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Se la croce e il velo sono vietati al lavoro

Reni

«Una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali»: così ha deciso la Corte di Giustizia Europea, respingendo il ricorso di una donna musulmana che chiedeva di poter indossare il velo sul luogo di lavoro. La Corte ha considerato che vi è discriminazione solo se «l’obbligo apparentemente neutro comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia». Siccome non è questo il caso, perché il divieto riguarda qualsiasi segno, «la politica di neutralità» è legittima e il capo deve rimanere scoperto.

Sembra ragionevole, ma non lo è affatto, e non è difficile spiegare il perché.

Poniamo che i giudici abbiano ragione di considerare discriminatoria solo la regola, quale che essa sia, che va a svantaggio di alcuni – individui o gruppi – e non di tutti. È evidente allora che una regola che proibisse la manifestazione pubblica del pensiero non sarebbe discriminatoria, se appunto valesse per tutti. Eppure, sarebbe una gravissima violazione di un diritto fondamentale. Ora, perché manifestare il proprio pensiero in materia di fedi religiose (o politiche o filosofiche) non dovrebbe essere considerato un diritto parimenti fondamentale? Perché proibire di esprimere il proprio credo non dovrebbe essere considerata una limitazione della libertà individuale, che sul luogo di lavoro può essere ristretta solo se la restrizione è giustificata dal compito che si è chiamati a svolgere?

Ieri la Corte ha deciso anche sul caso di un’altra donna: francese, musulmana, licenziata dall’impresa informatica presso la quale lavorava, a seguito alle rimostranze di un cliente infastidito dall’uso del velo. In questa sentenza, la Corte precisa che il motivo per imporre il divieto non può essere il desiderio del cliente di non essere servito da una donna che indossi lo hijab, e ha pure aggiunto che, per il diritto europeo, la religione di cui si parla, quando si parla di libertà di religione, «comprende sia il forum internum, vale a dire il fatto di avere convinzioni personali, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa».

E allora? Com’è possibile che un’impresa privata possa proibire il velo, cioè la «manifestazione in pubblico della fede religiosa», se essa rientra nella «libertà di religione», sancita nell’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea?

La disputa pro o contro il velo scuote la Francia da anni. In particolare, l’introduzione della legge sui simboli religiosi, promulgata nel 2004, ha riproposto un’interpretazione che potremmo dire aggressiva della laicità dello Stato, che, nella difficoltà di stabilire il confine varcato il quale l’esibizione di un simbolo religioso diviene la prevaricazione della libertà altrui di vivere in uno spazio aconfessionale, ha preteso di risolvere alla radice la questione, senza troppo preoccuparsi di bilanciare la laicità delle istituzioni con le esigenze personali di fede del credente.

L’idea è che dietro il velo – quelli integrali, come niqab e burqa, ma anche quelli meno coprenti, come hijab e chador – vi sia in realtà il rifiuto dell’integrazione e una sfida alla «République». Il divieto riguarda anche altri simboli, come la kippa ebraica, il turbante sikh, o le croci cristiani, quando siano troppo grandi e invadenti, ma è chiaro che la questione esplosiva riguarda la deriva radicale che si nasconderebbe dietro il velo islamico. Questa idea è scritta nella storia della Francia fin dai tempi della strage di san Bartolomeo, cioè delle guerre civili di religione che insanguinarono la Francia nella seconda metà del Cinquecento. Poi c’è stata anche la rivoluzione francese, con la Dea Ragione portata in processione, e il consolidamento di un patrimonio di valori repubblicani garantito non dalla libera convivenza pluralista delle fedi religiose, ma dalla costruzione di una sfera pubblica in cui quelle fedi proprio non comparissero.

Ora, non c’è bisogno di scomodare Habermas e la sua società post-secolare per riconoscere nelle tradizioni religiose qualcosa di diverso da una minaccia alla pace sociale, con il loro potenziale di intolleranza nei confronti dell’universalità della legge. Non è vero affatto che civiltà e religione viaggiano lungo linee opposte, e che il crescere dell’una è possibile solo al decrescere dell’altra. La preoccupazione perché si dia reciproco riconoscimento fra fedi e culture non può rovesciarsi nel suo opposto: in una volontà di assimilazione che, per assicurare la parità di trattamento a tutti i credi, si spinge in realtà a negare qualsiasi riconoscimento. Non si può realizzare l’integrazione sulla base dell’esclusione, e privare lo spazio pubblico dei depositi di senso che in quelle tradizioni sono contenuti. I nostri figli studiano nelle scuole pubbliche proprio quelle correnti di pensiero – religiose, filosofiche o ideologiche – che certi segni portano con sé perché costruiscono appartenenza, legame sociale: che senso ha allora impartirne l’insegnamento, se riescono pericolose al punto di doverne vietare l’uso? Per la verità, pericolose lo sono davvero, come lo è qualsiasi elemento di identità che non si lascia risolvere in uno spazio liscio e neutro, ma proprio perciò insignificante. Ma è pericoloso anche negare, quando in realtà ciò che viene negato è semplicemente rimosso, non cancellato ma spostato, sottratto alla vista. Perché il rischio che torni in altri modi e in altre forme esiste, e non è detto che saranno, quando saranno, modi (e toni) più morbidi e più concilianti. Meglio pensarci per tempo.

(Il Mattino, 15 marzo 2017)

Tra scelta di Stato e nuovi casi Englaro

Caro direttore, con l’approvazione della Camera dei Deputati, la legge sulle direttive anticipate (legge sul testamento biologico) compie un passo decisivo in vista dell’approvazione finale. Ti chiedo ospitalità nel dibattito in cui provo a sostenere le ragioni di un laico. Nella legislazione italiana, è invalso da tempo il principio del consenso informato, al quale il testo stesso della legge si richiama (con qualche ipocrisia) fin nel nome. Il principio vuole in generale assicurarmi adeguata informazione, per consentirmi di decidere liberamente se prestare o meno il mio assenso ai trattamenti sanitari che mi vengono proposti. Nelle condizioni terminali, in cui non fossi più in condizione di manifestare la mia volontà, è ovviamente necessario, per esprimerla, formularla in direttive anticipate (raccolte in una dichiarazione, debitamente predisposta). Il fatto che siano anticipate è, dunque, inevitabile: far leva su ciò per sottrarmi le decisioni circa le cure da prestarmi è, dunque, del tutto pretestuoso.

Ora, si può discutere sulle forme più o meno rigide di questa dichiarazione, si può richiedere ogni genere di garanzia in merito, ma nulla dovrebbe essere fatto per aggirare il principio secondo il quale tocca a me decidere se sottopormi o meno a trattamento sanitario. Aggirarlo significa avallare un altro principio, assai poco liberale, secondo il quale c’è qualcun altro che più di me può sapere cosa deve essere fatto a me. Prego chiunque di considerare quanto sia pericolosa un’idea simile, rispetto alla tutela della mia libertà. Il ddl Calabrò incastona invece le direttive anticipate tra paletti che di fatto svuotano quasi del tutto il consenso. In primo luogo, la legge afferma con forza il principio dell’indisponibilità della vita. In secondo luogo, derubrica alimentazione e idratazione artificiale a forme di sostegno vitale, come se non fossero trattamenti sanitari. Ora, quanto a quest’ultimo punto, sarebbe sensato ritenere trattamento sanitario una qualunque pratica la quale richieda l’intervento di personale medico e paramedico; sarebbe sensato distinguere tra sondini di alimentazione e biberon; sarebbe sensato evitare di ricorrere a parole come natura”, o “naturale”, visto il contrasto semantico stridente fra sostegno “vitale” da una parte e alimentazione “artificiale” dall’altra; sarebbe sensato, insomma, stare ai fatti ed evitare di cambiare il significato delle parole per aggirare principi scritti in Costituzione. Ma se anche tutto ciò non bastasse a definire sanitario il trattamento di nutrizione e idratazione, sarebbe da spiegare comunque perché un simile trattamento non sanitario ma vitale dovrebbe poter esserci imposto contro la nostra espressa volontà. E qui interviene l’altro principio, quello dell’indisponibilità della vita. La ragione ultima starebbe nel fatto che la vita, la mia vita, è un bene indisponibile perfino a me stesso. Sicché, come non posso suicidarmi, così non posso – o la legge non può consentire che io possa – decidere di non nutrirmi (ma forse, per coerenza, neppure mangiare Nutella essendo diabetico). Di solito, i laici che contestano l’argomento protestano per il fatto che con esso si introduce nella legislazione di uno Stato la credenza, religiosamente ispirata, secondo la quale la mia vita, come ogni vita, appartiene a Dio. Ma non è affatto l’origine religiosa della credenza il problema. Il problema è piuttosto che, in ossequio al principio dell’indisponibilità della vita, si sottrae a me la possibilità di decidere cosa fare in certe situazioni, per metterla nella disponibilità non di Dio ma di altri. Non sarà di Sacconi o di Cicchitto, come dice polemicamente Bersani, ma in ogni caso di qualcun altro non scelto da me. Ora, chi scrive non è così liberale da escludere che si diano situazioni in cui la libertà personale può essere limitata – e non semplicemente dalla libertà altrui, come recita la formula la più liberale di tutte. Possono forse esserci altri, gravi interessi: la sopravvivenza dello Stato, ad esempio, o principi altrettanto fondamentali di uguaglianza sociale. Ma come si fa a ritenere che la società o lo Stato o non so cos’altro sarebbero in pericolo se decidessi di voler morire nel mio letto, se io volessi dire basta a tubi e sondini e respiratori? Come si fa a non vedere il volto non solo illiberale ma poco umano (stavo per scrivere: disumano) di uno Stato che ti lega alla tua condizione di malato oltre i tuoi limiti di sopportabilità? Io capisco la prudenza. Sarei pronto a chiedere ogni genere di verifica della volontà espressa e ogni supplemento di informazione circa quel che si può o non si può fare, mi si vuole o non mi si vuole fare, ma chiedo allo Stato non di impormi questo o quello, bensì di provare a convincermi: coi suoi medici e i suoi ufficiali. Nel tempo che vuole. Lo capisco, lo accetto. Dopodiché, però, se non mi avrà convinto, io chiedo che mi lasci andare: sono sicuro che così ci saluteremo con molta più serenità. (Il Mattino)

Umbri di tutto il mondo, aspettatemi

Si conclude oggi il Festival internazionale del giornalismo, in svolgimento a Perugia dal 1° aprile. Come con il Festival di Sanremo, era prevista la più frontale delle controprogrammazioni, e nello stesso giorno (il 3 aprile), alla stessa ora  in cui c’era Marco Travaglio, era in programma l’incontro su Europa, laicità, diritti. Un po’ come Schopenhauer che faceva le lezioni nella stessa ora in cui le teneva Hegel.
Io perciò, memore del precedente storico, ci sarei andato lo stesso.

Ma poi s’è pensato di lanciare un segnale distensivo e l’incontro è ora fissato per il 17.

Risposta al Papa (via Pera)

"Benedetto XVI non si è rivolto a noi tutti con la domanda: – Lei crede in Dio? – […] Benedetto XVI ha fatto una domanda in particolare a me, laico, cresciuto con un’educazione filosofica che faceva riferimento al liberalismo […], e la domanda che mi son sentito rivolgere è questa: ma come giustifichi tu laico, tu liberale, tu europeo, tu occidentale, come giustifichi tu i principi e i valori che consideri così fondamentali al punto di esserne orgoglioso? Qual è il terreno su cui tu laico e io credente ci possiamo incontrare per salvaguardare questi prinicipi e valori senza i quali tu e io riconosciamo che non ci potrebbe essere civiltà?" (Marcello Pera, dalla presentazione del suo ultimo libro, che si può ascoltare qui)

Ovviamente, Pera non è minimamente toccato dalla domanda: ma cos’è una giustificazione? Quand’è che tu ritieni giustificato un principio? com’è fatta la giustificazione di un principio? Sospetto perciò che, non ponendosi domande del genere, presti il fianco a chi consideri che sia giustificato solo quel che è assolutamente giustificato, e che è assolutamente giustificato solo ciò che è teologicamente giustificato. Che se invece il battesimo cristiano dell’Europa gli interessa solo in quanto giustificazione storico-culturale, io gli direi ben bene: hai idea di cosa sia la storia? Lui dice: "Togliete questo fondamento [il concetto di persona, che non c’è in altre culture, e che c’è nella tradizione ebraico-cristiana solo perché l’uomo è pensato a immagine e somiglianza di Dio, e perciò ha dignità ecc. ecc.] togliete questo nutrimento tipicamente cristiano a questi concetti e principi fondamentali, avremo anche tolto fondamento alle nostre carte costituzionali. Saremo allora in preda alle altrui civiltà, ecc. ecc.". C’è bisogno di mostrare esplicitamente il non sequitur? Siamo ancora a Socrate ed Eutifrone: posto pure che di un simile concetto di persona, bello e buono, non si può fare a meno senza far saltare tutta la civiltà europea, non se ne può fare a meno perché l’ha insegnato il cristianesimo (e magari il Papa, non il pastore valdese), o perché è bello e buono? Nel primo caso, non credo che a tal concetto gli si renda un bel servizio. (Come si vede, non sto discutendo qui quanto sia vero che senza il concetto di persona, che senza l’immagine e somiglianza, ecc. ecc.,, per quanto anche di questo ci sarebbe da discutere).

(Io poi al Papa, ove mai avesse rivolto a me la domanda, mi sarei contentato di rispondere, con tutto il rispetto: "se tu mi chiedi come io giustifico quei valori e principi senza i quali tu religioso ed io laico riconosciamo che non c’è civiltà (e posto che così sia), io rispondo semplicemente così, che se riconosciamo che senza quei valori e principi non c’è civiltà, la giustificazione è già bell’e trovata, e recita proprio così: che senza quei valori e principi non c’è civiltà. Che altra salvaguardia vuoi?".

Non cambia veste grafica solo l'Unità

E’ uscito, in una nuova, magnifica veste grafica, il numero di ottobre-novembre di Inschibboleth, con articolo di Elio Matassi, Umberto Curi, Mauro Ponzi, Alfredo Reichlin, Carmelo Meazza, Silvano Andriani e Adamu Nuramo.

Il mio contributo al fascicolo si intitola Sulla laicità della politica. A voi le belle cose.

Il cantiere aperto della laicità

Si parla, a ragione, di crisi della cultura laica. Ma nessuno, credente o non credente che sia, può trarne motivo di soddisfazione, almeno finché tiene alla laicità dello Stato. E se ad essa credenti e non credenti tengono, è perché è un valore; e così i laici in crisi, in attesa di tempi migliori, possono dire di averne, per loro fortuna, almeno uno (e fondamentale, perché posto a fondamento dello Stato). Ma in cosa consiste propriamente la crisi? Due sembrano le diagnosi prevalenti. La prima: la laicizzazione ha progressivamente eroso l’identità cristiana dell’Occidente. La crisi è una crisi di identità. La seconda: la ragione laica ha progressivamente perso fiducia nella capacità di orientare l’uomo. È così sfociata nel relativismo, nell’indifferentismo, nel nichilismo (queste parole non significano la stessa cosa, ma sempre più spesso si lascia credere che così sia). Le diagnosi prevalenti sono anche convergenti. Se infatti uno smarrisce la propria identità, smarrisce facilmente anche la fiducia nella possibilità di conoscere e perseguire il proprio bene. E viceversa: se uno non sa più quale sia il suo vero bene, è molto difficile che mantenga un forte senso di identità. In un modo o nell’altro, la cultura laica sembra incapace di dare risposte a domande ineludibili relative al senso dell’esistenza, tanto individuale quanto collettiva.
Che le domande di senso – le domande circa la natura e il destino dell’uomo, o sul valore della vita e il suo vero bene – riescano a un tempo irrisolte e però ineludibili, può essere considerato anche questa una manifestazione della crisi: a lungo la modernità ha creduto infatti o di poter dare a tali domande una risposta del tutto laica e immanente, oppure di poterle relegare in uno spazio strettamente individuale, in modo da eluderne l’impatto nella sfera pubblica. Ma le risposte non sono venute, né si possono più eludere le domande. Da questa crisi, dalla deludente assenza di risposte e dalla insistente persistenza delle domande, dovrebbe muovere il dialogo fra credenti e non credenti. Il quale avrebbe perciò quest’unica condizione, che «gli uni e gli altri credano che esista un bene umano e che questo bene umano possa essere conosciuto e perseguito» (F. D’Agostino, Avvenire, 5-6-2006). Non è una condizione di poco conto: se non altro, è molto più che non il mero rispetto del fondamentale diritto di libertà di ciascuno di dire la propria su qualunque argomento, diritto che dovrebbe essere sufficiente a garantire la laicità dello spazio pubblico e la sua agibilità per tutti, credenti e non. Tuttavia D’Agostino ha ragione ad alzare la posta in gioco. Non sono sicuro, ma suppongo che quando si parla di nuova laicità, di laicità sana o di laicità positiva si intenda fare rifermento proprio a questa condizione non meramente formale o procedurale, per la quale la costruzione di una «società bene ordinata» costituisce l’obiettivo verso il quale indirizzare l’impegno comune di laici e religiosi. Ha ragione nel dire cioè che in ciò consiste la provocazione della Chiesa alla cultura laica, la quale non può fare finta di nulla, e ha ragione pure quando respinge la rozza semplificazione con la quale a volte, da parte laica, si indulge a rappresentare la fede in termini strettamente fideistici, ossia irrazionali. La prima regola di ogni dialogo autentico consiste infatti nell’accettare il modo in cui la parte con cui si dialoga comprende se stessa. E nella tradizione cristiana, come Benedetto XVI ricorda sempre, Dio è (anche o anzitutto: la teologia è una roba complicata) logos, cioè appunto ragione, sebbene questa ragione non sia la mera razionalità strumentale della scienza e della tecnica moderna. Non è però sui significati di ragione che intendo soffermarmi in ultimo, quanto proprio sulla provocazione. Per rispondere alla quale devo chiedere a mia volta che si accetti il modo in cui la cultura laica autocomprende se stessa. E non è in termini piattamente relativistici, indifferentistici o nichilistici che lo fa, al suo meglio. Al suo meglio, la cultura laica può ben dire in cosa consista il «bene umano oggettivo», per usare l’espressione che D’Agostino predilige. Può dire che tale bene consiste nelle differenze tra i diversi piani di vita che gli uomini perseguono, e che queste differenze sono le stesse che apprezziamo nei mille contesti in cui amiamo la molteplicità delle esperienze, la varietà dei colori e dei sapori della vita di cui riempiamo le nostre esistenze. Non c’è intelligenza che non si arricchisca o non diventi adulta cercando da sé il modo di ordinare queste esperienze, invece di essere ordinata dall’alto. Solo che, per questo, ci vuole un po’ meno paura di perdere la propria identità, e un po’ più di fiducia nella capacità dell’uomo di esperire senza smarrirsi la ricchezza della vita. Se questa fiducia viene accordata, anche il dialogo tra credenti e non credenti sarà meno animato da riflessi identitari e più aperto alla comprensione reciproca. Sarà quel che deve essere in una democrazia.
 

Laicità positiva: una vacanza, una seduta, un sms (e una domanda demoniaca)

1. Vacanza a Maiori, Costiera amalfitana. Sul mare. Due adulti e tre bambini: una notte, due pranzi. Spesa complessiva: 120 euro. Presso gli amici di San Francesco, nella Casa adiacente la chiesa: se non è laicità positiva, questa…

2. Di ritorno da una faticosa giornata al mare, nell’androne buio e fresco, con gli occhi ancora abbagliati dal sole, perdo di vista Enrico. – Enrico, dove sei? -. – Sono qui, papà. Sono seduto su Dio -. Che poi in realtà non era Dio, ma l’immagine di un santo barbuto, su una lastra di pietra che giaceva in un angolo dell’androne.

3. Mando un messaggio via sms, e mi accorgo che il programmino di scrittura veloce del mio cellulare mette al primo posto "sarà", al secondo "papa", e solo al terzo "papà". E poi dice che la presenza della Chiesa, ecc.

4. Leggo stamane: "Il mio governo non può che compiacere il Pontefice e la Chiesa". Concedo totum: valori irrinunciabili, presenza pubblica, libertà di esprimere il proprio pensiero su tutto (in verità: son cose che concedo volentieri a tutti), ma compiacere… Non sarà che la famosa tentazione demoniaca alberghi nelle parole con cui non il leader di un partito, ma il Presidente del Consiglio ha espresso "l’apprezzamento che il Papa ha voluto dare al nuovo clima che si è instaurato in Italia con l’avvento della nostra parte politica al governo"?

(Morale: una cosa è sedersi, un’altra sdraiarsi).

Il ridicolo: una simpatica ritorsione

Approfitto del passaggio della prolusione di mons. Bagnasco riportato da Sandro Magister sul suo blog, Settimo Cielo. Lo riporto anch’io:

"Esprimere liberamente la propria fede, partecipare in nome del Vangelo al dibattito pubblico, portare serenamente il proprio contributo nella formazione degli orientamenti politico-legislativi, accettando sempre le decisioni prese dalla maggioranza: ecco ciò che non può mai essere scambiato per una minaccia alla laicità dello Stato. Né in America né in Europa. La Chiesa non vuole imporre a nessuno una morale ‘religiosa’: infatti essa enuncia da sempre – insieme a principi tipicamente religiosi – i valori fondamentali che definiscono la persona, cuore della società. Proprio perché fondativi, essi sono di ordine naturale, radicati cioè nell’essere stesso dell’uomo, anche se il Vangelo li assume e rilancia illuminandoli di luce ulteriore e piena”.

Questa è o sarebbe secondo Magister la "replica all’accusa di lesa laicità scagliata da Massimo D’Alema contro la Chiesa". Ora vado sul sito di Radio Radicale, e ascolto la puntualizzazione di D’Alema, in risposta a una questione analoga posta da Charles Larmore:

"Non è in questione il riconoscimento dell’apporto positivo che la presenza dei cattolici nella vita pubblica ha dato e dà. E certamente sarebbe, oltre che sbagliato, illusorio pretendere di confinare la dimensione religiosa semplicemente nella sfera individuale e privata e, ripeto, in un paese come il nostro un dibattito di questo tipo non avrebbe neppure molto senso. Il problema è un po’ più complesso e riguarda…"

Se vorrà, Magister potrà trovare il seguito sul sito di Radioradicale: immagino infatti che non l’abbia finora ascoltato. Ed è perciò, per una simpatica ritorsione, che mi fermo qui. Ma mi fermo qui anche perché, se pure dopo queste parole D’Alema avesse detto che la Chiesa è l’Anticristo trionfante, e nonostante i titoli dei giornali sulla demoniaca tentazione del potere, ben difficilmente, lette queste parole, si potrebbe ritenere, come sembra ritenere il Bagnasco riportato da Magister, che la questione della lesa lacità stia nel potere o non potere i credenti esprimere liberamente la propria fede. La Chiesa enuncia, e nessuno contesta il diritto di alcuno di enunciare. Far finta che si contesti il fatto che la Chiesa enunci è, mi si permetta l’enunciazione, ridicolo.

(Però mi rendo conto che avrei fatto prima se vi avessi linkato subito lo splendido articolo di Francesco Cundari sulla tentazione demoniaca della filosofia).

P.S. Avrei bisogno peraltro, per comprendere bene le parole di mons. Bagnasco, che mi si spiegasse che cosa significa e cosa comporti "accettare sempre le decisioni prese dalla maggioranza". Io, infatti, sono un po’ meno democratico di mons. Bagnasco. Non è nella maggioranza come tale, infatti, che sta la garanzia del rispetto della libertà religiosa. Né sono sicuro, peraltro, che mons. Bagnasco manterrebbe il "sempre" anche quando le decisioni prese a maggioranza compromettessero "i valori fondamentali che definiscono la persona, cuore della società". Ma di questo, magari, un’altra volta

Pietanze

L’articolo di cui sotto:

Come si preparano le pietanze politiche? Con la salsa pannelliana, a quanto pare, non vanno facilmente giù. Vengono fuori pasticci, e quelli che, nel mondo cattolico, fra i teodem e i popolari, non digeriscono l’accordo tra i radicali e il partito democratico si lamentano più di quanto probabilmente Veltroni si aspettasse. Eppure le ragioni sono dalla parte di quest’ultimo, poiché l’accordo raggiunto non modifica né stravolge la cornice che il pd si è dato per trovare un terreno di discussione e di confronto sui temi eticamente sensibili. Quella cornice, approvata all’unanimità, ha preso la forma di un manifesto dei valori, nel quale si ribadisce con inequivoca nettezza il principio costituzionale della laicità dello Stato. Il manifesto afferma che la laicità è una garanzia per l’esercizio dei diritti e dei doveri di tutti ed è la condizione, non neutralmente indifferente, perché “culture e concezioni ideali diverse non solo convivano ma si ascoltino”. Il manifesto riconosce la rilevanza “pubblica, e non solo privata” delle religioni, ma pari riconoscimento tributa a ogni convincimento filosofico ed etico, il che significa che non si richiederà ai teologi o ai filosofi di confinare le loro convinzioni ultime nel foro interno della coscienza individuale, ma neppure si pretenderà di sacrificare il pluralismo delle visioni etiche e religiose all’uniformità di un’unica dottrina.
Nessuna novità, dunque. Nessuna deriva laicista (qualunque cosa la deriva laicista sia). Veltroni lo ha ribadito ancora ieri. Si è stupito delle reazioni, e allo stupore ha aggiunto una maliziosa considerazione: come mai analoga levata di scudi non si ebbe nel 2001, quando con il polo delle libertà si schierò “Pannella (e non la Bonino, Pannella)”? Alla domanda di Veltroni risponderanno i posteri, forse, ma intanto la distinzione fra Emma Bonino e Marco Pannella colpisce ugualmente. La Bonino vanta infatti un indiscutibile capitale di credibilità, sia interno che internazionale. Ma in nessun modo questo capitale è stato accumulato distinguendosi dai furori laicisti di Pannella. D’altra parte, è difficile pensare di dividere i radicali fra governativi e movimentisti, collocando magari la Bonino sulla prima, più quieta sponda, e Pannella, invece, ad agitarsi sulla seconda. Candidare l’una dovrebbe valere dunque quanto candidare l’altro. L’iniezione di laicità dovrebbe essere la stessa. E invece no.
Il fatto è che l’imbarazzo nei confronti dei radicali è stato ed è, a torto o a ragione, un imbarazzo anche nei confronti del modo in cui hanno condotto in passato e ancora conducono le loro battaglie politiche. Nel panorama politico italiano, il partito radicale è stato infatti una presenza beneficamente eretica, a volte sino allo scandalo, ma anche carismatica e settaria. Distinguendo Bonino da Pannella, Veltroni tenta l’impresa (finora mai riuscita) di portare il fermento delle iniziative radicali dentro un contenitore più ampio, nel quale non possono più riproporsi nelle forme narcisistiche e spesso autoreferenziali in cui venivano finora condotte.
Può darsi che in questo modo la pietanza abbia ancora un gusto troppo speziato, ma questo vorrà allora dire, probabilmente, che sono gli ingredienti del partito democratico ad essere abbastanza scipiti. Non può essere infatti la difesa della legge 194, il testamento biologico, la legge 40 sulla fecondazione artificiale o le coppie di fatto il terreno sul quale non è possibile trovare un terreno d’intesa con i radicali, dentro la cornice laica e le dinamiche di partito del pd. Questi temi saranno pure eticamente sensibili, richiederanno pure le obiezioni di coscienza di taluno, ma sono anche, in buona parte, materia di riconoscimento di diritti fondamentali, sui quali il partito democratico farebbe bene a non arretrare troppo. A non arretrare, almeno, più indietro di quanto la società italiana non sia nel suo complesso avanzata negli ultimi anni: non solitariamente, ma insieme a tanta parte del mondo moderno.

Un carico da undici per giocatori di briscola

Su la Repubblica di oggi, c’è la replica di Habermas a un saggio dell’esimio collega Paolo Flores d’Arcais, dal titolo Le tentazioni della fede. Undici tesi contro Habermas, che apparirà il prossimo sette dicembre su Micromega. Il saggio di Flores è stato parzialmente tradotto e pubblicato da die Zeit, dove compare anche la replica di Habermas tradotta oggi da Repubblica.

Ora, sarebbe molto bello distribuire torti e ragioni. Non avendo però letto le tesi di Flores, sarebbe veramente scorretto lanciarsi in commenti di qualunque natura. Sta però il fatto che la polemica di Flores fa seguito all’intervento pubblico di Habermas a Roma, di poche settimane fa, e che la replica odierna consiste nientepopodimeno che nella mera autocitazione di un paio di passi di quell’intervento all’Eliseo.

Habermas non spreca una parola per nuovamente argomentare. Invita Flores a rileggerlo. E mi getta nell’atroce dubbio che il carico da undici di Flores sia perfettamente inutile. Sicuramente lo è agli occhi di Habermas, e chi sono io per?

Una domanda, un argomento

Domanda: è dal diritto alla libertà religiosa che consegue l’introduzione del principio di laicità dello Stato, o viceversa dall’introduzione del principio di laicità che scaturisce il diritto alla libertà religiosa? E cioè, se capisco: siccome lo Stato dice: io non faccio mia alcuna confessione, segue che ciascuno fa come vuole. Oppure ciascuno dice: a me tocca di professare quel che voglio dunque tu Stato devi essere laico?
(Sono disposto a comprendere le ragioni di mons. Betori su questo, ma non su tutto il resto).
P.S. Questo post vale come l’argomento richiesto da Malvino

Alla prossima

"Non credo che stia offrendo una soluzione per la maggior parte dei musulmani europei. Una strategia che si aspetta che milioni di musulmani abbandoneranno immediatamente la fede dei propri padri e madri è semplicemente non realistica. Se il messaggio che ascoltano da noi è che la condizione necessaria per essere europei è abbandonare la loro religione, allora sceglieranno di non essere europei. Se gli europei secolari pretendessero ai musulmani di adottare la propria fede – l’umanesimo secolare – sarebbero intolleranti quasi quanto i jihadisti che pretendono che noi adottiamo la loro. Ma, protesteranno i fondamentalisti dell’Illuminismo, la nostra fede è basata sulla ragione! Beh, replicheranno gli altri, la nostra è basata sulla verità!”.

T. Garton Ash a proposito del "fondamentalismo illuminista" di Hirsi Ali. Chi sia l’uno e chi sia l’altra è ben spiegato dalla pagina da cui ho prelevato la citazione (comprensiva di neretto). L’articolo riferisce il dibattito in corso. Nel quale vale la pena entrare, anche se ora proprio non posso.

Sante parole (a proposito di laicità)

"Non è che il Pd sarà debole perché c’è un conflitto tra laici e cattolici; ci sarà questo conflitto se il Pd sarà debole" Claudia Mancina, Il Riformista.

Carlo Flamigni, la laicità e il paliatone

L’articolo con il quale Carlo Flamigni saluta i compagni del Partito Democratico, al quale non aderirà, mi dà ovviamente un grande dispiacere. Qui metto qualche breve considerazione, nessuna delle quali esaustiva (ma non ho molto tempo).
1. Come ha ricordato Antonio Socci, nel programma dell’Unione si leggeva: “L’Unione proporrà il riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto. Al fine di definire natura e qualità di un’unione di fatto, non è dirimente il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale". Questo era il programma dell’Unione, non quello dell’Ulivo. A quel programma dovrebbero essere richiamati gli aderenti all’Unione, non solo quelli che aderiranno al PD.
2. La laicità, scrive Flamigni, “rifiuta le verità rivelate e non accetta graduatorie di valori etici”. Io mi considero laico, e tuttavia faccio graduatorie (come quasi tutti), e considero che certi valori siano meglio fondati di altri. Flamigni vuol forse dire che il laico non impone la propria graduatoria di valori, ma la cosa è un po’ diversa.
3. “Eugenio Lecaldano, Carlo Augusto Viano, Maurizio Mori”. Flamigni saccheggia – dice amabilmente – gli scritti di costoro. La sua opzione, filosoficamente parlando, non è dunque solo laica, ma robustamente empirica. Ma si può essere laici senza rifarsi all’empirismo (o, se posso dire, a una variante angustamente empiristica dell’empirismo). Ci si può rifare a Spinoza, a Kant, a Wittgenstein, per fare qualche esempio.
4. C’è un punto in particolare, che Flamigni e tutta la tradizione empiristica considera non problematico, ed invece è oltremodo problematico: la distinzione di fatti e valori. Il laico pare che ne abbia assolutamente bisogno. Ora, io sono laico e nego che quella distinzione sia assolutamente ben fondata. (Nota: ho scritto ‘assolutamente’ben fondata. È ben chiaro che dire ‘il film è bello’ e ‘la sedia misura 95 cm’ non è la stessa cosa, ma non sempre le cose si presentano così).
5. “L’etica laica, che ragiona etsi deus non daretur, come se dio non ci fosse, sostiene il principio della qualità della vita, in contrasto con il principio cattolico della sacralità, e si ispira all’ideale di una esistenza accettabile per qualità e per valori, il che vuol dire umanamente vivibile”.
Flamigni comincia così, ma la vera base della sua proposta è l’individualismo morale. Chi infatti deciderà se sia accettabile e umanamente vivibile una vita, se non l’individuo stesso che la vive?
Ora, l’individualismo morale non ha ai miei occhi nulla di spregevole, anzi. Esso significa: in tutti i casi in cui ne va della tua vita, e solo della tua vita, sarai tu a decidere. Ma questo suppone che l’individuo sia costituito come tale prima che si formi il caso su cui è chiamato a decidere, e che sia non problematica la definizione dei casi in cui ne va solo di quell’individuo. Filosoficamente parlando, l’una e l’altra cosa non sono ovvie. Là dove peraltro ho scritto come tale (con un occhio alla metafisica) qualcuno potrebbe persino mettere: come istanza titolare di diritti, oppure capace di decisione. Si vede bene così che il punto che considero problematico può dare anche la stura a qualunque genere di abuso. Lo so e men preoccupo. Il lettore di questo blog sa peraltro come la penso sui casi sui quali è oggi rivendicato dall’individuo il diritto di decidere per sé, ma questo non significa che non veda il problema. (Il lettore di questo blog sa che per me, come per chiunque interrogato sull’argomento, “ciascun individuo ha pari dignità”, è ben certo, ma questo c’è già nella costituzione). Vedere il problema significa considerare che vi sia base di discussione con chi non ha un approccio individualista ai problemi della morale e del diritto, e questo mi permette di stare nel partito democratico (nel quale peraltro confluiscono tradizioni non individualistiche nella morale e nella politica con le quali Flamigni ha già dovuto dialogare, nei DS). D’altra parte, quando Flamigni scrive che è “corretto separare, di principio e di fatto, essere umano e persona”, riconosce il rilievo di questo punto, del punto sottolineato dal come tale.
6. Potrei continuare: “il pensiero laico sostiene la tesi della completa umanità della morale”, scrive Flamigni. Queste proposizioni prendono senso solo se lette nella loro intenzione polemica (verso chi ritiene ad esempio che l’etica sia dettata da Dio attraverso tavole e altri supporti),ma sono filosoficamente abbastanza indigeribili. Anche l’idea che va evitata “ogni confusione tra morale e diritto” è terribilmente ingenua. “L’etica laica non crede nel valore salvifico del dolore”. Ma c’è bisogno, per esser laici, di mettere la cosa così? Capisco le semplificazioni di un articolo di giornale, ma perché privarci ‘per principio’ di Eschilo, per esempio? (Il genitore laico non fa paliatoni ai figli? – detto da uno che messo alle strette non crede nel valore salvifico, e tuttavia ha fatto e fa paliatoni: le cose non sono mai semplici).
7. Flamigni conclude: “Due concezioni del tutto diverse della vita e dell’esistenza di ciascuno di noi, accettare l’una o l’altra significa prenotarsi per percorsi completamente diversi e che in molti casi ci allontaneranno dal resto del mondo”. Lo dico da laico, favorevole non solo al matrimonio omosessuale, ma anche all’adozione, alla fecondazione assistita, alla pillola abortiva, e a tutte le cose che Flamigni propone nel suo rapido elenco (ma forse è significativo che Flamigni non metta cose tipo la legalizzazione delle droghe leggere: io sono favorevole anche lì). Lo dico da laico: non è vero che non si possa stare nel PD con gente che è contraria a tutte queste cose. Non vi si può stare se si ritiene che non esista alcuna possibile regolazione dei conflitti che si aprono su questi punti (e allora però è complicato pure stare in maggioranza. Oppure: bisogna argomentare sul carattere decisivo che avrebbe una piena identità di vedute su queste questioni per la fisionomia di un partito che in agenda deve avere anche questioni di politica economica, di politica estera, di politica ambientale. Può darsi sia così, ma Flamigni manca di dare argomentazioni in merito). Non vi si può stare se si ritiene che, non stando nel PD, su questi punti avanzerà con prospettive di successo una proposta politico legislativa di impronta e matrice più laica. Non vi si può stare se si esclude che tutti questi conflitti abbiano o possano avere (parlo al futuro, perché le linee su cui si produrranno i conflitti si sposteranno con lo spostarsi delle frontiere della ricerca) un impatto pubblico che deve essere preso in considerazione con strumenti più raffinati della semplice distinzione fra morale e diritto, fra privato e publico, fra individuo e Stato, perché sono queste stesse distinzioni a (poter) venire in questione, come ho già detto in altra circostanza: etsi Petrus non daretur.
 
(Carlo Flamigni ha peraltro tutta la mia stima, personale e politica).
P.S. Per il significato di paliatone.
PP.SS. Ho trovato il precedente articolo di Flamigni e le argomentazioni in merito alla possibilità di stare nello stesso partito con Rutelli e la Binetti. Sono ragioni che considero validissime sotto il profilo personale (specie se uno s’è impegnato in politica essenzialmente su questi temi), ma non rispondono alla mia domanda. Non mi fanno cioè sapere perché l’identità di vedute sui temi eticamente sensibili debba essere presupposta alla creazione del nuovo partito. E la sua mancanza debba essere anteposta ad una certa identità di vedute su altri temi.