrebbe fare eccezione? Finora, il solo motivo era rappresentato proprio dalla bandana di De Magistris. Se il vuoto della politica perdura, dopo l’arancione, non è forse possibile che invece dell’azzurro del centrodestra, o del rosso del centrosinistra, si arrivi al giallo limone dei grillini?

(Il Mattino, 7 novembre 2017)

Sicilia, un test per l’Italia

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Musumeci, Cancelleri, Micari, Fava: quattro nomi per quattro storie politiche e personali molto diverse le une dalle altre. Non è facile immaginare come si comporrà il puzzle siciliano all’indomani del voto. Ma le domande che alla viglia bisogna farsi sono queste:

Chi vincerà?

I sondaggi non lasciano adito a dubbi: la partita è fra Musumeci e Cancelleri, centrodestra e Cinquestelle. Finché sono stati diffusi, i sondaggi hanno sempre dato in vantaggio il candidato di Meloni, Salvini e Berlusconi, anche se i rumors dicono oggi che le distanze si sono accorciate. Nel centrosinistra si gioca una partita diversa: Micari, il candidato renziano, non ha possibilità di arrivare davanti agli altri due, ma deve assolutamente lasciarsi alle spalle il candidato della sinistra, Claudio Fava. Un risultato diverso equivarrebbe per il centrosinistra al rompete le righe.

Chi governerà?

Se la vittoria è una partita a due, più complicata è la partita per il governo della regione. La legge elettorale assegna infatti un piccolo premio di maggioranza, con ogni probabilità insufficiente ad assicurare ad uno schieramento una navigazione tranquilla nell’Ars, l’assemblea regionale siciliana. Le elezioni rischiano perciò di aprire una stagione di ingovernabilità, e invero non solo per via di un sistema proporzionale e di un premio che non è «majority assuring», ma anche perché la fine del bipolarismo costringe i diversi schieramenti a immaginare accordi «contro natura». Dopo il voto, se dovesse toccare al centrodestra la presidenza della regione, e se la sua maggioranza non fosse autosufficiente, Musumeci si rivolgerà al Pd? E riuscirà a tenere insieme tutti i pezzi della sua coalizione, aprendo verso il centro e la sinistra? Stessa domanda per Cancelleri: detto che è quasi impossibile che arrivi a quota 36 seggi, a chi chiederà una mano per governare? Lui, che ha il profilo del grillino di sinistra, avrà un lasciapassare dalle liste che si raccolgono intorno a Fava? Basterà? Bisogna ipotizzare governi di minoranza? E con quale capacità di fare, su basi politiche così fragili, la rivoluzione promessa? Il rischio è la paralisi, che la Regione Sicilia può correre proprio quando ci vorrebbe il massimo di forza politica per affrontare una situazione della cosa pubblica drammatica, prossima al fallimento.

Qual è lo stato di salute del centrodestra siciliano?

In regime di elezione diretta del Presidente, in Sicilia il centrodestra ha governato prima con Cuffaro e poi con Lombardo per oltre un decennio, fino alla clamorosa vittoria di Rosario Crocetta. Ma la vittoria di Crocetta è stata anzitutto il harakiri del centrodestra, che alle scorse elezioni si presentò spaccato in due: da una parte il «Grande Sud» di Gianfranco Micciché, dall’altra il Popolo della Libertà con Musumeci. Insieme, le due metà del centrodestra sfiorarono il 45%. Crocetta divenne presidente della Regione con poco più del 30% (di qui la gran parte dei problemi di tenuta della sua esperienza di governo). Questa volta invece a Musumeci è riuscito di avere tutti con sé (con Miccicché nel listino del Presidente), e anzi di rosicchiare anche parte del consenso centrista e moderato che nel 2012 aveva scelto Crocetta. Merito suo, e demerito del centrosinistra siciliano. Ma merito soprattutto del mutato quadro nazionale, che spinge in direzione di una ricomposizione fra forze che fino a ieri sembravano marciare lungo traiettorie incompatibili.

Qual è lo stato di salute del centrosinistra siciliano?

Crocetta: il megafono. La sua lista si presentava, nel 2012, addirittura con un simbolo grillino: la voce della gente, il populismo e l’onestà. Dopodiché però il governo regionale è un’altra cosa, e la voce di quel megafono si è fatta però sempre più fioca. I magri risultati e l’usura politica della frastagliata coalizione che lo ha sostenuto lo hanno messo fuori gioco. Preso atto della situazione, Crocetta ha accettato di farsi da parte. Ormai in prossimità della sconfitta, il centrosinistra ha fatto un passo indietro, indicando un candidato della società civile, il rettore dell’Università di Palermo Micari, sponsorizzato in primis dal sindaco del capoluogo, Leoluca Orlando. Una mossa simile è stata fatta in realtà dal Pd più volte in questi anni, in giro per l’Italia: supplenze e surroghe in attesa di tempi migliori. Civismo per deficit di politica. Per giunta, questa volta è mancato anche un forte impegno dei vertici nazionali: sfida dal sapore regionale, ha detto Renzi, che ha evitato i comizi finali. Ma circoscrivere il significato del voto siciliano non sarà facile, soprattutto se Fava, il candidato di tutto quello che c’è alla sinistra del Pd, dovesse arrivare davanti a Micari. Fava, politico di lungo corso, era già candidato nel 2012: poi il pasticcio della mancata residenza in Sicilia lo costrinse a mollare. Le liste che portavano il suo nome ottennero un misero 6%. Qualunque risultato a doppia cifra sarebbe ovviamente un buon successo, e potrebbe avere un peso nel determinare i futuri equilibri in seno all’Ars. Se poi arrivasse davvero più su del candidato piddino, allora rischierebbe di scatenare il big bang del centrosinistra.

Qual è lo stato di salute dei Cinquestelle?

Cancelleri sembra avere il vento in poppa. Ogni tanto capita un incidente: le firme false, le espulsioni e i ricorsi, l’assessore in pectore che vuol bruciare vivo il capogruppo Pd Rosato e così via. Quisquilie, quinzillacchere. Questi infortuni non sembrano costituire vere pietre d’inciampo per il popolo grillino, che marcia unito in vista del voto, consapevole dell’importanza della posta in palio. I problemi se mai verranno dopo, se si dovesse vincere, ma le elezioni nazionali sono così vicine che l’unico riflesso che si potrà registrare a Roma sarà la crescita del Movimento. Cancelleri potrà forse diventare una nuova Raggi, prigioniero di una situazione prossima all’ingovernabilità, ma non è cosa di cui il Movimento ha da preoccuparsi di qui alla primavera prossima. Perciò Di Maio e Di Battista hanno più di tutti gli altri leader nazionali attraversato volentieri lo Stretto. Non a nuoto, come Grillo la volta scorsa, ma con un investimento politico altrettanto forte.

Quali indicazioni per la politica nazionale?

Primo: il voto in Sicilia aiuterà a capire se la ritrovata unità del centrodestra è qualcosa in più di una risorsa elettorale. Berlusconi, Meloni e Salvini hanno cenato insieme, ma hanno tenuto comizi separati. Arancini sì, strette di mano in favore di pubblico ancora no. La linea di Salvini continua in effetti ad essere incompatibile con prospettive di appeasement con il centrosinistra, o anche solo con i pezzi del moderatismo centrista che in Sicilia contano pur qualcosa. Bisognerà vedere se un eventuale successo elettorale darà o no un’ultima spinta all’accordo nazionale. Secondo: se sarà Presidente Cancelleri, sarà interessante capire con chi cercherà di formare il governo. Il voto siciliano diventerebbe infatti la prima prova di un governo Cinquestelle non monocolore. Sia il Pd che, soprattutto, la sinistra, potrebbero essere tentati di dare una mano per contenere la destra. Senza dire dei fenomeni trasformistici che in Sicilia sono pane quotidiano. Anche quello sarà un terreno di prova: prevarrà l’intransigenza morale o il realismo politico? Comunque vada, è chiaro che la Sicilia farà per prima l’esperienza delle enormi difficoltà del tri- o quadripolarismo italiano.

Quali ripercussioni in casa Pd?

Mentre le altre forze politiche non hanno al momento grossi problemi interni, perché le relative leadership non sono in discussione, in casa democrat non si perde occasione per riproporre il tema: nonostante il congresso, nonostante le primarie. Per la verità è così fin dalla fondazione del Pd: sia Veltroni (da D’Alema) che Bersani (da Renzi) che da ultimo Renzi (prima da D’Alema e Bersani, ora da Orlando e Franceschini) han dovuto misurarsi con un lavorìo di logoramento iniziato fin dal giorno del loro insediamento. Per Renzi, quel lavorìo è cresciuto di intensità dopo la sconfitta referendaria. Una debacle in Sicilia sarebbe il segnale per un nuovo assalto. E rinfocolerebbe i propositi di chi ne trarrebbe dimostrazione per allargare a sinistra la coalizione nazionale. Sacrificando Renzi. Orlando, leader della minoranza, lo ha detto fin d’ora: prima il voto in Sicilia, poi il candidato premier. Ha così legato le due cose che Renzi invece tiene separate. Sarà il voto di domenica a decidere se prevarrà una linea o l’altra: se il centrosinistra ne uscirà politicamente indenne, o se le urne siciliane ne determineranno l’ennesima trasformazione.

(Il Mattino, 4 novembre 2017)

Il dilemma dei candidati al Sud

Testo 3

Discutere del programma – ha detto ieri il premier Gentiloni, seduto a fianco a Renzi sul treno del Pd: la pace è fatta – è un modo di discutere come presentarsi alle prossime sfide elettorali. Ed è sicuramente questa la vera discussione, che terrà banco nelle prossime settimane. Solo che riguarderà il profilo programmatico, che il Pd ha cominciato ad elaborare nel weekend di Pietrarsa, ma anche il più complicato risiko delle liste e dei candidati. E se non disponi della retorica a cinquestelle – sul garante che tutto infallibilmente sovrintende, sui candidati freschi e immacolati scelti dalla Rete, oppure sugli inflessibili contratti a prova di inciucio ai quali vincolare i futuri “portavoce” del Movimento –, se, soprattutto, devi andare contro il vento dell’antipolitica che diffida per principio di tutto ciò che sa di partito, allora non hai un compito facile.

In casa democrat hanno insomma i loro problemi, e la richiesta di Vincenzo De Luca, ieri, li ha evidenziati tutti. Con il Rosatellum, da un lato tornano i candidati uninominali; dall’altro ci sono liste bloccate. La qualità della rappresentanza politica è per questo affidata ancora una volta alle segreterie di partito. Quelli che: la preferenza è l’unico metodo dignitoso di selezione delle candidature storcono il naso. Ma siccome l’assunto non è vero – come dimostra il confronto con gli altri paesi europei – e siccome la legge ormai c’è (ed è difficile dire che era migliore quella di prima), meglio è fare bene il lavoro di composizione delle liste.

Qui sono cadute le parole del governatore: «si tengano presenti più i curricola dei candidati che i loro tutori politici delle diverse correnti di partito». Il ragionamento di De Luca è semplice: se passa l’idea che le liste del Pd sono fatte col manuale Cencelli; se le candidature recano troppo evidente il segno della sponsorizzazione politica del capocorrente, e nessun altro segno, allora si va a sbattere. Se invece si riuscirà a trasmettere il senso di un’apertura alla società civile, di una selezione fatta tenendo conto del merito e della qualità, allora ne beneficerà la credibilità complessiva dell’offerta politica e l’immagine del partito. E la partita dei collegi potrà essere vinta.

Sembra ovvio, ma non lo è affatto. Il Pd ha spinto per l’approvazione del Rosatellum nella convinzione che nei collegi uninominali i Cinquestelle saranno penalizzati dalla scarsa o nulla capacità coalizionale. Correranno da soli. Ma ora è possibile che la convergenza di più liste a sostegno dei candidati nei collegi uninominali si faccia intorno a portatori di voti, ad appartenenti a pezzi di ceto politico ormai usurato: invece di riceverne una spinta, il Pd rischierebbe di finire schiantato dal peso eccessivo di un personale politico compromesso.

È un antico dilemma, reale soprattutto al Sud. Chi prende più voti: la personalità illustre, o il notabile? È chiaro che quanto più è forte il voto di opinione, tanto meno forte è il voto clientelare. Ma è chiaro pure che, essendosi fatto più volatile il voto di opinione, più forte è la tentazione di non rinunciare al peso delle clientele, per quanto esso si sia visibilmente, negli anni, consumato.

Si guardi infatti all’attuale Parlamento, l’ultimo esempio che il Pd ha sotto gli occhi: non v’è alcun dubbio che i democratici hanno profondamente rinnovato la loro rappresentanza ma, si potrebbe aggiungere, sta lì una delle ragioni perché l’allora segretario Bersani, entrato col vento in poppa nella campagna elettorale, ha finito col «non vincerle». Evidentemente scegliere un bel po’ di candidati di primo pelo, invece di qualche vecchio volpone, non ha pagato.

Ancor meno paga però la rissosità interna al partito, per ragioni varie e diverse il vero leit motiv di questi ultimi mesi in casa Pd. Se ora si riaccendesse sulla conta dei candidati – di Renzi, di Orfini, di Franceschini, di Orlando e così via – De Luca avrebbe completamente ragione: il Pd si destinerebbe da solo alla sconfitta. E le parole usate da Gentiloni ieri insistevano proprio su questo: non si vince se ci si divide. Le baruffe non pagano. Siccome però la divisione a sinistra si è prodotta già, e non è recuperabile, non resta che evitare nuove baruffe, per esempio sulle liste. E resta a Renzi di provare ad allargare il campo, non più a restringerlo, come Gentiloni ha provato a dire con la più soft delle critiche possibili. Per il premier, la leadership di Renzi non è assolutamente in discussione, ma le modalità del suo esercizio forse sì.

(Il Mattino, 29 ottobre 2017)

Un azzardo che spariglia il gioco dei 5 Stelle

Picasso MInotauromachia 1935

P. Picasso, Minotauromachia (1935)

Un sasso nello stagno? Qualcosa di più, a giudicare dalle reazioni che la mozione parlamentare su Bankitalia presentata dal Pd ha scatenato. Non solo i più alti vertici istituzionali, ma anche esponenti democratici di primo piano – come il capogruppo al Senato Zanda, o come Walter Veltroni – hanno giudicato severamente la mossa del segretario: «deplorevole», «incomprensibile», «incommentabile». A giudicare dall’onda sollevata, il minimo che si possa dire è che Matteo Renzi questa volta è stato assai improvvido. Malaccorto. Per qualcuno, per giunta, non si tratta nemmeno della prima volta, ma anzi della riprova di quanto sia divisivo e contundente il modo di procedere del segretario del Pd.

Ma le acque in cui è caduto il sasso scagliato da Renzi non erano (e non sono) affatto stagnanti: sono anzi uno dei mari preferiti in cui nuotano i Cinque Stelle. Che della critica al sistema bancario italiano e a Bankitalia hanno fatto uno dei loro cavalli di battaglia. Ancor prima dello scandalo di Banca Etruria, con cui hanno tirato dentro la Boschi e il giglio magico. La polemica contro la finanza speculatrice che affama piccole e medie imprese è da sempre uno degli argomenti preferiti dei partiti populisti, ad ogni latitudine. Non a caso, la mozione del Pd è arrivata dopo la mozione presentata in Parlamento dai grillini, che impegnava l’Esecutivo ad «escludere l’ipotesi di proporre la conferma del Governatore in carica». Una mozione dello stesso tenore era stata presentata anche dalla Lega, il che rappresentava un chiaro segnale di quali munizioni i due partiti stessero accumulando in vista della campagna elettorale. Quali saranno gli argomenti su cui si giocherà il voto del 2018? I migranti, sicuramente. Poi l’Europa, probabilmente. Ma sui temi dell’economia la legislatura si chiude con i primi segnali positivi di ripresa, che sono venuti consolidandosi negli ultimi mesi del governo Gentiloni. Se su questo terreno riuscisse allora ai Cinquestelle di spostare tutta l’attenzione sulle nefande responsabilità in tema di banche, addossandole tutte al Pd, il più sarebbe fatto. La tempesta perfetta: paura dei migranti, impopolarità dell’Unione europea, rabbia contro gli affamatori del popolo. Il tutto, con il solito contorno giustizialista.

Con la mozione su Visco e Bankitalia, Renzi prova a sparigliare il gioco. Ed evita di rimanere con il cerino acceso in mano. Perché non c’erano solo le mozioni di Lega e Cinque Stelle. C’era anche l’astensione di Mdp sulla mozione grillina – il che non ha impedito a Bersani di giudicare «fuori da ogni logica» la mozione firmata dai democratici. E c’era lo stesso giochetto dentro Forza Italia: Brunetta ha giudicato «ipocrita e ignobile» la presa di posizione del partito democratico in Aula, ma questo non ha impedito a Berlusconi – che pure era Presidente del Consiglio quando fu nominato Visco – di criticare la Banca d’Italia per «non avere svolto il controllo che ci si attendeva».

In queste condizioni, con il nervo ancora scoperto di Banca Etruria, a Matteo Renzi proprio non andava giù di rimanere a fare solo soletto il palo dinanzi a Palazzo Koch. Del resto il suo giudizio su questa stagione Renzi lo aveva già consegnato nel libro uscito di recente: «abbiamo seguito quasi totalmente le indicazioni della Banca d’Italia, è stato un errore».  Dopo l’atto di indirizzo presentato alla Camera, Renzi si copre il fianco dalle critiche che sarebbero inevitabilmente piovute su di lui e sul Pd se la nomina fosse andata liscia e senza scossoni. Il Segretario sarebbe rimasto intrappolato nella Casta, proprio adesso che, con la campagna elettorale alle porte e senza la responsabilità diretta del governo, gli conviene tornare ad assumere i panni del rottamatore.

Certo, due argomenti possono ancora essere sollevati contro l’azzardo. Il primo: non si finisce in questo modo per inseguire i Cinquestelle, per andargli appresso scimmiottandone le mosse? Non è la trappola in cui il Pd è già caduto, con Renzi e prima di Renzi, su temi come la corruzione o il finanziamento della politica? Il secondo: non aveva detto Renzi che il Pd rappresenta l’unico argine al populismo? Con la mozione contro Bankitalia non si finisce con lo scavalcare a piè pari quell’argine? Critiche legittime, così come fondate sono le preoccupazioni di ordine istituzionale. Ma guardiamo al risultato: più che inseguire, ora il Pd sulle banche è inseguito da tutti gli altri. Fin qui era la comoda posizione tenuta dai Cinquestelle; ora, almeno sulle banche, non lo è più. E quanto a populismo, c’è del vero: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tutte le leadership che si sono fronteggiate in questi anni ne hanno assunto qualche tratto. Ma è anche vero che fare una sinistra senza popolo non si può. Che Renzi provasse anche lui a riacchiapparlo da qualche lato è il minimo che ci si potesse aspettare, dopo l’anno di purgatorio seguito alla sconfitta referendaria. Del resto, la partita elettorale Renzi se la gioca contro Grillo e contro Berlusconi: non so se mi spiego.

(Il Mattino, 20 ottobre 2017)

 

Il partito trasversale dei guastatori a tutti i costi

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Afro, Demolizioni (1939)

Volano parole grosse. È oltre i limiti della democrazia, protesta preoccupatissimo Roberto Speranza, per conto di Mdp. Solo Mussolini aveva fatto cose simili, urla Di Battista. Così che davvero l’ordinamento democratico della Repubblica pare messo in pericolo dall’iniziativa del Pd, fatta propria dal governo, di mettere la fiducia sul testo della nuova legge elettorale all’esame della Camera. Una decisione politicamente impegnativa, che arriva sul finale della legislatura, ma che non piomba sul Parlamento come un fulmine improvviso scagliato da un dio iroso, bensì come l’ultima possibilità di dare all’Italia un sistema di voto accettabile, essendo naufragati tutti i tentativi esperiti finora. Prima l’incostituzionalità del porcellum, poi l’incostituzionalità dell’italicum, quindi il naufragio del tedeschellum (o teutonicum, che dir si voglia), in mezzo i propositi variamente assortiti, e tutti abortiti, di tornare al mattarellum: tutta questa profusione di latinorum dimostra senza dubbio alcuno la difficoltà del Parlamento italiano di dare un assetto stabile, convincente e soprattutto condiviso alle regole elettorali.

Se spingessimo più indietro lo sguardo, non daremmo un giudizio diverso. La famosa legge-truffa, fortemente osteggiata dal partito comunista, passò, a suo tempo, col voto di fiducia. E a metterlo quella volta non fu il Duce, come forse pensa Di Battista, ma un certo Alcide De Gasperi. Passano gli anni, e sul finire della prima Repubblica torna alla ribalta la questione elettorale. Ma a dare la scossa non fu certo il Parlamento, bensì un referendum popolare, quello promosso da Mario Segni sulla preferenza unica. Insomma, è giusto rivendicare il carattere squisitamente parlamentare della materia elettorale, ma è onesto riconoscere la difficoltà sempre incontrata all’interno del Parlamento, dalle proposte legislative di riforma in questa materia. Così come sarebbe altrettanto onesto rilevare che il rosatellum attualmente in discussione, l’ultimo latinorum della serie, ha un appoggio politico ampio. Anche se per ovvie ragioni né Berlusconi né Salvini voteranno la fiducia al governo, c’è intesa sulla legge. Il che non era, e non è, affatto scontato.

Questo significa che, oltre ai centristi, tre fra le maggiori forze politiche, di maggioranza e di opposizione, condividono l’impianto della legge. La quarta, i Cinquestelle, è invece sulle barricate. Ma come si fa a dimenticare che hanno qualche responsabilità nel naufragio del precedente tentativo, questa estate, di approvare una legge elettorale sul modello tedesco? Grillo, sul sacro blog, difendeva l’accordo, ma la base ribolliva di rabbia contro quella “cagata di legge elettorale”. E così, alla prova dell’Aula, con la consueta gragnuola di emendamenti, l’accordo non ha retto, e i voti grillini sono mancati. Il solito palleggio di responsabilità tra maggioranza e opposizione ha in seguito intorbidato le acque, ma a nessuno è parso, nelle settimane successive, che Grillo e compagni volessero rimettere mano alla legge. Tutt’al contrario. Ai Cinquestelle il sistema proporzionale partorito con le decisioni della Consulta sta più che bene, perché non gli mette al collo il cappio della coalizione. Posizione legittima, ma che difficilmente può tirare il Paese fuori dalle secche. Promette anzi di lasciarcelo chissà per quanto.

La situazione, vista dal lato del partito democratico, è invece la seguente: assumersi la responsabilità di approvare il rosatellum ricorrendo alla fiducia per evitare l’ennesimo fallimento, oppure alzare bandiera bianca, e consegnare definitivamente il Paese all’ingovernabilità?

Certo, le alternative non si presentano mai così nettamente. Hanno le loro sfumature. È chiaro che il ricorso alla fiducia punta a bypassare malumori e dissensi che attraversano sia il Pd che Forza Italia. È vero pure che anche il rosatellum non garantisce maggioranze stabili: la quota uninominale prevista difficilmente porterà l’uno o l’altro schieramento fino al 50,1%. Ma cosa c’è dall’altra parte? Che cosa motiva il rifiuto della legge da parte dei Cinquestelle, o da parte di Mdp? C’è, da parte loro, l’indicazione di un’alternativa praticabile? Allo stato, no. Allo stato, c’è solo la marea montante della polemica, portata spesso al di sopra delle righe, e condotta non in nome dell’interesse generale, ma dell’interesse proprio. Per quale motivo, infatti, non sarebbe nell’interesse generale del Paese introdurre un terzo di collegi uninominali che spingono le forze politiche a coalizzarsi fra loro, gli altri due terzi rimanendo proporzionali? Non si capisce. Mentre si capisce benissimo perché né i grillini, né quelli di Mdp vogliono il rosatellum: perché non fa al caso loro (mentre fa al caso di quegli altri).

Ora, ci si può dolere che la disputa sulla legge elettorale non si elevi dalla contingenza politica del momento. Ma questa doglianza riguarda tutti i partiti, nessuno escluso. Resta però che col rosatellum si fa almeno un passo in avanti nel senso della governabilità, e soprattutto si produce una legge forte del più largo consenso finora disponibile in Parlamento. Né ce n’è un altro. E, di questi tempi, trovare una maggioranza larga che assume su di sé il peso di una decisione politica per tirare il Paese fuori dallo stallo in cui si è cacciato dopo la bocciatura del referendum costituzionale, non è cosa da poco. Anzi è tanto, e sarebbe sbagliato buttarlo via.

(Il Mattino, 11 ottobre 2017)

La nuova scommessa bipolare

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A. Ligabue, Lotta di galli (1945)

All’ultima curva, prima di imboccare il rettilineo finale della legislatura, la legge elettorale torna ad essere tema di confronto politico e parlamentare, e si torna a parlare di una sua possibile approvazione.

Difficile, però, fare previsioni: sulla carta, le forze politiche che sostengono il Rosatellum bis – così è stata ribattezzata la nuova proposta – avrebbero i numeri per farla passare. Ma da qui al voto finale ci sono un’ottantina di voti segreti, e la partita è così delicata che incidenti sono sempre possibili.

In realtà, la nuova versione del Rosatellum non risolve i problemi di governabilità del Paese, ma per quello ci vorrebbe un doppio turno alla francese che non è nel novero delle cose possibili. La legge in discussione si limita a distribuire per due terzi i seggi su base proporzionale, e per il terzo rimanente assegna i seggi in collegi uninominali dove i singoli candidati possono essere sostenuti, anziché da liste singole, da una coalizione. Chi può investire sulla costruzione di coalizioni plaude alla legge; chi non ha alcun potere coalizionale la avversa.

A preoccuparsi sono quindi, innanzitutto, i Cinque Stelle, che non saprebbero a chi sommare i loro voti nella parte uninominale. E infatti il fuoco di sbarramento è cominciato subito: il neo candidato premier Di Maio ha avuto parole durissime contro quello che ha definito “un attentato alla volontà popolare”, con argomenti che in verità varrebbero per qualunque legge che abbia effetti disproporzionali. Dopodiché in Parlamento hanno piazzato una mina, nella forma di un emendamento contra personam, che non consente di indicare come “capo della forza politica” chi non può essere eletto in Parlamento. Leggi: Berlusconi. E leggi pure il tentativo di pescare su questa norma voti a sinistra per far saltare l’accordo sulla legge.

Ma di che genere di accordo si tratta? Detto che, se passasse, questa legge elettorale penalizzerebbe i grillini, chi, viceversa, se ne avvantaggerebbe? Guardando tra gli emendamenti presentati, si capisce qualcosa guardando la proposta di rimettere l’indicazione del futuro leader alla forza politica della coalizione che ha preso più voti. L’emendamento è a firma Forza Italia, ma avrebbe anche il favore della Lega. Il che significa che la competizione per la leadership si trasferirebbe dentro la legge elettorale, invece di stare nelle primarie che fin qui Salvini chiedeva e che Berlusconi non aveva nessuna voglia di concedere. Ma significa anche che le distanze nel centrodestra si sono accorciate, e che il Cavaliere comincia a pensare di avere tutto l’interesse a calarsi nuovamente in uno schema bipolare. Assisteremmo così ad una nuova piroetta: dopo essere stato, per tutta la seconda Repubblica, il campione della democrazia maggioritaria, Berlusconi si era convertito al proporzionale, e in lunghe e pensose interviste aveva spiegato come il proporzionale fosse ormai l’unico abito confacente al sistema politico italiano. Ora, invece, complice forse i sondaggi siciliani che danno il centrodestra avanti a tutti, Berlusconi cambia di nuovo: vada per la coalizione con Salvini, e per un voto che in qualche modo la sancisca e leghi le mani per il dopo voto.

Ma le lega veramente? In primo luogo, va detto che l’emendamento è ai limiti, se non oltre il dettato costituzionale. Perché nessuna formula sulla scheda elettorale può limitare il potere del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio: cosa dunque comporti indicare il “capo della forza politica” non è chiaro. In secondo luogo, e soprattutto, queste coalizioni, che esistono solo su un terzo dei seggi, ben difficilmente raggiungeranno il 51%, con gli attuali rapporti di forza: e allora come si farà? Ci sarà un inciampo in più per la formazione di maggioranze parlamentari diverse da quelle indicate nella parte uninominale della legge. La qual cosa può forse essere persino apprezzata, almeno da chi non ama il carattere parlamentare della nostra Repubblica. Ma senze vere maggioranze popolari emergenti dalle urne il risultato sarebbe: nessuna maggioranza.

Il rischio è alto, insomma. E l’impressione è che l’emendamento sia una spia del ricompattamento che si sta producendo nel centrodestra, piuttosto che una strada realmente percorribile.

A meno che la cosa non piaccia pure a Renzi, che sarà sicuramente, a sinistra, quello che prenderà più voti. Ma un conto è il singolo emendamento, un altro è l’impianto complessivo della legge. Lì la partita sembra essere un’altra, perché questo tema delle coalizioni è stato gettato tra i piedi del Segretario da chi, dentro il partito democratico, lo considera ormai un ostacolo alla costruzione di un nuovo centrosinistra, di un nuovo Ulivo o di quel che sarà. Franceschini non perde infatti occasione per ripetere che la coalizione s’ha da fare, col che evidentemente sottintende che se, per dialogare con Mdp, fosse necessario mettere da parte Renzi, ci sarebbe chi, nel Pd, farebbe da sponda.

Questo è, alla fine, il nodo decisivo: la legge è studiata per contenere i Cinquestelle, ma non dà affatto garanzie di governabilità, promette intanto di rimescolare le carte nel centrosinistra, e, forse, di dare una mano al centrodestra. E però è firmata dal Pd, come se Renzi scommettesse sul fatto che, alla fine, prevarrà comunque la sua forte leadership nel partito. Ce n’è abbastanza per considerare i giochi tutti aperti.

(Il Mattino, 30 settembre 2017)

 

Lo strappo a sinistra

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S. Balkenhol, Man with Green Shirt (1988)

Jeans e camicia fuori dai pantaloni, ai margini della festa di Rimini Roberto Fico intratteneva in un colloquio privato il neo-candidato premier Luigi Di Maio. Che gli stava davanti in giacca e cravatta, tanto lindo e pettinato quanto l’altro era sudato e arruffato. Fico non smetteva di gesticolare, Di Maio rimaneva fermo, quasi immobile, con le mani bene in tasca. Uno sembrava dannarsi a spiegare, l’altro non aveva che da mostrarsi comprensivo. In breve: uno ha perso, l’altro ha vinto. Uno è salito in cima al Movimento, come neocandidato premier, l’altro non è voluto nemmeno salire sul palco.

Vera partita non c’è stata, perché queste primarie si sono rivelate, nei numeri e nei partecipanti, poco più di una mera formalità autorizzativa. Ma per quanto Di Maio abbia assicurato, dopo la proclamazione, che non intende cambiare il Movimento, bensì l’Italia, le cose non stanno più come prima. Nel mescidato brodo culturale dal quale pescano i Cinquestelle c’è, è vero, un po’ di tutto, ma non tutto è rappresentato da tutti: la scelta di Di Maio dà una nuova rimescolata, ed è inevitabile che certi sapori finiranno col sentirsi più di altri.

Il denominatore comune a tutti i grillini – ieri come oggi – è la critica al sistema e il “vaffa” all’establishment. Il carburante rimane l’accusa di disonestà e di corruzione rivolta all’intera classe politica, lorda di immorali privilegi. Ma uno come Fico nel Movimento ha trovato anche un’istanza democraticistica radicale, perfetta per raccogliere la delusione di quelli di sinistra che non hanno più fiducia nei partiti tradizionali. Fico ha quell’anima lì: movimentista, roussoviana, vicina alle esperienze di base che, ora che si sono ridefiniti gli assetti di vertice, rischiano di rimanere soffocate. La linea del Piave dell’ala ortodossa incarnata da Fico, la «grande distinzione» che il Presidente della Commissione di Vigilanza ha tracciato ieri – un conto è il candidato premier, un altro il capo politico del Movimento; Di Maio è stato eletto per fare il primo, non per fare il secondo – non ha molte possibilità di reggere. O per meglio dire: tutto dipenderà ancora una volta dall’unico che può farla valere o revocare, cioè Grillo. Che però non è chiaro quanta voglia abbia di trainare i Cinquestelle anche nella prossima campagna elettorale. Certo è che in tutta la fase che si apre ora non vi è alcuna possibilità che le decisioni politiche fondamentali passino per i volenterosi militanti dei meet up o per una qualche forma di consultazione diretta che non sia, al dunque, un semplice bollino di ratifica.

Di Maio ha ripetuto anche dal palco di Rimini che il Movimento non è né di destra né di sinistra. Ma lui è quello che si è lanciato tutta l’estate nella polemica contro le Ong; Fico non ha detto una sola parola per sostenere una simile campagna. Fico si è esposto, in passato, quando si è trattato di discutere di unioni civili o di diritti dei malati terminali. Fa le battaglie sull’informazione per il ruolo che ricopre, ma non usa certo i toni di Grillo quando si tratta di attaccare la stampa. Fico, per capirci, è uno che votava Bassolino: quanta parte del mondo ideale di uno così può riconoscersi oggi nel contegno sussiegoso di Luigi Di Maio? Di tematiche riconducibili alla sinistra progressista, tra i Cinquestelle, rimane forse solo quella ambientale, ma l’identità del Movimento è sempre meno definita da queste battaglie.

Si tratta in realtà di un’evoluzione (o involuzione) inevitabile, se la scelta non è più quella di aprire le istituzioni come una scatoletta di tonno, come Grillo diceva nel 2013, ma di occuparle con i propri uomini, come si vuol fare nel 2018, presentandosi come forza seria e responsabile. Nella tradizione di questo Paese, non è la prima volta che un movimento politico si amputa di un pezzo alla sua sinistra, al momento di entrare nella partita per il potere. Se uno si va a leggere il manifesto programmatico dei fasci italiani di combattimento, presentato ufficialmente nel 1919, vi trova il solito refrain: non siamo né di destra né di sinistra. Ma dentro c’era anche un certo numero di istanze radicali di riforma: il suffragio universale, l’abolizione del Senato di nomina regia, la gestione operaia delle fabbriche, e via di questo passo. Tutte cose destinate a cadere. Il fascismo al potere farà infatti l’esatto opposto: toglierà di mezzo i partiti e la democrazia, manterrà il Senato e la Corona, si alleerà con il grande capitale.

Si prendano gli esempi per ciò di cui sono esempi. Non sto affatto gridando al pericolo fascista, né considero Di Maio un novello Mussolini. Dopo tutto, non ne ha la mascella. Sto dicendo invece che è normale che un movimento dentro cui c’è stato finora un po’ di tutto cambi natura nel passaggio dalla fase protestataria a quella della proposta di governo. E la proposta dei Cinquestelle si viene sempre più definendo su una base populista e qualunquista, destinata ad espungere da sé gli elementi spuri, che non entrano facilmente nel quadro. O magari nemmeno se la sentono di entrare nel quadro: non salgono sul palco, non si fanno la foto opportunity col nuovo capo, e provano anzi a sostenere, come ha fatto Fico, che non è affatto un capo. Tesi ardua, anche perché i Cinquestelle il capo in realtà l’hanno sempre avuto: quel che hanno adesso, è piuttosto un problema di successione, che in tutte le formazioni non democratiche costituisce sempre la prova decisiva: hic Rhodus, hic salta.

(Il Mattino, 25 settembre 2017)

Di Maio candidato, ma le primarie sono un flop

Game of Chance 1987 by Robert Motherwell 1915-1991

R. Motherwell, Game of chance (1987)

Non proprio un bagno di folla, quello che il popolo cinquestelle riserva a Luigi Di Maio: vota solo un quarto degli iscritti, e Di Maio raccoglie circa trentamila voti su centocinquantamila. In un’elezione dal risultato assolutamente scontato, calano ovviamente l’interesse e la partecipazione: un’investitura annunciata non è un’elezione al fotofinish. Ma i dirigenti del Movimento si aspettavano comunque numeri più consistenti. La festa non è stata guastata dalle polemiche interne, ma è stata meno festosa di quanto forse ci si aspettava. Il dato politico però c’è tutto: da oggi, il Movimento Cinquestelle ha ufficialmente un nuovo leader. Grillo lo ha sottolineato con tono scherzoso: «da domani il capo politico del M5S non avrà più il mio indirizzo, tutte le denunce arriveranno a te», ha detto volgendosi verso il giovanissimo pupillo. Ma non è uno scherzo: è l’amaro calice che anche i più movimentisti tra i grillini debbono mandar giù, Fico per primo. Che non ha parlato. Che ha vistosamente ignorato Grillo ed evitato di applaudire Di Maio al momento della proclamazione. Ma che si è dovuto tenere per sé tutti i malumori covati in queste ore.

Le denunce arriveranno a Di Maio. E le liste, invece, chi le farà? I posti, i seggi: chi li assegnerà? È chiaro che il passo indietro (di lato, di danza) di Grillo non toglie nulla alla sua presa sul popolo pentastellato e al suo potere: Grillo rimane l’unico che può disdire quello che è già stato detto. Legibus solutus, può revocare domani quello che ha deciso oggi. Ma intanto, oggi, la decisione è presa: il Movimento Cinquestelle si identifica con Luigi Di Maio. Dargli autorevolezza, forza, credibilità è la priorità assoluta.

Lui, peraltro, è stato sempre così ben consapevole che il suo giorno sarebbe arrivato, che ha in realtà lavorato per fare il leader fin da quando si è seduto sullo scranno di vicepresidente della Camera. Lontanissimo, per stile, dallo spontaneismo arruffato e improbabile di tanti militanti e simpatizzanti, Di Maio ha deciso fin dal primo giorno di indossare giacca e cravatta, per lui quasi una seconda pelle. O forse una coperta di Linus: il modo per verificare ogni giorno allo specchio di avere la stoffa giusta per il ruolo che i padri del Movimento, Grillo e Casaleggio, hanno pensato per lui. L’unica cosa che Di Maio non può infatti permettersi, e con lui tutto il Movimento, è di apparire solo una figurina in mani altrui. Perciò l’accentramento delle responsabilità nelle sue mani, che tanto dispiace all’ala ortodossa del Movimento, è inevitabile e, probabilmente, sarà reso anche più evidente di quanto non sia.

Del resto, è abbastanza ridicolo parlare di tradimento delle origini. Alle origini c’è sempre stato un capo. Anzi. Un capo e un’azienda, la Casaleggio Associati, e la cosa ha ben potuto convivere con la retorica democraticista radicale. I Cinquestelle non hanno bisogno di dismettere quella retorica: faranno ancora le primarie online per la scelta dei candidati al Parlamento, indiranno ancora consultazioni online sui grandi temi in agenda (quando ognuno sa, peraltro, che il vero potere sta nel decidere l’agenda) e si riuniranno ancora nell’«agorà» quando si tratterà di far parlare tutti, come in questi giorni di festa a Rimini. Ma come in tutti i congressi di tutti i partiti, le decisioni vere continueranno a essere prese nel retropalco. E lì, da oggi, c’è una specie di strano triumvirato formato dal carisma ancora detenuto da Grillo, dalle chiavi della macchina organizzativa di proprietà di Davide Casaleggio, dalla responsabilità politica assegnata a Luigi Di Maio.

Piuttosto che le frizioni e le tensioni che attraversano il Movimento (e che rimarranno sotto le ceneri a lungo, se non interverranno fatti esterni a riaccendere il fuoco), sarà decisiva la capacità del neo-candidato di presentarsi come la carta nuova e vincente dei CInquestelle dinanzi all’elettorato. È lì, non fra gli iscritti, che si decide il futuro del leader. Non a caso, nel suo primo discorso dopo la proclamazione dei risultati, Di Maio ha detto subito che il suo compito non è cambiare il Movimento, ma cambiare l’Italia. C’è da dire che se lui cambiasse davvero l’Italia, il cambiamento del Movimento verrebbe da sé. Cionondimeno resta vero: gli sforzi saranno d’ora innanzi dedicati tutti alla proposta politica. E per dare il segno di una maturità ormai raggiunta dal Movimento, Di Maio ha ripetuto anche dal palco di Rimini che intorno a lui schiererà una forte squadra di governo, che dia il senso di una vera competenza e, forse, anche quello di uno spostamento di classe dirigente a rinfoltire i ranghi dei Cinquestelle.

In ogni caso, ha assicurato Di Maio, non sarà un governo di destra o di sinistra, il suo, ma fatto solo di «persone capaci». Si tratta di uno slogan che ha attraversato la seconda Repubblica, per dir così, da prima che nascesse: che ha contribuito alla delegittimazione della politica e a ha consentito ai Cinque Stelle di crescere. Anche da questo punto di vista, dunque: nessun tradimento delle origini. Ma come per la leadership una figura preminente non può non emergere nel momento in cui ci si candida alla guida del Paese, così anche sul piano ideologico i nodi debbono venire al pettine, e il populismo acchiappa-voti di qua e di là con cui ha prosperato il Movimento dovrà prendere una figura più determinata, se vorrà farsi programma di governo.

(Il Mattino, 24 settembre 2017)

La resa dei conti è solo rinviata. Decisiva la Sicilia

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F. Clemente, La partenza dell’argonauta (1986)

A Rimini è una festa che s’ha da fare, avrà pensato Grillo nei prepotenti panni di Don Rodrigo del Movimento Cinque Stelle, e dunque Roberto Fico è meglio che non prenda la parola: rischierebbe di rovinare la cerimonia. Ma i malumori che non possono manifestarsi durante l’incoronazione di Di Maio, che domani verrà proclamato candidato premier, rischiano di esplodere al primo intoppo. Si conosce già la casella del calendario dove è piazzata la mina che potrebbe farli saltare fuori: 5 novembre, elezioni regionali siciliane. I Cinquestelle si sono avvicinati a quell’appuntamento convinti di poter arrivare alla vittoria, o almeno a una incollatura dal vincitore. Ma dopo l’ennesimo pastrocchio nelle regionarie, con l’ormai consueta scia di ricorsi, interventi del tribunale e atti di imperio di Grillo per confermare il candidato Cancelleri, tutto si può dire meno che il risultato sia già in tasca.

Prima di quella data, però, Fico non ha spazio per muoversi, per rappresentare un’alternativa politica reale a Luigi Di Maio. In linea di principio lo sarebbe. Fico non è andato né alla City di Londra né a Cernobbio per accreditarsi preso i mercati, come Di Maio. Fico non ha partecipato alla campagna d’estate sui migranti e contro le Ong, come Di Maio. Fico non ha nemmeno baciato l’ampolla contenente il sangue di San Gennaro, come Di Maio. Da ultimo, e soprattutto, Fico non ha condiviso l’ampiezza di mandato che le primarie online consegneranno al vincitore. Invece di avere soltanto un candidato premier, i grillini c’è il rischio che vedano pure Luigi Di Maio associato a Grillo e a Casaleggio nella guida politica del movimento. Un inedito triumvirato, che contraddice abbondantemente lo spirito dei meet up della prima ora, di cui Fico, insieme all’ala cosiddetta ortodossa, vuole essere ancora espressione.

Con sempre maggiore difficoltà, però, visto che sempre più declinano, o si traducono in semplici paramenti esteriori, i miti della trasparenza e della democrazia diretta. E difatti. Queste primarie sono state le più veloci della storia, con soli tre giorni tre di campagna elettorale. I candidati non hanno dovuto presentare un programma, ma una semplice dichiarazione di intenti. La piattaforma che ospitava la votazione si è impallata più volte. I tempi per votare sono stati prolungati a singhiozzo. I risultati sono stati raccolti ma non proclamati ufficialmente. Nessuna certificazione pubblica e verificabile è stata eseguita: tutto è in mano a due notai di cui però non si conosce il nome. La democrazia, ragazzi: quella è un’altra cosa.

Ma i partiti sono associazioni private, e fanno un po’ quello che vogliono. In particolare quando c’è da piegare, se non le regole, almeno la retorica alle esigenze del momento. E questo è il momento di Di Maio, il momento in cui il Movimento deve mostrarsi unito e compatto dietro il novello leader, il momento in cui, dunque, non sono ammesse polemiche interne. Grillo ha la forza per imporre il suo pupillo e tacitare i suoi avversari. Sa che i Cinquestelle hanno bisogno di presentare un candidato che trasmetta non solo il senso di una novità, ma anche quello di un’autorevolezza che è ancora tutta da conquistare. Perciò, va bene che tutti sono uguali, che uno vale uno, che gli incarichi si assumono a rotazione e in Parlamento non ci sono onorevoli ma megafoni dei cittadini, però per Palazzo Chigi il prescelto non può che essere uno solo. Ed è lui, è Luigi Di Maio il Lancillotto. Quanto alla leaderizzazione del candidato, sarà interessante vedere se in campagna eletorale avremo il suo volto in primissimo piano sui manifesti e negli spot, come impone la comunicazione politica oggi, o se campeggeranno soltanto le anonime Cinque Stelle del simbolo (e la barba e la chioma di Grillo, va da sé).

Questa è la strategia: si fa corsa tutti insieme per Di Maio senza aprire una discussione vera. Scordatevi i meet up, non azzardatevi ad organizzarvi come opposizione interna. Ovviamente nessuno ha la forza per contrastare questi piani di battaglia. Di Battista, perciò, si è adeguato subito, Fico invece no. Se le cose in Sicilia andranno bene, anche lui finirà ovviamente col piegare il capo e pure le orecchie. Ma se il centrodestra vincesse? Se il Pd non andasse così male come si prevede, e i Cinquestelle non andassero così bene come fino a poco tempo fa si pensava?

A quel punto la partita potrebbe riaprirsi. Non certo nel senso che Di Maio sarebbe rimesso in discussione, ma nel senso che Grillo potrebbe essere costretto a concedere qualcosa nella composizione delle liste. Sarebbe una novità assoluta, anche se difficilmente si aprirebbe una dialettica politica reale dentro il Movimento. La ragione è semplice: una simile dialettica è incompatibile con la figura dell’insindacabile capo politico che, quale garante,  Grillo continua ad essere. (Ed è impensabile pure che Grillo permetta quello che sempre succede nel Pd, dove non si smette mai di esercitarsi nel logoramento del leader). Più facile allora che all’emergere di malumori, in caso di insuccesso in Sicilia, Grillo reagisca come ha sempre fatto finora: con le fuoriuscite e le espulsioni. Col rischio però che qualcosa si incrini nel rapporto con l’opinione pubblica.

Meglio non pensarci, allora. Oggi è il giorno della grande festa. E siccome del doman non v’è certezza, per ora Fico non parla, il resto si vedrà.

(Il Mattino, 23 settembre 2017)

 

Primarie bloccate, M5S nel caos

Nostalgic

Komar & Malamid, Stalin and the Muses (1981)

Se davvero non c’è due senza tre, allora il candidato in pectore Luigi Di Maio, che ha sciolto le riserve e attende a giorni la consacrazione, dovrebbe cominciare a tremare. L’anno scorso c’è stato il caso delle comunarie di Genova, annullate d’imperio da Grillo dopo essere state vinte da un nome a lui sgradito, Marika Cassimatis, a cui però il Tribunale ha poi dato ragione, con il caos che ne è conseguito (e la sconfitta alle elezioni). Stavolta è il turno delle regionarie siciliane, sospese dal giudice dopo il ricorso di un candidato escluso, mentre il prescelto, Giancarlo Cancelleri, è già in piena campagna elettorale. Tirerà dritto, ma il danno d’immagine c’è tutto. Le prossime consultazioni convocate dal Movimento per il prossimo 24 settembre riguarderanno invece il futuro candidato premier e, com’è ormai ufficiale, sarà la volta di Di Maio: e se a qualcuno saltasse in testa di appellarsi alla giustizia civile?

Mancano meno di due settimane, ma sulle modalità del voto non c’è ancora chiarezza: non è compromessa in questo modo la possibilità di fare campagna elettorale? Più che una votazione, al momento somiglia a una proclamazione, con cui si ratifica un nome già scrutinato dai capi del movimento, cioè Grillo e Casaleggio. Poco male: sono faccende interne a una formazione politica. Ma se qualche magistrato volesse metterci il becco, cosa succederebbe? E se davvero non c’è due senza tre?

Vi sono, in realtà, due questioni in ballo. Una riguarda i Cinquestelle, l’altra riguarda la legge sui partiti politici, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, di cui si parla di tanto in tanto, ma che al dunque non si fa mai. Su quest’ultima faccenda, non c’è molto da dire. La legge è sempre stata rimandata, per timore di ingerenze nella conduzione dei partiti, a cui, dopo gli anni del fascismo, si voleva lasciare la più ampia autonomia organizzativa. La Costituzione ne fa infatti un perno della vita democratica della nazione, ma non gli riconosce personalità giuridica. Col tempo, però, è emerso con sempre maggiore chiarezza l’interesse pubblico alla natura democratica della vita interna di un soggetto politico, così come la necessità di legare l’accesso a contributi pubblici ad una maggiore trasparenza gestionale, e dunque a una più intensa forma di regolazione giuridica. Quel che accade adesso è però paradossale. Perché da un lato la norma costituzionale rimane molto blanda, né gli statuti dei partiti sono mai stati sentiti come un vincolo giuridico in senso forte, all’interno di associazioni che rimangono di carattere privato; dall’altro però aumentano gli interventi della magistratura, che sembrano fare come se una legge ci fosse già. Non discuto le sentenze e il dato strettamente tecnico-giuridico, ma l’impressione è che i giudici facciano anche in questo caso un’attività di supplenza, aiutati dalla perdurante crisi della rappresentanza che rende facile mettere ogni volta la politica e le sue decisioni sul banco degli imputati. Meglio, allora, fare la legge e mettere ordine, invece di aprire la mattina i giornali per sapere se la campagna elettorale prosegue liscia, senza improvvisi intoppi giudiziari.

L’altra questione riguarda da vicino i grillini, che per principio fondamentale affidano ai cittadini la selezione online delle candidature. Ottimo principio. Ma vuoi per la labilità del tessuto di regole, vuoi per una pulsione assembleare che non si lascia facilmente assorbire, vuoi per la debolezza di una classe dirigente estemporanea (soprattutto in ambito locale), vuoi in ultimo per una certa approssimazione, sta di fatto che il principio a volte viene clamorosamente disatteso dall’alto, per decisione del supremo garante (Grillo), a volte viene invece azionato bruscamente dagli iscritti, per mandare all’aria accordi politici già benedetti a Roma (o a Genova).

Per una formazione che aspira ad essere il primo partito e che si appresta a scegliere il suo candidato a Palazzo Chigi con gli stessi metodi di Genova e Palermo non è un bel vedere. È pur vero che la bandiera della democrazia diretta è l’ultima che venga oggi agitata dai cosiddetti «megafoni» del movimento. Parlano di onestà, corruzione, ambiente, piccola impresa, immigrazione, ma non promettono più la palingenesi democratica: si sono accorti che l’«uno vale uno», lo streaming e la consultazione permanente non stanno in piedi senza una forte direzione politica che faccia da contrappeso. Anzi: ormai c’è solo quella. Basta vedere come si va alla incoronazione di Di Maio: con una ratifica, mica con una competizione vera e aperta.

Solo che qualcuno degli antemarcia, venuto su nei meetup della prima ora, al mito iperdemocraticista fa ancora mostra di crederci. Perciò presenta ricorso, trova un giudice che gli dà retta e cerca di riportare tutti alla casella di partenza. Non può riuscirci, perché i candidati rimangono quelli già decisi. Però: che malinconia.

(Il Mattino, 13 settembre 2017)