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Silvio e Matteo, l’intesa e la discrezione

Pavlov

La solidarietà di Berlusconi a Matteo Renzi e a Maria Elena Boschi vale quel che vale. Per un leader politico che non ha conosciuto un solo giorno in cui non fosse sotto attacco della magistratura, è il minimo sindacale. È la risposta che il Cavaliere dà ormai di default, ogni volta che qualcuno inserisce il file: “magistratura e politica”. Ciò non vuol dire che il tema non sussista, né che Berlusconi non pensi davvero che le intercettazioni pubblicate in questi giorni ledano la sfera privata, ma siamo al cane che morde l’uomo, non all’uomo che morde il cane: non è quella, insomma, la notizia.

La notizia è invece che Berlusconi vuole essere della partita. E la partita più importante che si giocherà di qui alla fine della legislatura è quella che riguarda la legge elettorale. Ora che il Pd ha messo nero su bianco la sua proposta (in soldoni: metà maggioritaria, metà proporzionale), si apre la possibilità concreta di un percorso parlamentare. Per il quale però occorrono numeri che il partito democratico ha alla Camera, ma non ha al Senato (o, se li ha, sono talmente risicati che è difficile fare previsioni). Dunque bisogna inserirsi nella discussione: dare qualcosa per avere qualcosa. Così funziona. Cosa ha da perdere Forza Italia, in questo momento, e cosa può dare? Quello che ha da perdere è la possibilità di presentarsi come un’alternativa credibile alla sinistra di Renzi e ai Cinquestelle. Credibile significa: in grado di competere. Allo stato, la possibilità di competere passa per due condizioni: la presenza di una leadership riconosciuta, la capacità di aggregare lo schieramento di centro-destra. In un sistema maggioritario, si tratta di condizioni irrinunciabili. In un sistema proporzionale no. Dunque, quanto più Berlusconi sente lontane quelle condizioni, tanto più inclinerà per una soluzione di tipo proporzionale.

Questo semplice principio consente una prima lettura delle parole pronunciate ieri dal Cavaliere. Accantoniamo dunque il Berlusconi animalista che passeggia nel parco di Arcore tra simpatici animali e punta al voto dei proprietari di cani e gatti; mettiamo pure da parte le dichiarazioni sui volti nuovi, competenti e con voglia di fare necessari al partito e veniamo al sodo, badiamo a quel che c’è di nuovo. E di nuovo c’è che il leader azzurro considera possibili le elezioni in autunno, il che significa: non è sulla data delle elezioni che Forza Italia opporrà barriere insormontabili. Oppure: se troviamo un’intesa sul sistema elettorale, possiamo ragionare anche sulla data.

Poi il Cavaliere aggiunge: con Salvini non siamo poi così lontani, a parte la questione dell’euro. E qui il primo principio non basta più, ma forse ci vuole la lezione storica. Se infatti si torna con la memoria al Mattarellum – la prima legge elettorale con cui Forza Italia si misurò, con successo, nel ’94 – si ricorderà che, a parte altre differenze, la quota proporzionale era fissata più in basso rispetto all’attuale proposta del Pd: al 25%, contro il 50% del cosiddetto «Rosatellum». E però la legge non impedì affatto alla coalizione di centrodestra di presentarsi nei collegi uninominali della quota maggioritaria con una fisionomia variabile: al Nord in alleanza con la Lega Nord, al Sud con Alleanza nazionale di Fini. La prova di governo, dopo la vittoria alle elezioni, durò solo pochi mesi, ma resta memorabile l’impresa elettorale: Berlusconi riuscì infatti a mettere insieme due forze politiche che più lontane non si sarebbero potute dire (anche su temi fondamentali come l’unità nazionale).

Fermo restando allora il principio sopra enunciato, ho l’impressione che il Cavaliere abbia certo motivi di ostilità nei confronti della proposta dei democratici, perché preferirebbe un sistema alla tedesca che conducesse diritto e filato ad una qualche grande coalizione, che cioè dopo il voto emarginasse gli opposti estremismi di destra e sinistra, ma sappia anche che con il «Rosatellum» non è impossibile stringere accordi con la Lega a livello di singoli collegi. Un sistema del genere è sicuramente preferibile a qualunque soluzione di tipo premiale, sia che il premio vada alla lista (Forza Italia ben difficilmente sarà il primo partito italiano) sia che vada alla coalizione (perché qui vale il principio: un accordo organico con la Lega per un centrodestra unito è di là da venire). Un congegno elettorale che sia maggioritario ma non troppo, e che mantenga spazio sia per accordi elettorali prima, che per accordi politici dopo, è confacente alla situazione in cui si trova attualmente Forza Italia. E lo è anche al Pd, mentre lo è molto meno ai Cinquestelle, che non hanno il personale politico sperimentato per la prova nei collegi uninominali, e non hanno neppure facilità di accordi: né nei singoli collegi, né nella prospettiva del governo.

Se poi, per essere della partita, bisogna spendere parole di solidarietà nei confronti di Renzi e Boschi – parole che sono abbastanza urticanti per le vecchie e nuove file dell’antiberlusconismo, e che quindi aprono un fossato sempre più ampio fra il Pd e quello che si trova alla sua sinistra – beh: che ci vuole? Con una mano Berlusconi accarezza idealmente tutti gli animali domestici degli italiani; con l’altra aizza invece il cane di Pavlov della sinistra dura e pura, la quale con un riflesso condizionato parla di intelligenza col nemico e chiama inciucio qualunque tentativo di intesa fra centrodestra e centrosinistra. Che se invece la legge elettorale la facesse il Pd da solo, certamente si ritroverebbe addosso l’accusa di essersela cucita su misura. Ma questa, delle eterne divisioni e contraddizioni della sinistra, è evidentemente un’altra storia.

(Il Mattino, 21 maggio 2017)

La sfida tra i due mondi che rottamano il ‘900

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Che i sondaggi ci prendano o no, la sfida presidenziale di oggi, in Francia, ha giustamente l’attenzione di tutta Europa. Può darsi sia scontato l’esito; di sicuro non lo è il significato. Non lo è neanche se Macron dovesse vincere con largo margine la sfida e se, col senno di poi, potremmo dire di avere sovrastimato il pericolo lepenista. Con Macron vince infatti (se vince) una cosa nuova, che non c’era nel panorama politico francese fino a due anni fa. Basta questo, per lustrarsi bene gli occhi e domandarsi se non stiamo voltando definitivamente la pagina del ‘900, la pagina della grande politica, dei grandi partiti di massa, del grande movimento operaio. Dopo aver chiuso con il comunismo, l’Europa chiude anche con il socialismo democratico? Forse sì. È difficile trovare, nel panorama europeo, qualcosa di meno somigliante a Macron del Movimento Cinquestelle, in Italia. Eppure, alla domanda cosa siamo, Macron risponde sul suo sito: un popolo di marciatori, un movimento di cittadini. Zero onorevoli. Sembra grosso modo significare: non c’è bisogno di mettere i cittadini dentro la scatola di un partito. Del resto, la prima delle ragioni che sostengono la campagna per le presidenziali è così formulata: «Emmanuel Macron è diverso dai responsabili politici che lo hanno preceduto: in passato ha avuto un vero lavoro, nel settore privato e nel settore pubblico». È dunque un titolo di merito la discontinuità rispetto ai politici del passato e ai politici di professione: Macron non è né l’uno né l’altro. Quanto alle altre ragioni, sono di questo tenore: Macron propone di ridurre di un terzo il numero dei parlamentari (già sentita?), sa di cosa parla, non deve la sua fortuna politica a nessun’altro che non sia lui, sa riconoscere una buona idea anche se viene dal suo avversario politico, che non attacca mai sul piano personale. La competenza è evocata solo per dire che Macron saprà rimettere in sesto l’economia del Paese. Per il resto, c’è un riferimento non al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni o alla sua rappresentanza ma ai salari: Macron promette di ridurre il cuneo fiscale e di pagare di più le ore di straordinario. Tradurre questo profilo nella figura di un politico di sinistra, di un socialista mitterandiano o dell’ultimo erede del Fronte popolare di Léon Blum è impossibile. Macron non rottama la vecchia sinistra soltanto, rottama il Novecento e i grandi quadri ideologici che lungo tutto il secolo scorso alimentavano lo scontro politico in Europa.

Non è un caso che proprio su questo terreno Macron ha cercato i punti deboli di Marine Le Pen. Certo: da un lato c’è il suo europeismo, dall’altro lato, c’è invece profonda diffidenza non solo verso l’Unione europea, ma verso tutto ciò che va oltre la dimensione dello Stato nazionale. Dal lato di Macron c’è una profonda fiducia nell’ordine economico internazionale e nella sua capacità di futuro; dal lato della Le Pen c’è invece una critica aspra nei confronti di quella specie di dittatura finanziaria che sarebbe il precipitato delle politiche neoliberali imposte da Berlino e Bruxelles. Dal lato di Macron resiste il vocabolario dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei migranti; dal lato di Marine Le Pen c’è sciovinismo e islamofobia, per cui la Francia viene innanzi a tutto e gli stranieri, specie se musulmani, è meglio che non vengano proprio. Queste sono grandi linee di divisione lungo le quali si definisce con nettezza la differenza di identità politica e di proposta programmatica dei due candidati. Ma Macron ci aggiunge la differenza fra il nuovo e il vecchio, una carta che, quando è possibile (e lo sarà sempre, finché non si consoliderà un nuovo quadro politico), viene giocata con grande profitto. E così, mentre dietro Macron non c’è nulla, e  quello che lui promette e di cui discute è solo avanti a lui, dietro la Le Pen ci sono ancora le risorse simboliche della destra estrema, i fantasmi del passato, il radicamento nella Francia profonda, una certa cultura del risentimento, e insomma: quello che rappresentava il vecchio patriarca Jean Marie, fondatore del Front National, dal quale Marine Le Pen, l’erede politica, non si sarebbe mai staccata, nonostante la strategia di «dediabolizzazione» sventolata in questi anni.

Così, al dunque, rimangono due le France che vanno al voto: quella aperta al mondo, progressista, liberale, modernizzante, tendenzialmente cosmopolitica e dal vivace spirito urbano, e quella invece diffidente verso lo spirito di apertura, che agita sentimenti di rivalsa: dei «veri» francesi contro gli immigrati, delle periferie contro i palazzi del potere, dei perdenti della globalizzazione contro i pochi che se ne approfittano, delle persone in carne e ossa contro le gelide astrazioni del capitale, della tecnica e del denaro.

Ce n’è abbastanza per allestire nuovi conflitti e nuove linee di frattura. Ma il lessico della politica europea deve essere necessariamente reinventato.

(Il Mattino, 7 maggio 2017)

L’insostenibile trincea dei diversamente avversari

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C’è dell’ironia involontaria nella scelta del nome che i comitati riuniti a Roma da Massimo D’Alema si sono dati. Nome nuovo e simbolo nuovo: conSenso. L’ironia non sta tanto nel doppio significato della parola, scritta con la maiuscola in mezzo, quanto nell’ambizione: di quale consenso si parla? Del consenso di una formazione che, alla sinistra del partito democratico, dovrebbe raccogliere tutto il malcontento manifestatosi già a dicembre, con il No al referendum costituzionale. Raccoglierlo tutto non è un’impresa facile, perché alla sinistra del Pd si fa fatica a contare il numero di formazioni, forze e partiti che a vario titolo hanno la medesima aspirazione. L’elettore medio non lo sa, ma esiste ancora, da quelle parti, l’eredità comunista di Rifondazione; forse ne ha perso la memoria, ma ci sono ancora formazioni e associazioni verdi e ambientaliste. C’è Possibile, il movimento di Pippo Civati. C’è Sinistra italiana, anche se rischia di dividersi irreparabilmente nel corso del suo primo congresso. C’è Pisapia, che vuol fare una cosa tutta nuova. E sicuramente ci sono altre sigle, di cui non è facile serbare il ricordo. Poi, nel Pd, ci sono Cuperlo, Rossi, Emiliano, Speranza, Bersani: tutti avversari di Renzi ma, manco a dirlo, diversamente avversari.

Nulla di nuovo, in verità: il minoritarismo è una vecchia malattia della sinistra italiana. Proprio perciò, si potrebbe dire, questa volta l’ex Presidente del Consiglio sta facendo la cosa giusta, proponendo un’ipotesi di ricomposizione di un’area che, dopo la scoppola rimediata da Renzi al referendum, avrebbe davanti a sé una prospettiva politica chiara e larga.

In realtà, è vero esattamente il contrario. Quel che non si capisce è infatti perché la sinistra-sinistra dovrebbe trovare in Massimo D’Alema il suo campione. Dopo averlo per anni rappresentato come l’uomo dell’inciucio con Berlusconi, della Bicamerale, del patto della crostata, della Lega costola della sinistra e di Mediaset risorsa del Paese – per non dire della guerra nell’ex Jugoslavia, o della riforma del mercato del lavoro (che non comincia con il Jobs act, ma con i governi dell’Ulivo) – tutti quelli che sono usciti da sinistra prima dal Pds, poi dai Ds, poi dal Pd, trovando D’Alema ogni volta alla propria destra, ora dovrebbero invece affidare a lui le chance di rinascita della sinistra quella vera, quella tradita dal Pd di Renzi.

C’è dell’ironia involontaria, perché il consenso di cui si tratta non è quello che D’Alema e i suoi vogliono riconquistare, ma solo quello che vogliono erodere al Pd. D’Alema non vuole aggiungere, vuole sottrarre. Lo scenario neo-proporzionalista disegnato dalla decisione della Consulta glielo consente. Si può discutere se vi sia uno spazio politico per la formazione che D’Alema si prepara a far nascere; è indiscutibile che, con la nuova legge, vi sia uno spazio parlamentare. Piccolo, ma in uno scenario frammentato non insignificante. Perciò non c’è bisogno di particolari doti divinatorie: se, come è probabile, non si troverà un accordo sul Mattarellum proposto dal Pd e si rimarrà dentro coordinate di tipo proporzionale, si può star certi che conSenso nascerà.

Si dice: la storia della sinistra italiana è punteggiata di divisioni, da Livorno a Palazzo Barberini fino alle lacerazioni post-comuniste della seconda Repubblica. È vero, ma fratture e scissioni hanno avuto un senso diverso, a seconda della prospettiva politica in cui si inscrivevano: in un primo senso, si è trattato dell’integrazione nelle strutture dello Stato democratico e, quindi, dell’ingresso nell’area di governo; in un secondo senso, si è trattato di una chiave del tutto opposta, di rifiuto di qualunque compromesso con le regole della democrazia borghese. In un ultimo senso, si è trattato invece di un mero riflesso identitario, di una chiusura idiosincratica e difensiva rispetto a cambiamenti mal digeriti è mai accettati. In quest’ultimo senso Renzi è stato vissuto da D’Alema fin dal primo giorno in cui il sindaco di Firenze ha lanciato la sua opa sul Pd. Un estraneo, un usurpatore, un pericolo per la ragione sociale della ditta.

ConSenso nasce infatti non tra coloro che hanno votato No, non tra coloro che vogliono abbattere il capitalismo, non tra quelli che vogliono ritornare all’articolo 18 e neppure tra quelli che vogliono la democrazia diretta è nuove forme di partecipazione: nasce tra quelli che non vogliono Renzi. In conciliaboli privati , D’Alema del resto non lo nasconde: non è una questione programmatica, non può esserlo per chi ha discusso con Berlusconi di semipresidenzialismo, per chi vantava, quando era al governo, rigore nei conti e avanzi primari come neanche la Destra storica di Quintino Sella, di chi, infine, ha litigato aspramente con la Cgil di Cofferati. Non è una questione programmatica, è una questione politica in senso esistenziale, è una frattura incomponibile fra amici e nemici. In una fase storica profondamente segnata dal risentimento, che nasca un piccolo soggetto politico da una spinta di questo genere non può sorprendere. Che a farlo nascere sia l’ultimo erede del partito comunista di Togliatti e Berlinguer sorprende un po’ di più. Che infine non si veda, o si faccia finta di non vedere che torti e ragioni contano assai poco, perché il partito del risentimento non potrà mai essere conSenso, ma solo i Cinquestelle, ecco: questa è cosa che sorprende molto, molto di più.

(Il Mattino, 29 gennaio 2017)

La politica dei passi felpati

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Si chiama antanaclasi. Parola difficile, concetto semplice. È la figura retorica alla quale ieri, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha fatto abbondantemente uso. L’antanaclasi è un’apparente tautologia, che tuttavia nasconde un significato sottinteso. Se diciamo che gli affari sono affari, non vogliamo affatto pronunciare una banalità, ma sottolineare un elemento, che fa premio su altri. Così, tutto il tono della conferenza del premier era del tipo: il governo deve governare. E si capisce: che altro dovrebbe fare un governo? Per esempio la legge elettorale, visto che l’Italicum nasceva da un’iniziativa governativa. E invece no: nessuna intromissione nel lavoro del Parlamento né pressioni sul Quirinale. Il governo sta al suo posto. Palla lunga e pedalare. Dire però che il governo governerà, e non farà nient’altro che governare, non è né inutile né ovvio, né appartiene solamente al rituale dell’incontro con la stampa. Dirlo ha il significato che può avere la dignitosa serietà di chi intende fare il suo dovere pur in mezzo a scetticismi, dubbi e risatine. Il resto si vedrà. Così tutti si chiedono se con questo atteggiamento gommoso e privo di spigoli – che nel vocabolario della politica di una volta si potrebbe definire: forlaniano – il governo andrà alla fine naturale o alla fine anticipata della legislatura. Gentiloni ha fatto mostra di non curarsene, piazzando un paio di antanaclasi qua e là – la sconcertante «banalità» di un governo che «resta in carica fino a che ha la fiducia del Parlamento», lo «svolgimento di una funzione di servizio», lo «scusate se dico cose ovvie» –  e rinviando con un «si vedrà» le questioni più spinose.

Il tema dei temi resta tuttavia la legge elettorale. Detto che non ci sarà una proposta del governo in materia, Gentiloni ha scelto tre verbi per indicare il modo in cui il suo governo seguirà la partita: facilitare, accompagnare, sollecitare. Ha provato anche a coniugarli insieme, con un «accompagnare sollecitando», che ovviamente vale quanto un «sollecitare facilitando» o un «facilitare accompagnando». Ma non è ironia: è nel modo distaccato in cui Gentiloni accompagnava anzitutto le sue parole – lente, misurate, equilibrate –il senso di un compito che non vuole essere a termine, ma che non può proiettarsi in una prospettiva di lungo periodo. O forse meglio: che non sarebbe aiutato nel suo lavoro se si proiettasse in una dimensione diversa. Gentiloni sa insomma di non dover fare ombra a Renzi. Quando la sua ombra si materializza, quasi per caso, Gentiloni formula en passant l’augurio che l’ex premier si stia riposando senza ascoltare la sua conferenza stampa. Lo dice per understatement, ma per non essere frainteso aggiunge subito che il riposo duri «solo qualche giorno». Altra sottolineatura riserva al ruolo di Renzi come segretario del suo partito, che è di nuovo una maniera di dire: non vi aspettate che sia io a piantare un cuneo tra Renzi e le elezioni.

Il problema se mai è nella maggioranza. Non per via dell’esclusione dei verdiniani dai posti di governo (ma Gentiloni è riuscito a smussare pure il senso di questa decisione, che non va rubricata secondo lui sotto il titolo di una rottura con Ala), bensì per la difficoltà di individuare fin d’ora una proposta condivisa sulla materia elettorale. Non è cosa di cui gioire, e Gentiloni non gioisce, perché ne va del funzionamento delle istituzioni. Ma è chiaro che non sarà lui a risolvere il problema.

Per il resto, Gentiloni guida l’esecutivo da troppi pochi giorni, per poter dare più sostanza alle sue dichiarazioni. Lavoro, Sud e giovani sono le parole chiave, dice il Presidente del Consiglio. Ma colpisce che a un certo punto il premier se ne esca con un disarmante «non mi chiedete di sciorinare così, all’impronta, programmi di governo».

I punti che Gentiloni ha toccato sono comunque tutti in linea di continuità con l’azione del precedente governo, né poteva essere altrimenti. E la continuità è stata da Gentiloni accettata come una critica ma anche rivendicata come un dato oggettivo. Gentiloni ha fatto un bilancio positivo dell’azione non del suo governo – di cui ha potuto citare, per ovvie ragioni di tempo, solo la tempestività del decreto salva-risparmio su Montepaschi – ma del governo a guida Renzi, in termini di politiche della sicurezza, gestione dei flussi migratori, crescita dell’economia e riforma del mercato del lavoro, lotta all’evasione fiscale, gestione dei flussi migratori. Ma sempre con toni pacatissimi, senza nessun acuto particolare. Dopo di che ha detto a un certo punto: «se poi volete la mia personale accentuazione», ed effettivamente la personale accentuazione non era facile trovarla. Se non per differenza rispetto al suo predecessore e al suo stile decisamente più pirotecnico. Per esempio, alla domanda sui propositi del governo in materia fiscale, ha risposto in maniera quasi sedativa: «sinceramente non sono in grado di fare un discorso serio sulla riduzione dell’Irpef».

Sui temi di sua più stretta competenza, per via della sua esperienza alla Farnesina, Gentiloni ha mostrato molta più solidità: sull’europeismo e l’atlantismo dell’Italia, sulla necessità di rivedere i rapporti con Putin, senza assecondare tentazioni da guerra fredda, sulla necessità di una politica internazionale per il Mediterraneo, che non può divenire «mar nullius», sulla critica del «puntiglio regolatorio» di Bruxelles che non aiuta la crescita né l’immagine delle istituzioni europee presso la pubblica opinione.

Ma l’espressione che sintetizza la condizione in cui si trova il governo Gentiloni l’ha pescata dalla lingua francese: «il faut faire avec». Bisogna fare con quello che c’è. È un’antanaclasi pure questa: si può mai fare qualcosa con quello che non c’è? Certo, forse Renzi avrebbe provato a dire che sì, si può fare pure quello. Ma Gentiloni non ha concesso voli pindarici, annunci mirabolanti o risultati strabilianti. Né per oggi né per domani. Gli italiani devono sapere che lo Stato c’è, che le istituzioni continuano a funzionare, in attesa che nuovi scenari politici si disegnino. A lui tocca solo «ricucire». Gentiloni non voleva dire «sopire», ma c’è andato vicino.

(Il Mattino, 30 dicembre 2016)

Il Paese dove tutti i partiti perdono voti

Boetti

I dati messi a disposizione dall’Istituto Cattaneo non stravolgono le valutazioni immediatamente successive al voto di domenica, ma consentono di offrire analisi più accurate. L’Istituto avverte che il raffronto con le politiche del 2013 non è omogeneo, ma rimane il retroterra più sicuro per studiare l’evoluzione del comportamento elettorale. Soprattutto in relazione ai risultati del Movimento Cinquestelle, che aveva a sorpresa conquistato, tre anni fa, un quarto circa dell’elettorato. Alla domanda se quel risultato debba essere considerato un effimero exploit il Cattaneo risponde di no, dati alla mano. Perché l’analisi dei flussi elettorali, in entrata e in uscita, mostra che quella parte dell’elettorato si sta fidelizzando: chi ha votato M5S tre anni fa è tornato a farlo domenica scorsa. L’astensionismo, in crescita, tocca anche i grillini, ma il grosso di quegli elettori è rimasto fedele al Movimento: nonostante la tragica uscita di scena di Casaleggio e il relativo disimpegno di Grillo. Fa eccezione Napoli, dove sono consistenti i flussi elettorali in direzione di De Magistris. In vista del ballottaggio, il Sindaco di Napoli sembra perciò poter dormire fra due guanciali, visto il distacco da Lettieri e la relativa facilità con cui può attrarre la parte del voto grillino andata a Brambilla (mentre l’impresa di Lettieri, di motivare il voto democrat, appare obiettivamente più complicata).

C’è stato dunque un fenomeno di assestamento del M5S. Il calcolo sui voti validi dimostra però che, sia in termini assoluti sia in percentuale, i Cinquestelle hanno perso voti. E questo nonostante il trascinante successo di Virginia Raggi a Roma. Significa forse che il gran battage mediatico sulla candidata romana ha oscurato il dato reale, che nel complesso non è stato affatto clamoroso? In parte almeno è così. È evidente, infatti, che i Cinquestelle non hanno ancora una leva di candidati all’altezza: basti pensare a quanti pochi siano i casi di ballottaggio con un esponente pentastellato. E anche le performance deludenti di Napoli e Milano lo dimostrano. Ma è vero pure che, in un sistema che eredita il bipolarismo ventennale della seconda Repubblica, il destino di un partito che non esercita nessuna attrattiva coalizionale è quello del tutto o nulla. In questa prospettiva, Roma rimane ancora, per i Cinquestelle, la fiche posta sul tavolo per far saltare il banco, indipendentemente dai risultati a macchia di leopardo nelle restanti città capoluogo.

I dati del Cattaneo riservano però qualche sorpresa anche al centrodestra e al centrosinistra. E, si direbbe, non negativa. Entrambi i poli infatti realizzano un certo recupero rispetto alle politiche di tre anni fa. Dal report dell’Istituto non è chiarissimo cosa si intenda per centrosinistra o per centrodestra: e questa è anche un altro dei problemi che affliggono il nostro sistema politico: dove iniziano e dove finiscono i due schieramenti non lo si sa bene, e spesso non si sa neppure quale nome abbiano. Ad ogni modo, è indubbio che c’è ancora un voto polarizzato alla sinistra e alla destra del campo politico, e quel voto è, sia pure di poco, in crescita, almeno in termini percentuali. Il centrosinistra guadagna un punto, il centrodestra ben quattro. Questo significa che, quando si saranno riattaccati i cocci, che sia per la residua capacità federativa di Berlusconi o per l’emergere di nuove figure e stili politici, è presumibile che la guida del Paese tornerà contendibile anche da quella parte politica.

A leggere i dati, e a guardare anche i flussi (che riguardano tuttavia solo sette città, tra le quali non ci sono Roma e Milano) si può forse indovinare meglio il bivio dinanzi al quale ci troviamo. Si vede infatti che contano senz’altro le situazioni particolari, come quelle di Napoli e Salerno, dove proposte politiche molto peculiari determinano flussi più marcati, in particolare in entrata verso i sindaci uscenti, Luigi De Magistris e Enzo Napoli, e in uscita, nel capoluogo partenopeo, soprattutto dal Pd. A dimostrazione di una crisi conclamata del partito democratico, che dura da parecchi anni e che queste elezioni non hanno affatto superato, se mai acuito. Conta tutta ciò, ma nel complesso si fa chiaro che la divisione in tre blocchi del consenso politico, fra centrosinistra, centrodestra e Cinquestelle è in via di consolidamento, con pochi, marcati travasi di voti da una parte all’altra. A fare la differenza è se mai la capacità di non perdere ulteriori consensi verso l’area dell’astensione. I ricercatori del Cattaneo mostrano infatti che neanche i M5S riesce a riportare al voto gli astenuti. Resta così il bivio al quale il voto amministrativo ci consegna per i mesi a venire: da una parte si restringe la base di legittimazione degli istituti della democrazia rappresentativa; dall’altra, rimane la necessità di assicurare governabilità pur in presenza di un Paese diviso in tre. E la formula risolutiva del problema è ancora da trovare.

(Il Mattino, 8 giugno 2016)

Se l’elettore non si tura più naso e orecchie

Cicladi

Forse questo primo turno amministrativo può dispensare qualche certezza anche se, a quanto pare, nelle principali città italiane, quelle sulle quali si concentra in prevalenza l’attenzione dell’opinione pubblica, non eleggerà alcun sindaco e bisognerà attendere il ballottaggio. Nel frattempo, infatti, gli uscenti sono dati in vantaggio: sia a Torino che a Napoli; sia Fassino che De Magistris. Due uomini che non potrebbero essere più diversi. In realtà, da quando c’è l’elezione diretta del sindaco la regola – che pure ammette un buon numero di eccezioni – è che il sindaco che si ripresenta viene rieletto. La stessa legge, imponendo il limite dei due mandati, dimostra consapevolezza del vantaggio da cui parte chi detiene il controllo della macchina comunale. E questo è un primo punto, dal quale ogni volta si riparte.

Un altro punto, più importante, è che l’elettorato tende a premiare liste e candidature che non sono state logorate da conflitti interni. Questa regola riguarda tanto le forze politiche tradizionali, quanto le nuove formazioni. Prendiamo i Cinquestelle: a Napoli hanno avuto non pochi problemi a individuare il candidato; i big hanno preferito non scendere in campo; una parte dei militanti non ha digerito la scelta abbastanza incolore di Matteo Brambilla, minacciando addirittura di adire le vie legali. Risultato: il Movimento è abbondantemente al di sotto della media nazionale, e fa probabilmente peggio anche del risultato ottenuto con la Ciarambino alle Regionali dello scorso anno. Pesa sicuramente il consenso per De Magistris, ma i grillini ci hanno sicuramente messo del loro. Stessa cosa a Milano, dove la candidata indicata in un primo momento, Patrizia Bedori, si è fatta (o è stata fatta) da parte. Fortissima fibrillazione, e Milano uscita fuori dai riflettori del Movimento. Risultato: la partita se la giocano Sala e Parisi, centrosinistra e centrodestra, e i Cinquestelle ottengono percentuali tutto sommato modeste. Del candidato, Gianluca Corrado, si conserverà traccia solo in qualche almanacco di figurine.

Guardiamo altrove. Nel centrodestra, Roma è stato l’epicentro di tutti i conflitti, il caso più eclatante. Da una parte un elettorato di centrodestra moderato, con Alfio Marchini; da un’altra parte un elettorato di destra populista, con Giorgia Meloni (e Salvini a supporto). Conseguenza: la destra è con ogni probabilità fuori dalla partita finale, quella del ballottaggio. E la lista di Forza Italia, che ha prima provato a puntare su Bertolaso per poi accodarsi a Marchini fra mille polemiche tocca il suo minimo storico, con percentuali dai quali è dubbio che possa in futuro riprendersi.

Nel centrosinistra, l’impresa più difficile è stata Napoli. A Napoli le primarie hanno decretato un vincitore, Valeria Valente, che Antonio Bassolino, il perdente, ha a lungo mostrato di non riconoscere: impugnando il risultato, chiedendo di rivotare, contestando poi puntualmente tutte le scelte compiute nel corso della campagna elettorale. Risultato: la lista del partito democratico rimane ferma, grosso modo, alle percentuali ottenute cinque anni fa col prefetto Morcone, dopo la debàcle dell’annullamento delle primarie, e al momento gli exit poll danno la Valente terza, e dunque fuori del ballottaggio.

Conclusione: gli elettori non si turano più il naso. Essendo venuto meno il sentimento forte di un’appartenenza ideologica o di partito, non hanno più motivo di farlo. Una proposta politica diviene quindi inevitabilmente più convincente, quando è rappresentata con chiarezza dal candidato prescelto, mentre divengono sempre meno comprensibili i disaccordi e i contrasti interni: non essendo più riconoscibili divisioni di carattere ideologico, culturale o programmatico, non resta che la lotta di potere e l’ambizione personale. Che in genere l’elettore non apprezza.

C’entra anche la personalizzazione della politica? Sicuramente. Tanto più in una competizione come quella municipale, con l’elezione diretta, dove quindi imbroccare il candidato giusto può fare la differenza. E anche in questo caso, ciò è vero a destra come a sinistra, così come dalle parti dei grillini. Vale cioè per Parisi a Milano, che porta il centrodestra molto più in alto che altrove, ma anche per la Appendino a Torino, che rimane in partita nonostante il credito di cui godeva Fassino alla vigilia. Vale infine pure per Giachetti a Roma, che ha permesso al Pd di superare lo sbandamento seguito alle dimissioni di Marino e alla fine traumatica della consiliatura, e probabilmente di rimanere in partita.

C’entra dunque il fattore personale. Ma pesa pure l’esiguità di quelli che erano una volta gli «interna corporis» dei partiti. Che quasi non esistono più. E che comunque non riescono più a tener dentro un bel nulla. Ed ecco allora l’ultimo risultato: la legittima, e insopprimibile, lotta politica si riversa nei canali artificiali di una sorta di circolazione extra-corporea, cioè su media, rete e giornali, e là fuori di legittimità ne conquista sempre meno. L’elettore sente tutti i miasmi che si sollevano e siccome il naso non se lo tura più, vota da un’altra parte o, più spesso, si astiene.

(Il Mattino, 6 giugno 2016)

Riuscirebbero i grillini a reggere se fallisse la conquista di Roma ?

Superstudio

Tutti in piazza per Brambilla sindaco, a Napoli. Tutti in piazza per Bugani sindaco, a Bologna. E soprattutto: tutti in piazza per Raggi sindaco, a Roma. E piazza del Popolo si è riempita: la mobilitazione c’è stata, e l’aspettativa di una vittoria della candidata a cinque stelle rimane molto alta. La lunga marcia nelle istituzioni del Movimento avrebbe sicuramente una svolta, se Virginia Raggi dovesse diventare sindaco di Roma. L’assalto al cielo della politica italiana sarebbe cominciato. A Renzi rimarrebbe la partita del referendum istituzionale, ma un sindaco grillino nella Capitale trasformerebbe immediatamente il Movimento in un’altra cosa, cioè in un’alternativa politica reale. Finora, chi vota cinque stelle ha molto chiaro a cosa dice no, e chi vuole mandare a casa, ma è molto meno sicuro di cosa significhi dare il governo del Paese ai Cinquestelle. A quale cultura politica? A quale ceto politico? Per farsene un’idea, non possono bastare Parma, Livorno o Quarto. Roma invece sì, il Campidoglio sarebbe il terreno ideale per dimostrare, in vista delle politiche, che da quella parte non ci sono solo grillini chiassosi e intransigenti, ma una classe dirigente in grado di gestire la capitale del Paese, e dunque anche di andare su su, fino a Palazzo Chigi. E poiché nemmeno i Cinquestelle possono venire tutti dalla luna, si vedrà anche come riempiranno le seconde e terze file, a quali serbatoio di ceto politico e professionale attingeranno, e in che modo si confronteranno con le burocrazie pubbliche.

Ma anche il contraccolpo sul Movimento, nel caso in cui la Raggi non dovesse farcela, sarebbe di non poco momento. Nel 2013, i Cinquestelle sono arrivati primi, dietro solo alla coalizione del Pd di Bersani (peraltro subito accantonata dai democratici). Pur rappresentando un quarto circa dell’elettorato, dopo circa tre anni i grillini non riescono ancora a presentare proprie liste in tutti i comuni. È una situazione paradossale, mai altrove verificatasi: che il primo partito su base nazionale non sia rappresentato ovunque, su base locale. Se la Raggi non dovesse vincere, se i Cinquestelle non raggiungessero il ballottaggio nelle principali città italiane, la fisionomia sfilacciata del Movimento non sarebbe nascosta dal valore simbolico del sacco di Roma, e le spinte centrifughe si moltiplicherebbero.

Anche sul piano organizzativo, il Movimento è su un crinale sottile. Perché parla sempre meno di streaming, sempre meno di «uno vale uno», sempre meno di decisioni prese dagli iscritti, mentre sempre più chiaramente emergono leadership o potenziali leadership, direttori, riunioni riservate e cerchi magici. La Raggi che promette di ascoltare, in caso di elezione a sindaco, i parlamentari, e il deputato europeo, e il consigliere regionale, non sembra proprio che prenderà le decisioni riunendo la base dei meetup della capitale. Ma finché vinci, o i sondaggi ti danno vincente, è difficile che ti venga rinfacciata la contraddizione. Diverso è però se perdi: allora i mugugni crescono, la conflittualità interna sale, viene anche per i grillini l’ora livida dell’analisi del voto e la piega presa dal Movimento  può facilmente esserti rimproverata come una deviazione dal progetto originario.

Fin qui, Grillo e Casaleggio hanno tenuto insieme il Movimento a colpi di sospensioni ed espulsioni. I gruppi parlamentari grillini di deputati e senatori ne hanno persi parecchi, e però le sorti del Movimento non ne hanno finora risentito. Se il Movimento si conferma sulle percentuali del 2013 ed elegge la Raggi sindaco, queste sono bazzecole. Se le cose vanno diversamente, allora son dolori (forse).

(Il Mattino, 5 giugno 2016)

Se la vigilia ricompatta la politica

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Che il 5 giugno, con il voto amministrativo nelle principali città italiane, non sia in gioco il governo Renzi, è sicuramente vero: se non altro perché in molti casi, se non in tutti, la partita si giocherà al secondo turno, due settimane dopo. Sia a Napoli, che a Roma, che a Milano – ma forse anche in altre città come Torino o Bologna – ci sarà infatti bisogno del ballottaggio. E al ballottaggio, ha detto ieri Renzi parlando a Napoli, si gioca un’altra partita, si parte dallo zero a zero. Ed è vero, per diverse ragioni. È vero perché a metà giugno cambia la percentuale dei votanti, che cala fisiologicamente e costringe i candidati rimasti in lizza a moltiplicare gli sforzi per spingere i propri elettori a tornare alle urne una seconda volta. È vero perché si riposiziona il voto dei perdenti, usciti di scena al primo turno. È vero perché emergono con maggiore nettezza le differenze fra i due candidati rimasti in gara e gli schieramenti che li sostengono. È vero perché cambiano le stesse motivazioni del voto, e la logica da «second best», la logica del male minore, può cambiare le scelte degli elettori (e le percentuali del primo turno). È vero soprattutto quando la competizione è stata drogata dalla pletora di liste e candidati messi in campo per acchiappare consenso pur che sia. Questa volta è andata proprio così, molto più che in passato. E la polverizzazione del consenso, che viene raccolto dalle lunghe code di candidati infilati nelle liste più diverse, comporta un forte rischio di dispersione, quando le liste scompaiono di scena e s’alza forte il vento del ballottaggio: la polvere rischia di volare via, o di non depositarsi dove si è raccolta al primo turno.

Ma è il meccanismo stesso del doppio turno che rende possibile la rimonta. Il secondo voto non ha infatti il significato di un voto confermativo. E di casi in cui chi era dietro e dato per sconfitto è riuscito a ribaltare i pronostici e a vincere al secondo turno ce ne sono stati di clamorosi. A Napoli, innanzitutto. Cinque anni fa, De Magistris arriva dietro a Gianni Lettieri di quasi dieci punti: 27,5 contro il 38,5 di Lettieri. Due settimane dopo, Giggino ha scassato tutto: 65 contro 35. Un risultato eclatante, reso possibile anzitutto dal voto in libera uscita del centrosinistra e del Pd: un flusso di voti che solo il ballottaggio poteva innescare. Ma è successo anche altrove: a Roma per esempio, dove nel 2008 Rutelli manca la riconferma nonostante il 45,8 per cento del primo turno e quasi centomila voti in più rispetto a Gianni Alemanno. Al secondo turno, finisce centomila voti dietro: 54 per cento contro 46 per cento.

A Venezia protagonisti di rimonte sono una volta Cacciari, col centrosinistra, e un’altra, dieci anni dopo, Brugnaro, col centrodestra. E tutte e due le volte a farne le spese fu la sinistra-sinistra di Felice Casson, per due volte davanti al primo turno e per due volte trombato al secondo. Tutte e due le volte non gli è bastato di sopravanzare il secondo arrivato di più di dieci punti percentuali. Ovviamente, chi è davanti rimane il favorito. Ma il doppio turno va interpretato così, come una doppia partita, non come la stessa partita giocata due volte.

Questa logica è ancora più evidente quando al voto non arrivano schieramenti tradizionali, dai lineamenti chiaramente profilati, come invece accade a Milano, dove il confronto avviene effettivamente tra un centrosinistra e un centrodestra sostanzialmente uniti. Non a caso, a Milano neanche in passato ci sono stati rovesciamenti come quelli verificatisi a Roma o a Napoli. Dove invece le carte si sono mescolate, dove le forze antisistema hanno raggiunto percentuali ragguardevoli, come a Roma o a Napoli, lì è molto più complicato leggere un turno in continuità con l’altro.

Nelle ultime ore, del resto, qualcosa forse è cambiato. L’epopea di De Magistris a Napoli, o il fascino della Raggi a Roma si fondano anche sui disastri delle forze politiche tradizionali,  in particolare del centrosinistra: sui rovesci delle passate primarie a Napoli; sulla fine ingloriosa della giunta Marino a Roma. Ma sia a Roma che a Napoli, benché Renzi abbia cercato di non accollarsi in prima persona il risultato del 5 giugno, e soprattutto i suoi effetti politici, un tentativo di ricomposizione del quadro politico è stato avviato. Ieri Bassolino era alla Mostra d’Oltremare, a fare il suo dovere di «padre fondatore del Pd». A Roma, Giachetti ha avuto il sostegno di quasi tutto il Pd, da Orfini a Veltroni a Zingaretti, e i distinguo residuali di D’Alema si sono persi nelle polemiche della minoranza democrat, sempre più sbiadita e meno convinta.  Difficile capire se questo profilo più compatto del  partito democratico avrà un seguito anche nelle urne. Però contribuisce a rendere più chiara la posta in gioco. E gioverebbe anche al centrodestra, come giova a Milano, con Parisi, presentarsi coeso intorno a un candidato capace – come si dice – di fare la sintesi. Quando questo accade, al secondo turno rimane ancora la possibilità di decidere se continuare a scassare, ma almeno dall’altra parte c’è qualcosa di più delle macerie della volta scorsa.

(Il Mattino, 4 giugno 2016)

Sotto quella bandana un bilancio da nascondere

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Un uomo solo al comando: a quindici giorni dal voto, i sondaggi danno in vantaggio il sindaco uscente, Luigi De Magistris. A distanza tutti gli altri candidati. Così d’altronde è iniziata questa campagna elettorale, e così probabilmente continuerà: con De Magistris avanti e gli altri a inseguire.

Sull’entità del distacco fra il primo cittadino e tutti gli altri si deve essere tuttavia molto più prudenti, perché i sondaggi premiano la popolarità di Giggino, ma non registrano con altrettanta efficacia peso e composizione delle liste, che invece in questa sfida amministrativa contano eccome. Non che De Magistris non vi abbia pensato: se infatti cinque anni fa si presentò con quattro liste a sostegno, questa volta invece le liste sono salite a quattordici (salvo perderne quattro per irregolarità formali). Più che indicare una crescita del consenso, il dato segnala però la necessità di raccogliere voti attraverso il rapporto personale dei candidati col territorio, rinforzando possibilmente la squadra anche con transfughi di altri schieramenti. C’è molto poco di cultura politica e di partito, in questi processi, ma tant’è: tutti vi si sono adeguati, e al giudizio degli elettori si presentano in centinaia. Con De Magistris, ma pure con Lettieri e Valente. Fanno eccezione i grillini, il cui consenso segue altre, più collettive strade, come accade a tutti i movimenti politici nelle fasi iniziali.

Lo stesso ragionamento vale ovviamente per le elezioni circoscrizionali: anche in quel caso ci sarà sicuramente un effetto di trascinamento delle truppe di complemento sulla sfida principale, per l’elezione diretta del sindaco. Sotto quest’aspetto, dunque, i principali contendenti, e schieramenti, si somigliano parecchio.

Se questo è vero, allora la partita è molto più equilibrata di quanto i sondaggi non lascino pensare.

Ma non è l’unica considerazione che convenga fare. Il modo in cui De Magistris sta conducendo la campagna elettorale – toni forti e appassionati, per dirla eufemisticamente, e un nemico individuato non nei suoi avversari politici, ma a Palazzo Chigi –  indica la direzione che intende intraprendere, dopo il voto. E l’ambizione che lo spinge. Su questo giornale, Isaia Sales e Francesco Durante si sono soffermati, nei giorni scorsi, sui motivi del consenso di cui attualmente il Sindaco gode. È interessante che nelle loro analisi non stia in primo piano la qualità dell’azione amministrativa espressa. Quando Luigi De Magistris vinse, scassando tutto, si presentò con due tratti precisi, anche se uno soltanto si impose davvero: da una parte, il magistrato divenuto famoso per le inchieste sulla politica che lotta contro i poteri forti e spazza via il malaffare dei vecchi partiti; dall’altra, un recupero di efficienza amministrativa, di trasparenza, rigore e serietà. A consuntivo, il primo De Magistris si vede, il secondo risulta non pervenuto: qualcosa vorrà pur dire.

Per avere una solida pietra di paragone: Pierò Fassino – anche lui, come il sindaco partenopeo, in cerca di riconferma nella sua città – sta chiedendo voti in nome dei risultati ottenuti a Torino da lui e dalla sua giunta. Parla di bilancio, di investimenti, di quartieri risanati; De Magistris no: nulla di tutto questo. De Magistris ci mette il cuore e manda a cagare. E il risultato principale di cui ,e a vanto è la derenzizzazione, come se fosse un merito tenere Napoli fuori da qualunque circuito istituzionale.  Così, quel che lascia intravedere ha molto di più i lineamenti del suo personale futuro politico che quelli di un progetto di città. Napoli liberata da Renzi cosa mai farà, il giorno dopo il voto? Non si sa.

Il fatto è che lo spazio politico a sinistra, per il capopopolo del Vomero, c’è, mentre mancano altri attori credibili sul piano nazionale. La sinistra italiana di D’Attore e Fassina, del resto, è già alle prese con diatribe interne, e Il sindaco di Napoli sogna di usare la tribuna della terza città d’Italia per arrivare in Parlamento da pifferaio di tutte le opposizioni al premier.

Già, perché in un simile calcolo entra anche l’ipotesi che al voto si torni prima del previsto. Ma anche se si dovesse arrivare al 2018, De Magistris dovrà portare pazienza per un paio d’anni al massimo, con le scartoffie e le beghe amministrative negli uffici: poi, se ne potrà andare a recitare la sua parte di rivoluzionario parolaio su ben altri palcoscenici.

E forse è proprio questo retro-pensiero che spiega l’atteggiamento di Antonio Bassolino, che ha deciso di assegnarsi la parte del vincitore morale delle elezioni, anche se ha perso le primarie. Ovviamente, la politica non contempla una simile categoria di vincitori e non prevede simili copioni (posto che l’ex sindaco abbia titoli per interpretarlo). Così è più probabile che dietro le continue stilettate che infligge a quello che fu (è?, sarà?) il suo partito, c’è un cattivo augurio per i democratici: che se non fossero capaci di arrivare al ballottaggio e di sfidare il sindaco uscente, dovrebbero cedergli nuovamente il passo. Così probabilmente pensa Bassolino. Che evidentemente ignora come i vincitori morali altro non conseguano, in politica, che vittorie di Pirro.

(il Mattino, 22 maggio 2016)

Il lungo tormento dei post-Pci e la fine del sogno democrat

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«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise», così diceva Vico nella Scienza Nuova: se vuoi sapere qual è la natura di una cosa, guarda com’è nata. Ora, il partito democratico è stato fondato nell’ottobre del 2007, sotto il secondo e periclitante governo Prodi, di cui ha probabilmente accelerato la caduta. L’anno successivo, sotto la guida di Veltroni, si è presentato alle elezioni e le ha perse. Quest’anno si è invece presentato sotto la guida di Bersani, e le ha «non vinte». Tra l’uno e l’altro, è stato retto per meno di un anno anche da Dario Franceschini, nel 2009. È partito con il 33,1 di Veltroni, è arrivato con il 25,4 di Bersani. La sua storia è tutta qui, in queste poche righe. E non è detto che continuerà ancora.

Ma per descriverne la natura occorre guardare più indietro. È sempre Vico che insegna: «le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze», e voleva dire: spurie, apocrife e mescolate. Così è stato per il Pd. Dietro il partito democratico c’è stato infatti il tentativo di irrobustire la creatura politica che, negli anni Novanta, aveva consentito alla sinistra ex-comunista, già transitata attraverso il Pds e i Ds, di andare al governo: non da solo, ma insieme con la sinistra democristiana, che nel frattempo aveva dato vita prima al partito popolare, poi alla Margherita, con la confluenza di piccole componenti liberal-democratiche. Un «amalgama mal riuscito», disse una volta D’Alema, e alla luce di com’è andata, è difficile dargli torto.

È vero però che le culture politiche che avevano fatto la prima Repubblica dovevano comunque provare a rimescolarsi e innovarsi, dopo le tre profonde fratture che avevano terremotato il sistema politico italiano: la caduta del Muro, l’inchiesta Mani Pulite e l’uscita della lira dallo SME (è infatti dai tempi della rivoluzione francese che crisi finanziarie e crisi politiche vanno a braccetto). Il primo frutto del rimescolamento è stato l’Ulivo, nel ’96; il secondo, l’Unione, nel 2006; il terzo, il Pd. Il terzo doveva rappresentare il coronamento di un progetto politico lungo un decennio: rischia invece di esserne la fine. Perché non si sono mai veramente ricomposti due opposti progetti: quello di chi spingeva per accelerare la trasformazione delle culture politiche di origine, e quello di chi invece cercava di preservarne le caratteristiche distintive. Col Pd, ha prevalso il primo progetto, senza che però le tensioni fossero veramente risolte. La drammatica crisi di queste ore le ha di nuovo portate in superficie.

Se però si guarda dentro il fitto scambio di accuse, veleni e sospetti di queste ore, si trova qualcosa di più di un confronto tra ex-comunisti ed ex-democristiani. Si trovano due idee diverse di riforma della politica e della società. Il guaio è che anche queste faticano ad amalgamarsi. Una è nata negli anni Novanta, quando la sinistra europea cercava una «terza via» tra la socialdemocrazia del passato e la vulgata liberista del presente. Un libro di Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair, dice forse più cose del suo stesso contenuto: «Oltre la destra e la sinistra». Il fatto è che, senza mai veramente imboccarla, il Pd ha cercato comunque di proseguire per questa via, anche quando nel resto d’Europa veniva abbandonata, o almeno fortemente riconsiderata. Non perché dovevano tornare con forza la nostalgia di una sinistra fortemente identitaria e refrattaria al cambiamento, ma perché nel fuoco della crisi le sue risposte sono apparse subalterne alla ricette monetariste su cui è stata costruita l’Europa dell’euro.

E siamo alle vicende degli ultimi mesi: la segreteria Bersani ha provato a sterzare e prendere un’altra via, ma lo ha fatto mentre nel frattempo il vento del «cambiamento» così speso evocato aveva incrinato seriamente gli altri elementi intorno a cui soltanto può costruirsi un partito, e cioè l’organizzazione e il gruppo dirigente. Finiti sotto accusa delle virulente campagne anti-casta, all’ombra delle quali è esploso il fenomeno Grillo, non c’era più una cultura politica condivisa che facesse da scudo alle campagna moralizzatrici (e spesso semplicemente denigratrici). E, purtroppo, nessun partito può sopravvivere quando i suoi stessi iscritti, militanti e simpatizzanti finiscono col non nutrire più né fiducia né stima per la propria memoria storica e per gli uomini che la rappresentano. Le lacrime di ieri di Bersani, a cui va l’onore delle armi, mostrano che il compito di ristabilire una «connessione sentimentale» coi propri elettori e con il paese è ormai affare di una nuova generazione. Con o senza il Pd.

Il Mattino e Il Messaggero, 21 aprile 2013

La democrazia contro la paura

Di tante maniere per amare la democrazia ce n’è una che è la migliore di tutte, ed è quella di considerare pregi i suoi presunti difetti. Perché la democrazia di difetti ne ha: uno vorrebbe che venissero eletti ogni volta i migliori, i più preparati, i più incorruttibili, ma nella conta dei voti queste qualità non sempre spiccano e alla fine le cose non vanno proprio così. Uno si augurerebbe sempre il trionfo della verità, e invece la democrazia fa dell’opinione la regina del mondo. Uno vorrebbe infine un po’ di stabilità, di sicurezza, di lunga durata, e invece la democrazia costringe periodicamente i cittadini al rito elettorale, affida la vittoria ora agli uni ora agli altri, rovescia i governi, e cambia volentieri i rappresentanti del popolo.

Ora, se vogliamo far nascere davvero dalle ceneri della crisi un’Italia migliore, è forse venuto il momento di dire che tutto questo non è una iattura, ma una fortuna. Che la democrazia scommette sul  cambiamento, ha fiducia nel futuro, mette in gioco ogni volta le sorti del paese perché confida che il paese saprà scegliere, magari imparando dai suoi errori. Lo fa non perché suppone cinicamente che la verità non esiste, e allora tanto vale fare la conta dei voti, ma al contrario va sempre nuovamente ricercata, e per questo è meglio farlo tutti insieme.

In verità, non c’è bisogno di filosofeggiare per capire l’importanza politica delle parole del premier Monti. Ieri il premier ha detto che esclude di guidare il governo anche dopo il 2013. La parola torna ai cittadini, la politica si riprende il suo spazio, e, com’è giusto, conduce la sua giusta (possiamo dirlo?) lotta per il potere. L’esperienza del governo Monti è stata ed è importante, al di là (anche se è sempre difficile andare al di là) delle cose buone e delle cose meno buone fatte o da fare. Ma è ancora più importante l’esperienza alla quale il paese si consegnerà con le elezioni politiche. Che non sono un ostacolo, un fastidio o un ingombro, ma un’occasione, anzi l’unica vera occasione per mettere davvero il Paese su una nuova e più fruttuosa strada. Scegliendo, e investendo con convinzione sul valore della propria scelta.

Per questo, se è grande la responsabilità che il premier sta portando in questi mesi, aiutando l’Italia e l’Europa a tirarsi fuori dalla più grave crisi nella quale s’è mai potuta cacciare, ancor più grande sarà quella che porteranno i partiti in campagna elettorale.

E se lo spread, allora, salisse? E, peggio: se qualcuno usasse, se non ha già usato, questo argomento per comprimere gli spazi della democrazia, i luoghi della critica, le possibilità di cambiamento? In quel caso gli si ricorderà quel che la democrazia deve sempre ricordare, per tenere in pugno le ragioni della sua legittimazione, cioè che essa è nata per sconfiggere l’uso politico della paura, di cui quell’argomento è soltanto l’ultima versione. Monti lo sa, e non ha inteso usarlo, né ha inteso sequestrare il futuro al paese. Sta ai partiti, e in primo luogo al Pd, indicare come intende disegnarlo. Come si fa a giocare la speranza contro la paura, la fiducia nel meglio contro il timore del peggio. Che se poi lo spread salisse davvero, salisse ancora (come se poi finora fosse sceso precipitevolissimevolmente), beh: sarebbe una buona ragione per farle subito le elezioni, non certo per rimandarle o per preconfezionarne l’esito.

L’Unità, 11 luglio 2012

Quale allegria

Produrmi, buon ultimo, in una pensosa analisi del voto mi sembra francamente inutile (e inoltre di valore assai discutibile). Può darsi che, avesse vinto il PD, l’euforia avrebbe prodotto decine e decine di post e invece la sconfitta ammutolisce. (Come diceva Walter Benjamin della natura irredenta in cerca di una lingua: che non è triste perché muta, ma ammutolita perché triste – così forse io, altro che la scusa del lavoro*). Io però sono meno preccupato per la sconfitta, che di capire quale sarà la strategia del PD di qui al…2009**, cioè alla prossima tornata elettorale: per le europee, e col proporzionale (e con le preferenze). Il PD andrà da solo, perché col proporzionale per fortuna da solo non ci va solo il PD, ma ci vanno tutti. Il che però forse significa niente flusso di voti utili verso il PD. Io sono certo che nel 2018 vinceremo, forse se facciamo le cose per bene anche il 2013 è alla nostra portata, ma sono molto preoccupato per il 2009.

(Mettiamo una canzone, va: "…senza allegria anche sui tram e gli aeroplani o sopra un palco illuminato
fare un inchino a quelli che ti son davanti e son in tanti e ti battono le mani…")

*Devo però respingere fermissimamente l’insinuazione. Nel paese reale, siamo all’appuntamento con la legge di riforma del sistema universitario, la n. 270 del 2004, che restringe i cordoni dell’offerta formativa universitaria. Roba di cui non c’è filosofo speculativo che non ami occuparsi. **Mi ci ha fatto pensare lui.

 

Nec ridere nec lugere neque detestari/2

Proiezioni, spogli, risultati parziali. Ce ne sarebbero di cose, da dichiarare

Lo scenario larghe intese

"A campagna elettorale chiusa e urne ancora aperte, prima dei risultati, dei numeri, delle percentuali, può essere utile riflettere ancora sul modo in cui i principali partiti politici si sono avvicinati alla prova del voto. Quasi tutti gli osservatori hanno infatti convenuto che la polemica politica ha avuto toni meno accesi che in passato; che non si è cercato di demonizzare l’avversario ma si è condotto un confronto tra competitors parimenti legittimati alla guida del governo; che si è perciò potuta mantenere aperta l’ipotesi (salutare) di dialogo sulle riforme istituzionali necessarie per il paese…".
(Su Il Mattino, dopo le 14)

Riordinare le file. E le idee.

"E’ possibile che le elezioni del 2008 rappresentino una svolta. Che la svolta sia epocale è però lecito dubitare, se non altro perché la frequenza con la quale si annunciano le svolte epocali in Italia è tale da far dubitare del concetto stesso di epoca. Soccorre piuttosto un’altra celebre immagine di Aristotele".

Il resto è su Left Wing, sul quale si esercitano anche Roberto Gualtieri e Francesco Cundari.