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Di Maio candidato, ma le primarie sono un flop

Game of Chance 1987 by Robert Motherwell 1915-1991

R. Motherwell, Game of chance (1987)

Non proprio un bagno di folla, quello che il popolo cinquestelle riserva a Luigi Di Maio: vota solo un quarto degli iscritti, e Di Maio raccoglie circa trentamila voti su centocinquantamila. In un’elezione dal risultato assolutamente scontato, calano ovviamente l’interesse e la partecipazione: un’investitura annunciata non è un’elezione al fotofinish. Ma i dirigenti del Movimento si aspettavano comunque numeri più consistenti. La festa non è stata guastata dalle polemiche interne, ma è stata meno festosa di quanto forse ci si aspettava. Il dato politico però c’è tutto: da oggi, il Movimento Cinquestelle ha ufficialmente un nuovo leader. Grillo lo ha sottolineato con tono scherzoso: «da domani il capo politico del M5S non avrà più il mio indirizzo, tutte le denunce arriveranno a te», ha detto volgendosi verso il giovanissimo pupillo. Ma non è uno scherzo: è l’amaro calice che anche i più movimentisti tra i grillini debbono mandar giù, Fico per primo. Che non ha parlato. Che ha vistosamente ignorato Grillo ed evitato di applaudire Di Maio al momento della proclamazione. Ma che si è dovuto tenere per sé tutti i malumori covati in queste ore.

Le denunce arriveranno a Di Maio. E le liste, invece, chi le farà? I posti, i seggi: chi li assegnerà? È chiaro che il passo indietro (di lato, di danza) di Grillo non toglie nulla alla sua presa sul popolo pentastellato e al suo potere: Grillo rimane l’unico che può disdire quello che è già stato detto. Legibus solutus, può revocare domani quello che ha deciso oggi. Ma intanto, oggi, la decisione è presa: il Movimento Cinquestelle si identifica con Luigi Di Maio. Dargli autorevolezza, forza, credibilità è la priorità assoluta.

Lui, peraltro, è stato sempre così ben consapevole che il suo giorno sarebbe arrivato, che ha in realtà lavorato per fare il leader fin da quando si è seduto sullo scranno di vicepresidente della Camera. Lontanissimo, per stile, dallo spontaneismo arruffato e improbabile di tanti militanti e simpatizzanti, Di Maio ha deciso fin dal primo giorno di indossare giacca e cravatta, per lui quasi una seconda pelle. O forse una coperta di Linus: il modo per verificare ogni giorno allo specchio di avere la stoffa giusta per il ruolo che i padri del Movimento, Grillo e Casaleggio, hanno pensato per lui. L’unica cosa che Di Maio non può infatti permettersi, e con lui tutto il Movimento, è di apparire solo una figurina in mani altrui. Perciò l’accentramento delle responsabilità nelle sue mani, che tanto dispiace all’ala ortodossa del Movimento, è inevitabile e, probabilmente, sarà reso anche più evidente di quanto non sia.

Del resto, è abbastanza ridicolo parlare di tradimento delle origini. Alle origini c’è sempre stato un capo. Anzi. Un capo e un’azienda, la Casaleggio Associati, e la cosa ha ben potuto convivere con la retorica democraticista radicale. I Cinquestelle non hanno bisogno di dismettere quella retorica: faranno ancora le primarie online per la scelta dei candidati al Parlamento, indiranno ancora consultazioni online sui grandi temi in agenda (quando ognuno sa, peraltro, che il vero potere sta nel decidere l’agenda) e si riuniranno ancora nell’«agorà» quando si tratterà di far parlare tutti, come in questi giorni di festa a Rimini. Ma come in tutti i congressi di tutti i partiti, le decisioni vere continueranno a essere prese nel retropalco. E lì, da oggi, c’è una specie di strano triumvirato formato dal carisma ancora detenuto da Grillo, dalle chiavi della macchina organizzativa di proprietà di Davide Casaleggio, dalla responsabilità politica assegnata a Luigi Di Maio.

Piuttosto che le frizioni e le tensioni che attraversano il Movimento (e che rimarranno sotto le ceneri a lungo, se non interverranno fatti esterni a riaccendere il fuoco), sarà decisiva la capacità del neo-candidato di presentarsi come la carta nuova e vincente dei CInquestelle dinanzi all’elettorato. È lì, non fra gli iscritti, che si decide il futuro del leader. Non a caso, nel suo primo discorso dopo la proclamazione dei risultati, Di Maio ha detto subito che il suo compito non è cambiare il Movimento, ma cambiare l’Italia. C’è da dire che se lui cambiasse davvero l’Italia, il cambiamento del Movimento verrebbe da sé. Cionondimeno resta vero: gli sforzi saranno d’ora innanzi dedicati tutti alla proposta politica. E per dare il segno di una maturità ormai raggiunta dal Movimento, Di Maio ha ripetuto anche dal palco di Rimini che intorno a lui schiererà una forte squadra di governo, che dia il senso di una vera competenza e, forse, anche quello di uno spostamento di classe dirigente a rinfoltire i ranghi dei Cinquestelle.

In ogni caso, ha assicurato Di Maio, non sarà un governo di destra o di sinistra, il suo, ma fatto solo di «persone capaci». Si tratta di uno slogan che ha attraversato la seconda Repubblica, per dir così, da prima che nascesse: che ha contribuito alla delegittimazione della politica e a ha consentito ai Cinque Stelle di crescere. Anche da questo punto di vista, dunque: nessun tradimento delle origini. Ma come per la leadership una figura preminente non può non emergere nel momento in cui ci si candida alla guida del Paese, così anche sul piano ideologico i nodi debbono venire al pettine, e il populismo acchiappa-voti di qua e di là con cui ha prosperato il Movimento dovrà prendere una figura più determinata, se vorrà farsi programma di governo.

(Il Mattino, 24 settembre 2017)

La resa dei conti è solo rinviata. Decisiva la Sicilia

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F. Clemente, La partenza dell’argonauta (1986)

A Rimini è una festa che s’ha da fare, avrà pensato Grillo nei prepotenti panni di Don Rodrigo del Movimento Cinque Stelle, e dunque Roberto Fico è meglio che non prenda la parola: rischierebbe di rovinare la cerimonia. Ma i malumori che non possono manifestarsi durante l’incoronazione di Di Maio, che domani verrà proclamato candidato premier, rischiano di esplodere al primo intoppo. Si conosce già la casella del calendario dove è piazzata la mina che potrebbe farli saltare fuori: 5 novembre, elezioni regionali siciliane. I Cinquestelle si sono avvicinati a quell’appuntamento convinti di poter arrivare alla vittoria, o almeno a una incollatura dal vincitore. Ma dopo l’ennesimo pastrocchio nelle regionarie, con l’ormai consueta scia di ricorsi, interventi del tribunale e atti di imperio di Grillo per confermare il candidato Cancelleri, tutto si può dire meno che il risultato sia già in tasca.

Prima di quella data, però, Fico non ha spazio per muoversi, per rappresentare un’alternativa politica reale a Luigi Di Maio. In linea di principio lo sarebbe. Fico non è andato né alla City di Londra né a Cernobbio per accreditarsi preso i mercati, come Di Maio. Fico non ha partecipato alla campagna d’estate sui migranti e contro le Ong, come Di Maio. Fico non ha nemmeno baciato l’ampolla contenente il sangue di San Gennaro, come Di Maio. Da ultimo, e soprattutto, Fico non ha condiviso l’ampiezza di mandato che le primarie online consegneranno al vincitore. Invece di avere soltanto un candidato premier, i grillini c’è il rischio che vedano pure Luigi Di Maio associato a Grillo e a Casaleggio nella guida politica del movimento. Un inedito triumvirato, che contraddice abbondantemente lo spirito dei meet up della prima ora, di cui Fico, insieme all’ala cosiddetta ortodossa, vuole essere ancora espressione.

Con sempre maggiore difficoltà, però, visto che sempre più declinano, o si traducono in semplici paramenti esteriori, i miti della trasparenza e della democrazia diretta. E difatti. Queste primarie sono state le più veloci della storia, con soli tre giorni tre di campagna elettorale. I candidati non hanno dovuto presentare un programma, ma una semplice dichiarazione di intenti. La piattaforma che ospitava la votazione si è impallata più volte. I tempi per votare sono stati prolungati a singhiozzo. I risultati sono stati raccolti ma non proclamati ufficialmente. Nessuna certificazione pubblica e verificabile è stata eseguita: tutto è in mano a due notai di cui però non si conosce il nome. La democrazia, ragazzi: quella è un’altra cosa.

Ma i partiti sono associazioni private, e fanno un po’ quello che vogliono. In particolare quando c’è da piegare, se non le regole, almeno la retorica alle esigenze del momento. E questo è il momento di Di Maio, il momento in cui il Movimento deve mostrarsi unito e compatto dietro il novello leader, il momento in cui, dunque, non sono ammesse polemiche interne. Grillo ha la forza per imporre il suo pupillo e tacitare i suoi avversari. Sa che i Cinquestelle hanno bisogno di presentare un candidato che trasmetta non solo il senso di una novità, ma anche quello di un’autorevolezza che è ancora tutta da conquistare. Perciò, va bene che tutti sono uguali, che uno vale uno, che gli incarichi si assumono a rotazione e in Parlamento non ci sono onorevoli ma megafoni dei cittadini, però per Palazzo Chigi il prescelto non può che essere uno solo. Ed è lui, è Luigi Di Maio il Lancillotto. Quanto alla leaderizzazione del candidato, sarà interessante vedere se in campagna eletorale avremo il suo volto in primissimo piano sui manifesti e negli spot, come impone la comunicazione politica oggi, o se campeggeranno soltanto le anonime Cinque Stelle del simbolo (e la barba e la chioma di Grillo, va da sé).

Questa è la strategia: si fa corsa tutti insieme per Di Maio senza aprire una discussione vera. Scordatevi i meet up, non azzardatevi ad organizzarvi come opposizione interna. Ovviamente nessuno ha la forza per contrastare questi piani di battaglia. Di Battista, perciò, si è adeguato subito, Fico invece no. Se le cose in Sicilia andranno bene, anche lui finirà ovviamente col piegare il capo e pure le orecchie. Ma se il centrodestra vincesse? Se il Pd non andasse così male come si prevede, e i Cinquestelle non andassero così bene come fino a poco tempo fa si pensava?

A quel punto la partita potrebbe riaprirsi. Non certo nel senso che Di Maio sarebbe rimesso in discussione, ma nel senso che Grillo potrebbe essere costretto a concedere qualcosa nella composizione delle liste. Sarebbe una novità assoluta, anche se difficilmente si aprirebbe una dialettica politica reale dentro il Movimento. La ragione è semplice: una simile dialettica è incompatibile con la figura dell’insindacabile capo politico che, quale garante,  Grillo continua ad essere. (Ed è impensabile pure che Grillo permetta quello che sempre succede nel Pd, dove non si smette mai di esercitarsi nel logoramento del leader). Più facile allora che all’emergere di malumori, in caso di insuccesso in Sicilia, Grillo reagisca come ha sempre fatto finora: con le fuoriuscite e le espulsioni. Col rischio però che qualcosa si incrini nel rapporto con l’opinione pubblica.

Meglio non pensarci, allora. Oggi è il giorno della grande festa. E siccome del doman non v’è certezza, per ora Fico non parla, il resto si vedrà.

(Il Mattino, 23 settembre 2017)

 

La voglia di riformismo non è morta

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Anche a Napoli (e anche in Campania) si riparte da Renzi. E la domanda da porre al neo-segretario del Pd è dunque: e adesso? E adesso è la volta che imbraccerà veramente il lanciafiamme? Ed è quello che davvero ci vuole? La metafora che Renzi ha usato in passato esprimeva tutta l’insoddisfazione del segretario nazionale del partito per i risultati del Pd napoletano. Ma oltre l’insoddisfazione Renzi non era andato, in realtà: non erano seguite prese di posizione rispetto ai gruppi dirigenti, non era stata scelta la via drastica del commissariamento, non si era scelto né di tagliare i rami secchi né di coltivare i deboli germogli di rinnovamento comparsi qua e là. Un’opera di rimozione, più che di rottamazione.

La ragione è presto detta: il Renzi rottamatore che nel 2013 prende le redini del partito democratico decide, a Napoli e nel Mezzogiorno, di assecondare le dinamiche locali, piuttosto che di sovvertirle. È una scelta compiuta in stato di necessità (Renzi arriva al governo senza nemmeno passare per il voto popolare), ma anche una scelta dettata da una certa sottovalutazione della funzione del partito nella selezione delle classi dirigenti. Così il Pd renziano si limita da queste parti a sommare quello che c’è, bello o brutto che sia. E quello che c’è ha ovviamente tutto l’interesse a perpetuare lo status quo: non potrebbe essere altrimenti.

Ora però comincia il secondo tempo della partita che Renzi giocò quattro anni fa, e non tutto è rimasto uguale a prima. A tacer d’altro, di mezzo ci sono state le sconfitte alle amministrative di Roma e Torino, che in fondo hanno seguito Napoli nel consegnare il Municipio a una formazione populista. Qui De Magistris scassò tutto già nel 2011, ed entrò a Palazzo San Giacomo; a Roma e Torino è accaduto lo scorso anno, con la Raggi e l’Appendino. E così si è fatta drammaticamente evidente l’usura delle classi dirigenti locali. Scegliere dunque di sostenersi sul notabilato che in periferia racimola voti ma non produce egemonia – come si sarebbe detto una volta – si rivela essere una scorciatoia sempre più stretta e sempre meno praticabile.

Il voto napoletano dimostra tuttavia che anche in questa città resiste un elettorato di sinistra che continua a votare il Pd e a riconoscersi in una proposta politica riformista, di respiro e formato nazionale ed europeo, una prospettiva che difficilmente De Magistris può assicurare. Il punto è come svincolare questo risultato da una geografia di stampo localistico, e congiungerlo al resto del Paese. Se De Magistris è impegnato a costruire un meridionalismo “contro”, questo voto consente a Renzi e al partito democratico di costruire un nuovo meridionalismo “per”?

Ora Renzi può davvero prendere il lanciafiamme? Nella sua versione precedente, quell’arma non ha sparato un colpo, e cambiare tutto per non cambiare nulla è stata la fatale conseguenza di condizionamenti da cui la segreteria Renzi non ha saputo affrancarsi. Il voto di ieri dà al neo-segretario un’indubbia forza: a Napoli e nel Paese. Gli dà anche un obiettivo: impegnare quei voti per tornare a collegare il Sud all’Italia e all’Europa, invece di contrapporlo in una prospettiva ribellistica e rivendicazionista. Cambierà anche il partito, di conseguenza, se non altro perché quel pezzo che pensa che essere di sinistra obblighi a parlare con De Magistris dovrà venire a un chiarimento definitivo.

(Il Mattino, 1° maggio 2017)

Primarie Pd, le idee per scegliere

pd puzzle

Primarie a bassa intensità, noiose, clandestine. Primarie scontate, primarie con rito abbreviato, primarie spopolate: definite in molti modi, rappresentano comunque l’appuntamento più largo e partecipato che in questo modo offre la vita interna dei partiti italiani. E dunque vale la pena darci un’occhiata, provare a orientarsi tra i profili e i programmi dei tre cavalieri – Renzi, Orlando, Emiliano – che in singolar tenzone si contendono la guida del partito (e, a norma di statuto, anche la premiership).

Sinistra

Ci sono quelli che dicono che la distinzione fra destra e sinistra non ha più molto senso. E tuttavia il partito democratico (che con Renzi segretario ha definitivamente aderito al socialismo europeo) continua a definirsi come un partito di sinistra, e tutti e tre i candidati condividono questa collocazione. Cambiano però gli aggettivi qualificativi, che sono necessari per apprezzare le differenze. La sinistra di Orlando somiglia alla tradizione socialdemocratica, e l’insistenza sul tema dell’uguaglianza fa sì che “democratico” sia senz’altro l’aggettivo da scegliere per la sua proposta programmatica. Quella di Renzi è invece una sinistra liberale, con più robusti innesti di liberalismo nelle proposte economiche, nell’idea di modernizzazione, nell’insistenza sul tema dello sviluppo. Emiliano, infine, è l’unico che non disdegnerebbe affatto l’aggettivo populista, che prova a presentarsi come l’uomo che lotta contro l’establishment e i potenti («il Pd dei banchieri e dei petrolieri»).

Populismo

A proposito di populismo, detto che per Emiliano non sembra affatto che sia un vero avversario, e che anzi ci andrebbe volentieri a braccetto, Orlando e Renzi usano entrambi la parola per denunciare un pericolo per le istituzioni democratiche, o perlomeno per le politiche di cui il Paese avrebbe bisogno. Orlando lo considera un «rischio mortale» per il Pd e, pensando a Emiliano ma anche a Renzi, denuncia le dosi di populismo entrate nelle vene del partito (ad esempio sul tema dei costi della politica, che Renzi riprende e che Orlando invece non cavalca mai). Per Renzi, al di là di stile, tono e qualche volta argomenti, la vera risposta al populismo stava però nella riforma costituzionale, cioè nel passaggio ad un sistema politico e istituzionale semplificato e più efficiente.

Legge elettorale e sistema istituzionale

Sul primo punto, in cima all’agenda dei prossimi mesi, siamo al ballon d’essai delle dichiarazioni quotidiane. C’è molto tatticismo, e il sospetto fondato che alla fine non cambieranno le cose. Ci terremo probabilmente la legge uscita dalla sentenza della Corte costituzionale, con piccoli aggiustamenti. Renzi, comunque, punta tuttora a correttivi maggioritari; Emiliano si dichiara per un maggioritario con collegi uninominali, e tutti e due vogliono togliere i capilista bloccati. Orlando proviene da una cultura di tipo proporzionalista, ha sposato nella sua mozione la proposta Cuperlo con il premio di lista ma è disponibile ora al premio di coalizione. La riforma costituzionale, dopo il referendum, è invece divenuta un terreno completamente minato: nessuno ci cammina più su. Nella mozione congressuale di Renzi c’è un cenno alla riforma del titolo V (autonomia regionale), in Orlando nemmeno quello. Ma è giusto ricordare che Renzi e Orlando stavano dalla stessa parte, mentre Emiliano ha osteggiato fragorosamente il programma di riforme del governo, e ha votato no al referendum.

Alleanze

Insieme alla legge elettorale sta il punto politico: le alleanze. Gli ultimi giorni si sono giocati su questo tema: Orlando agita contro Renzi lo spauracchio dell’accordo con Berlusconi. Renzi ribatte che Orlando la coalizione con Berlusconi l’ha già fatta. Ma in realtà il tema non può essere declinato concretamente in assenza di una legge. Se rimane un impianto proporzionale, le alleanze si faranno dopo il voto, non prima: secondo necessità. Non è chiaro infatti come si possa evitare l’accordo con il centrodestra senza un meccanismo maggioritario sul modello del tanto deprecato (e dalla Corte costituzionale bocciato) Italicum. Le discriminanti sembrano in realtà altre. Orlando non ha difficoltà a riprendere il dialogo con i fuoriusciti del Pd, Renzi invece ne fa una questione di coerenza: con Pisapia e il suo campo progressista sì, ma come si fa a stringere un’alleanza con D’Alema e Bersani, che il Pd lo hanno rotto? Che senso ha dividersi il giorno prima e allearsi il giorno dopo? Quanto a Emiliano, guarda con interesse agli elettori grillini, e si capisce che cercherebbe alleanze da quella parte.

Unione europea

Dici Europa e li trovi tutti d’accordo: sembra quasi una gara a chi si dice il più europeista di tutti (anche se tutti aggiungono subito dopo che così com’è l’Unione non va). Emiliano, i cui toni populisti non sembrerebbero andare a braccetto con il sogno europeista, innalza addirittura il vessillo degli Stati Uniti d’Europa; Orlando ne fa prioritariamente una questione di policies e punta alla costruzione del “pilastro sociale” che mancherebbe all’Unione; Renzi tiene insieme le due cose e soprattutto prova a rilanciare l’iniziativa politica per cambiare l’Europa, proponendo di affidare alle primarie la scelta del candidato alla Presidenza della Commissione. In realtà, con la probabile elezione di Macron (apprezzato da tutti e tre) e un possibile, rinnovato asse franco-tedesco, gli spazi per i giri di valzer si riducono: Renzi batte i pugni a Bruxelles, Emiliano dice che lo fa troppo poco, e Orlando dice che lo fa inutilmente. Questioni di immagine, più che di sostanza.

Mezzogiorno

Il Mezzogiorno c’è nei programmi di tutti e tre. Ma nessuno dei tre candidati lo ha scelto come terreno sul quale marcare una vera differenza rispetto agli altri due. Neppure Emiliano, che pure è governatore di una regione meridionale, la Puglia. Tutti e tre pongono la questione meridionale come una questione nazionale. Tutti e tre sono consapevoli che l’Italia non potrà mai crescere oltre lo zero virgola se a crescere non sarà anzitutto il Sud. Ma nessuno dei tre ha chiesto un solo voto per il Sud, e alla fine il risultato che prenderanno in Campania o in Sicilia, in Puglia o in Calabria dipenderà molto di più da dinamiche di tipo localistico, che dal profilo programmatico che hanno assunto. E al dunque: Renzi voleva portare il lanciafiamme a Napoli, ma poi non lo ha fatto. Orlando invece a Napoli ci ha fatto il commissario, e chiamarsi fuori non può; Emiliano infine s’è preso lo sfizio di strizzare l’occhio a De Magistris appoggiando pochi giorni fa «l’insurrezione pacifica contro Salvini». Tant’è.

Migranti e sicurezza

Tutti e tre i candidati subiscono la pressione dell’opinione pubblica e tendono a declinare i due temi insieme. Tutti e tre si coprono – come si suole dire – su quel fianco sul quale tradizionalmente i partiti di sinistra si mostrano più scoperti. Così Emiliano spende parole sull’accoglienza e sul bisogno di manodopera straniera della sua Puglia (non proprio un argomento di sinistra), ma nel confronto televisivo tiene a ricordare che lui, da magistrato, girava con la pistola nella tasca dei pantaloni. Renzi fa la polemica con l’Unione europea che scarica sul nostro Paese il peso maggiore nell’accoglienza, ma si allinea alle posizioni più dure in tema di legittima difesa (non proprio una posizione di sinistra); Orlando vuole superare il reato di immigrazione clandestina, ma difende la sua legge che accelera l’esame del diritto d’asilo, togliendo il grado di appello (legge assai poco amata a sinistra). In compenso, nessuno di loro indietreggia di fronte al compito di salvare le vite umane in mare e difendere le Ong.

Economia

Per tornare a trovare differenze più accentuate fra i tre candidati, bisogna allora tornare a guardare ai temi dell’economia e della società. La più chiara di tutte: Orlando e Emiliano sono per una patrimoniale, mentre Renzi la esclude. Il programma economico e sociale di Renzi è per il resto tracciato nel solco di quello seguite dal suo governo. E cioè il jobs act, poi gli 80 euro, «cioè la più grande operazione distributiva che sia mai stata fatta», poi la riforma della pubblica amministrazione e quella della scuola. Orlando in realtà faceva parte del governo e Renzi non ha mancato di ricordarglielo, ovviamente. Ciò non toglie che Orlando ha criticato la politica dei bonus, che vanno a tutti, ricchi e poveri indistintamente, e provato a riprendere il tema più classicamente socialdemocratico della redistribuzione dei redditi («sradicare in tre anni la povertà assoluta»). Emiliano ha forse il programma più a sinistra: critica l’abrogazione dell’art. 18, vuole tassare le multinazionali del web, vuole una forma universale di sostegno al reddito. E però vuole pure la riforma dell’IVA, finanziandola con il recupero dell’evasione dell’imposta.

Partito

Come sarà il partito democratico dal 1° maggio? Se vince Renzi, è l’accusa degli altri due, sarà quello che è stato finora: un partito fortemente segnato dalla leadership di Matteo, tinto di prepotenza e poco inclusivo. Emiliano era sul punto di andarsene, poi è rimasto ma continua a dipingere Renzi quasi come un pericolo. Orlando ha finito la campagna elettorale arrivando a dire che o vince Renzi o vince il Pd. In effetti, Renzi è arrivato alla guida del Pd sull’onda della rottamazione, non mancando di aggiungere che preferiva farsi dare dell’arrogante piuttosto che farsi fermare dai veti incrociati dei maggiorenti del partito. Nella sua mozione, però, gli accenti sono mutati: cita Gramsci, propone non un partito pesante ma un partito pensante, ne mantiene il tratto aperto e contendibile, fondato sul modello delle primarie, ed è soprattutto l’unico che prova a tratteggiare un modello nuovo di militanza. Emiliano chiede invece di cambiare lo statuto e l’identificazione fra candidato premier e segretario nazionale, Orlando propone invece le primarie regolate per legge.

Le persone

Le differenze, tutto sommato, ci sono. Ma sicuramente si disegnano con più nettezza se si guarda alle rispettive personalità. Orlando è quello più “strutturato”, che prova a incarnare la serietà della politica; Emiliano fa quello fuori dalle righe, che sta tra la gente e fuori dal Palazzo (pur essendoci seduto dentro); Renzi vuole essere ancora l’uomo delle riforme, che ha cominciato e vuole continuare. Uomo della mediazione Orlando, uomo della declamazione Emiliano, uomo della rottamazione Renzi. Correzione di rotta per Orlando, rivoluzione gentile per Emiliano, cambiamento per Renzi, bandiera finita nella polvere dopo il 4 dicembre. Non se ne è parlato molto, ma il senso dato a quel voto è un vero discrimine fra i tre. Un no sacrosanto per Emiliano; una severa lezione, per Orlando; uno stop imprevisto dal quale ripartire per Renzi. Solo il voto di oggi potrà indicare la strada. E questo, dopo tutto, è il bello della democrazia (non quella diretta).

(Il Mattino 30 aprile 2017)

Se il verdetto dei circoli è un plebiscito

città che sale

È un buon risultato: prima ancora che per i candidati, per il partito democratico nel suo insieme. Che è arrivato a questo primo tempo delle primarie dopo avere messo in fila la sonora sconfitta nel referendum sulle riforme costituzionali, la caduta del governo Renzi, la scissione del gruppo di dalemian-bersaniani, infine l’apertura della fase congressuale con le dimissioni del segretario nazionale: non proprio un percorso trionfale. Dopo il quale, però, l’organizzazione del partito conta nelle urne dei circoli democratici circa duecentomila voti, una cifra che in questo momento nessun altro partito è in grado di raggiungere in Italia, e che non sfigura accanto alle precedenti consultazioni del Pd. Questo è il primo elemento di cui occorre tenere conto. Gran parte delle ragioni polemiche sollevate nelle scorse settimane dagli «scissionisti» riguardava proprio il dato della partecipazione, lo stato del partito e la sua contendibilità: il risultato di questa prima fase, con il voto degli iscritti, mette la sordina a tutto ciò. Non che il Pd goda di buonissima salute, ma l’ampiezza del confronto democratico che si è svolta in questi giorni è fuori discussione (ogni paragone con i numeri delle comunarie grilline lo conferma ad abundantiam). Ed è ragionevole attendersi anche dalla seconda e decisiva fase – cioè dalle primarie del 30 aprile, aperte oltre che agli iscritti ai simpatizzanti e agli elettori del partito democratico – un numero forse inferiore a quello delle precedenti tornate, ma comunque robusto, e in grado quindi di offrire al vincitore una legittimazione piena.

Che è quella di cui anzitutto Matteo Renzi aveva ed ha bisogno, dopo il brusco stop del referendum. Per ora il voto gli dà ragione, perché sfiorare il 70% significa avere con sé, dentro il partito, una maggioranza molto larga, ben più larga di quella che raccolse nel 2013, quando prese, tra gli iscritti, il 45% circa, contro il 39% di Cuperlo. L’altra volta c’erano due candidature alternative, Pippo Civati (che raggiunse il 10%) e Gianni Pittella (che si fermò poco sopra il 5%), mentre questa volta c’era il solo Emiliano, che sembra aver superato la soglia del 5%, il che gli consentirà di partecipare comunque al voto del 30 aprile.

Questi essendo i numeri, il contesto in cui si svolgono queste primarie rimane assai diverso. Nel 2013 spirava nell’opinione pubblica un vento molto forte a favore di Renzi. Cuperlo era infatti il candidato di quelli che avevano «non vinto» alle elezioni politiche, cioè di Bersani e D’Alema: era a tutti evidente che il Pd doveva ripartire da un’altra parte, e che era scoccata dunque l’ora di Renzi. Il voto dell’8 dicembre lo confermò: Renzi prese oltre il 67% e Cuperlo crollò al 18%.

Stavolta lo sconfitto – non alle politiche, ma al referendum – è Renzi, ed è ancora da vedere quanta parte dell’elettorato del Pd è tuttora convinta di affidare a lui la ripartenza. Il voto di ieri dice però che, intanto, il partito lo segue. E partendo dalle percentuali di ieri è difficile ipotizzare il ribaltone a fine aprile. Che cioè Orlando, col 25% tra gli iscritti, riesca nel voto finale a scavalcare Renzi. Sarebbe un gran paradosso, dal momento che Orlando ha insistito sui limiti del progetto culturale e del profilo ideologico del partito, più che su correzioni da imprimere all’attività di governo; era quindi naturale che la sua proposta trovasse ascolto anzitutto tra gli iscritti. Sul suo risultato, tuttavia, ha sicuramente inciso la scissione: dal Pd sono usciti infatti quasi solo cuperliani. Del resto, fino all’ultimo Orlando aveva messo a disposizione la sua candidatura con l’obiettivo di tenere unito il Pd: quell’obiettivo è stato mancato, ma Orlando lo ha riproposto anche nella sua campagna elettorale, fino a mettere la sua mozione sotto l’insegna del verbo «unire».

Ora però il confronto si sposta nel Paese. È ragionevole attendersi un calo complessivo dei votanti, rispetto al 2013, e in fondo se ne può offrire già l’interpretazione. Se il voto andasse come il risultato di ieri lascia prevedere – con una vittoria di Renzi, limata nelle percentuali rispetto al 2013 soprattutto dal lato della affluenza – vorrebbe dire che c’è sicuramente una quota di consenso che il Pd deve recuperare, rispetto almeno ai picchi raggiunti tra le primarie e le europee del 2014, ma che non è affatto erosa la forte identificazione tra Matteo Renzi e il partito democratico. Questo, peraltro, sembra essere un dato strutturale, che la retorica sulla partecipazione spesso nasconde: l’elettorato che vota alle primarie è meno interessato alla dialettica interna e più coinvolto dalla sfida per la leadership. È in questi termini, peraltro, che prende vita la competizione. Non come una discussione sul modo di essere di sinistra, ma come una discussione sul modo in cui la sinistra può vincere le elezioni politiche. Renzi insiste nel dare questo preciso significato al voto, all’opposto di Orlando che ha finora tenuto a distinguere la sua candidatura alla segreteria dalla sfida per la premiership. Ma può passare questo messaggio, ora che il voto si allarga a una più ampia platea di votanti, non solo iscritti? Lo stesso Emiliano non proverà a giocarsi la sua partita mettendosi tutti i panni possibili, meno quelli del segretario di partito? Il suo risultato non dipenderà da quanta parte della società meridionale si vorrà togliere lo sfizio di esprimersi con un voto di sfiducia più o meno verso tutti quelli che somigliano a figure di partito (il che è un altro gran paradosso, trattandosi, come si diceva, della scelta del segretario)?

Se è così, se la posta in palio rimane la candidatura a Palazzo Chigi, allora sarà il senso degli elettori democratici per la leadership a decidere la partita.

Con un ultimo numero da tenere a mente. Del 40% che ha votato sì allo scorso referendum del 4 dicembre s’è detto giustamente che non era formato solo da elettori del Pd. Ma dentro quel voto di elettori ce ne sono probabilmente abbastanza per vincere, comunque, il congresso.

Il Mattino, 3 aprile 2017)

Il salvagente dei naufraghi

Turner - Scene

E se il Pd candidasse Antonio Bassolino al Comune di Napoli? La damnatio memoriae alla quale è stato prematuramente condannato l’ultimo leader politico che ha avuto la sinistra in Campania e nel Mezzogiorno è ormai finita da tempo. Eppure sarebbe un non piccolo paradosso se, dopo aver portato De Luca alla regione, il Pd si affidasse davvero a Bassolino per Palazzo San Giacomo.

Non è però solo questione di lancette di orologi che tornano indietro, o di nostalgia canaglia. È che il Pd non è più riuscito a conquistare, dopo la debacle del 2011, quella centralità politica e programmatica che gli consentirebbe, pur in mancanza di forti e riconosciute leadership, di proporre credibilmente un suo dirigente politico come interprete di una nuova stagione.

Così annaspa. E a poco meno di un anno dalle elezioni comunali – quando si voterà anche a Salerno, Benevento e Caserta, e in molte altre importanti città italiane, sicché il voto prenderà facilmente il significato di un test politico nazionale – a poco meno di un anno ha ancora poche idee ma confuse.

Da una parte, c’è chi chiede di non abbandonare il metodo delle primarie. Certo, non sono più un elemento costitutivo dell’identità del partito democratico, Renzi stesso ha fatto capire che è disposto a riconsiderarne l’applicazione, in certi contesti territoriali non rappresentano affatto garanzia di qualità, ma sta il fatto che proprio a causa della debolezza degli organismi di partito le primarie consentono di «esternalizzare», per dir così la scelta, e cioè di non portarne fino in fondo la responsabilità. È un’interpretazione pilatesca del ricorso alle primarie, ma è quella che rischia di prevalere, per superare vecchie e nuove impasse.

Un’altra possibilità è pescare il jolly: trovare un volto nuovo su cui investire, nella speranza che riveli insospettate doti di leadership e trovi cammin facendo quella autorevolezza che notabili e maggiorenti di partito non saranno certo disposti a riconoscergli, ex ante. Neanche questa è una strada priva di rischi, ovviamente: già nel 2011 il Pd provò a togliersi dai guai affidandosi a un’espressione della società civile, il prefetto Morcone, coi risultati che sappiamo: non solo perse le elezioni, ma non riuscì a conservare intorno a quella esperienza neppure una base da cui ripartire.

E allora: se non è l’una, e non è neppure l’altra, cos’è? Se le primarie rischiano di produrre nuovamente lo spettacolo di un partito diviso tra vecchie cordate, e lo scouting di una figura nuova appare una scommessa troppo aleatoria, che cosa resta: Antonio Bassolino?

Ovviamente vi diranno: non bisogna partire dai nomi, ma dal progetto. Senza voler essere troppo cinici e ribadire che invece no, senza un volto che aggreghi è ben difficile costruire qualunque proposta politica, rimane il fatto che proprio il progetto non c’è, o almeno non c’è ancora.

Eppure lo spazio ci sarebbe. Non solo per la quantità di problemi insoluti che la città ha dinanzi, e su cui dunque qualcuno dovrebbe pur provare a costruire una risposta, ma perché, a voler uscire da ambiguità e timidezze, c’è una grande parte della società napoletana che proprio non se la sente di farsi altri cinque anni a sostenere la parte del popolo greco. È quello che il sindaco De Magistris ha scritto invece sul suo profilo facebook: Renzi sta facendo la Troika, Napoli sarà la sua Grecia. Forse al sindaco è sfuggito come è finita la trattativa in sede europea, o forse non gli importa davvero: gli importa piuttosto di giocare anche lui la sua parte, non certo per risolvere i problemi della città ma per incarnare una certa figura retorica nella consueta chiave retorica del povero contro il ricco, del debole contro il forte, dello straccione contro il signore. Sarebbe meglio se Napoli si scegliesse invece un sindaco all’altezza delle ambizioni di una città capitale, piuttosto che di un paese periferico. Ma è naturale: finché il Pd e il centrosinistra non prendono una strada, non lanciano un’idea, non provano a ricostruire un tessuto di alleanze con le forze vive della società, non innescano nuove dinamiche di partecipazione e di selezione della classe dirigente, e  insomma non fanno nulla o quasi, De Magistris può spararsi le sue pose, e confidare sul fatto che il tempo passa, le elezioni si avvicinano, e candidature alternative non emergono. Salvo, forse, Bassolino.
(Il Mattino, 21 luglio 2015 – ed. napoletana)

Un brutto film. Speriamo nei titoli di coda

via col vento

Non è il momento di fare previsioni sulle primarie: sarà il risultato a decidere chi ha vinto e chi ha perso, e non il confronto con le precedenti aspettative dell’uno, dell’altro o dell’opinione pubblica. Tolto il socialista Di Lello, che mantiene alla sfida il carattere di un confronto all’interno della coalizione di centrosinistra e non del solo Pd, sia il sindaco Vincenzo De Luca che l’europarlamentare Andrea Cozzolino puntano infatti alla vittoria. Così la sera di domenica, al di là di dichiarazioni di rito, di parole di circostanza, di ringraziamenti agli elettori, di risultati comunque «straordinari» (si dice sempre così), uno avrà vinto e l’altro, inevitabilmente, avrà perso. In attesa di sapere chi, riavvolgiamo il film, e diamo un ultimo sguardo ai principali fotogrammi che il partito democratico, sotto una confusa regia, ha mandato in onda fin qui.

Primo fotogramma: titoli di testa. Il Pd sbanca alle elezioni europee. Nella circoscrizione meridionale, Pina Picierno supera quota duecentomila preferenze. In Campania va oltre le centomila preferenze. Il rinnovamento, la nuova classe dirigente meridionale sembra aver trovato finalmente un punto di partenza. Di Pina Picierno candidata alla guida della Campania si comincia infatti a parlare subito. Ma altrettanto rapidamente si smetterà. Nonostante i voti consegnatigli a maggio, non c’è praticamente nessuno che la consideri forte abbastanza. O adatta per il ruolo. E così, prima ancora che il film abbia inizio, il Pd perde il candidato giovane-donna-renziano su cui sembrava voler puntare.

Secondo fotogramma: lo start. Il Pd campano dà avvio alla corsa. Quando lo fa, non c’è nessuno, ma proprio nessuno che pensi che si possa procedere in altra maniera. Le primarie sono il «mito fondativo» del Pd, e ogni novità, ogni nuova leadership – da Veltroni a Renzi, passando per lo stesso Bersani – si è forgiata così. D’altra parte, le strutture di partito regionale non offrivano (e non offrono ancora) sufficiente forza di legittimazione. Bisogna dunque rivolgersi agli elettori: le primarie s’hanno da fare. E devono essere aperte, per cercare nel rapporto con la società, non tra i signori delle tessere, il battesimo della rinascita. Questa, almeno, è la sceneggiatura. Ma gli attori reali interpreteranno un altro film.

Terza inquadratura: la Fonderia. La ricordate? Un pezzo del Pd campano tiene a Napoli una simil-Leopolda, un incontro giovane-dinamico-aperto-mediatico per buttarsi alle spalle il passato e intercettare l’onda lunga del renzismo. Succede però che a strappare la scena e a rubare applausi siano non i giovani, non i brillanti organizzatori della kermesse, Nicodemo o la Picierno, ma De Luca da una parte e Bassolino dall’altra, leader con circa trenta (diconsi trenta) anni di esercizio di leadership per ciascuno. Insomma: il nuovo rischia subito di finire soffocato in culla. Naturalmente la partita non è già chiusa, ma per la verità non sembra neppure incominciare. Perché dalla Fonderia non viene fuori un candidato uno, che sia buono per le primarie, e in lizza scendono invece Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino. Raccolgono le firme e si presentano. Tutte le altre tribù del Pd, nel frattempo, storcono il naso e affilano i coltelli.

Terzo fotogramma: la lettera. La lettera la scrive Marco Di Lello, per chiedere al Pd, un minuto prima del via, primarie di coalizione. Forse la lettera ha un mandante romano, forse no: in ogni caso è il primo di quattro rinvii, e da quel momento in poi la storia delle primarie si allunga, si complica, si inceppa, si aggroviglia. Non è certo l’allargamento alle altre forze di coalizione il problema, ma la ricerca di una candidatura alternativa. Una candidatura, stavolta, non per le primarie, ma per non fare le primarie. La candidatura agognata viene proclamata retoricamente come «unitaria», senza forse avvedersi che in questo modo ci si candida a fare il rovescio di quello che si era cercato di fare con la Fonderia (il nuovo, la rottura, la discontinuità). E naturalmente la ricerca si fa subito lunga, faticosa, complessa. Viene condotta fra Napoli e Roma, in un gioco di sponda fra segreteria regionale e segreteria nazionale che funziona molto poco. Napoli spera che sia Roma a togliere le castagne dal fuoco, Roma spera che sia Napoli.

Una castagna però prende a scottare più di tutte: Vincenzo De Luca (quarto fotogramma: la condanna). Perché De Luca si becca, tra un rinvio delle primarie e l’altro, una condanna in primo grado che per effetto della legge Severino è una tagliola micidiale. Sarà pure candidabile ed eleggibile, se dovesse vincere, ma decadrà un minuto dopo l’elezione. Quale partito, pensi pure tutto il bene possibile di De Luca e tutto il male possibile della legge Severino, si può permettere di infilarsi in un casino simile? (E quale Regione, soprattutto?). Ma lo statuto del Pd – che di norme cervellotiche ne contiene più d’una, ivi compresa quella che fa ballare tutti, cioè la possibilità di indire-e-poi-annullare le primarie, con il consenso di due terzi della Direzione – lo statuto non dice nulla al proposito, e De Luca va avanti. Imperterrito. Secondo lo schema che gli è più familiare: da una parte il «circo equestre» del partito, dall’altra Lui (e la maiuscola la merita sia per la piccolezza altrui, che per altro).

Quinto fotogramma: «vai mo’». Nel frattempo, vanificato ogni altro tentativo, Gennaro Migliore, entrato di corsa nel Pd e già star della Fonderia, ha rotto gli indugi. Si è candidato a reti unificate, con un’intervista a tutti i giornali, dando o volendo dare l’impressione che, finalmente, lo sforzo unitario responsabile fino ad allora solo di ritardi, rinvii e polemiche, ha trovato compimento. Lui ci crede: ha il sospirato avallo di Roma, anche se Renzi preferisce non esporsi. In realtà, si vede subito che il nome non è unitario abbastanza da convincere gli altri candidati a farsi da parte. Più che l’unità, attorno a Migliore c’è il traccheggiamento. Né a lui riesce di spostare i due terzi della direzione regionale, per annullare la competizione. Così la confusione aumenta: Migliore decide di proseguire, convinto di portarsi dietro il partito, ma dietro, davanti o di lato, il partito non c’è. Tutto il film girato fin qui lo dimostra: il partito non c’è, anche se ci sono le correnti, cioè i pezzi che lo compongono e che più volentieri lo scompongono, secondo dinamiche personali e clientelari che di vincoli di partito ne conoscono ormai ben pochi. Migliore scende dunque in campo, mentre prosegue come prima, più di prima, la caccia al nome unitario.

Sesto fotogramma (con flashback): il sogno proibito. Cioè Raffaele Cantone. Quasi una trama parallela. Perché il Presidente dell’anticorruzione, da poco insediatosi, non ci ha mai pensato, anche se in molti hanno pensato a lui: all’inizio di questa vicenda, tra un rinvio e l’altro, nelle ultime giornate: Ottenendo però sempre lo stesso risultato, un diniego. E in questo modo dimostrando che la costruzione di una classe dirigente non è ancora cominciata, se si va in cerca di supplenze, per quanto autorevoli. Alla stessa logica rispondeva il nome del ministro Orlando, o da ultimo quello di Nicolais. Al posto del lavoro dal basso, e di lunga lena, il jolly calato dall’alto, e fuori tempo massimo. Non poteva funzionare, e non ha funzionato.

Settimo e ultimo fotogramma: il gatto e la volpe. Cioè Paolucci e Vaccaro, i due esponenti del Pd che non si sono rassegnati alla sfida fra De Luca e Cozzolino e in questi giorni hanno rumorosamente sbattuto la porta, per i brogli e gli inquinamenti che a loro dire rischiano di alterare la competizione. Della loro società ci si può fidare, per dirla con la canzone di Bennato? Molto poco. In realtà, sono semplicemente rimasti tagliati fuori dagli accordi stretti nelle ultime ore dai candidati, dopo il ritiro di Migliore. Perché il Pd continua per lo più a funzionare così: attraverso accordi più o meno leonini e patti più o meno capestro. D’altronde queste primarie, così poco combattute in termini di programma e di idee, non hanno certo favorito fin qui l’auspicato ampliamento della platea elettorale. Se la narrazione delle primarie deve appassionare la società civile, bisogna che ci pensi qualcun altro a stendere lo script.

Sui titoli di coda forse ce ne si sta rendendo conto, e si comincia a pensare che sarebbe stato meglio girare un altro film. Ma tutto ora dipende dai dati della partecipazione e dal regolare andamento del voto. Se il Pd supera questa prova, pur avendo voluto in ogni modo evitarla, forse stavolta un punto di partenza ce l’ha davvero.

(Il mattino, 1 marzo 2015 – in versione integrale)

C’erano una volta i partiti

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In Liguria, Cofferati sbatte la porta e se ne va: dopo l’inascoltata denuncia di gravi irregolarità, proclamati i risultati e sancita la vittoria di Raffaella Paita, uno dei fondatori del Pd saluta tutti e lascia la politica. In Campania, invece, non c’è due senza tre: alta è infatti la probabilità che il partito democratico si risolva per il terzo rinvio delle primarie, o addirittura per l’annullamento, dopo la strombazzata disponibilità di Gennaro Migliore a parteciparvi. Anche perché la data già fissata, il primo febbraio, cade nel bel mezzo delle elezioni del presidente della Repubblica, e così c’è un ottimo motivo per infilarsi nuovamente nel tunnel di mortificazioni che il Pd campano ama infliggersi da quel dì.

Ora, è vero che l’esperienza delle primarie è recente: il Pd vi si dedica da meno di dieci anni, che per una forza politica sono un tempo relativamente breve. Ma un caso come quello campano non si era ancora verificato: e dire che non ci sono stati terremoti, alluvioni o altri cataclismi. Che cosa allora impedisce al partito democratico di celebrare le primarie? Che cosa impedisce di osservare quel minimo rispetto che si deve al corpo elettorale, che consiste nello stabilire un appuntamento e, poi, nell’osservarlo? Dopo tutto, le primarie liguri sono state convalidate: non si può dire dunque che, agli occhi della direzione romana, disordini o manipolazioni non possano essere circoscritti in modo che non inficino il risultato finale. Né d’altra parte si capisce perché eventuali timori di brogli non abbiano allora impedito di indirle, visto che c’erano già precedenti. Cosa, allora? Vi è una sola risposta possibile: il profilo politico che il partito democratico campano assumerebbe dopo lo svolgimento delle primarie e la vittoria di uno dei due competitor più accreditati, De Luca o Cozzolino. È una preoccupazione legittima – da parte ovviamente dei loro avversari – se fosse però tenuta nel rispetto delle regole: per esempio attraverso la candidatura di un altro esponente politico che provasse a batterli. In effetti, con la discesa in campo di Migliore, pare che stia per accadere proprio questo: salvo che, per giungere a un tale esito, c’è stato bisogno di un paio di rinvii, forse tre, e di calpestare le decisioni fin qui prese. Che prevedevano un allargamento delle primarie a esponenti di altre forze politiche, e una raccolta di firme entro date stabilite. Ma ormai di stabilito non c’è più niente: c’è un processo politico al quale le labili regole del Pd campano si piegano volta per volta, per rendere possibile il difficile parto del nuovo, nuovo che sarebbe infine rappresentato da Gennaro Migliore.

Ma allora si faranno, queste benedette primarie? Non il primo febbraio ma magari due settimane dopo, non con le vecchie regole ma magari con regole nuove, non con i soli esponenti del Pd ma anche con l’apporto di altri (minuscoli) partiti, e non solo con i candidati della prima ora ma con candidati freschi, freschissimi, praticamente di giornata? Calma e gesso: non è affatto sicuro. Non si trova infatti un solo dirigente democratico disposto a giurarlo, nessuno per il quale basti l’argomento: sono previste, dunque si faranno. Lo stesso Migliore, mentre tende una mano agli altri contendenti, dichiarandosi pronto a entrare in lizza, usa l’altra per vestire i panni del candidato unitario, cioè del candidato che sta in campo per superare, non per partecipare alla contesa.

Migliore, bontà sua, si dichiara da sempre favorevole alle primarie, ma, aggiunge, «non se queste dissolvono i partiti». Ora, come facciano le primarie a dissolvere i partiti non è chiaro: è vero, ne cambiano la natura, riducendo il peso di iscritti, apparati, organismi dirigenti. Ma questo lo si sa dal 2007 (e doveva saperlo pure Cofferati, che lo scopre forse con qualche ritardo), cioè da quando il Pd è nato grazie alla liturgia delle primarie come suo «elemento fondativo». Quanto invece alla temuta dissoluzione, il sospetto è che ci si vada molto più vicini coi brogli, certo, ma pure con questo continuo stop and go, con questo sorta di «coitus interruptus» (e più volte interrotto), con questa incertezza che regna sovrana: con le primarie sì, ma solo fino ad avviso contrario; oppure primarie sì, ma solo se ci piacciono i candidati; o infine sì, ma solo se non c’è partita.

Nel corso della prima Repubblica, non si è data attuazione all’articolo 49 della Costituzione per il timore che, irrigidendo i partiti con norme, regolamenti e statuti e favorendo così, in caso di violazioni e ricorsi, le intrusioni della giustizia ordinaria, se ne sarebbe limitata fortemente l’autonomia. Una concezione tutta politica, tipica dei grandi partiti del Novecento e in particolare del partito comunista, che dall’opposizione aveva qualche timore in più. Ma quei partiti avevano collanti ben altrimenti potenti: in termini di ideologia, di disciplina, di partecipazione di massa. Tutto questo è scomparso, o quasi. L’articolo della Costituzione è rimasto inattuato, gli iscritti calano vistosamente: senza un minimo di certezza e legittimità delle procedure chiamarlo partito, francamente, è fargli un complimento.

(Il Mattino, 18 gennaio 2015)

Il segno di una doppia debolezza

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Non una soltanto, ma due elezioni primarie: il Pd deve essere in crisi di identità. Bella scoperta, si dirà. Ma il fatto è che questa volta non si tratta di una constatazione, ma di una dimostrazione. Più correttamente di un ragionamento di natura squisitamente abduttiva (i dirigenti democratici non lo sanno, ma ogni tanto abducono). Il ragionamento è il seguente. In primo luogo, il partito democratico ha nello strumento delle primarie un tratto irrinunciabile della propria identità politico-culturale e della propria fisionomia organizzativa. Così lo ha immaginato il suo primo segretario, Veltroni, e così è stato, dal 2007 ad oggi, passando per Franceschini e Bersani e un paio di elezioni politiche generali. Ora però si scopre che all’attuale segretario, Guglielmo Epifani, un solo turno di primarie non basta: ce ne vuole uno per eleggere il segretario, ristretto, e un altro dopo per scegliere il candidato premier, aperto. Se Bersani poteva dire, nella precedente campagna elettorale, che per lui contavano le secondarie, cioè le elezioni politiche vere e proprie, per Epifani le secondarie si allontanano, e le elezioni vengono ormai per terze. Abduciamo, dunque: se al Pd un solo turno di primarie non basta, e se le primarie fanno l’identità del Pd, allora il Pd è così in affanno che per ritrovar se stesso di primarie ne deve fare due, dalla diversa logica, come ha spiegato (si fa per dire) Bersani. Due primarie: l’ossimoro elevato a metodo politico.

Non si capisce? Non è colpa mia, ma vostra: non avete avuto abbastanza incubi negli ultimi tempi. Se infatti non vi è chiaro perché un partito debba stabilire, intervenendo un’altra volta sulle regole statutarie, che il suo segretario non è detto affatto che sia il candidato alla presidenza del consiglio, e che dunque l’elezione che lo riguarda deve essere dimidiata di valore e doppiata da un’altra elezione, è perché non siete stati visitati dal fantasma di Matteo Renzi, che invece ossessiona l’attuale gruppo dirigente del Pd. Pensateci: senza una regola così cervellotica cosa infatti potrebbe accadere? Che il futuro segretario, in prossimità delle elezioni, si proponga di bel bello come il leader della coalizione di centrosinistra. Orbene, delle due l’una: o quel segretario sarà abbastanza forte da rendere naturale la sua aspirazione, e allora non avrà bisogno di appellarsi alle regole statutarie per legittimare la propria candidatura; oppure quel segretario si scoprirà debole, perché nel frattempo gli sarà comparso nel suo stesso campo un altro candidato, e allora non saranno certo regole e regolette a frenare la corsa di un tale avversario. In entrambe le eventualità, regole e regolette sono inutili. Il secondo caso, peraltro, è quel che si è verificato quando Bersani ha (meritoriamente) accettato la sfida di Renzi, nonostante lo statuto del Pd non la prevedesse. E ora che si fa? Dopo che si è dimostrato che non è statuto alla mano che si risolvono i problemi politici, si mette mano a cosa? Ma allo statuto, naturalmente, nella speranza che questa volta invece serva a frenare le ambizioni del sindaco fiorentino. Si stabilisce così che il segretario del Pd non può essere politicamente abbastanza forte da scoraggiare competizioni per la leadership. Lo si stabilisce nientedimeno che per statuto. Lo statuto del Pd deve insomma sancire ufficialmente la debolezza del Pd.

Bisogna allora «abdurre» al contrario: il Pd non può avere un’identità politica forte, marcata, pronunciata: non la regge, non la sopporta. Perciò non ne va neppure in cerca.

Sia chiaro: le obiezioni ci sono. La prima: un segretario forte farebbe ombra al governo Letta, e rischierebbe di farlo cadere. Giusto. Ma questo significa che il Presidente del Consiglio deve allora mettere in campo se non se stesso almeno il proprio peso politico, e soprattutto la propria azione di governo, per determinare la scelta di un segretario che ne condivida e sostenga il percorso. Non significa certo che bisogna escogitare soluzioni regolamentari per scongiurare il pericolo.

La seconda: il Pd non è autosufficiente, e non può decidere oggi, con le percentuali racimolate alle ultime elezioni, il candidato alla premiership di uno schieramento di cui ignora i lineamenti. Giusto anche questo. Ma allora il Pd non dovrebbe procedere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci delle primarie, bensì alla loro pura e semplice abolizione, tanto più che la derubricazione delle primarie a primarie di coalizione è una perversione tutta italiana, sconosciuta ai sistemi che con le primarie cerchiamo malamente di scimmiottare. Questo però snaturerebbe l’identità del Pd. O forse sarebbe solo la presa d’atto di quel che il partito democratico è oggi, in via di fatto. Ma chi è oggi in grado di guardare in faccia la realtà senza proseguire in quel gioco di rimozioni e denegazioni che il Pd sta giocando da qualche mese a questa parte?

 (Il Mattino, 27 luglio 2013)

I diktat del comico e il silenzio dei Cinque Stelle

E così Beppe Grillo si è accorto che Stefano Rodotà ha ottant’anni. Nientemeno! Al tempo delle favolose quirinarie, quando il popolo della Rete (o per meglio dire una sua molto limitata sottosezione, visti i numeri) lo aveva scelto, dopo Milena Gabanelli e Gino Strada, come candidato del Movimento 5 Stelle, le ottanta primavere del giurista romano erano passate quasi inosservate. Indubbiamente Rodotà porta bene i suoi molti anni.  Così la Rete l’aveva «miracolato», come si esprime oggi Grillo, l’autore/attore di tutti i miracoli del Movimento. Era il profilo di giurista democratico, era la battaglia per il referendum sull’acqua, era la sensibilità civile e l’attenzione al tema dei diritti, era l’intransigenza morale  – erano tutte queste cose a contare allora, in quel tempo lontanissimo (lo scorso aprile) in cui i parlamentari grillini lo avevano volentieri adottato, chiedendosi stupiti come fosse possibile che il Pd, invece, non volesse votarlo. Dalle parti dei democratici nessuno rispose sprezzantemente che Rodotà altro non era che un «ottuagenario miracolato». Ci voleva Grillo, perché si usasse un simile tono. E ci voleva soprattutto l’intervista rilasciata da Rodotà al Corriere della sera ieri, perché il comico genovese mostrasse ancora una volta di che pasta sia fatta la dialettica politica e la discussione pubblica in seno al Movimento (o semplicemente sul suo blog): di colpo un illustre giurista, degnissimo candidato alla Presidenza della Repubblica, è divenuto il vecchietto fortunato che ha trovato per terra il biglietto vincente alla lotteria delle primarie.

I parlamentari grillini lo avevano adottato, ho scritto. E ho scritto male, perché i cittadini deputati del movimento 5 stelle si offendono se li si chiama «grillini». Loro non sono «grillini», perché hanno tale e tanta autonomia di pensiero e di azione, che non subiscono i diktat del capo, che ignorano le scomuniche che piovono sul blog, che discutono la linea e quando occorre mettono Grillo in minoranza. E, se credono, si rifiutano persino di mostrare gli scontrini agli occhiuti capigruppo. Perciò ora, dando mostra di feroce spirito critico e completa indipendenza di giudizio, diranno per esempio che al tempo delle votazioni Rodotà non aveva compiuto ancora ottant’anni, o che non si usano certe espressioni proprio nel giorno del suo compleanno, che non è affatto bello. Oppure che loro non credono per nulla ai miracoli. Quanto però al fatto di dire che Grillo sbaglia, e sbaglia gravemente, questo è proprio quello che nella turpe intervista ha detto Rodotà, e che dalle parti del movimento iperdemocratico di Grillo nessuno osa dire.

Rodotà invece ha dichiarato, con modi, peraltro, assolutamente garbati, che Grillo sbaglia quando dà la colpa agli elettori per la sconfitta alle amministrative, o quando sostiene addirittura che non è vero che il Movimento ha perso, hanno perso tutti gli altri e lui solo ha vinto. E sbaglia quando non comprende la differenza fra la Rete e il lavoro parlamentare, o quando dice ai deputati che non tocca elaborare strategie, bensì – si suppone – dare semplicemente esecuzione alle direttive del leader. Sbaglia pure quando nega loro l’esercizio della funzione parlamentare senza vincolo di mandato – come dice invece la Costituzione -, o quando rifiuta il confronto con le altre forze politiche. In effetti non c’è male, come sequenza di errori.

Ora. però, come può un movimento che si fonda esclusivamente sul verbo di Grillo, che espelle chi osa presentarsi davanti alle telecamere (ma al contempo si lamenta per la mancanza di attenzione da parte dei media tradizionali: è il caso del candidato romano del Cinque Stelle), o che manda mail per stanare la spia che si annida in seno al gruppo (è il caso, a quanto pare, della «portavoce» Lombardi), come può un movimento che offre questi modelli di comportamenti politici, sopportare l’intervista puntuta di un agguerrito ottuagenario? Semplicemente non può. Può invece deridere, disprezzare, insultare, rinnegare. E tutto questo può fare, come Grillo fa, in nome della democrazia diretta e della partecipazione (hai visto quanti sono i commenti sul blog?), che però si rovescia sistematicamente nel suo opposto: nella voce unica e solitaria del Capo, che nessuno può permettersi di contraddire, nella negazione di ogni accenno di critica, nella derisione come modalità di comunicazione quasi esclusiva, nel controllo totalitario esercitato su tutte le espressioni del movimento, a cominciare dal marchio del movimento per finire al mitico scontrino.

Ma chissà: forse, dopo questo ennesimo, sgangherato exploit, qualcuno comincerà a rendersi conto, tra i Cinque Stelle, che un insulto, anche reso in streaming, resta pur sempre un insulto.

Il comico Grillo tradisce la libertà di Internet

«Il dissenso non è concepito all’interno del Movimento. Paradossalmente i partiti, con tutti i disastri che hanno arrecato a questo Paese, sono più controllabili dai cittadini di quanto lo siano Grillo e Casaleggio».
Sono le parole di Federica Salsi, fresca di espulsione dal Movimento 5 Stelle, insieme a Giovanni Favia. Stavano sulle palle, come ha avuto l’amabilità di spiegare Grillo sul suo blog. Siccome infatti nel movimento nessuno può mettere in dubbio che il comico genovese sia un fior di democratico, i due sfrontati che hanno osato farlo sono stati (democraticamente, suppongo, ma senza formalità, perché il Movimento non le prevede) messi alla porta. La compattezza, anzi la purezza del Movimento è salva.
L’unica cosa che non torna nella dichiarazione della Salsi è, tuttavia, l’avverbio: dove sarebbe il paradosso? Non c’è nulla di paradossale nel fatto che i partiti, capaci di disputare congressi, di svolgere primarie – e, da ultimo, come nel caso del Pd, di indire le primarie per la scelta dei parlamentari su una base elettorale trenta volte più ampia delle cosiddette parlamentarie di Grillo – siano più controllabili del duo delle meraviglie Grillo-Casaleggio. Il paradosso, se mai, è un altro. È che il movimento (non partito: non sia mai!) che predica apertura, trasparenza, partecipazione, democrazia diretta e non so più quale altra preziosissima virtù politica, si stia rivelando il più impermeabile alle ragioni del dissenso, alle divergenze di opinioni, alla formazione non si dirà di minoranze o opposizioni interne, ma anche solo di critiche o lievi dissapori. Non ce ne possono essere, non ce ne debbono essere e non ce ne sono: previa espulsione.
Ma, a pensarci, c’è ancora un altro, più singolare paradosso. Che tutto questo avviene non nelle pieghe di qualche imbroglio regolamentare o statutario (il movimento non ha uno statuto: evidentemente ha solo il Verbo), non nelle antiquate sezioni di partito, non in novecenteschi congressi, ma nel luogo principe dell’intelligenza collettiva, in Rete, terra promessa dell’accesso libero, negli spazi cioè in cui ogni giorno proliferano nuove forme di aggregazione e di comunicazione, nel medium che i grillini vogliono consacrare alla diffusione illimitata della conoscenza, nel paradiso della condivisione. È lì che ieri pomeriggio, in un boxino di spalle all’ennesimo, torrenziale comunicato con il quale Grillo smaschera ogni giorno le malefatte altrui, in poche righe si augurava simpaticamente buon lavoro a Salsi e Favia. Buon lavoro, e fuori dalle palle.
E la comunicazione molti-a-molti tipica delle reti digitali? Sarà per un’altra volta. E la compartecipazione delle informazioni, la trasparenza? Non pervenute neanche quelle. E l’invito rivolto da Grillo, qualche tempo fa, a spedire a Wikileaks qualunque documento riservato possa far luce sui mille misteri d’Italia, con tanto di istruzioni per l’invio? Al diavolo la coerenzA.  E forse sarà effettivamente Wikileaks a diffondere tutti i dati delle parlamentarie del Movimento 5 stelle, visto che al momento non è dato sapere quasi nulla su come siano andate le cose. A meno che, infatti, non vi fidiate del Verbo e dei suoi comunicati online, resterete delusi. I risultati sono quelli diramati, e stop. Cittadini elettori: state contenti al quia, e più non dimandate. Che è la forma elegante, dantesca, del non rompete i maroni praticata da Grillo.
Insomma, la Rete è divenuta, nelle sapienti mani di Beppe Grillo, la forma ipermoderna dell’ipse dixit di antichissima memoria., e Grillo parla ormai come un maestro di sapienza dell’Antica Grecia, anche se lo fa ticchettando su una tastiera o sbraitando davanti a una webcam. Come Pitagora, che si diceva avesse una coscia d’oro e si rivolgeva ai suoi iniziati parlando da dietro una tenda, così Grillo, coscia o non coscia, se ne sta dietro lo schermo, dove si tiene stretti tutti i dati delle votazioni (e il controllo del Movimento). Pitagora non aveva il copyright del teorema che pure porta il suo nome, Grillo invece del logo ce l’ha, e come!, e sa farlo valere. Così predica l’apertura e pratica la chiusura, diffonde contenuti in maniera virale ma si immunizza dal dissenso, esalta l’orizzontalità della Rete, ma tiene rigorosamente verticale il bastone del comando. Ci faccia almeno il piacere di non agitarlo, sempre – s’intende – in nome della democrazia.
Il Mattino, 13 dicembre 2012

Il paradosso delle regole

La modifica statutaria è stata approvata, Renzi può concorrere, Bersani va al tavolo della coalizione a concordare le regole delle primarie, ma tu ora va’ a sapere cosa significa seguire una regola. Roba che occorre una ricerca filosofica per districarne il senso, anzi di più: ci vogliono le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. Però Wittgenstein, per fortuna, e per raggiunti limiti di età (è morto), non ha potuto prender parte al dibattito sulle regole. Altrimenti avrebbe avuto infatti qualcosa da dire. Prendete una maestra, avrebbe detto (continua…

L’unità, 7/10/2012

I partiti allo sbaraglio

(si avvertono i gentili lettori che l’inizio dell’articolo non è autobiografico)

La politica italiana sembra essere ormai giunta a un grado di confusione tale, da non aver più nulla da farsi invidiare da quel marito che, dopo l’ennesima reprimenda da parte della consorte, finisce col pensare sconsolato: “Come fai, sbagli”. Se la porti al cinema sbagli, perché non ti rendi conto di quante cose ci sono da fare in casa, con tutto questo disordine e i panni da stirare; ma se non la inviti ad andare a vedere un film sbagli lo stesso, perché gli altri ci vanno e quanto tempo sarà che non usciamo insieme la sera, e lo vedi che mi trascuri, ecc. ecc. Anche la politica italiana si trova in una situazione del genere. Se procedi discrezionalmente a nomine e a candidature sbagli, perché sei partitocratico e orribilmente lottizzatorio, impermeabile alle istanze della società civile; ma se pensi allora che puoi rimettere tutto a consultazioni popolari, primarie e selezione di curriculum sbagli lo stesso, perché vieni meno alla tua funzione ordinatrice, abdichi alle tue responsabilità, rinunci ai compiti politici di indirizzo. Un punto di equilibrio in questa vorticosa giostra fra arroccamento difensivo nelle proprie prerogative e abdicazione al proprio ruolo, evidentemente, ancora non lo si è riusciti a trovare.

E difficilmente lo si troverà nei prossimi mesi e settimane, se si farà la gara a riportare all’ovile i voti in libera uscita verso Grillo. Il pendolo pencola infatti là dove indicano i sondaggi. Cosa dicono allora i magici numeri del marketing politico? Che la credibilità dei partiti è ai minimi storici, e che il Movimento Cinque Stelle vede gonfiare i propri consensi in due semplici mosse: da un lato spara a zero contro la casta dei politici, dall’altro promette mirabilie con la partecipazione on line, la democrazia diretta, i meet up e il popolo della Rete. E allora via con le proposte demagogiche: quelli che nominano costretti a giustificarsi anche quando applicano la legge, e quelli che non possono nominare pronti a gridare allo scandalo. In occasione delle nomine dell’Agcom, ad esempio, Italia dei Valori e Sel hanno fatto a gara a scandalizzarsi, quando farebbero molto meglio a dotare anzitutto i loro partiti di quel metodo democratico nella selezione delle classi dirigenti che la Costituzione richiede loro. Però a chi vuoi che importi, visto che hanno il leader? Piuttosto, siccome i partiti hanno abusato con le nomine politiche prive di competenze, oggi sia il turno delle competenze professionali anche per le materie politiche! Poco importa, allora, se il neosindaco di Parma, il grillino Pizzarotti, non ha ancora formato la giunta, forse perché sommerso dai curriculum – o, più probabilmente, perché le decisioni politiche non si prendono così come si valuta il personale di un’azienda – il sindaco di Palermo Orlando, che in fatto di populismo ha pochi rivali, ha pensato bene di sollecitare l’invio di referenze per le candidature a titolo gratuito per enti, aziende comunali, incarichi istituzionali. Prima di lui, d’altra parte, il sindaco di Milano Pisapia ha dichiarato che avrebbe consultato la città – non è ancora chiaro come – per decidere sulla vendita delle quote della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi. Che c’è di male, visto che persino la più burocratica e incomprensibile di tutte le istituzioni democratiche, l’Unione Europea, ha deciso che d’ora in poi qualsiasi cittadino può presentare, su qualunque materia rientri nelle competenze dell’Unione, un’autonoma proposta legislativa (salvo rispettare regole e procedure per le quali occorre non essere affatto un cittadino qualsiasi)?

Todos caballeros, insomma: si chiama open government, ma è la stessa stupidaggine, cioè la stessa idea sbagliata della democrazia. Siccome non si riesce più a far funzionare gli istituti rappresentativi, siccome non si riesce a esercitare l’opera di mediazione e di decisione in cui consiste la politica, siccome si è perduta – forse irrimediabilmente – autorevolezza, allora che si fa? Invece di studiare il modo per restituire credibilità ai partiti politici (e senso delle istituzioni un po’ a tutti), si finge di rilanciare con un di più di democrazia: la democrazia indiretta non funziona più? Vi diamo quella diretta! Salvo accorgersi che quelli che, nell’attuale scenario, la offrono, guidano partiti personali, proprietari, padronali: l’esatto contrario, insomma, del tanto celebrato merito e della contendibilità tramite lotta politica.

Come si dice? La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Ma non scherzano nemmeno le false soluzioni.

Il Mattino, 7 giugno 2012

Perché alla fine vince Vendola

Io organizzo, tu vinci: da quale modello politico il partito democratico abbia importato questa generosa formula non è dato sapere, ma dopo la Puglia di Vendola, la Napoli di De Magistris, la Milano di Pisapia, la Cagliari di Zedda, è ora la volta di Genova. Alle primarie il Pd schierava un dirigente nazionale, Roberta Pinotti, e il sindaco uscente, Marta Vincenzi. È già singolare che il sindaco si sia dovuta sottoporre alle forche caudine delle primarie: di solito al secondo mandato ci si arriva in carrozza. Ma a stranezza si è aggiunta stranezza, perché a vincere è stato il candidato indipendente, Marco Doria, che la sveltezza e la disinvoltura retorica di Vendola ha consentito di ascrivere a tambur battente a Sinistra e Libertà. Cavallerescamente (ma non troppo), i dirigenti del Pd si affrettano ora a dichiarare che il risultato ci sta tutto, è nello spirito della competizione, quando è veramente autentica; ma allora è il partito democratico che rischia di apparire, agli occhi del suo stesso elettorato, in debito di autenticità.
Di certo, la vicenda ha riaperto la discussione, anche perché Bersani ha già assicurato, con un filo di imprudenza, che se non si cambia il Porcellum il Pd ricorrerà alle primarie per la scelta dei suoi candidati al Parlamento. Che è come dare ai propri avversari, interni ed esterni, un ottimo motivo per gufare contro un accordo in materia elettorale.
Mettersi però a discutere dello strumento delle primarie significa scambiare il dito con la luna, e la luna è nientepopodimeno che l’orizzonte politico-culturale del Pd. Dove va, infatti, il Pd?  Quando scende per strada e manifesta nelle piazze, allestisce i gazebo e sente la base, pencola a sinistra: vincono i candidati più vicini alle battaglie sui diritti, sui beni comuni, sui nuovi bisogni e le nuove sofferenze sociali – candidati movimentisti, financo populisti, non sempre in sintonia coi gruppi dirigenti del partito.  Quando invece il Pd varca il portone di Palazzo Chigi e affronta la severa agenda del governo Monti, vira piuttosto verso i più tranquilli lidi del centro, e nel discorso pubblico fioriscono parole come serietà, sobrietà, responsabilità: l’anima tecnocratica prende il sopravvento, e un occhio di attenzione viene dato, prima che ai ceti popolari, ai severi corsi del mercato.
Intendiamoci: non siamo certo alla schizofrenia del partito di lotta e di governo e soprattutto, particolare non trascurabile, da qualche mese i consensi nel Pd crescono, a giudicare almeno dai sondaggi. E tuttavia la formula che Bersani non si stanca di usare: questo non è il nostro governo, non dice ancora chiaro e tondo come sarebbe, il suo governo. In buona logica, infatti, non si definisce mai nulla in termini solo  negativi. Dire di una certa cosa che non è né questo né quello, non è ancora dire che razza di cosa sia. Affermare che il Pd è un partito di centrosinistra, e spiegarsi dicendo che non è né di centro né di sinistra, non è esempio di fulgida chiarezza.
La situazione finisce con l’essere la seguente: c’è un grande partito, forse l’ultimo che possa essere così definito, forte abbastanza da poter contrattare col governo gli elementi del suo programma, ma in cui spezzoni di idee non trovano ancora un linguaggio condiviso.  La vicenda dell’articolo 18, intoccabile e riformabilissimo nello stesso tempo a seconda del dirigente che si intervista, è abbastanza indicativa. E così il Pd può essere di sinistra sì, ma non troppo, moderato ma anche no, riformista ma con juicio, e così via aggettivando. L’ancoraggio europeo nel Pse ci sarebbe, ma chi li sente i cattolici; la responsabilità nazionale funzionerebbe, ma rischia di accaparrarsela Monti; e poi c’è sempre, sornione, Casini. Semplicemente democratici, sbotta infine qualcuno, ma più per tagliar corto che per dare a vedere, finalmente, di cosa si tratta.
Intendiamoci: stiamo parlando del primo partito italiano, stando almeno ai sondaggi. Ma a sinistra ancora se la ricordano, la volta che erano il primo partito, quando, un po’ come adesso, non avevano saputo ben delineare un orizzonte politico chiaro oltre la battaglia elettorale. Niente orizzonte, niente vittoria: qualcun altro decise di scendere in campo, circondato, lui sì, da cieli azzurrini, e la vittoria, alla fine, andò a lui.

Il Mattino, 14.02.2012