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L’antimafia e la sinistra smarrita

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Frank Stella, The Marriage of Reason and Squalor, II (1959)

Vi sono almeno due aspetti sui quali, dopo la sentenza di primo grado su Mafia Capitale, è possibile fare chiarezza. Il primo: i giudici non hanno detto che la mafia non esiste, o che non esiste a Roma. Ovunque sia arrivata la linea della palma di cui parlava Sciascia, i giudici non hanno detto affatto (perché non toccava loro dirlo) che non è arrivata a Roma, o che le organizzazioni mafiose non abbiano una presenza significativa nella Capitale. Hanno detto piuttosto che le associazioni criminali di Buzzi e Carminati non avevano carattere mafioso. Perché non ogni associazione a delinquere dedita alla corruzione, o al procacciamento di affari illeciti, anche con l’intimidazione e la violenza, è, per tutto questo, mafiosa.

Il secondo aspetto: i giudici hanno potuto infliggere pene assai severe, anche senza ricorrere alla qualificazione giuridica della mafiosità: 20 anni a Massimo Carminati, 19 anni a Salvatore Buzzi, più altre condanne non lievi inflitte agli oltre quaranta imputati coinvolti nel processo. Quel sistema di corruzione che la Procura di Roma, portandolo alla luce, aveva denominato «Mondo di Mezzo», c’era, ed è stato smantellato. Dal fatto che, secondo i giudici della X sezione, non era mafia, non si può dedurre insomma che erano quisquilie.

Questo non significa che l’ipoteca di mafiosità che ha gravato negli ultimi due anni sulla Capitale non abbia condizionato il clima politico, a Roma e nel Paese. Ed è su quest’ultimo aspetto della vicenda, cioè sulla corrente culturale, sulle idee e sui pensieri che alimentano quel clima, che occorre un supplemento di riflessione.

Siamo tutti partiti dall’idea che un conto è la corruzione, un altro è la mafia. Poi, però, considerato il carattere endemico della corruzione, siamo passati a sostenere che la corruzione è come la mafia: pericolosa, estesa e ramificata nei gangli dell’amministrazione pubblica, tra i colletti bianchi, proprio come la mafia siciliana, la camorra o la ‘ndrangheta. Il passo successivo è stato di aggiungere che la corruzione è, anzi, un modus operandi tipicamente mafioso. A quel punto è divenuto ovvio richiedere che mafia e corruzione venissero combattuti con gli stessi strumenti, e, infine, teorizzare che mafia e corruzione sono praticamente la stessa cosa.

Se aveste un dizionario sotto mano, scoprireste che in questo modo siamo scivolati da un uso proprio e circoscritto del termine ad un suo uso largo, generalizzato e, inevitabilmente, generico. Ma quel che la lingua può consentire con una certa disinvoltura, dovrebbe molto meno essere consentito nel sistema delle leggi. L’Italia si è dotata di una legislazione speciale per fronteggiare il fenomeno mafioso per una ragione molto precisa: la difficoltà di combattere la mafia con i mezzi previsti dal codice penale. La semplice associazione a delinquere si era rivelata strumento inefficace. Mafia era qualcosa di più dell’omertà, della violenza o dell’intimidazione: significava una società con propri codici simbolici, proprie regole, proprie gerarchie. Non un mondo di mezzo, ma un mondo intero: con una propria identità separata da quella pubblico-statuale (e proprio perciò capace anche di stabilire legami e connivenze con pezzi dello Stato). Per debellare questa realtà criminale, nel 1982 si introdusse, dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa, il 416 bis: per fronteggiare associazioni, la cui tenuta era più profonda e coesa di quanto non fosse quella di un mero sodalizio criminale. Ma se invece una sentenza disfa un’intera trama criminale senza far ricorso alla mafiosità dei consociati, come accade che l’esito processuale non venga giudicato un passo avanti, sul piano del diritto, e che lo si presenti anzi come un passo indietro? Evidentemente, il problema non è più l’efficacia nel contrasto al crimine, ma la mera possibilità di estendere indiscriminatamente le misure antimafia (e l’esercizio del potere inquirente che vi è connesso).

È in questo senso, del resto, che si sono mossi all’unisono tanto il legislatore quanto una giurisprudenza creativa: con inasprimenti di pena, percorsi penitenziari più severi e nuove tipologie di reato di difficile tipizzazione (l’associazione esterna, lo scambio elettorale politico-mafioso) fino alle recentissime modifiche al codice antimafia, con cui il Parlamento si appresta a autorizzare l’abnorme estensione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali a fatti di corruzione.

La consapevolezza che tutta la materia delle misure di sicurezza per i soggetti pericolosi richiede un rigoroso controllo di costituzionalità, ed è  oggi esposta anche ai sempre più penetranti rilievi della Corte Europea di Strasburgo, è spaventosamente scemata, fin quasi a scomparire: se non fra gli operatori del diritto, certo preso l’opinione pubblica e le stesse forze politiche. Comprese quelle alle quali è storicamente appartenuta una cultura dei diritti e delle garanzie, e che quindi dovrebbero ricordare che la prevenzione della pericolosità sociale è una preoccupazione tipicamente autoritaria, che ci viene dal codice penale Rocco, contro la quale la sinistra un tempo combatteva.

Oggi, invece, tende ad avallarla. E a sostenere tutte le richieste di maggiore sicurezza e le prassi più recessive nell’applicazione del diritto, senza più costituire un argine al dilagare delle misure preventive, all’indebolimento del principio di proporzionalità delle sanzioni penali, e all’ampliamento di una legislazione straordinaria.

Ovunque sia arrivata la linea della palma, è evidente che è la linea del diritto che oggi è più  difficile tracciare.

(Il Mattino, 24 luglio 2017)

Lo Stato di diritto muore. Il Pd gli prepara il funerale.

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Porre un limite all’esercizio dei pubblici poteri è l’essenza dello Stato di diritto. Con l’approvazione delle modifiche al codice antimafia, in discussione al Senato, quel limite rischia di impallidire. Per malintese ragioni di sicurezza, in realtà per la forza che continuano ad avere sulla politica italiana le ragioni della piazza. E ciò avviene per opera del Partito Democratico, che pure avrebbe nella sua identità una matrice liberale, in materia di diritto. Ma prevale su tutto l’emergenza; e prevale, soprattutto, l’incapacità delle forze di maggioranza di mettere un argine al populismo giustizialista.

Per convincersene, basta guardare cosa c’è dentro le misure che il Senato si appresta a votare. Esse riguardano l’estensione alle indagini su tutti i reati contro la pubblica amministrazione, compreso perfino il peculato, dei sequestri e delle confische previste in via cautelare dal codice antimafia.

Questi interventi – si è sempre detto – si rendono necessari per colpire le mafie nel loro portafoglio, che è l’unica maniera di combatterle seriamente. Ed è vero: bisogna seguire la pista del denaro. Ma vi sono alcuni elementi sui quali è necessario riflettere: le dimensioni raggiunte dai provvedimenti di sequestro, anzitutto, che sono notevolissime (17.800 imprese, per un fatturato di circa 21 miliardi di euro); la gestione di questa massa di beni, poi, che purtroppo si è rivelata assai opaca (eufemismo); le imprese sequestrate e confiscate, infine, che non riescono a stare sul mercato e raramente sono in grado di sopravvivere al ciclone dell’amministrazione giudiziaria. Un vero fallimento, col quale si finisce per ottenere il contrario di quel che si voleva, dimostrando che lo Stato funziona peggio di quanto funzionino invece i circuiti dell’economia illegale.

Ma chi abbia un minimo di sensibilità giuridica non può non rimanere colpito da un punto decisivo, che viene innanzi a tutti questi: che le misure in questione vengono prese in presenza di indizi di colpevolezza ma in assenza di un giudicato, e con possibilità di difesa e di opposizione molto, molto limitate. Quella che così viene delineata non è una soluzione difendibile in un ordinamento di impronta liberale, ma è adottata di fatto, in via emergenziale, tant’è vero che costituisce una specialità tutta italiana (che gli altri Paesi, contrariamente a quel che a volte si sente dire, non ci invidiano affatto, e infatti non utilizzano). Per giunta, si tratta di quelle emergenze perenni, che durano decenni, e che nel tempo prendono dimensioni abnormi e, spesso, incontrollate.

Ebbene, di questo sistema cosa viene in discussione oggi? La possibilità di ampliarlo ulteriormente. Di estenderlo ben oltre i confini della lotta alla criminalità organizzata, colpendo anche gli indiziati di delitti contro la pubblica amministrazione: la corruzione, la concussione, finanche il peculato. Deve essere chiaro che parliamo di indiziati, di cui si sostenga la pericolosità sociale, non di colpevoli. Il principio ispiratore è, in breve, che ovunque vi siano accumulazioni di ricchezze “probabilmente” illecite, lì deve poter arrivare la mano non della giustizia, ma del procuratore. Sulla base di una prognosi di pericolosità che in nome della sicurezza amplia l’ambito delle misure di prevenzione, restringe il principio di legalità, mortifica i diritti costituzionali alla proprietà e alla libertà di iniziativa economica. E fa sferragliare quell’enorme carrozzone che è stato finora l’Agenza nazionale dei beni confiscati.

Ma come si fa a dire no, se si tratta di lottare contro la corruzione? Chi dice no, non vuole lottare: questo deve essere il sottinteso che spinge il capogruppo al Senato del partito democratico, Luigi Zanda, a escludere ogni ripensamento in materia. Come se si trattasse di allontanare da sé, e dal partito, il sospetto di immoralità, di connivenza con il malaffare, di indecente tolleranza nei confronti del delitto. Così bisogna fare la gara coi populisti nel dimostrare che, nella lotta alla corruzione, sono solo gli avvocaticchi e gli azzeccagarbugli, i causidici e gli intrallazzatori quelli che si mettono di traverso.

Gli avvocaticchi, gli azzeccagarbugli, e Berlusconi. Questo, infatti, è il panno rosso che «Repubblica» agita dinanzi al toro dell’opinione pubblica rispettabile e di sinistra, per spingere la legge: mette da una parte la parola «antimafia», che porta con sé l’idea di una cosa che va fatta e non può non esser fatta, senza indebolire in maniera inaccettabile il fronte della lotta alla criminalità organizzata, e dall’altra associa a dubbi e perplessità sul provvedimento il nome dei berluscones che si muovono felpati nei corridoi di Palazzo Madama, senza mancare ovviamente di evocare i processi ancora in corso a carico del Cavaliere. Come se appunto le manovre in Parlamento a cui il Pd non dovrebbe prestarsi riguardassero la possibilità che l’approvazione della legge minacci le proprietà di Berlusconi.

Dopo vent’anni e più, il totem dell’antiberlusconismo, grazie al quale è stato costruito l’impasto di populismo e giustizialismo che domina la scena politica italiana, evidentemente funziona ancora. D’altronde, come si può spiegare altrimenti il fatto che il partito democratico continua a subire la fiumana retorica a cinquestelle, se non perché certi germi li ha incubati nel suo seno? Questa idea che il diritto può essere messo da parte, se si tratta di mandare a casa i ladri e i corrotti, è il leit motiv di qualunque intervento grillino in materia di politica della giustizia. Ma quali idee alternative ha il partito democratico, e quanto deve temere di tirarle fuori, se il semplice accostamento del nome di Berlusconi basta a frenarne qualunque spirito critico, e a farsi paladino di misure giacobine, manifestamente illiberali?

(Il Mattino, 23 giugno 2017)

L’altra faccia della gogna

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Tanto tuonò che piovve. Per presunte irregolarità che graverebbero non solo sull’inchiesta Consip, ma anche su quella che ha riguardato, circa due anni fa, la cooperativa Cpl Concordia, il Consiglio Superiore della magistratura ha aperto un’indagine, affidata alla prima Commissione: quella che si occupa, in particolare, di trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale. Sotto osservazione finisce dunque il lavoro del Pm John Woodcock, titolare di entrambe le inchieste.

Cosa hanno che non vanno, quelle inchieste? È presto per dirlo, e comunque non compete al Csm occuparsene nel merito. Ma le similitudini sono impressionanti, e gettano dubbi serissimi sul metodo di conduzione delle indagini. Perché nell’uno e nell’altro caso ci sono state fughe di notizie clamorose, che hanno provocato enorme rumore nell’opinione pubblica, giungendo a lambire tutte e due le volte Matteo Renzi. Nell’uno e nell’altro caso si sono trovati errori: causali o no che fossero (e francamente viene sempre più difficile crederlo), quegli errori non erano privi di conseguenze, ma anzi giustificavano le qualificazioni giuridiche dei fatti che potevano autorizzare da un lato il mantenimento della competenza in capo alla procura napoletana, dall’altro l’uso esteso di intercettazioni che a prescindere da qualunque rilevanza penale arricchivano il racconto mediatico. E tutte e due le volte c’è stato in seguito passaggio di competenze; nel caso delle opere da affidare alla Cpl Concordia non ci sono poi stati i tanto attesi sviluppi giudiziari; nel caso di Consip ancora non si sa.

Ma quello che si sa, evidentemente, è già abbastanza perché il compassato Csm non se ne stia più semplicemente alla finestra. C’è  il timore che in una Procura della Repubblica italiana si cucinino con enorme spregiudicatezza prove per portare avanti inchieste che toccano i più alti vertici dello Stato: l’organo di autogoverno della magistratura ha il dovere di intervenire con ponderatezza ma anche con la massima tempestività, come si usa dire. È difficile, infatti, immaginare un motivo di conflitto tra politica e giustizia più grave di questo.

Il punto vero però non è Renzi, il padre Tiziano o i petali del giglio magico. E non è neppure Luca Lotti, investito dalla grave accusa di aver informato l’ad di Consip Luigi Marroni dell’esistenza di un’indagine che lo riguardava. Ieri in Senato, il ministro dello Sport e il partito democratico hanno tirato un gran sospiro di sollievo, perché mentre i bersaniani di Mdp sparavano ad alzo zero contro Lotti, esponenti del centrodestra votavano insieme con la maggioranza la mozione che impegnava il governo a rinnovare i vertici della Consip. È evidente che in quest’ultimo scorcio di legislatura i fuoriusciti dal Pd provano a dimostrare che può esistere una formazione politica a sinistra dei democratici, e che anzi il Pd di Renzi ha poco o nulla il cuore a sinistra, tanto è vero che prende i voti del centrodestra e si prepara a governare con Berlusconi. Un pezzo di questa dimostrazione si è voluto fornire ieri.

Ma tutta questa partita giocata sullo spartiacque rappresentato ormai quasi per antonomasia da Matteo Renzi, poco o nulla c’entra con l’orgasmo giustizialista che raggiunge il suo acme sui media, piuttosto che nel luogo deputato dell’aula di tribunale. Se si fa lo sforzo di proseguire la lettura dei quotidiani oltre l’attualità politica, fino alle pagine di cronaca, ecco infatti quel che si trovava ieri: che per le presunte tangenti su appalti Trenitalia sono andati assolti tutti e tredici gli imputati che avevano dovuto affrontare il processo. Eppure sette anni fa erano fioccate accuse pesanti a carico di dirigenti e imprenditori. Ed erano state spiccate ordinanze di custodia cautelare per alcune delle persone coinvolte. L’anno dopo, nel 2011, era cominciato il dibattito. Che ieri però si è conclusa con la formula: il fatto non sussiste.

Per dirla poeticamente: un altro sentiero che finisce nel nulla. Ma quanta sofferenza, e quanta ingiustizia ha prodotto l’indagine? Ieri l’ingegnere Raffaele Arena, uno di quelli che si svegliarono sette anni fa con la guardia di finanza alla porta di casa, pronta a tradurlo in carcere, ha raccontato a questo giornale l’angoscia, il dolore e la vergogna provata. Una vita distrutta, una carriera annientata, e il compagno di cella che ti dà una mano perché tu non dia seguito a propositi suicidi. Dinanzi a queste sventure, non si può rispondere che sono cose che capitano.  Non può capitare che qualche innocente ci finisca di mezzo per la cattiva convinzione che l’opinione pubblica sostiene, e a volte finanche acclama: che dove circola denaro pubblico c’è per forza corruzione, e politici e funzionari sono già solo per questo colpevoli, si tratta solo di beccarli. Questo giubilo che accompagna le accuse, quando si riversano sui giornali, è l’opposto della giustizia e del diritto. E siccome si alza quando gli imputati sono eccellenti, copre e giustifica tutte le storture del sistema: le intercettazioni irrilevanti date in pasto ai giornali, le indagini prive di concreti elementi di prova, le disfunzioni e i ritardi degli uffici, i processi che non finiscono mai. Ma chi ne soffre di più non sono i potenti, sono tutti gli altri. Anzi: siamo noialtri, e sono tutti coloro che rischiano di finire stritolati dalla presunzione di colpevolezza che purtroppo finisce per accompagnare ogni processo.

(Il Mattino, 21 giugno 2017)

Eclisse di Stato: l’unico orizzonte è giudiziario

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In tempi di avvilimento pubblico è impossibile ogni forma di grandezza: è un pensiero di Antonio Gramsci che vale bene per l’epoca nostra, la cui narrazione è più avvilente che mai. L’almanacco quotidiano delle inchieste reca, alla data di oggi: la condanna a sette anni e sei mesi per estorsione, inflitta a Nicola Cosentino, ex sottosegretario al Tesoro e uomo forte del centrodestra in Campania; 69 arresti, tra cui alcuni eccellenti, per appalti truccati, e reati che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta. Il Gip che firma l’ordinanza parla della punta di un iceberg. In quella punta sono addossati l’uno all’altro politici e professionisti, tecnici e imprenditori. Completano la giornata le perquisizioni a Palazzo di Giustizia, nell’ambito dell’inchiesta sull’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e il voto sulla sfiducia (respinta) al ministro Luca Lotti, sempre sul caso Consip. Perfino le pagine sportive avviliscono, con i dirigenti della Juventus convocati dalla Commissione parlamentare Antimafia.

Ebbene, che Paese è questo, che si può raccontare solo in termini di inchieste, scandali, tangenti? Non voglio fare il solito discorso sul garantismo e sul giustizialismo: in questione non è se siano tutti innocenti o tutti colpevoli, ma la domanda su quel che resta della vita pubblica di un Paese quando tutto finisce in coda alla montagna di carte che si riversa sui giornali, le redazioni, i notiziari televisivi. Persino il voto di ieri del Senato sulla riforma del processo penale (che contiene anche inasprimenti di pena a gran voce richiesti su reati come furti e rapine, e la delega al governo su intercettazioni e ordinamento penitenziario) passa non in secondo, ma in terzo o quarto piano, vista la quantità di notizie fornita dalle cronache giudiziarie. E la stessa sorte tocca alla politica estera, col voto in Olanda, alle notizie economiche, col referendum sui voucher, all’udienza del Papa, con le forti parole di solidarietà ai lavoratori licenziati. Tutte notizie relegate nei tagli bassi, solo dopo avere traversato sani e salvi la burrasca dell’attività inquirente.

A suo tempo, Gramsci diceva che i grandi giornali redigono la cronaca giudiziaria secondo gli schemi e le attrattive del romanzo d’appendice. I lettori, evidentemente, si appassionano. Ma quali altre passioni civili e politiche restano, quando non vi sono altre carte da leggere, quando sfogliare un giornale significa leggere le migliaia di pagine che accompagnano le ordinanze di custodia cautelare?

Di nuovo: il punto non è se i quotidiani facciano bene o male, e neppure se non debba essere denunciato il solito circuito mediatico-giudiziario: queste riflessioni le abbiamo già proposte molte altre volte, e sono comunque impari rispetto alla mole delle inchieste in corso. Lasciamo pur dire che non bisogna prendersela con chi racconta i fatti, ma con chi li commette. Resta però il dato che il fiume in piena della giudiziaria travolge ogni altra possibilità di discorso pubblico, e rende consunte e inservibili tutte le categorie con le quali si pensava di poter leggere il mondo.

Sempre Gramsci: «Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura». Gramsci continuava spiegando che no, non si tratta di uno scherzo, ma oggi: come potremmo noi continuare? È più facile, molto più facile, che qualcuno scriva sul suo blog che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come collusi o inquisiti, e che, pur essendo un comico di professione, aggiunga che non si tratta affatto di uno scherzo o di una caricatura, ma del discorso ormai egemone nella società.

Così è. Il populismo imperante si nutre di questa opinione diffusa, di questo luogo comune – alla lettera: è il luogo nel quale tutti siamo – di questa maligna intelligenza delle cose e della realtà. E fornisce la chiave d’interpretazione presso che esclusiva degli eventi politici, economici o sociali: perché il declino dell’Italia? Perché i politici rubano. Perché la Juventus vince lo scudetto? Perché la Juventus ruba. Perché non c’è lavoro? Perché gli immigrati ce lo rubano. Ruberanno pure tutti quanti, ma purtroppo non basta affatto arrestare, espellere o squalificare tutti, per avere la crescita, il lavoro o lo scudetto.

Quello che invece si ottiene, è un drammatico impoverimento dello spazio pubblico, e l’eclisse di ogni idea di grandezza associata alla vita dello Stato, alla politica e alle istituzioni. Proprio come diceva Gramsci. Che in fondo variava, in una prospettiva storica, una vecchia frase, ripreso in tanta letteratura moderna, da Montaigne a Hegel: che nessuno è eroe agli occhi del proprio cameriere. L’adagio non contiene la sdegnata protesta aristocratica nei confronti del punto di vista basso e volgare del popolino. Né è la «casta» degli eroi che si lamenta perché i camerieri origliano, intercettano e diffondono. Quel che è in gioco, è se mai la necessità di non perdere del tutto la memoria della grandezza che la politica ha mantenuto per tutto il Novecento. E che, se non fornisce eroi, procura almeno il senso dei compiti ai quali si è chiamati quando la storia del mondo si rimette in moto, come sta prepotentemente accadendo in questi anni. Proprio mentre l’Italia, consumata nel suo spirito pubblico, scivola purtroppo sempre più ai margini.

(Il Mattino, 16 marzo 2017)

Le indagini al tempo della gogna

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Procedimento al momento contro ignoti, e revoca dell’indagine al Noe dei Carabinieri. Si vedrà in seguito quale sviluppo avrà la clamorosa iniziativa della Procura di Roma, ma si vede già adesso che qualcosa di grave è accaduto, visto che le indagini sono passate dal Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, cui le aveva delegato la Procura di Napoli, al Nucleo investigativo di Roma dell’Arma. Ci sono motivi per cui a Roma non vogliono più saperne del Noe? Da Napoli il procuratore reggente, Nunzio Fragliasso, fa sapere naturalmente che c’è perfetta sintonia fra i due uffici inquirenti. Ma qualcosa di distonico deve essere per forza accaduto lungo l’Appia antica, nel passaggio di competenza da Napoli a Roma, visto che quello che Roma ha coperto con omissis, nei provvedimenti adottati in questi giorni, è finito ugualmente sui giornali. La girandola dei dubbi e delle illazioni cresce: che c’azzecca, avrebbe detto il Di Pietro dei bei tempi, il nucleo operativo che si occupa di tutela dell’ambiente con la materia Consip, gli appalti e tutto il resto? C’è da vedere nei motivi del loro impiego un particolare affiatamento con i magistrati del pubblico ministero, com’è normale nel funzionamento di qualunque ufficio, oppure siamo dinanzi a uno scenario assai inquietante, in cui ciascuno si fida solo dei suoi – e Roma non si fida più di quelli di Napoli?

Mentre pongo questo interrogativo, mi accorgo che l’essere anche solo arrivati dinanzi a un punto di domanda del genere indica già che una china pericolosissima è spalancata innanzi al Paese, e grande è il rischio di finirci dentro inseguendo la ridda di indiscrezioni ed ipotesi che si affollano in queste ore. La Procura di Napoli fa bene a provare a gettare acqua sul fuoco, così come quella di Roma fa bene a far filtrare soltanto motivi di malumore e irritazione e nulla più.

Ma se un normale cittadino, per qualunque motivo raggiunto da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, fosse messo dinanzi all’interrogativo che ho prima formulato, credo che sarebbe semplicemente atterrito all’ipotesi di una conduzione delle indagini non dico privatistica, ma fondata su rapporti fiduciari di tipo personale. Un timore che nessuno dovrebbe mai nutrire, un pensiero che in uno stato di diritto non dovrebbe mai potersi affacciare alla mente di qualcuno. In questo caso, invece, non solo è inevitabile che si affacci, ma siccome non parliamo soltanto di semplici cittadini, ma di personaggi pubblici, non c’è riga che esca sui giornali che non abbia dirompenti effetti politici: non c’è allora da fermarsi un attimo e da riflettere allarmati? È possibile che l’Italia debba infilarsi per l’ennesima volta in un tunnel fatto di rivelazioni di segreti investigativi, di uso indebito delle intercettazioni, di fango nel ventilatore che schizza da ogni parte, a prescindere da qualunque risultanza processuali o rilevanza penale?

È possibile che dobbiamo orientarci su scenari tanto opachi, tanto limacciosi? E infatti: c’è già quello che tira fuori la profezia di D’Alema di due anni fa, che Renzi sarebbe caduto per mano giudiziaria (profezia invero facile a farsi, in Italia, vista la frequenza con cui queste cadute si sono prodotte nel nostro Paese), quell’altro che ricomincia a parlare di complotti e poteri forti – un must della politica italiana –, quell’altro ancora che sposta invece l’attenzione sullo scontro in atto tra i carabinieri, con il coinvolgimento del Comandante Generale, Tullio Del Sette, appena prorogato alla guida dell’Arma. Del Sette è pure quello che aveva esautorato il capitano Ultimo dalla guida del Noe. Spostato ai servizi, dove ritroviamo adesso il capitano? Proprio nell’indagine del Noe che, tra gli altri, ha tirato in ballo pure Del Sette, per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. C’è di che rimanere sconcertati.

Fermarsi a riflettere, dicevo. Evitare, per quanto è ancora possibile, di condurre la lotta politica sulla base di questi materiali. Evitare la barbarie giustizialista che spicca una sentenza di colpevolezza a carico di chiunque veda il suo nome trascritto in qualunque atto d’indagine. Evitare insomma di mettere inavvertitamente nelle tasche sempre più magre della democrazia, insieme al pezzo di carta ritrovato dai carabinieri con le sigle e le cifre, il sasso che la manda definitivamente a fondo.

I miracoli non sono fatti per convertire, diceva Pascal, ma per condannare. Così è anche per tutta la materia che dalle Procure finisce in pasto all’opinione pubblica: è fatta non per informare, ma per condannare. E una cosa è certa, ahimè: di miracoloso non vi è proprio nulla nella fuga di notizie che infiamma il dibattito pubblico.

(Il Mattino, 6 marzo 2017)

Qualche domanda alla sinistra

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Quello che si legge in questi giorni a proposito di Tiziano Renzi e Luca Lotti proviene pari pari da note informative stese dai carabinieri: c’è qualcuno che veda un problema, in questo? C’è qualcuno, in questo Paese, che ne tragga un motivo di preoccupazione, qualcuno che osi domandarsi cosa vi sia di liberale, in tutto questo, a quale civiltà giuridica appartenga tutto questo?

Domande da Cassandra, dubbi che nessuno ascolta. Tutta l’intellettualità democratica, di sinistra e perbene prova di nuovo il piacere sottile di mettersi dalla parte della ragione, della morale e della giustizia per dare addosso al potente finalmente sbalzato di sella. Il meccanismo del capro espiatorio scatta ancora una volta. Siccome a prendere la parola sono garantisti a tutto tondo, non mancano mai di aggiungere con il giusto sussiego che i giudizi che rendono prescindono dagli sviluppi giudiziari della vicenda e prendono in considerazione solo l’opportunità politica. E dopo questa premessa chiedono, con finta pensosità: è opportuno questo gran daffare di papà Renzi? È opportuno circondarsi di amici d’infanzia, piazzarne uno qua e uno là? Sono opportune certe frequentazioni, certi incontri, certi finanziamenti? Tutto ciò è inopportuno, si dice. Ma non ci si chiede mai se non sia assai più inopportuno – anzi: profondamente guasto e nocivo per il Paese – alimentare queste domande con le carte passate dai carabinieri. Perché di questo si tratta: non di riscontro o di valutazioni di un giudice terzo, non di intercettazioni che inchiodano a una qualche responsabilità, ma, appunto, di informative, cioè di atti interni all’indagine in cui gli investigatori avanzano sospetti e ipotesi che vengono diffusi prima ancora di acquisire lo status di prove.

Lo spaccato che le indagini offrono appartiene senz’altro alla sociologia del potere politico italiano, e non dice gran che di nuovo. Fornisce se mai la radiografia di una democrazia immatura, asfittica, in cui la tanto famosa circolazione delle élite non manca mai di incepparsi, in cui le relazioni informali, amicali, personali, mantengono una forte vischiosità, in cui piccole ambizioni attecchiscono tenaci e spesso finiscono col sovrastare ogni sincera idealità. Ci sono ovunque – non solo nella società politica ma pure nella società civile – i cerchi magici, i raggi magici, i gigli magici. E dalla politica si vorrebbe che se ne spazzassero via un bel po’.

Ma regolare i conti grazie alle informative delle forze di pubblica sicurezza è un’altra cosa. Alzare la voce e dire la propria dopo l’ennesima propalazione di segreti investigativi tutt’altra cosa. Così ogni discrimine salta, ogni garanzia è travolta. In un regolare processo, qualcuno avrebbe già chiesto: ma i soldi di cui Romeo parla o scrive, dove sono? Qualcuno li ha trovati? È sufficiente che qualcuno provi ad avvicinare una persona per considerarla avvicinata? Basta che qualcuno dica di vedere cosa può fare per considerare la cosa fatta? Non lo è, ovviamente. Ma quando monta la canea, queste appaiono domande ipocrite, distinzioni da Azzeccagarbugli, scrupoli causidici degni di un vecchio gesuita imbroglione. Già: siamo tutti severissimi giansenisti, con la reputazione degli altri.

Nel frastuono che così si produce è ridotta a un filo la voce di Cassandra che ammonisce: badate che non sono prove, non sono processi, non sono sentenze, sono resoconti di indagini che aspettano ancora di essere valutati dalla stessa magistratura, atti che non solo non è detto che reggano in un tribunale, ma che in un tribunale non è neppure detto che arrivino.

Su cosa allora dovremmo regolare il tono della nostra indignazione? Sulle trattorie in cui qualcuno dice, parola sua, di aver visto Tiziano Renzi infilarsi quasi di soppiatto per confabulare segretamente, o sul modo in cui cresce e si alimenta la campagna di stampa, e sugli effetti politici che produce, indipendentemente da eventuali, futuri esiti processuali? Cosa dovrebbe starci più a cuore, che nei prossimi giorni arrivino sui giornali montagne di intercettazioni che inchiodino finalmente i politici alle loro responsabilità, o che il normale corso della vita politica del Paese non sia messo un’altra volta a soqquadro dalle inchieste della magistratura, prima che vengano concluse e in qualunque modo si concludano? E qual è, in definitiva, l’abito che ci piacerebbe indossare, la psicologia con cui volentieri ci identificheremmo: quella dell’inflessibile pubblico accusatore, o quella del mite avvocato difensore?

Questa domanda rivela più di ogni altra di quali umori viva l’attuale momento storico, credo. La verità è che la democrazia dovrebbe, per sua natura, patrocinare la causa dei deboli. Siccome non esercita più questa funzione, o la assolve molto poco, i risentimenti e le invidie che si accumulano si scaricano sul sistema della giustizia. Non potendo la democrazia essere a difesa dei deboli, si fa della giustizia il luogo in cui si accusano i forti (o quelli che appaiono tali).

Ma non è uno scambio salutare, né conveniente, né liberale. Anche perché lascia in realtà i cittadini sullo sfondo, nella sadica posizione dello spettatore, mentre sulla scena (e dietro di essa) si consuma il vero regolamento di conti.

E quando per giunta sarà finito, nessuno ci garantisce che non ci sveglieremo – noi, non Lotti o Renzi – nello stesso, triste mattino di Josef K., che venne arrestato perché qualcuno, ma non si seppe mai chi, doveva averlo diffamato.

(Il Mattino, 4 marzo 2017)

Il movimento con il patto di soggezione

leviatano

Il codice di comportamento del Movimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in indagini giudiziarie, che oggi sarà ratificato col voto online degli iscritti, rimette nelle mani del «Garante del MoVimento 5 Stelle», del «Collegio dei Probiviri» o del «Comitato d’Appello» la sorta dell’eletto (denominato «portavoce») che dovesse incappare in procedimenti giudiziari. Da oggi, il ricevimento di un avviso di garanzia non equivale a un’espulsione o a una sospensione dal Movimento. Una valutazione in ordine alla gravità delle contestazioni viene affidata agli organi statutari (cioè a Grillo o chi da lui proposto), e può allinearsi come non allinearsi alle decisioni della magistratura.

È una notizia. Il Movimento che per anni ha fustigato tutti gli altri partiti al primo stormire di carte giudiziarie, e che aveva elevato a grido rivoluzionario la parola «onestà!», scandendola fra le lacrime, come un grido identitario, finanche al funerale del leader carismatico, Gianroberto Casaleggio, è ora in grado di considerare onesti anche quei politici che, pur colpiti da un provvedimento della magistratura, non fossero stati ancora raggiunti da una condanna. Almeno quelli fra le proprie file cui dovesse toccare una sorte del genere, perché non è detto che questa improvvisa equanimità di giudizio venga riservata anche agli avversari politici. In passato, infatti il blog di Grillo additava al pubblico ludibrio chiunque risultasse implicato in indagini di qualche tipo, senza andar troppo per il sottile con le valutazioni circa la presunta gravità.

È un passo avanti o uno indietro? Messi di fronte alle difficoltà della vita politica e amministrativa, i Cinque Stelle stanno diventando come tutti gli altri, pronti a chiudere un occhio sulle malefatte della politica, o più banalmente prendono atto con qualche realismo che un avviso di garanzia – per esempio per abuso d’ufficio – non può equivalere immediatamente a una sentenza di condanna? Che non tutte le fattispecie di reato paventate destano la medesima preoccupazione? Che certe reputazioni sono compromesse indipendentemente dall’azione dei pubblici ministeri, e magari certe altre non lo sono nonostante quell’azione?

È evidente che essersi scottati a Parma, a Livorno, a Quarto, infine a Roma doveva avere prima o poi delle conseguenze. A Roma, soprattutto. È già stato chiaro, nelle difficili settimane passate, che bisognava imbastire una difesa della sindaca Raggi a prova di avviso di garanzia. Nomine sbagliate, indagini e arresti mettono un eventuale avviso per il primo cittadino della Capitale nel novero delle cose possibili. Il costo politico delle dimissioni, o anche del ritiro del simbolo, potrebbe essere troppo elevato, soprattutto se non giustificato da fatti di modesta entità. In ogni caso, Grillo vuole riservarsi la possibilità di decidere. Ed è normale che sia così, se si vuole mantenere il controllo politico degli eventi, anche se – va detto – non è la normalità delle dichiarazioni alle quali ci avevano finora abituati gli esponenti del Movimento.

Prendete Di Maio. Un paio di anni fa, di questi tempi dichiarava: «Per me, ai politici non va applicata la presunzione di innocenza. È facendo i garantisti con i politici che abbiamo rovinato lo Stato Italiano». Per difendere queste parole, aveva pure aggiunto, sulla sua pagina Facebook: «Per me, se c’è un dubbio non c’è alcun dubbio. È così che [i politici] vanno trattati». Ora, a meno di non volersela prendere con i magistrati, come si fa a dire che un avviso di garanzia un dubbio non lo fa venire? Ma con l’approvazione del Regolamento, anche Di Maio dovrà tenersi i dubbi per sé, e avere meno certezze sulla flagrante colpevolezza dei politici.

Di certezze dovrà invece continuare ancora a nutrirne di saldissime nei confronti del «capo politico», di Grillo, visto che la qualità democratica del Movimento non è affatto assicurata dalla partecipazione online degli iscritti ai voti di ratifica indetti ogni tanto dal titolare del blog. Basta domandarsi infatti: cosa succederebbe se un avviso di garanzia dovesse arrivare proprio a Beppe Grillo? È evidente che gli estensori del regolamento non si sono posti minimamente il problema. La circostanza che il «capo politico» debba valutare il proprio stesso caso non è disciplinata. Come se fosse esclusa a priori. Grillo è cioè la perfetta incarnazione del sovrano legibus solutus, sciolto dalle leggi che proclama. È l’ultimo discendente di una vecchia idea di Thomas Hobbes, che all’origine del contratto politico moderno metteva non uno, ma due patti: un patto di unione con cui tutti si impegnano reciprocamente a osservare gli stessi doveri, ricevendone gli stessi diritti, e un patto di soggezione, con cui tutti accettano di essere subordinati a (e giudicati da) uno solo, che del primo patto è il supremo garante. Il primo patto prevede una simmetria, che il secondo invece non prevede. Dentro il primo stanno tutti gli iscritti; dietro il secondo sta il solo Beppe Grillo. Ma in un Movimento che per principio «rifiuta la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi» non c’è molto altro: i direttori, infatti, prima o poi si squagliano. Per ora dunque hanno riveduto il solo regolamento, rivendicando autonomia rispetto alle decisioni delle procure; chissà che in futuro, apprezzata questa nuova libertà, non debbano rivedere anche il resto.

(Il Mattino, 3 gennaio 2017)

Il coraggio di avere paura della santa intolleranza

DAVIGO

Due punti, virgolette: «si fa come con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta». Così parlò Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervistato ieri dal Corriere della Sera. Ieri, ma poteva essere anche dieci o vent’anni fa. Anzi no, perché oggi è diverso, «oggi la situazione è peggio» che all’epoca di Mani Pulite, del cui pool Davigo fece parte. E tutta l’intervista svolge quest’unico tema, la corruzione della politica, i politici che rubano, i corrotti più forti di prima, i delinquenti in carcere che sono troppo pochi. E infine i governi che, di destra e di sinistra, agiscono sempre allo stesso modo: quando va bene prendono provvedimenti inutili; quando va male favoriscono la corruzione. E tutti, tutti sono senza vergogna, rubano senza vergogna, parlano senza vergogna.

Nel suo santo furore contro la corruzione politica che infesta il nostro Paese, Piercamillo Davigo non si prende nemmeno una volta il tempo di spiegare in cosa consiste il diritto di difesa, oppure la presunzione di innocenza, o la funzione democratico-rappresentativa dei partiti. Non sospetta un uso distorto della custodia cautelare, non conosce comportamenti abusivi del pubblico ministero, respinge la logica della responsabilità civile dei magistrati. E dice almeno un paio di cose di una gravità difficile da sottovalutare.

La prima: alla domanda se davvero avesse detto in passato che «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» risponde che, certo, lo ha detto e lo conferma, con riferimento a un certo contesto ambientale, che prova a descrivere. Ma in quale contesto giuridico può mai esser vera un’enormità simile? Dal punto di vista dello stato di diritto, non è mai vero che non esistono innocenti: in nessun contesto, neanche nel più degradato, nel più compromesso, nel più corrotto dei contesti possibili. Neppure tra i trafficanti di droga e gli spacciatori di materiale pedopornografico a cui Davigo paragona con squisita gentilezza i politici: neanche lì la legge può considerare di avere dinanzi solo colpevoli di cui non si sia potuto ancora dimostrare la colpevolezza. C’è solo un contesto in cui questo può accadere, ma non ha a che vedere con la legge e con il diritto, bensì con l’abito mentale dell’inquisitore. Davigo è del resto convinto che «male non fare paura non avere», come ha ricordato ancora di recente. Il che si traduce in due non piccole conseguenze: la prima, che il pubblico ministero è di fatto autorizzato a incutere paura, dal momento che dall’altra parte si spaventerà solo il cittadino disonesto; la seconda, che la vera difesa dell’indagato, o dell’imputato, contro cui preme il martello dell’inquisitore, non è nel diritto, nelle garanzie e nelle regole del processo, bensì solo nella morale e nella onestà personale. Difficile compiere più rapidamente tanti passi indietro dal punto di vista del garantismo penale.

C’è poi l’altra enormità che Davigo si spinge a dire, quando rievoca i fasti di Tangentopoli. Perché traccia il bilancio di quella stagione contando non il numero dei processi o delle condanne, ma quello dei partiti che crollarono sotto i colpo delle inchieste. Li conta: furono cinque, «tra cui quello di maggioranza relativa», cioè la Dc, ma non crollarono tutti. Infatti: «dovemmo interrompere la cura a metà». Anche in questo caso è evidentemente all’opera la stessa antigiuridica presunzione di colpevolezza di prima: i partiti che non crollarono resistettero solo perché i magistrati non arrivarono fino a loro. Ma soprattutto l’attività della magistratura prende in queste parole uno smaccato significato politico. Non è più questione, infatti, di reati da scoprire, ma di partiti da demolire.

Ora, è vero che il vice Presidente del CSM, Legnini, ha preso le distanze dalle parole di Davigo, ma resta la preoccupazione per una magistratura associata che si esprime in questi termini: non per chiedere di discutere questo o quell’aspetto della riforma della giustizia, non per dialogare sui temi in discussione in Parlamento, ma per gettare nel totale discredito l’interlocutore politico con cui pure dovrebbe intrattenere rapporti certo anche ruvidi, se necessario, ma pur sempre di reciproco rispetto.

E invece non c’è una sola parola nell’intervista che lasci pensare che per Davigo la politica italiana sia altra cosa che un grande latrocinio. Così peraltro pensava sant’Agostino dei regni e degli Stati. Ma appunto era un santo a pensarlo, uno che cioè prendeva a metro e misura degli uomini la giustizia di Dio. È possibile accettare che il Presidente dell’Anm nutra la stessa, santa intolleranza?

È questa la cultura giuridica liberale di cui ha bisogno il Paese? Oppure ha davvero ragione Davigo, e allora non si tratta di processi o di garanzie, ma di riattivare il mito fondativo di Mani Pulite, per resettare daccapo la classe politica del Paese? Dalla crisi della politica deve dunque venire la santa Repubblica dei giudici, con i Cinquestelle che, entusiasti delle parole del magistrato, si candidano fin d’ora a guardiani della rivoluzione? C’è di che aver paura. E bisognerà avere pure il coraggio di avere paura, quando qualcuno vi dirà beffardo che hanno paura solo i corrotti.

(Il Mattino, 23 aprile 2016)

Enzo Tortora

Kafka

Pensavamo che il caso Tortora fosse ormai chiuso: su responsabilità o colpe, omissioni o negligenze si può discutere , ma non sul fatto che si trattò di errore giudiziario. Più o meno clamoroso, più o meno grave, più o meno inammissibile, ma errore fu. E invece no. Invece Lucio Di Pietro, uno degli accusatori di allora, ha pensato bene di riaprirlo. Intervistato da questo giornale, il sostituto procuratore che, insieme a Felice Di Persia, mise le manette a Enzo Tortora, ha spiegato che non si trattò affatto di un errore, se per errore si intende una cantonata, un passo falso, uno sbaglio. Frutto anche solo di distrazione, di disattenzione, di sciatteria. Nulla del genere, nulla di tutto questo: «con gli elementi a nostra disposizione, non potevamo fare altrimenti», dice oggi sicuro e tetragono Di Pietro, e prosegue sciorinando i meriti di un’istruttoria che si concluse con la bellezza di 434 condanne definitive. Non solo: «molti degli assolti furono poi uccisi», il che probabilmente significa per lui che vanno considerati senz’altro colpevoli anche loro. Infine, l’istruttoria, e quel che ne seguì, ebbe pure il non piccolo merito di consentire alla giustizia italiana di familiarizzare con i nuovi strumenti introdotti per fronteggiare il crimine organizzato: la gestione dei pentiti, la contestazione del  416 bis sull’associazione mafiosa. Se non ci fossero di mezzo degli innocenti sbattuti in galera, quasi si dovrebbe dire: chapeau!

Nell’intervista, al riguardo, non c’è altro: non una parola sui molti che furono assolti, e che non usarono agli inquirenti la cortesia di confermare l’impianto accusatorio facendosi in seguito ammazzare. Non un dubbio sul «concorso a premi» per i pentiti – così lo definì lucidamente Tortora: chi fa il nome del presentatore famoso porta a casa sconti di pena e trattamenti di riguardo, e a farlo furono addirittura in quindici, spalleggiandosi l’un l’altro –. Nessuna considerazione, neanche di circostanza, per la famiglia di Tortora, o per le figlie. Nessuna parola di stima o di rispetto, neanche postuma, per l’uomo la cui vita fu distrutta da quell’indagine. E nessuna parola di scusa: d’altra parte, chi mai chiederebbe scusa per un errore che non ha commesso? Infine, nessuna considerazione di diritto, che getti sul lavoro condotto allora in Procura una luce diversa dai numeri. I quali numeri, poi, il dottor Di Pietro non ricorda interamente: le condanne furono 434, ma gli ordini di cattura furono la bellezza di 856 (e gli errori di persona qualche centinaio). Numeri da copertina, numeri da prima pagina. Che però, all’esito del processo, dicono: per ogni condanna un’assoluzione, o quasi; per ogni colpevole un non colpevole. Certo, Di Pietro chiede che si faccia la tara dei morti ammazzati. E di nuovo: il diritto evidentemente non c’entra e non gli interessa, il metodo e il merito del procedimento e delle contestazioni elevate non rilevano, la sentenza di colpevolezza è semplicemente fatta uguale all’ammazzamento.

È da credere, comunque, che per tutti loro, per tutti quelli che furono scarcerati, Lucio Di Pietro pensa ancora oggi che non c’era da far altro che privarli della libertà: gli elementi a disposizione c’erano tutti, e l’arresto era obbligatorio. Forse il magistrato non si rende conto che, per assolvere se stesso, firma in questo modo il più duro atto d’accusa nei confronti della giustizia italiana: che giustizia è infatti una giustizia che per acchiappare un colpevole deve obbligatoriamente  arrestare almeno un innocente? Quale anima nobile, lette queste valutazioni, può ancora pensare che è segno di civiltà giuridica che mille colpevoli stiano fuori purché un innocente non finisca dentro? Chi oserà sostenere ancora che il diritto non dovrebbe recare traccia di quella logica del capro espiatorio dal cui fondo ancestrale pretende con fatica di staccarsi? La politica può forse – con molte prudenze, in circostanze particolari, e con un senso tragico delle proprie responsabilità – piegare alle proprie più dure ragioni i diritti dei singoli. Per farlo, l’esistenza stessa di un ordinamento reale, la sicurezza di un popolo o la vita dello Stato deve essere in gioco. Ma nessuna considerazione realistica, o strumentale, o meramente quantitativa come quella che porta Di Pietro nell’intervista può invece intervenire in tribunale, pesare su un atto giudiziario, gravare su una sentenza. È perciò un vero e proprio obbrobrio dire che per sgominare la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo bisognava che Tortora e gli altri ci andassero di mezzo. Eppure il magistrato, a distanza di trenta e passa anni da quei fatti ragiona ancora così. Tortora doveva andare in carcere, non poteva non andarci. E ovviamente Lucio Di Pietro non subire il minimo contraccolpo professionale, anzi: fare carriera. Chi dei due sia andato in verità verso una miglior sorte, solo un dio può saperlo. Così almeno disse un filosofo greco dinanzi a dei giudici, tanto tempo fa. Era Socrate, e credeva nella giustizia molto più dei suoi giudici, e dei suoi accusatori.

(Il Mattino, 31 dicembre 2015)