Archivi tag: filosofia – articoli

Regalo

Oggi vi voglio bene e vi regalo il link alla Conferenza su Une poétique de la pensée di George Steiner dello scorso primo marzo.

Eventi

Rocco Ronchi ha tenuto ieri la prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università degli Studi di L’Aquila, la prima dopo il terremoto. Ronchi parla dell’evento e della meraviglia, del reale e della catastrofe, della filosofia come scienza ‘pratica’ della verità e inizio di comunità. Che la filosofia prenda la parola sul fondamento, nella città del terremoto, sembra a me una cosa bella.

[Resumé: "Martin Heidegger faceva dell’esser sospeso dell’angoscia il fondamento comune di ogni sguardo teorico". L’evento di questa sospensione è il punto copernicano e inaugurale di ogni scienza, dice Ronchi, e con Sartre aggiunge che questo punto è ben più che una scelta di metodo: "ero brutto – scrive Sartre dei suoi esordi in filosofia -, e volevo piacere alle donne". Se si mantiene memoria di questo punto, di questa crepa o di questa angoscia, pratico-esistenziale e niente affatto astratta, si comprende come la filosofia non possa e debba essere mera sistemazione razionale ex post. E nemmeno edificazione: aveva ragione il Voltaire che parlava del terrimoto di Lisbona, e metteva alla berlina le formule edificanti della filosofia popolare.
La filosofia educa, e-duce, apre gli occhi, è sguardo inaugurale. Nel dopoguerra, le scienze dell’educazione han voluto emanciparsi dalla filosofia (in Italia: dal giogo dell’idealismo). Avevano le loro buone ragioni. Ma la tecnicizzazione senza teoria per la quale si sono incamminati in cerca di una propria autonomia metodologica ed epistemologica è buttare il bambino con l’acqua sporca. Una proposizione che non è filosofica alla sua radice, non è scienza.

La filosofia, dunque, generata nella catastrofe dell’evento, è epistrofe dello sguardo: conversione e rivoluzionamento delle pratiche abituali (di scienziati, di storici. ecc.). Ora, una catastrofe reale ha avuto luogo. Dobbiamo ricominciare. Un nuovo anno accademico ci attende. Non abbiamo più abitudini da ripetere semplicemente. Siamo costretti a porci di nuovo la domanda essenziale, che chiede quale sia il senso di essere qui e ora dinanzi agli studenti, col problema di fare fronte a nuove, enormi difficoltà.
Chi siamo noi, in quanto professori, compromessi con la verità? Il professore non è un esperto o un saggio. E’ sì titolare di una competenza, ma non è semplicemente un tecnico (e neppure un auratico maestro che dispensa verità trascedenti circa il senso ultimo dell’esistenza).
Nella società dello spettacolo la filosofia appare o degradata o fantasticata come luogo separato della società (roba da anime nelle). E la stessa distinzione fra facoltà scientifiche e umanistiche sembra cancellarla. Ma la specificità della nostra attività di ricercatori, devoti alla verità, va salvaguardata. Essa concerne il pensiero, anzi il pensare, l’atto del pensare, uno immobile intorno a cui ruota l’enciclopedia dei saperi. L’unum dell’uni-versitas.
Uno disinteressato perché il suo interesse unico è il suo stesso esercizio. Questo è poi, secondo tutta la tradizione, il bios theoretikos. E questa vita è essenzialmente libertà, perché il suo stesso evento è il farsi fenomeno della libertà. Un pensiero non libero è non pensiero.

Questo pensiero è ciò che non si muove. Ad onta di terremoti, diceva Husserl in un suo celebre manoscritto, l’arca originaria della Terra non si muove, perché solo in riferimento a lei hanno senso quiete e moto. Ora, questa Terra non è un valore o un principio posto, non è un pensato, ma il pensiero stesso. Il pensiero in quanto attività, in quanto praxis, che resiste ad ogni critica perché l’esercizio della critica lo presuppone operante.
E dunque l’Assoluto è finalmente presso di noi nella forma di un pensare che è salvo da ogni sommovimento tellurico perché è lui il cuore immobile di ogni terremoto. Il libero pensiero è il fondamento che non crolla, e su di esso è sempre possibile ricominciare a ricostruire.
Così pensava un italiano anomalo, Giacomo Leopardi: "…il pensiero solo per cui risorgemmo dalla barbarie e per cui solo crescemmo in civiltà".

L’università è stata fatta oggetto di campagne mediatiche su abusi corruzioni e nepotismo. Abbiamo il dovere di vigilare su tutto ciò. Ma forse il vero (e non confessato, e non confessabile) bersaglio di questi attacchi è il fondamento stesso dell’università, il libero pensiero. La difesa dell’università è la difesa del libero pensiero sono la stessa cosa. Chiudo con Simone Weil: non è il fascismo che soffoca il pensiero. E’ l’assenza di pensiero libero che rende possibile il fascismo].

Pelle

Pezzo a pezzo, prosegue la serie di Puzzle. L’uomo a pezzi e la filosofia. Stasera (Red Tv, ore 21) tocca a La pelle.

(E siccome mi si prende in giro sull’accento napoletano, stasera leggo un pezzetto de La pelle di Curzio Malaparte, per il quale non c’è accento migliore)

Cuore

Se oggi alle 21 non seguite Puzzle. L’uomo a pezzi e la filosofia, su Red TV, vuol proprio dire che non avete Cuore.

(Le puntate precedenti sono archiviate sul sito)

a me gli occhi, please

A voi la nuova puntata di Puzzle. L’uomo a pezzi e la filosofia, domani sera, alle ore 21, su Red TV. Tema della puntata: gli occhi.

(E’ anche da dire che la prima puntata – La Mano – è tuttora liberamente visibile sul sito).

Alluce e milza

Tra le molte reazioni alla messa in onda della prima puntata di Puzzle. L’uomo a pezzi e la filosofia (che potete rivedere sul sito) metto qui la più impegnativa, di F.L.:

"Bella! In bocca al lupo per le prossime! Coerenza (e spirito di decostruzione) vorrebbe che si facesse anche l’alluce (Bataille) e la milza (oltretutto com’è noto Ippocrate o Galeno hanno pagine finissime sulla milza…)".

Serata cultura

La televisione italiana dimostra ancora una volta di essere avanti, molto avanti (forse persino troppo avanti).
Domani sera, in prima serata, alle ore 21, Puzzle. L’uomo a pezzi e la filosofia. Prima puntata: La mano. Naturalmente su Red TV.

(Se non vi siete ancora saziati del promo, potrete apprezzarlo qui)

Luca Caselli e un vecchietto

Alle 18.10 di domenica 20 settembre, Luca Caselli, nato a Sassuolo il 19 settembre 1972, tre figli, laureato in giurisprudenza e avvocato libero professionista, consigliere comunale dal 1995 e dal 2004 anche consigliere provinciale, membro del Comitato Provinciale del PdL di Modena e sindaco di Sassuolo in carica, si è guardato intorno, ha guardato poi con evidente irritazione il vecchietto che aveva a fianco, e per non subire ancora l’onta delle sue parole si è alzato, gli è scivolato alle spalle ed è sceso dal palco. Prima di andarsene, ha camminato nervosamente ai margini della piazza, fatto qualche telefonata, parlato con un paio di persone. Poi se ne è definitivamente andato. O almeno io non l’ho più visto.

Il vecchietto però ha continuato a parlare. Con la sua voce sottile, appena tremolante, chiedendo perdono, ma ha continuato a parlare: di un ministro della cultura che parla contro la cultura, e di altri misfatti recenti. Luca Caselli non se l’aspettava. Al vecchietto avevano dato un tema, Comunità e carità, che pareva il più conciliante possibile. E lui, del resto, si era all’inizio mostrato conciliante, muovendo da un passo dei Promessi Sposi, del ‘nostro’  Alessandro Manzoni. Un passo tratto dal capitolo XXXVI, quello in cui Renzo incontra al lazzaretto Padre Felice. E il tema era svolto nei termini del terzo, del terzo per il quale una comunità si costituisce come tale, e finché le cose si tenevano a quest’altezza, a questa generalità, Luca Sasselli seguiva il vecchietto senza troppa difficoltà: a chi non piace Manzoni? Quando però il terzo è diventato il frate che va a mani nude in mezzo ai lupi, Luca Sasselli si è rabbuiato. E quando il vecchietto ha preso a dire – come Padre Felice: con la corda al collo – che lui in giro vede solo lupi, e a chiedersi dove siano più i frati di cui ha bisogno una comunità per esser tale, allora Luca Sasselli deve aver pensato che la misura era colma, che quel vecchietto non stava facendo più cultura, ma propaganda, e che perciò non poteva restare un minuto di più. Ma il vecchietto non si è scomposto. Ha continuato, senza alzare i toni ma senza nemmeno abbassarli, perché non si fa un Festival di Filosofia solo per ricevere un comodo supplemento d’anima sul calar della sera, perchè confinare la filosofia in un recinto estetico, o genericamente culturale, è non far filosofia, perché non si parla in piazza se non si ha riguardo al fatto che è in una piazza che si parla, di fronte ai simboli civili e religiosi di una comunità, e perché pazienza per il patrocinio, mi scuserà l’organizzazione del festival, ma filosofo non è colui che fa la guardia al bidone di benzina, ma colui il quale gli dà fuoco.

Il vecchietto era Carlo Sini (e il passo del Manzoni col discorso di Padre Felice si trova qui)

Filosofia, un bene comune

Centocinquantamila presenze, migliaia di persone che si sono mosse quest’anno fra Modena, Carpi e Sassuolo per ascoltare le lezioni magistrali che il Festivalfilosofia propone ogni anno, da nove anni, nelle piazze, nelle chiese, nei palazzi delle città ospitanti. Programma ricchissimo, densissimo, affollatissimo. Mentre Cacciari parlava in Piazza Grande, a Modena, sul tema del prossimo come si presenta oggi: con il volto dello straniero, dell’immigrato, dell’extracomunitario, Vincenzo Vitiello, a Sassuolo, mostrava come sia andato in frantumi l’intera tradizione teologico-politica dell’Occidente. Mentre Richard Sennett rifletteva sulle scomparse e forse risorgenti comunità di mestiere, Marc Augé, l’antropologo dei non-luoghi, si esercitava sul tema politicamente assai scottante delle frontiere. E in contemporanea erano in programma anche Esposito e Bianchi, Galimberti e Severino, Vandana Shiva e Ferraris, Natoli e Sini, Curi e Nancy e via via tutti gli altri.
Non basta: per tre giorni, durante il Festival, le gallerie d’arte inaugurano personali e collettive, si tengono mostre e spettacoli e cene filosofiche; dappertutto si vedono i libretti rossi del programma, le maglie gialle degli addetti allo staff, le t-shirt e le borse a tracolla con il logo del festival, e persino i distributori automatici non di sigarette o profilattici, ma delle lezioni delle precedenti edizioni del festival, raccolte in comode ed economiche ‘paginette’ con il volto pensoso del filosofo in copertina.
Si possono scegliere due strade, di fronte a eventi del genere: giudicarli fenomeni imponenti ma superficiali, dettati dalla moda e dal consumo, oppure chiedersi se non sia proprio la comunità – il tema del Festival di quest’anno – la ‘cosa’ che tutti cercano tra un concerto e una lezione, un aperitivo a base di prosecco e una passeggiata in piazza, mentre il filosofo parla e le biciclette si fermano e il brusio della folla si attenua fin quasi a cessare. A ragione il Consorzio che da quest’anno gestisce il Festival ragiona intorno alla possibilità di esportare la manifestazione in altri luoghi d’Italia – per esempio al Sud, dove mancano distretti culturali del genere. E dove c’è da vincere una sfida: intellettuale e civile, prima ancora che organizzativa o economica. “Non si tratta semplicemente di commercializzare un marchio – dice la professoressa Borsari, l’anima del Festival – ma di riflettere sui nuovi modelli di fruizione della cultura, sulla pedagogia delle nuove generazioni, sul tramonto dei vecchi comparti del sapere e sull’effettiva voglia di comunità che sembra prepotentemente venire a galla, in occasioni del genere”.
Non bisogna disperare, dunque. Al filosofo supercilioso non si chiede di abbandonare per sempre le aule e i libri, ma di mettere in circolo il sapere, per le vie per le quali può scorrere oggi; e allo spettatore distratto non si offre solo qualche edulcorata pillola di accattivante saggezza, ma casomai di seguire la lezioni prendendo appunti: e in effetti, è abbastanza impressionante vedere la quantità di quadernetti e bloc-notes e penne impegnate a seguire con attenzione (a volte persino in piedi, a volte per terra addossati gli uni agli altri sotto una calda e umida tensostruttura) le difficile e talvolta aspre parole degli oratori.
Eppure a sentire Carlo Galli la comunità è oggi poco più di un miraggio. Specie per noi italiani. “Ha ragione Della Loggia: un ethos degli italiani non c’è”. Non c’è una comunità per la buona ragione che non c’è più nemmeno un individuo. Di solito i due termini – gli individui da un lato, la comunità dall’altro – sono presentati come opposti. Come incompatibili. Dare agli uni significherebbe togliere all’altra. E invece non è affatto così. Se non c’è comunità, è proprio perché oggi siamo per lo più in presenza non di individui, ma di “soggetti assoggettati” – dice Galli – “a cui vengono perciò fatte consumare in modo meramente sentimentale offerte di comunità fittizie”. Costruire comunità non significa dunque inventarsi spazi chiusi e protetti, in cui difendere gli individui dalle loro più profonde paure, o dalle minacce esterne, ma inventarsi invece luoghi in cui gli individui possano aprirsi gli uni agli altri, ed essere così davvero individui, nella loro irriducibile differenza. Essere, insomma, cittadini, nel senso robustamente civico della parola. E dunque: oltre “la comunità di sperma e sangue” di cui a partire da Vico ha parlato a Modena Roberto Esposito, in direzione di un uso critico della parola e del sapere. I Festival, in fondo, quando riescono davvero, non solo nei numeri ma nella testa dei partecipanti, dovrebbero servire a questo.
E il prossimo anno si ricomincia. Il tema dell’edizione 2010 è stata infatti già annunciato. Sarà la fortuna.

La filosofia oltre l'abisso

Il 2 dicembre 1851 il colpo di Stato di Luigi Bonaparte liquida, in Francia, la seconda Repubblica. La speranza di una rivoluzione democratica in Europa sembra sepolta per sempre. Un uomo, che fino allora aveva vissuto nell’incendio della politica e della storia, e che nel ’48 era stato costretto a lasciare Napoli, scrive in lettera a Camillo De Meis: "Ci sono certi tempi, in cui lo spirito, o quel che diavolo sia, si nasconde e si ritira nel fondo dell’esistenza e degli avvenimenti. Allora la vera regina di questo mondo sembra la forza e l’arbitrio degli uomini, e la vita non ha alcun pregio". Quell’uomo era Bertrando Spaventa, e dal suo ritrarsi dal turbine degli avvenimenti per dedicarsi agli studi filosofici nascerà il filone più robusto dell’hegelismo napoletano: la nuova alba della cultura meridionale e nazionale, come ebbe a dire Benedetto Croce.
Il senso della svolta di Spaventa (che non fu solo sua personale, ma di buona parte degli hegeliani di Napoli) non fu però quello di un amaro ripiegamento interiore, di un dorato isolamento intellettuale. La "filosofia alemanna" era per Spaventa lo strumento di un progetto culturale di ricostruzione ideale e civile di tutta la nazione: la continuazione della lotta politica con altri mezzi. Non era possibile altrimenti: non lo era per chi come Spaventa sentiva la filosofia come "un principio vivente", per chi provò sempre a declinare insieme filosofia e vita nazionale, per chi aveva scritto in gioventù che "i filosofi sono i precursori della rivoluzione", e per chi, in età matura, non penso mai che i compiti più arditi della logica speculativa appartenessero ad un mondo diverso da quello in cui tuona "la potenza degli archibugi, dei cannoni e della mitraglia".
Il fatto è che il filosofo napoletano aveva trovato, come spiegò Giovanni Gentile pubblicando i suoi scritti, la "chiave d’oro" della filosofia moderna: nessun superamento dell’opposizione fra soggetto e oggetto, fra spirito e natura, fra ideale e reale, fra essere e dover essere "è possibile in linea di pura teoria". L’opposizione stessa tra teoria e prassi risultava perciò puramente teorica, cioè astratta, e a darne dimostrazione era chiamata l’intera filosofia moderna: l‘homo faber rinascimentale, l’elogio della mano di Giordano Bruno, il principio vichiano del verum factum, la scoperta della storia come orizzonte intrascendibile dell’agire umano, l’attualismo, infine, come verità definitiva della filosofia. Tutto confluiva in un unico pensiero, che lo spirito è non altro che il suo stesso farsi, e che nell’attività in cui eternamente si dispiega è principio e fine a se stesso.
Pensiero grande e terribile. Pensiero abissale, in cui sprofonda l’intera filosofia moderna. Perché esso non esalta solo la forza del pensiero che innerva l’intera realtà, ma anche il pensiero della forza, che riceve da quella proposizione una temibile patente di razionalità. Non aveva forse detto Hegel che la forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione? E questo non significava anche che la forza non può non valere come criterio ultimo di verifica della realtà e verità dello spirito?
Tutto, comunque, meno che una pacifica disputa tra dotti era allora la filosofia. E il contrario di quel che oggi, per scrollarsi di dosso le tragedie del ‘900, finisce con l’essere: una mera "voce nella conversazione dell’umanità", per dirla con Richard Rorty. Ma se è solo una voce fra tante, perché dovremmo ascoltarla, a preferenza di altre? Solo perché è una voce colta e bene informata?
Ben altrimenti la cosa doveva presentarsi a Croce e Gentile, che in modo diverso raccolsero l’eredità dell’hegelismo napoletano. In entrambi, il problema della filosofia non si presenta mai nelle forme edulcorate in cui sembra scadere oggi, come una sorta di emolliente che ci protegge dalle asprezze della storia. In entrambi, la filosofia cade in un orizzonte nazionale ed europeo che ne misura necessariamente la forza e la serietà, perché nel pensiero non può non vivere la "potenza realizzatrice". di cui parlava Spaventa.
Certo, presero strade assai diverse: furono infatti vicini nel comune impegno per la nuova Italia, ma per Gentile il fascismo doveva dare a quell’idea forza e capacità di realizzazione, mentre per Croce era piuttosto il momento più aspro di rottura con la tradizione, che bisognava riportare, modernizzandola, all’altezza del proprio tempo.
Cominciando da dove? Questa, che è per solito una domanda etico-politica, fu per lo Spaventa maturo una domanda di natura speculativa. Che Gentile risolse nell’autoposizione dello spirito, riconoscendo nel fascismo la figura storica dello spirito che si appropria assolutamente della propria origine e del proprio destino. Che Croce invece, non avendola compresa abbastanza, si limitò a relegare tra le anticaglie della vecchia metafisica: seppe così guardarsi dalla violenza filosofica e politica del gesto gentiliano, ma non sfiorò nemmeno la radicalità di quella domanda.
Spaventa no: Spaventa non poteva non provarvisi, per sperimentare il limite interno in cui il pensiero si imbatte ogni volta che cerca di afferrare se stesso. E non poteva non farlo anche perché era esperienza che temprava tutto il suo carattere, e politicamente la sua idea di libertà. Come infatti il suo pensiero speculativo fu per spiriti forti, così il suo liberalismo non fu per imbelli. Basta leggere quel che diceva al fratello Silvio, parlando di certe cattive compagnie: "È una razza di liberali che io aborro, perché non ha nessun principio che meriti questo nome: pensano – o, per dir meglio, dicono di pensare – ciò che pensa il tale e tale, che è uomo potente, ricco, e che dà dei buoni pranzi: sono un altro genere di livrea". E quanto poco, ancora oggi, abbia bisogno il paese di livree, invece che di pensieri forti, non è difficile a immaginarsi. Se almeno si vuol tenere ancora fede all’idea di libertà: perché "chi dice libertà dice libertà di tutti, e non dice privilegio di alcuni".

Udite Udite

Una bella notizia, affamati lettori di filosofia che vi domandate ogni giorno: ma dov’è la nuova filosofia teoretica italiana? Ma dove sono i giovani filosofi, le giovani leve? (Vale, per la parola "nuovo" e per la parola "giovane", in filosofia, quello stesso che si dice in politica: sicché fate voi).
Ma ci sono i giovani filosofi! Ma ci sono, le giovani leve! E sotto l’esperta guida di Rocco Ronchi (che sempre giovane è, secondo gli standard accademici, ma un po’ meno giovane) hanno finalmente prodotto il nuovissimo Palazzi! No, il nuovissimo Zanichelli! No, il nuovissimo manuale
Filosofia teoretica. Un’intorduzione, della UTET (che se lo acquistate su IBS risparmiate pure un bel 10%)

E dovete acquistarlo. Perché vi aggiornate sugli ultimi quarant’anni; perché il solo fatto che si tiri fuori un manuale di filosofia teoretica dovrebbe ingenerare in voi la curiosità di sapere come diavolo si fa a stendere un manuale del genere (più prudentemente: un’introduzione). E perché una delle sei o sette voci di cui si compone (Identità/differenza) è scritta dal sottoscritto, e al primo capoverso fa così:

Per cominciare, Hegel. Ad Hegel si può infatti risalire per assegnarsi il compito di chiarire l’interesse della filosofia teoretica per quelle categorie, alle quali nella vita ordinaria non attribuiamo in realtà "alcuna efficacia determinatrice del contenuto" [Hegel 1831, 12]. Nella vita ordinaria, siamo per esempio interessati a sapere che cos’è un albero, oppure Dio. Possiamo avere interesse a conoscere le proprietà di una cosa (o di un oggetto: nel seguito impiegheremo i due termini come sinonimi), o le circostanze in cui è accaduto un certo evento. Tutto ciò ricade però nell’ambito delle "rappresentazioni" il cui valore ed il cui scopo, la cui esattezza e la cui verità, ragiona Hegel, non sembrano aumentate né diminuite dalle determinazioni puramente formali del pensiero. Tra queste determinazioni rientra senz’altro l’identità, che già Kant collocava tra quei "concetti della riflessione" di cui ci avvaliamo per esaminare le nostre rappresentazioni, stabilendo ad esempio se ‘questo’ è identico a ‘quello’, oppure se ‘questo’ è diverso da ‘quello’, ma non per determinare il contenuto di ‘questo’ o di ‘quello’. Se un albero è un albero, ciò dipenderà infatti da certe sue proprietà materiali, non dal fatto che, in quanto è un albero, esso è identico a se stesso. L’esame di cui parlava Kant è affidato cioè ad una riflessione esterna, che non determina la cosa stessa. Fin qui, scriveva perciò Hegel, "le determinazioni del pensiero valgono come forme che sono nella sostanza, ma non sono la sostanza stessa" [Hegel 1831, 13].

Naturalmente contrtinua, la voce, ma per quello ci vuole appunto il  volume.

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La filosofia e lo statuto del vivente

A beneficio del mondo, metto qui sotto lo schema della relazione tenuta da Carlo Sini a Marina di Camerota, quella che m’è parsa filosoficamente più densa. Siccome è di mia mano, dico in premessa che lo schema riproduce abbastanza bene l’ordine dell’esposizione, meno bene il movimento del pensiero (com’è inevitabile, peraltro). A voi:
 
In premessa: la natura umana non ha un passato e un futuro stabilii. Qualunque affermazione ‘ assolutistica’ è, in senso stretto, ignorante: ignora ciò che l’uomo è. Solo un pensiero relazionale, del relativo (che non vuol dire un pensiero banalmente, debolmente relativistico) consente di pensare che cos’è l’uomo.
La filosofia parte del vivente. Ogni altra ‘partenza’ è inadeguata. La filosofia nasce con Parmenide. In Parmenide l’uomo è eidos phos, colui che sa. Sapere è ‘avere visto’. L’uomo è colui che, avendo visto, sa. Ciò che l’uomo ha visto, e che lo stacca da tutti gli altri esseri viventi, è la morte, il cadavere. Questo è il sapere antropologico per eccellenza.
Hegel dirà dell’uomo il medesimo: l’uomo è il photizomenos, il rischiarato, l’illuminato. Per Hegel, fin dai suoi scritti giovanili (cf. Lo spirito del cristianesimo e il suo destino) “il carattere di ogni realtà è la vita”[1]. Il mondo è la vita che accade.
Come però accade? Hegel distingue la vita immediata, indistinta, e la vita illuminata dal sapere. Non sono però due vite ma due modi d’essere della stessa vita. Non son due ‘cose’ separate: la vita è immediatamente la sua mediazione. Siamo già sempre, immediatamente, nell’evento della sua mediazione. Il che in breve significa: non ci sono sostanze metafisiche (per stare ai termini moderni: ‘soggetto’, ‘oggetto’, ecc.). Le fantasmagorie metafisiche sono nate molto spesso non per amore del sapere ma per amore del potere. Whitehead: ogni cosa prende (com-prende) un’altra cosa. Ogni vita e ogni vivente è immediatamente la relazione in cui si disegna il suo stesso vivere. Il vivente è la vita che si individua. Non c’è un assoluto essere organico e un assoluto essere inorganico. L’organico è ciò che di volta in volta si ritaglia l’inorganico come suo altro – e ciò, l’evento di questa mediazione, immediatamente.
Questo individuarsi separandosi è la relazione (l’essere-in relazione). Io e te siamo relazionati dalla nostra separazione, separati dalla nostra relazione.
Zoè, la vita nel suo primo senso immediato, è l’accadere di phos, luce del sapere che nell’uomo giunge sino al sapere la morte, come s’è detto, ma che è anzitutto un saper fare, un assumere abiti e un com-prendere. Il vivente è ‘illuminato’, si diceva, ma è illuminato dalla sua stessa prassi: ciò che vale per le forme infinitesimali del vivente come per l’uomo.
Con l’uomo – che, diceva Heidegger, è aperto al mondo, a differenza dell’animale – la ‘luce’ giunge sino a illuminare l’ente nella sua verità. L’uomo è il photizomenos photi aletheias (Hegel, ancora lo Hegel giovane). Ossia: l’animale fa quel che sa e deve fare, (oppure: patisce quel che deve patire), ma non si dà mai per lui un sapere complessivo del mondo, non si eleva mai alla luce dell’orizzonte complessivo dell’ente, l’uomo ha il mondo, è l’illuminato, è il rischiarato nel senso che sta, sa e si sa come colui che sta nel mezzo della totalità dell’ente.
Ora però quel che Hegel ci ha infine insegnato – e che non ci hanno insegnato né Parmenide né Kant (o Fichte o Schelling) –è la storicità essenziale della vita stessa. In quanto la vita è l’evento stesso del vivente che si illumina nel suo sapere; in quanto questo sapere è anzitutto un saper fare, e dunque è prassi, in tanto essa è storia. E’ Dilthey ad aver segnalato con forza questa soglia: la vita come storia.
La storicità della vita è la storicità dei suoi saperi. Anche dei saperi scientifici. Il phos, la luce, il sapere è – lo si è visto – del mondo nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo: non è solo la luce che cade sul mondo, ma è la luce in cui il mondo viene al mondo come mondo (vs. ogni lettura ‘soggettivistica’ di Hegel). Questo implica l’essenziale storicità di ogni biologia, di ogni scienza del vivente. Non avremo sempre questa biologia, e soprattutto: non avremo sempre questa architettura del sapere. Ma affermare la storicità di ogni biologia non comporta tanto un abbassamento relativistico quanto un innalzamento del relativo (del vivente in quanto vivente).
Di nuovo: sapere è essenzialmente saper fare. Il lavoro della scienza è, appunto, un lavoro. La scienza deve essa stessa liberarsi dei suoi fantasmi naturalistici e riduzionistici. Se la vita è storicità, se la scienza è (anche) il suo lavoro, allora significa che sono letteralmente ignoranti proposizioni le quali dicano ad esempio che la vita è sacra e intangibile o che, per altro verso, dicano che la vita è una scarica elettrica. E il compito della filosofia – dinanzi a simili affermazioni – deve essere quello di chiedere: fammi vedere che lavoro fai, quando intendi e dici così; mostrami le tue operazioni, come prendi e com-prendi.
Solo così possiamo comprendere come l’uomo abbia un futuro, e come abbia un passato (nel modo in cui li ‘ha’)[2].

[1] Anche L. Wittgenstein dirà, in apertura del Tractatus: il mondo è tutto ciò che accade. E nei Taccuini coevi: il mondo è la vita stessa
[2] Nella discussione, Sini ha aggiunto, in risposta a chi lo invitava a riflettere sulle possibili manipolazione genetiche e sulla necessità di tutelare la natura umana, che questa tutela non si esercita sul piano dei principi ma si misura sulle conseguenze. In breve: dobbiamo chiedere conto delle conseguenze, vedere le conseguenze. Ha poi negato che la sfera dell’etica e della politica siano separate dall’economico e svolto brevissimamente una critica del liberismo economico, evidenziando come siano profondamente insufficiente le stesse nozioni fondamentali del nostro sapere economico. Ha poi proposto la questione della libertà nei termini del numero di occasioni che ha ognuno di noi. La libertà di movimento è dove puoi e hai occasione di andare, ben più del suo astratto principio. La sinistra ha oggi il coraggio di mettere in discussione le forme correnti del capitale finanziario?
Ha poi chiarito il senso della sua ‘apologia del relativo’. La totalità non è che il sogno della parte: è ciò che sogna la parte relazionandosi all’altra parte. E anche quando affermo il carattere ‘trascendentale’ della relazione, lo dico però ‘da parte a parte’ – precisamente: dalla parte della filosofia. Il trascendentale non è che una figura della prassi filosofica. Il che non vuol dire che lo dovrei dire altrimenti, ma che devo stare sempre in guardia dalla ‘superstizione’ dell’assoluto.
Infine: bisogna smetterla di voler essere immortali. C’è anche nel cristianesimo nella sua teologia, una possibilità di pensare così il Cristo: il sepolcro è vuoto, e vuoto vuol dire che non c’è niente, che lì non ci va niente, che io sono già salvo perché lì non ci andrà nulla. Se si pensa così, si pensa in direzione di una religione della fratellanza universale, del Dio-con-noi, del Dio incarnato, cioè una religione senza il Padre nei cieli. Ma soprattutto, se si pensa così si pensa la vita come transito che non si risarcisce della mortalità procurandola agli altri (è la risposta di Freud ad Einstein sul perché la guerra: perché vogliamo essere immortali).

Il futuro della natura umana

La lingua greca, con cui è formata grande parte del lessico politico che ancora oggi usiamo, distingueva fra la zoè e il bíos: con il primo termine indicava la vita nel suo senso ancora non differenziato, che coinvolge tutti gli esseri viventi; con il secondo, indicava invece forme di vita proprie di una determinata specie, che nel caso della specie umana possono essere diverse (mentre una e sempre la stessa è la forma di vita propria di ciascuna specie animale). Proprio la distanza tra un piano e l’altro consentiva la posizione del problema politico: che concerneva, per Aristotele, l’insieme delle scelte situate non semplicemente sul piano del vivere, ma del vivere bene, della buona vita. L’una e l’altra dimensione appartengono alla physis dell’uomo, cioè alla sua natura, ma solo la seconda sollevava per Aristotele problemi politici, poiché investiva la dimensione eminentemente pratica della decisione.
Una caratteristica puramente formale di questo modello di comprensione dello spazio politico si ritrova anche negli autori moderni, per i quali la determinazione rigorosa di condizioni e leggi dello stato civile comporta anzitutto l’uscita dallo stato di natura: richiede cioè – da Hobbes a Locke, da Kant a Marx – una distanza e uno scarto rispetto ad una dimensione naturale pre-politica, dalla quale, per l’appunto, si esce. Pensare la politica significa pensarla a partire da una simile soglia. Benché tutto o quasi sia cambiato nel passaggio dall’orizzonte classico a quello moderno, quello che viene comunque mantenuto in un caso e nell’altro è l’idea che lo spazio della politica non coincide con quello vitale o naturale, ma si situa a una certa distanza da esso. Quello spazio si staglia perciò su uno sfondo non modificabile di natura che mette l’uomo in comunicazione non solo, in basso, con la natura animale e la natura in generale, ma anche, in alto, con potenze religiose trascendenti l’ordine politico. È quindi inevitabile che queste potenze si sentano chiamate in causa dai movimenti contemporanei di riconfigurazione della soglia della politicità umana, e più specificamente dal fatto che lo sfondo naturale non stia più affatto sullo sfondo, essendo ormai venuto in superficie per divenire oggetto di interventi sulla vita sempre più profondi e invasivi. Qui c’è dunque un punto di domanda: è infatti del tutto ovvio che una così estesa ‘mobilitazione’, capace di coinvolgere il mondo intero e la sua ‘base’ naturale, solleciti anzitutto, nel pensiero religioso, analisi preoccupate, le quali si assumono spesso l’onere di segnalare il bisogno di istanze compensatrici, capaci di controbilanciare la spinta relativistica e nichilistica che sarebbe propria della modernità: capaci insomma di integrare tutto quello che appartiene alla mera "ragione del potere e del fare", alla ragione strumentale e calcolante che nell’enciclica Spe salvi viene indicata da Benedetto XVI come carente non solo rispetto alla fede, ma anche rispetto a un concetto (opportunamente ‘allargato’) di razionalità. Non è difficile ravvisare, in questo genere di interpretazione diagnostica del tempo presente, i tratti caratteristici di un pensiero conservatore tradizionalmente diffidente nei confronti della modernità, e troppo fiducioso in risorse metafisiche che la filosofia contemporanea ha da tempo posto in crisi. Ciò nondimeno, resta il punto, e cioè se le categorie politiche moderne siano ancora in grado di assicurare intellegibilità al proprio oggetto, e soprattutto, se siano ancora in grado di legittimare decisioni politiche fondamentali negli inediti ambiti nei quali devono oggi essere assunte.

(M. Adinolfi – D’Attorre, Introduzione a Aa. Vv., Religione e democrazia, Roma 2009)

Venerdì 22 maggio

10.00-13.00    “La filosofia e lo statuto del vivente”
                      intervengono: Giulio Giorello, Carlo Sini

15.00-17.00    “L’etica, la medicina e lo Stato”
                      intervengono: Piergiorgio Donatelli, Ignazio R. Marino, 
                      Adriano Pessina

17.30-19.30     “Diritto, vita e proprietà”
                      intervengono: Francesco De Sanctis, Eligio Resta

Sabato 23 maggio

11.00-13.30    “L’uomo e la tecnica”
                      intervengono: Emanuele Severino, Mons. Pierangelo Sequeri, 
                      Aldo Schiavone

16.00-19.00   “Natura umana e homo oeconomicus”
                      intervengono: Laura Bazzicalupo, Alberto Moreiras, 
                      Alessandro Pizzorno

Domenica 24 maggio

10.00-13.00    Tavola rotonda “La politica e le trasformazioni dell’umano”
                     modera: Giancarlo Bosetti
                     intervengono: Rocco Buttiglione, Massimo D’Alema, Avishai Margalit 

 (a Marina di Camerota, la II Summer School della Fondazione Italianieuropei)

Ripartenze

La Fondazione Italianieuropei e la Casa della Cultura di Milano, in occasione della pubblicazione del volume “Filosofia al presente”, organizzano a Milano lunedì 18 maggio alle ore 21 alla Casa della Cultura (Via Borgogna, 3) un seminario di discussione tra esponenti del mondo politico e accademico.

Filosofia al presente

Lunedì 18 maggio ore 21
Milano, Casa della Cultura
Via Borgogna 3  

Illustrerà il lavoro

Massimo Adinolfi

 

Ne discutono

Salvatore Veca

Pier Paolo Portinaro

Il volume “Filosofia al presente”, a cura del gruppo Filosofia della Fondazione Italianieuropei, contiene una riflessione su due nodi principali: le condizioni di salute della forma politica moderna ed europea per eccellenza, lo Stato, e la biopolitica, cioè gli inediti scenari in cui si ridisegna l’azione politica una volta che investa, come oggi sempre più accade, gli uomini in quanto viventi prima ancora che come cittadini. Oltre al merito delle questioni che così si intrecciano, sta anche l’esigenza di segnalare la necessità di una nuova presa di parola dell’intellettuale nello spazio pubblico. Sotto questo profilo, l’obiettivo non è certo quello di racchiudere il presente nelle parole della filosofia, ma eventualmente di immettere la filosofia nello spazio del presente