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La diaspora che sa di passato

Exitù

Lo scenario è in movimento, ed è fresca di stampa una legge elettorale che suggerisce di coalizzarsi anche solo in vista delle elezioni, giusto il tempo necessario per conquistare uno scranno parlamentare. Tutte le soluzioni sono dunque possibili. Vale a Roma e vale pure a Napoli, dove l’agitazione è da ultimo provocata dall’uscita di Antonio Bassolino, che ha abbandonato il partito democratico e ha ripreso a dialogare con il sindaco De Magistris. La motivazione risiede anzitutto nella vicenda personale di Bassolino, com’è chiaro dalle parole usate dalla moglie, l’onorevole democrat Annamaria Carloni: «Antonio non è stato rispettato sul piano politico e umano», «Contro Antonio è stato alzato un muro», «Antonio è stato maltrattato». Ma ci sono anche motivazioni politiche generali: Bassolino ritrova infatti la compagnia dei fuoriusciti del Pd, di tutti coloro cioè che pensano che il centrosinistra non può rinascere se Matteo Renzi non toglie il disturbo.

Quale centrosinistra può però rinascere, se i protagonisti di questa estenuante diaspora sono gli stessi che hanno navigato prima nell’Ulivo e poi nel Pd in tutti questi anni? Non ha un inevitabile sapore di passato, tutta questa discussione? E che c’entra Napoli, la città, con tutto questo? Bassolino va ad aggiungersi ai Bersani e ai D’Alema che hanno guidato la sinistra in Italia per non meno di un paio di decenni. Sbalzati di sella dalla nuova generazione democrat, oggi faticano a riconoscersi nel Pd a guida renziana, ma faticano ancor di più ad accorgersi di come la sinistra che vuole essere alternativa a Renzi, se ha numeri e idee per esistere, non sarà certo per riconoscersi in costoro. Non ha nessun motivo per farlo.

Visto dalla sinistra radicale, questo fantomatico nuovo centrosinistra che nascerebbe se solo Renzi si facesse da parte non è infatti altro che un imbroglio, un pannicello caldo, un cambio di facce ma non di politiche.

A Napoli la cosa prende un’evidenza palmare. Bassolino si avvicina a De Magistris – come del resto ha fatto Mdp in consiglio comunale – e comincia a ragionare di possibili candidature nei collegi uninominali. Dalle parti di Dema, e dei movimenti che appoggiano l’attuale giunta, in molti storcono il naso, per non dire di più: com’è possibile che la rivoluzione arancione torni indietro agli anni di Bassolino alla guida della città? Come può Bassolino rappresentare l’area degli insorgenti, dei benecomunisti, dei centri sociali?

Non può. Però si finge che sia possibile, perché De Magistris qualche interesse a dialogare con Bassolino ce l’ha. Si tratta di costruire una sponda politica per compiere la traversata in Parlamento. Un collegio uninominale è quel che ci vuole. Il progetto di mettere dentro tutti quelli che non ne vogliono sapere del Pd fa giusto al caso, il caso suo o forse meglio quello del fratello, Claudio. E cade pure al momento opportuno, mentre si accentuano le difficoltà dell’Amministrazione comunale, che continua a camminare sull’orlo del definitivo dissesto: la politica interviene insomma come arma di distrazione di massa.

La conversione di un’esperienza amministrativa in una prospettiva politica, buona per conquistare un seggio in qualche quartiere della città, resta però un’operazione complicata assai. Ma il Sindaco ci lavora da tempo, consapevole che la sua stagione a Palazzo San Giacomo sta per finire. E una presenza in Parlamento di Dema è il miglior viatico per tentare, più in là, la conquista della Regione. Tanto più se il campo democratico dovesse rimanere privo di una riconoscibile identità e di un vero progetto politico.

Perché è chiaro: tutte le fortune di De Magistris dipendono dalle sfortune e dai fallimenti dei democratici. È stato così fin dalla prima elezione a Sindaco, nel 2011, e continua ad esserlo ancora oggi. La stessa figura di Bassolino può essere usata per sottolineare le difficoltà in cui si dibatte il Pd. Ogni parola di Bassolino è infatti un implicito atto di accusa contro tutto quello che è venuto dopo di lui, contro le insufficienze e i balbettamenti della dirigenza piddina.

Per questo, il congresso provinciale che il Pd celebrerà fra poche settimane può avere un’importanza cruciale. A condizione, naturalmente, che venga giocato non solo per riempire le caselle in vista dei posizionamenti futuri in lista, ma per proporre un nuovo, credibile profilo del partito in città. In passato le occasioni sono fioccate, tra elezioni municipali e elezioni politiche, commissariamenti e segretari di nuovo conio. Ciononostante, mancandole sempre tutte, il Pd si trova allo stesso punto di prima: senza una chiara linea politica, e con molte difficoltà a suscitare attenzioni e passioni nella società civile.

Ora c’è una nuova prova, il congresso provinciale. La competizione fra Oddati, Costa e Ederoclite per la segreteria democratica deve però ancora decollare. Ma può farlo solo a condizione che il confronto venga sottratto ad una dinamica introflessa, solo per addetti ai lavori (ed esperti di tesseramento), se smette cioè di essere una vicenda tutta piegata sulle diatribe interne, e viene proposto invece alla città come occasione per tirare finalmente una linea e ripartire.

Bassolino e De Magistris simboleggiano, insieme, i nomi di ciò che il Pd non può più essere: da un lato, un’opposizione priva di nerbo e di credibilità in città; dall’altro, il cono d’ombra in cui il centrosinistra si è cacciato dopo la fine politica di Bassolino. Ma cosa il Pd può invece essere, lo si deve ancora capire. E se quei due si mandano segnali, è evidentemente perché c’è ancora un vuoto in cui possono provare a infilarsi, provando a prolungare storie già finite da un pezzo (nel caso di Bassolino) o a inventarne di nuove per non rispondere del proprio operato (nel caso di De Magistris).

In effetti, qualcuno che chiuda questo intermezzo – come nel film di Billy Wilder, «Irma la dolce» –  promettendo finalmente di raccontare un’altra storia, ancora non c’è.

(Il Mattino, 5 novembre 2017)

La riflessione necessaria per ripartire senza vecchi vizi

appointment bourgeois

L. Bourgeois, Appointment at 11.00 a. m. (1989)

La decisione di tenere la conferenza nazionale programmatica del partito democratico a Napoli nell’ultimo fine settimana di ottobre rende più che probabile uno slittamento di qualche settimana del congresso provinciale, inizialmente previsto nelle stesse giornate. È una decisione saggia, che introduce un po’ di ponderatezza in un dibattito che rischia altrimenti di dilaniare per l’ennesima volta il Pd. Non c’è nulla di male, ovviamente, nel celebrare un congresso in cui si confrontino più candidati alla guida del partito, ma c’è qualcosa di insano nel farlo, senza che vi sia una ragionevole certezza che almeno questa volta le cose fileranno lisce. Allo stato, questa certezza non c’è, e le esperienze recenti consigliano qualche prudenza in più, visto che il Pd non può certo permettersi di farsi un’altra volta travolgere dalla polemica sul modo in cui si fanno le tessere o si esprimono i voti. Tanto più se questo dovesse succedere a pochi mesi dal voto politico nazionale, e in una città governata dalla più esuberante forma di populismo di sinistra oggi disponibile. Che sembra star lì, a Palazzo San Giacomo, al solo scopo di ricordare in ogni momento l’insufficienza del profilo riformista del Pd.

Il Pd deve o dovrebbe partire proprio da qui: da nuove proposte, da progetti e idee per la città, da una robusta ripresa di contatto con la società civile e, certo, anche da una classe dirigente rinnovata. Nella difficoltà di ricomporre il partito intorno a una scelta unitaria, c’è il rischio che tutto questo passi invece in secondo piano, e prevalgano ancora una volta le macchine notabilari con i pacchetti di tessere a decidere la partita. Il tempo supplementare di cui può godere ora il Pd napoletano, può ancora essere speso per costruire almeno un percorso condiviso nell’avvicinamento al congresso e, magari, anche un segretario individuato con l’accordo delle varie componenti. Non riuscisse il tentativo, ci si può scommettere che il partito democratico si trasformerà per l’ennesima volta nel campo di Agramante, con ricorsi e colpi bassi, contestazioni e richieste di salvifici interventi da Roma. Perché nessuno conosce, al momento, com’è formata la base elettorale di questo congresso, cosa è successo con le iscrizioni online al partito e quali sono i numeri nelle diverse realtà territoriali. Né si vede ancora un partito capace di animare un vero confronto di opinioni, con il coinvolgimento reale di pezzi della società a cui offrire un’alternativa seria e soprattutto credibile alla dilagante retorica arancione.

I limiti del Pd sono, del resto, sotto gli occhi di tutti. Non è un caso che Mdp-Articolo 1 abbia scelto di tenere a Napoli la sua festa: fra le grandi città italiane, è quello che offre sicuramente più spazio alle formazioni della sinistra radicale per cercare un consenso popolare: Roma e Torino sono in mano ai CInquestelle, Milano, Bari, Bologna, Palermo, Firenze hanno amministrazioni a guida democratica con un buon indice di gradimento; resta Napoli, e infatti è qui che cerca di darsi la sua rappresentazione una sinistra più larga e plurale. Di fatto, in questi giorni, mentre i dirigenti locali sono alle prese con il rebus del congresso – quando tenerlo, come tenerlo se non addirittura perché tenerlo – i ministri del governo Gentiloni vengono a Napoli per parlare di politica con i fratelli coltelli di Mdp. Il mitico dibattito lo fanno loro, insomma, con i democratici napoletani assenti (ma presente Antonio Bassolino). I temi sono i diritti, la costituzione e l’antifascismo, il mezzogiorno e il regionalismo, l’ambientalismo e le violenze sulle donne, le mafie e la scuola. Ci sono, insomma, tutte le parole con le quali si è costituita in Italia l’identità storica della sinistra: c’è persino il dibattito sul «nuovo umanesimo», che si trova già declinato nel manifesto dei valori del partito democratico. Quelli di Mdp fanno la loro parte, insomma, e provano a sottrarre terreno al Pd e a dire che la sinistra sono loro. E certo è più facile se il Pd, a Napoli, non comincia a dire nuovamente cos’è.

Il tempo per lavorarci adesso, forse, c’è. O almeno ce n’è un po’ di più: dare nettezza alle linee programmatiche; dare forza all’opposizione alla giunta De Magistris, dare peso alle scelte di politica regionale, persino restituire al partito il senso di una comunità si può. A patto però di non ricadere negli antichi vizi, dominati da una distruttiva coazione a ripetere.

(Il Mattino, 28 settembre 2017)

La politica debole e le Procure forti

Serra 1984

R. Serra, Malmo Roll (1984)

«La mia esperienza mi dice che quei reati sono difficili da provare»: parola di Antonio Di Pietro. Parola non di oggi, ma del gennaio 2008. Clementa Mastella, ministro della Giustizia del secondo governo Prodi, ha ricevuto un avviso di garanzia per concussione: è accusato di aver esercitato pressioni indebite su Antonio Bassolino, a proposito della nomina di un commissario nella sanità campana. Di Pietro, allora ministro pure lui, vede giusto, ma la sentenza di assoluzione in primo grado è arrivata solo qualche giorno fa: la bellezza di nove anni e mezzo dopo. «Non riesco a immaginare Sandra Mastella che minaccia, concute e fa morire di paura Bassolino», diceva Di Pietro. Lui non ci riusciva, ma i magistrati invece sì, perché Sandra Mastella finisce agli arresti domiciliari, e tutto il partito di Mastella, l’Udeur, viene travolto dallo scandalo. Non rinascerà più. Così come non rinascerà più l’esperienza politica dell’Unione, la maggioranza che portò Prodi a Palazzo Chigi per la seconda volta.

Ma l’intervista di Di Pietro a Repubblica merita di essere citata ancora. Di Pietro non interveniva per esprimere solidarietà a Mastella, ma per prendere le distanze dalle critiche ai magistrati che si era permesso di formulare. Lui, i suoi compagni di partito, tutto il Parlamento che lo aveva applaudito con uno «scrosciante battimano bipartisan». Non si fa. È un atto di eversione democratica. E lo è anche se è perfettamente chiaro, a Di Pietro per primo, che tutto finirà in un nulla di fatto. I magistrati – lo dice lui stesso – hanno «scoperto l’acqua calda», cioè come si fa politica al Sud. E come volete che si faccia? Con logica clientelare e spartitoria, spiega l’ex pm molisano. L’obiettivo diventa allora azionare la legge penale per sradicare questa maniera di fare politica. L’ex-magistrato, il simbolo di Mani Pulite, lo dice a chiarissime lettere: «La difficoltà di individuare un reato per contestare comportamenti lottizzatori e clientelari esiste». Quel che non dice, è perché, in base a quale idea e civiltà del diritto, comportamenti lottizzatori e clientelari debbano essere trasformati ipso facto in reati, piuttosto che essere sanzionati democraticamente alle elezioni. Che qualcosa non quadra è chiaro però pure a lui, visto che aggiunge: «non è affatto detto che tutto debba essere risolto per via giudiziaria».

Non è detto, però viene fatto: le notizie di questi giorni lo dimostrano. Caso Cpl-Concordia. 2015. L’inchiesta riguarda la metanizzazione dell’agro aversano e di Ischia. Il governo in carica è quello di Matteo Renzi. Cosa c’entra Renzi con il gas metano? Fa per caso le vacanze ad Ischia? Non risulta. Ma finisce intercettato lo stesso. Una soffiata – non si sa bene se pilotata o no – spinge infatti gli spaventati dirigenti della cooperativa a cercare di capire perché sono finiti sotto inchiesta. Si rivolgono a un generale. Il generale, per gli inquirenti, è Michele Adinolfi. Vengono disposte le intercettazioni. Il generale parla con Renzi, e le conversazioni finiscono sui giornali, scatenando un putiferio. Del versante giudiziario si son perse le tracce: nessuno sviluppo processuale, nessuna incriminazione per il generale Adinolfi, nessuna rilevanza penale delle parole riportate su tutti i quotidiani nazionali. Ma l’effetto mediatico c’è tutto. Non cade nessun governo, quella volta, ma ora vien fatto di pensare che ciò è dipeso solo dal fatto che il capo della Procura di Modena, Lucia Musti, a cui è trasmessa parte dell’indagine napoletana guidata da John Henry Woodcock, decide di non far esplodere «la bomba» che gli consegnano i carabinieri del Noe, il capitano Scafarto e il suo superiore, Sergio Di Caprio. Per loro, infatti, a Renzi si può arrivare. Loro sì che riescono a immaginarlo, e anzi quasi lo suggeriscono al magistrato. Che nel luglio scorso (due anni dopo), sentita dal Csm presso il quale è aperta un’istruttoria nei confronti di Woodcock, usa parole di fuoco: per gli spregiudicati ufficiali del Noe, e per il Pm chi ne coordina il lavoro: una «informativa terribile, dove si butta dentro qualunque cosa, che poi si manda in tutta Italia.  La colpa è anche di noi magistrati, perché siamo noi a dover dire che le informative non si fanno così». Non si dovrebbero fare, ma intanto si continuano a fare.

Altra inchiesta, e stessa disinvoltura. Spinta anzi fino a un’incredibile spudoratezza. Il caso Consip è un caso di corruzione, che parte da Napoli ma anche in questo caso arriva fino a Roma, fino a Renzi. Anche in questo caso ci sono di mezzo intercettazioni e fughe di notizie. Anche in questo caso a muoversi sono gli uomini del Noe. E in prima fila c’è, su incarico del pm Woodcock, il fidatissimo capitano Scafarto, lo stesso che ha confezionato l’informativa-«bomba» recapitata a Modena. Questa volta la confezione è ancora più esplosiva. Perché la trascrizione delle intercettazioni contiene manipolazioni, che consentono di mettere sotto tiro Tiziano Renzi, e sono arricchite di un capitolo, totalmente infondato, su presunte attività di pedinamento e controspionaggio dei servizi segreti a danno degli investigatori. Se si guarda più da vicino l’intrico imbastito in quelle carte, e il modo in cui han preso a circolare, si trovano elementi in tutto analoghi a quelli del caso Cpl-Concordia. Non solo i protagonisti – a cominciare dal duo Scafarto-Woodcock – ma pure il modus operandi. Al centro del quale ogni volta compaiono fughe di notizie che mettono in allarme le persone coinvolte, fughe che più che danneggiare il lavoro della Procura, sembrano alimentarlo. Sembrano, in poche parole, consentire di estenderne il raggio e di arrivare sempre più su: dal Cardarelli alla centrale di acquisti Consip; dalla centrale di acquisti Consip a Palazzo Chigi – dove investono il fedelissimo del premier Renzi, Luca Lotti, accusato di aver informato i vertici Consip delle intercettazioni ambientali in corso – e a Rignano sull’Arno, dove sulla graticola finisce il padre dell’ex premier. Tutto questo accade prima, ovviamente, che si sappia che la madre di tutte le frasi, quella che avrebbe dovuto inguaiare Tiziano Renzi, era in realtà stata pronunciata non dall’imprenditore napoletano arrestato, Romeo, ma dal suo consulente Italo Bocchino. La cosa prende tutt’altro senso.

Svista? Fretta? Negligenza? Leggerezza? Può darsi. Ma com’è possibile che si proceda con fretta, negligenza o leggerezza in un’indagine che lambisce i massimi vertici istituzionali, che rischia di portare sotto processo il padre del Presidente del Consiglio in carica, e che riguarda appalti di importi miliardari? Quante volte bisognerebbe ricontrollare una frase, prima di metterla a verbale rischiando di provocare un terremoto politico?

Il premier tiene duro, e il governo non cade per mano della Procura. Ma la botta è forte. Questa volta però non ci sono battimani in Parlamento a difesa del premier. La strategia scelta dal partito democratico è quella di abbassare la temperatura dello scontro fra politica e giustizia. Renzi rimane in sella, ma quale sarà il bilancio? La legge sulla responsabilità civile dei giudici? La riduzione dei giorni di ferie dei magistrati? Bilancio piuttosto magro, visto che né l’ordinamento giudiziario è stato in sostanza toccato, né si sono fatti passi avanti sui due punti di maggiore sofferenza: da un lato la disciplina delle intercettazioni, su cui il Ministro della Giustizia ha oggi in mano una delega che difficilmente riuscirà ad attuare; dall’altro la prescrizione, che anzi, per non vanificare il lavoro delle Procure, è stata allungata per i reati contro la pubblica amministrazione, pazienza se un imputato rischia di rimanere sotto processo per corruzione per vent’anni.

In compenso, sono state introdotte nuove figure di reato, come il traffico illecito di influenze, che aumentano l’area di indeterminatezza dell’azione penale, o introdotte modifiche al codice antimafia, sempre in materia di corruzione, che ampliano anziché ridurre l’area dell’intervento cautelare.

Ma forse una riflessione più generale andrebbe fatta sui vagiti di riforma della giustizia spesso soffocati in culla. Appena insediatosi, Renzi aveva annunciato di voler cambiare le regole del Csm. Di quella riforma non c’è traccia. L’impressione è che una politica debole, che si sente vulnerabile alle inchieste delle Procure – ai loro riflessi mediatici, e alla loro durata intollerabilmente lunga – preferisca abbozzare, non svegliare il can che dorme, non attaccare per non essere attaccata. Invece di una riforma, dunque, una tregua. Anche se poi c’è sempre qualche procura che non la rispetta e riapre le ostilità. Così succede che la politica rinunci a riformare la giustizia, mentre la giustizia non rinuncia affatto a riformare la politica. Con i mezzi penali che ha a disposizione, cioè per la via di una criminalizzazione che dovrebbe aprire la via alla grande bonifica morale, e, solo dopo, al lavacro purificatore delle elezioni. Già, perché fra poco si vota: chissà che clima ci sarà, allora.

(Il Mattino e Il Messaggero, 17 settembre 2017)

Non è una storia del passato

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R. Guttuso, Spes contra spem (1982)

Non è in cerca di rivalse, Mastella, dopo l’assoluzione in primo grado nel processo che lo vedeva imputato insieme alla moglie e ad altri esponenti del suo partito. Qualche motivo ce l’avrebbe, a distanza di quasi dieci anni dall’avviso di garanzia che a lui costò il posto di ministro Guardasigilli, alla moglie gli arresti domiciliari e al suo partito l’accusa di essere un centro di affari illeciti. Ma più ancora vi sono motivi per riflettere sulla sua vicenda processuale. Anzitutto per la sua lunga durata: nove anni per arrivare a sentenza sono tanti, troppi. In secondo luogo, perché le contestazioni riguardavano comportamenti di natura politica, nei rapporti all’interno della maggioranza che sosteneva la giunta Bassolino. Mastella era finito sotto accusa, in particolare, per aver ingaggiato un braccio di ferro su una nomina nella sanità campana. Nomina che, per legge, spettava al Presidente della Regione. Nomina politica, dunque, su cui era naturale (come lo è adesso) che i partiti e i loro leader esercitassero la loro attenzione e i loro appetiti. Cosa che accadde ma che la procura, scoperchiando con abbondante uso di intercettazioni la trattativa tra le forze politiche, interpretò come un episodio di concussione, poi rubricato a induzione indebita. Certo, la sanità campana è messa male, ora come allora, e i cittadini hanno tutto il diritto di giudicare più o meno disdicevole il modo in cui viene amministrata. Ma la commissione di un reato è un’altra cosa, e il fatto che sia venuta a cadere la differenza tra le lotte di potere che attraversano il campo della politica e l’ambito di ciò che è penalmente rilevante è ben lungi dall’essere un progresso, un avanzamento della coscienza civile o non so cosa. Al contrario, rappresenta una dichiarazione di resa della democrazia, della sua capacità di vigilanza, di dare e rendere conto delle sue decisioni nei luoghi propri al confronto politico, che sono non le aule dei tribunali ma le elezioni e gli organismi di rappresentanza.

C’è poi un terzo aspetto, su cui vale la pena soffermarsi. Questo processo aveva una vittima, nella persona del presidente della Regione, Antonio Bassolino, fatto oggetto delle pressioni di Mastella e del suo partito. Sarebbe stato dunque doveroso che l’ufficio del pubblico ministero lo sentisse, anche perché la legge richiede al Pm, nella fase delle indagini, non di portare avanti con ogni mezzo la tesi dell’accusa, ma di capire se arrivare o no al processo, e dunque di ricercare anche gli elementi eventualmente a favore dell’indagato. Non pare proprio che sia andata così, e infatti Bassolino è stato chiamato in dibattimento per iniziativa della difesa. Le sue parole sarebbero bastate a far cadere tutto il castello delle accuse, se solo lo si fosse voluto. Ma l’intenzione era evidentemente un’altra, e travalicava il rispetto delle forme e delle garanzie previste.

Ecco perché conviene guardare a questo caso non come a una semplice disavventura giudiziaria, e a Mastella come a un cittadino sfortunato cui però la giustizia ha saputo restituire l’onore, sia pure dopo quasi un decennio. Non si è trattato di questo, ma di un episodio della guerra a bassa intensità condotta da una parte della magistratura contro la classe politica. Con nobili intenti moralizzatori, con l’ambizione di bonificare interi settori della vita pubblica afflitti da tassi endemici di illegalità e corruzione, ma con effetti devastanti sulla tenuta complessiva dell’ordinamento democratico e sulle garanzie di uno Stato di diritto. Un ministro si è dimesso, un governo è caduto: può bastare ricondurre l’esito di una simile vicenda a normale fisiologia processuale? Evidentemente no. Tanto più che non si tratta di una storia del passato, che non può ripetersi oggi, nelle mutate condizioni della giustizia italiana. Le condizioni, infatti, non sono mutate: i tempi della giustizia penale rimangono intollerabilmente lunghi, e peggiore è il clima che soffia nel paese, percorso da ventate populiste che gonfiano i vessilli di un pan-penalismo ormai infiltratosi dappertutto. Col risultato che spesso la giustificazione dell’attività inquirente è cercata non nella legge, ma direttamente nell’opinione pubblica. (Nella conferenza stampa di ieri, Mastella ha chiesto che le fake news circolate sul suo conto siano cancellate. Impresa impossibile, nell’epoca della rete, ma la preoccupazione dell’ex-ministro è comprensibile: la vera condanna è lì, non in tribunale).

Infine è sostanzialmente rimasto uguale l’ordinamento giuridico. Imperniato sull’obbligatorietà dell’azione penale, che si traduce logicamente nella sua irresponsabilità, e su un perdurante squilibrio fra accusa e difesa, sostenuto dall’interdetto verso ogni ipotesi di separazione delle carriere fra giudice e pm. E, in cima a tutto, un consiglio superiore della magistratura irriformabile dalla politica.

Non vi sarebbe materia per una grande battaglia di civiltà? Ma chi è disposto a affrontarla, esponendosi al rischio di vedersi additati come complici di quella politica che vuol mettere la mordacchia alla magistratura?

Ormai qualche secolo fa, l’illuminista napoletano Mario Pagano scriveva: «se per indagare e punire i delitti sciolgansi soverchiamente le mani al giudice, ond’ei molto ardisca e illimitatamente adoperi, la libertà e l’innocenza non saranno giammai sicure». Parlava, Pagano, all’opposto di quelli che dicono che se si è sicuri della propria innocenza non c’è da temere che si sciolgano troppo le mani al magistrato. Questo è il discrimine: o si sta di là, o si sta di qua.

(Il Mattino, 14 settembre 2017)

Adesso facce pulite e nuove competenze

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Il Pd deve riflettere, aveva detto ieri Renzi a «Repubblica». E non è una riflessione semplice: non solo per lui, a livello nazionale, ma anche per il partito, a livello locale. Non solo non è semplice la riflessione, ma non è neppure facile farla uscire fuori. E farla diventare un nuovo punto di coagulo per una formazione politica che, dopo la tremenda botta del referendum, continua a sembrare incerta sulle sue ragioni di fondo. La Direzione provinciale del Pd napoletano ha provato ieri a indicare un percorso: coordinamento cittadino e congresso straordinario in primavera. Eventuali elezioni politiche a giugno potrebbero rendere difficile rispettare questo calendario, ma la più grande difficoltà sta nel portare questi appuntamenti all’attenzione della città, sta nel coinvolgere le energie più vitali, sta nell’immettere forze e facce nuove, sta nel superare le logiche correntizie, sta nel ricostruire un vero senso di appartenenza e la condivisione di un destino comune. È abbastanza singolare, infatti, quel che sta capitando: alle primarie per Napoli Bassolino si avvicinò per una strada tutta sua, accettando di stare ben dentro il perimetro indicato dalle regole del partito ma decidendo di fare comunque a modo proprio, con un accentuato senso personale della sua candidatura e della sua possibile leadership. Ieri, invece, è tornato a frequentare un organismo collegiale, la Direzione provinciale, e si è detto pronto a dare una mano «purché le correnti non pensino di dividersi le spoglie del Pd». Dall’altro lato, l’uomo forte a cui il partito democratico aveva affidato la sua rivincita alle regionali dello scorso anno, Vincenzo De Luca, ieri invece non c’era, e intervenendo ad Afragola spiegava il senso di un’altra cosa, che col Pd c’entra assai poco: «Campania libera», il «movimento di volontariato politico e civile» pronto ad accogliere persone anche di altri schieramenti, in una chiave di rafforzamento tutta personale del governatore, anzitutto nel consiglio regionale e poi chissà, nelle urne.

Ora, che cosa indicano questi movimenti pendolari, queste oscillazioni sempre più ampie un po’ dentro un po’ fuori i confini del partito, se non una debolezza profonda, e una scarsa attrattività del Pd anzitutto sulle personalità che pure appartengono da decenni alla sua storia, come De Luca e Bassolino?

Naturalmente, in questi moti alternati hanno un peso sostanziale i risultati elettorali non proprio incoraggianti conseguiti dai democratici, a Napoli e nel referendum. La vittoria di De Magistris ha permesso a Bassolino di tornare nel partito mostrando una nuova magnanimità, di fronte a un gruppo dirigente indebolito di cui non ha avuto bisogno di chiedere la testa; la sconfitta del referendum costituzionale, in cui il presidente della Campania si era parecchio esposto, costringe invece De Luca a costruirsi altri spazi fuori del partito, dove i suoi avversari hanno subito rialzato la testa.

In fondo è sempre stato così: le vittorie hanno molti padri, le sconfitte nessuno. Se il sì avesse vinto, lo scorso 4 dicembre, questa volta di padri ne avremmo avuto, in realtà, uno solo, Matteo Renzi. Ma così non è andata, e la condizione di orfanezza – lo spiegava l’altra sera Paolo Sorrentino in tv – «predispone ad abbracciare tutti i vizi». Certo, Renzi è ancora il segretario del Pd, ma siccome ha esercitato la sua presa da Palazzo Chigi, trascurando palesemente le stanze del Nazareno (forse non credendo fino in fondo neppure lui allo strumento del partito), ora che è meno presente, o forse meno temuto, i vizi del partito democratico rischiano di ripresentarsi tutti. Come se la rottamazione fosse già finita; o come se, in Campania, non fosse mai arrivata.

C’era evidentemente molta semplificazione nell’idea originaria, che bastasse disfarsi del vecchio per far nascere il nuovo. Ma che vi sia un problema di rinnovamento della classe dirigente rimane drammaticamente vero, come Renzi ha ampiamente riconosciuto. Oggi il Pd appare, nelle realtà locali, quasi un corpo estraneo alla società: non riesce a appassionare le migliori intelligenze, non riesce a servirsi di nuove competenze, non riesce a coinvolgere figure autorevoli e specchiate, non riesce a raggiungere le giovani generazioni. Questo limite mette in pericolo l’idea stessa della rappresentanza: non a caso i grillini vorrebbero farne semplicemente a meno. Perché la rappresentanza comporta l’affidamento delle proprie ragioni e della propria volontà a qualcuno in grado di interpretarle al meglio.

Ma questo “meglio” è oggi molto difficile trovarlo nelle cerchie di partito, e a volte è anche peggio: sembra che non lo si voglia cercare neppure. Forse il lanciafiamme promesso da Renzi all’indomani dei ballottaggi dello scorso anno non era lo strumento migliore per fare spazio, ma pure bisognerà che qualcuno, dalle parti del Pd campano, getti un fascio di luce nuova.

(Il Mattino, 17 gennaio 2017)

De Luca junior e il partito formato famiglia

Immagine2.jpgLe analisi del voto si fanno sui numeri, ma a volte contano anche le storie. Come quella di Salerno. I numeri parlano chiaro. A Salerno, Enzo Napoli è stato eletto sindaco con la percentuale record per questa tornata elettorale del 70,5% dei voti. Il secondo arrivato ha preso il 9,6%: un abisso. Nella sua giunta entra Roberto De Luca, figlio del governatore campano, con deleghe pesanti al bilancio e allo sviluppo. La nuova consiliatura si apre dunque nel segno della più assoluta continuità con un’esperienza politica che dura dal 1993, da quando cioè Vincenzo De Luca subentrò al dimissionario sindaco socialista, Vincenzo Giordano. In quello stesso anno, De Luca affrontò il voto e venne eletto per la prima volta, con quasi il 58% dei voti, alla testa dei «Progressisti per Salerno». Nel 1993 il Pd non esisteva: esisteva il Pds, Partito democratico della sinistra, che sarebbe poi diventato Ds, Democratici di sinistra, e infine – insieme con la Margherita – Pd, partito democratico. In tutto questo tempo, i «Progressisti per Salerno» hanno mantenuto la guida della città, ripresentandosi ad ogni elezione. De Luca è stato sindaco finché ha potuto, finché cioè il limite dei due mandati non lo ha costretto a lasciare. Ora è alla Regione, ma la giunta cittadina è, in tutto e per tutto, una sua diretta emanazione. Un caso analogo, in una città di medie dimensioni, in giro per l’Italia non c’è. Un caso analogo: cioè il caso di una città che tributa un consenso reale, vero, largamente maggioritario (una volta si diceva bulgaro), ad una stessa formazione politica ininterrottamente per un quarto di secolo. In uno strano gioco di eredità, non c’è solo il testimone che passa di padre in figlio, con il neo-eletto sindaco Napoli nei panni del Mazzarino di turno, che assume la reggenza in attesa che si perfezioni la successione; c’è anche un’eredità che si trasmette graziosamente al Pd, il quale riceve in dote i clamorosi successi politici di De Luca pur senza mai affrontare il voto col proprio simbolo.

Napoli: tutt’altra storia. Anche lì cominciata nel ’93, con l’elezione di Antonio Bassolino (che di De Luca è praticamente coetaneo), e proseguita poi per un secondo mandato. A Napoli il passaggio in Regione arriva prima, nel 2000, e nei dieci anni successivi il centrosinistra tiene sia il Comune (con la Iervolino) che la Regione (con Bassolino). Poi, con la drammatica crisi dei rifiuti, perde tutto: prima la Regione, dove sale il centrodestra di Caldoro, quindi la città, dove viene eletto De Magistris, dopo il clamoroso autogol delle primarie annullate. Ma da allora sono trascorsi cinque anni, e il Pd non ha dato segnali di inversione di rotta. Ha cambiato segretari regionali e provinciali, è passato per esperienze di commissariamento, ha ottenuto sottosegretariati al governo, ma nulla è servito. In realtà, il 2011 non era stato solo l’anno di una sconfitta politica, ma anche il punto in cui di fatto si rompeva un rapporto politico e sentimentale con la città. Cinque anni non sono valsi a ricucirlo. Il Pd ha continuato a dividersi, lacerato da polemiche intestine, dominato da piccoli capi locali, quasi disperso come comunità politica. Quel che è peggio, continua a non apparire degno di fiducia a settori larghi della popolazione cittadina, che non avrebbero motivo per seguire le rodomondate di De Magistris, e che però non trovano sufficienti doti reputazionali (eufemismo) nella classe dirigente che il partito democratico esprime. D’altronde lo si è visto: Valeria Valente ha portato per tutta la campagna elettorale la croce di una diffidenza profonda e di un malcontento che venivano dallo stesso partito democratico. Al di là dei suoi meriti o demeriti personali, è un fatto che non c’era nessuno che avrebbe potuto federare i diversi pezzi del Pd e offrire l’immagine di un partito unito e di una causa comune. Lo stesso Bassolino era sceso in campo non già come l’uomo che avrebbe potuto mettere d’accordo tutti, ma come quello che avrebbe potuto vincere da solo, o quasi, sospendendo i giochi correntizi, sempre meno redditizi, che paralizzano il partito democratico

Due storie opposte, dunque: a Napoli, un quadro a dir poco frammentato, una dirigenza di fatto priva di autorevolezza, e la mancanza di parole che entrino nel discorso pubblico e aggreghino società civile, intellettualità diffusa, mondo produttivo. Che facciano cioè quel che la politica deve fare. A Salerno, invece, un monolite costruito intorno alla figura carismatica di Vincenzo De Luca, in una forma di affidamento personale, capace di trasmettersi anche oltre i limiti naturali di un ciclo politico, edi ridurre le dinamiche di partito a un ruolo subordinato e quasi ornamentale. A Salerno tutta la città segue De Luca, a Napoli quasi nessuno si fida del Pd, ma in tutte e due i casi, per troppo successo o per un completo insuccesso, i democratici non si capisce cosa ci stiano a fare. E poiché purtroppo poche altre storie offre il Mezzogiorno, usi o no il lanciafiamme, Renzi un pensiero serio alle condizioni in cui si trova il partito di cui è il segretario lo deve dedicare.

(Il Mattino, 10 giugno 2016)

Se la vigilia ricompatta la politica

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Che il 5 giugno, con il voto amministrativo nelle principali città italiane, non sia in gioco il governo Renzi, è sicuramente vero: se non altro perché in molti casi, se non in tutti, la partita si giocherà al secondo turno, due settimane dopo. Sia a Napoli, che a Roma, che a Milano – ma forse anche in altre città come Torino o Bologna – ci sarà infatti bisogno del ballottaggio. E al ballottaggio, ha detto ieri Renzi parlando a Napoli, si gioca un’altra partita, si parte dallo zero a zero. Ed è vero, per diverse ragioni. È vero perché a metà giugno cambia la percentuale dei votanti, che cala fisiologicamente e costringe i candidati rimasti in lizza a moltiplicare gli sforzi per spingere i propri elettori a tornare alle urne una seconda volta. È vero perché si riposiziona il voto dei perdenti, usciti di scena al primo turno. È vero perché emergono con maggiore nettezza le differenze fra i due candidati rimasti in gara e gli schieramenti che li sostengono. È vero perché cambiano le stesse motivazioni del voto, e la logica da «second best», la logica del male minore, può cambiare le scelte degli elettori (e le percentuali del primo turno). È vero soprattutto quando la competizione è stata drogata dalla pletora di liste e candidati messi in campo per acchiappare consenso pur che sia. Questa volta è andata proprio così, molto più che in passato. E la polverizzazione del consenso, che viene raccolto dalle lunghe code di candidati infilati nelle liste più diverse, comporta un forte rischio di dispersione, quando le liste scompaiono di scena e s’alza forte il vento del ballottaggio: la polvere rischia di volare via, o di non depositarsi dove si è raccolta al primo turno.

Ma è il meccanismo stesso del doppio turno che rende possibile la rimonta. Il secondo voto non ha infatti il significato di un voto confermativo. E di casi in cui chi era dietro e dato per sconfitto è riuscito a ribaltare i pronostici e a vincere al secondo turno ce ne sono stati di clamorosi. A Napoli, innanzitutto. Cinque anni fa, De Magistris arriva dietro a Gianni Lettieri di quasi dieci punti: 27,5 contro il 38,5 di Lettieri. Due settimane dopo, Giggino ha scassato tutto: 65 contro 35. Un risultato eclatante, reso possibile anzitutto dal voto in libera uscita del centrosinistra e del Pd: un flusso di voti che solo il ballottaggio poteva innescare. Ma è successo anche altrove: a Roma per esempio, dove nel 2008 Rutelli manca la riconferma nonostante il 45,8 per cento del primo turno e quasi centomila voti in più rispetto a Gianni Alemanno. Al secondo turno, finisce centomila voti dietro: 54 per cento contro 46 per cento.

A Venezia protagonisti di rimonte sono una volta Cacciari, col centrosinistra, e un’altra, dieci anni dopo, Brugnaro, col centrodestra. E tutte e due le volte a farne le spese fu la sinistra-sinistra di Felice Casson, per due volte davanti al primo turno e per due volte trombato al secondo. Tutte e due le volte non gli è bastato di sopravanzare il secondo arrivato di più di dieci punti percentuali. Ovviamente, chi è davanti rimane il favorito. Ma il doppio turno va interpretato così, come una doppia partita, non come la stessa partita giocata due volte.

Questa logica è ancora più evidente quando al voto non arrivano schieramenti tradizionali, dai lineamenti chiaramente profilati, come invece accade a Milano, dove il confronto avviene effettivamente tra un centrosinistra e un centrodestra sostanzialmente uniti. Non a caso, a Milano neanche in passato ci sono stati rovesciamenti come quelli verificatisi a Roma o a Napoli. Dove invece le carte si sono mescolate, dove le forze antisistema hanno raggiunto percentuali ragguardevoli, come a Roma o a Napoli, lì è molto più complicato leggere un turno in continuità con l’altro.

Nelle ultime ore, del resto, qualcosa forse è cambiato. L’epopea di De Magistris a Napoli, o il fascino della Raggi a Roma si fondano anche sui disastri delle forze politiche tradizionali,  in particolare del centrosinistra: sui rovesci delle passate primarie a Napoli; sulla fine ingloriosa della giunta Marino a Roma. Ma sia a Roma che a Napoli, benché Renzi abbia cercato di non accollarsi in prima persona il risultato del 5 giugno, e soprattutto i suoi effetti politici, un tentativo di ricomposizione del quadro politico è stato avviato. Ieri Bassolino era alla Mostra d’Oltremare, a fare il suo dovere di «padre fondatore del Pd». A Roma, Giachetti ha avuto il sostegno di quasi tutto il Pd, da Orfini a Veltroni a Zingaretti, e i distinguo residuali di D’Alema si sono persi nelle polemiche della minoranza democrat, sempre più sbiadita e meno convinta.  Difficile capire se questo profilo più compatto del  partito democratico avrà un seguito anche nelle urne. Però contribuisce a rendere più chiara la posta in gioco. E gioverebbe anche al centrodestra, come giova a Milano, con Parisi, presentarsi coeso intorno a un candidato capace – come si dice – di fare la sintesi. Quando questo accade, al secondo turno rimane ancora la possibilità di decidere se continuare a scassare, ma almeno dall’altra parte c’è qualcosa di più delle macerie della volta scorsa.

(Il Mattino, 4 giugno 2016)

Perché a Napoli serve una svolta

43196014-strada-con-la-freccia-su-sfondo-isolato-con-ombraMi candido: così Bassolino annunciò la sua corsa, l’autunno scorso. Ci fossero state o no le primarie, ci fosse stato o no il Pd, Bassolino si sarebbe candidato. Lo disse chiaro e tondo: «appartengo a Napoli, non al Pd». Poi però le primarie ci sono state e il Pd è riemerso da anni di appannamento, per usare un eufemismo. Ha messo in campo due candidati, uno dei quali – Valeria Valente – le primarie le ha vinte. Così ora pare che Bassolino voglia puntare a Palazzo San Giacomo indipendentemente non dalle primarie, ma dal suo esito: non è la stessa cosa.

Ricordare come sono andate le cose non è inutile. E mi riferisco alla politica, non alle vicende della giornata elettorale, allo strascico di polemiche, alla teoria dei ricorsi, alle accuse di brogli. Non intendo sottovalutare gli episodi che si sono verificati davanti ai seggi. Intendo valutarli per quel che sono: risibili. Chiunque volesse sostenere che il video di Fanpage attesta un’alterazione del risultato che ne falsifica l’esito sfiderebbe sia la matematica che la logica. La matematica è inutile discuterla. Quanto alla logica, domando: come si ritiene che il consigliere Borriello – uno dei protagonisti del video – abbia portato voti alla Valente? Se convincendo e persuadendo, nulla quaestio. Se invece in virtù di un rapporto distorto, clientelare, addirittura monetario (un euro per un voto: ma davvero?), quel rapporto è evidente che non lo ha costruito domenica 6 marzo, ma sta in piedi oggi come ieri. Ieri però Borriello firmava la candidatura di Bassolino (e lo sosteneva e lo ha sostenuto in tutti i mesi e anni precedenti). L’ultimo dunque che può censurarne il comportamento è proprio l’ex sindaco, che Borriello conosce da sempre, di cui ha accolto con favore l’appoggio, e del cui «tradimento» si è poi rammaricato: di cosa si rammaricava, allora? La matematica sta a protezione dell’esito del voto, che ha coinvolto trentamila napoletani, non dieci o dodici votanti. La logica a protezione del buon senso, che vuol se mai vederci chiaro non nei comportamenti eticamente censurabili di Borriello, ma nella partita politica delle primarie e, poi, del voto amministrativo.

Le cose sono dunque andate così: che prima, quando Bassolino scese in campo, il Pd napoletano non c’era. Adesso c’è. Si può ben dire che c’è, ma ammaccato, malconcio, confuso, inadeguato. Si può anche aggiungere che c’è, ma è del tutto insufficiente per la sfida del governo della città. Se lo si dice, però, si vota centrodestra. Oppure De Magistris (per votare addirittura i Cinquestelle ce ne vuole): non si vota Pd, o centrosinistra. Non si fa la lista per far perdere nell’ordine: la Valente, il centrosinistra napoletano, Matteo Renzi. Ci si può girare attorno quanto si vuole, ma questo è il punto al quale sono le cose.

Ma, si dice, le cose sono andate così proprio perché si è inventata una candidatura – quella di Valeria Valente – al solo scopo di sbarrare il passo ad Antonio Bassolino. Un po’ più di lungimiranza avrebbe dovuto spingere il Pd napoletano a riconoscere il seguito che Bassolino ha ancora in città, invece di costruire la santa alleanza contro di lui. Mi domando perché. Perché il Pd avrebbe dovuto certificare la propria non esistenza in vita accettando di sostenere chi ha voluto candidarsi indipendentemente dal Pd – azzerando anzi tutto quello che c’è stato dopo di lui, nella più personale delle sfide –,salvo poi confluire nella partita delle primarie, probabilmente perché convinto di avere un consenso più ampio di quello poi ottenuto (e che più ampio sarebbe stato, se Borriello non avesse tradito: ma Borriello, appunto).

La candidatura di Valeria Valente è invece il primo atto politico compiuto dal Pd da cinque anni a questa parte. Il Pd ha prima deciso di non rassegnarsi alle supplenze della società civile: non era affatto scontato, viste le prove di un recente passato. Poi, ha voluto dare alla scelta compiuta la legittimazione piena delle primarie. La Valente sarebbe infatti potuto passare anche con il solo voto della Direzione del partito: in quel caso, però, Bassolino avrebbe forse detto che il Pd si chiudeva a riccio e fatto la sua lista. Ma così no, così ha accettato di stare al gioco, di scendere sullo stesso terreno: non può adesso trasformarlo nel campo di Agramante delle sue proprie rivalse personali.

Ma anche se ci poniamo in una diversa prospettiva, e guardiamo piuttosto alla sfida con De Magistris, non è privo di significato che ci arrivi la Valente, piuttosto che Bassolino. A chi la pensa diversamente non è evidentemente capitato – come è capitato a me ieri – di aprire il libro di Marc Fumaroli, «Parigi-New York e ritorno. Viaggio nelle arti e nelle immagini». Volumone dottissimo, coltissimo, eruditissimo, di uno dei mostri sacri della critica d’arte contemporanea, a leggere il quale però si inciampa, nelle prime pagine, in una «immensa discarica fetida» nel caldo dell’estate napoletana. Giudizio sbrigativo di un vecchio francese reazionario? Sicuramente. Ma se un Accademico di Francia ne è rimasto così impressionato da parlarne in mezzo a Parigi e a New York, come pensare che nella campagna elettorale di primavera gli avversari politici risparmino a Bassolino e al Pd la lettura di simili pagine? Certo, su quella esperienza amministrativa si possono dare i più diversi giudizi, ma non si può negare che quella stagione i napoletani l’abbiano chiusa, e chiusa nel modo più netto, per il centrosinistra: votando Cesaro, Caldoro, poi De Magistris. Una sequenza che ammette poche repliche. E obbliga – almeno in sede politica: in sede storica i giudizi saranno certo più articolati – a percorrere strade nuove e a costruire nuove proposte. Per una volta che il Pd l’ha fatto, si vuole tornare un’altra volta indietro, C’è infine un contesto politico nazionale e regionale favorevole: perché l’elettore di centrosinistra dovrebbe allora complicarsi ancora la vita, inseguendo le rivincite di Bassolino? E come può lui stesso non pensare che il suo dovere, se davvero vuol creare un’alternativa a De Magistris, è sostenere fino in fondo la vincitrice delle primarie?

(Il Mattino, 13 marzo 2016)

La brutta Rai al tempo di Saviano

Acquisizione a schermo intero 26022016 134009.bmpSe una trasmissione della Rai vuole costruire un racconto sulla città di Napoli cosa fa? Prende gli ultimi morti ammazzati, filma un po’ di luoghi degradati, e poi chiama il massimo interprete mondiale  della inestirpabilemala pianta della camorra, Roberto Saviano, lasciandogli il microfono per una dozzina di minuti. Di meno no, di più magari sì. Così ha fatto Ballarò, l’altra sera. L’unica variazione rispetto a una sceneggiatura che non aveva nessun carattere di originalità stava nei comprimari che Massimo Giannini ha chiamato in studio, a parlare di Napoli: Antonio Bassolino e Valeria Ciarambino. Il primo impegnato in una sfida con se stesso, ancor prima che nelle primarie del centrosinistra; la seconda, invece, impegnata in un ruolo, quello di leader dell’opposizione grillina in Regione, di cui probabilmente ancora non si capacita. Come che sia, fossero o no adeguati a sostenere il confronto, resta il fatto che la Rai ha deciso che a parlare dei morti ammazzati, della guerra di camorra, della irredimibile disperazione della città fosse da New York Roberto Saviano, in veste di testimone e dunque senza l’onere di sostenere un contraddittorio (a proposito: si può contraddire Saviano?). Fatta la qual cosa, il conduttore di Ballarò ha lasciato a Bassolino e Ciarambino, in palese imbarazzo, un paio di minuti. Briciole.

Ora, nella natura di un talk show di approfondimento giornalistico, quale la trasmissione di punta di Rai 3 si picca di essere, dovrebbe essere lasciata al dibattito in studio la possibilità di fare emergere punti di vista diversi, magari contrapposti, comunque argomentati. Nella trasmissione di martedì scorso, Bassolino e Ciarambino hanno avuto – formalmente, almeno – la possibilità di interloquire, ma la distanza auratica dalla quale parlava Saviano, e il tempo spropositatamente lungo messo a sua disposizione, rispetto all’esiguo minutaggio riservato agli ospiti in studio, hanno ridotto quasi a macchietta, a caricatura, i loro interventi. Saviano parlava, anzi recitava, in piedi, assistito da un montaggio sapiente. Bassolino e Ciarambino stavano invece seduti, schiacciati sulle loro poltroncine, come scolaretti sottoposti al severo giudizio censorio, in un paio di punti perfino irridente, dell’autore di Gomorra.

Bene. Io chiedo  che mi venga risparmiata non l’accusa di lesa maestà nei confronti di Saviano – perché quella c’è tutta, lo riconosco, e in realtà riguarda meno, molto meno lui che i costruttori del pulpito dal quale lo fanno parlare ogni volta – ma la batteria di argomenti che di solito si usano in questi casi: a Napoli la camorra c’è veramente, non è mica una costruzione narrativa. Oppure: le responsabilità storiche e politiche della classe dirigente napoletana ci sono tutte, come si fa a negarle? O ancora: non bisogna lavare i panni sporchi in famiglia, e minimizzare, e nascondere la polvere sotto il tappeto, e insieme alla polvere pure i cadaveri che cadono per strada.

Tutto vero, tutto giusto, anzi sacrosanto. Ma la questione è un’altra. E cioè: che genere di trasmissione è Ballarò? Chiediamocelo, prima di schierarci a difesa di questo o di quello. Che nella rappresentazione di Napoli offerta martedì scorso doveva esserci qualcosa che non andava; che questa riduzione di una grande città di un milione di abitanti all’unico denominatore comune della sua cronaca nera fosse un filino parziale lo ha pensato onestamente persino Vittorio Feltri, di cui non si ricordano natali partenopei. È stato lui a introdurre l’unico elemento di dubbio sulla narrazione fin lì offerta, quando ha ricordato che altre città e altri paesi hanno tassi di criminalità più alti di Napoli. Ovviamente il punto non è quello, è se mai se gli unici tassi disponibili sulla città debbano riguardare la realtà criminale.

Il punto è, anzi, un altro ancora. Nel suo intervento fiume, Saviano è passato, sempre senza contraddittorio, dai mondi disperati del malaffare all’imputazione a carico della classe politica – imputazione che, detta da lui, equivale ipso facto a una condanna – per chiudere infine sul dovere morale di parlare, criticare, denunciare. Ha dunque enunciato il seguente paradosso: prima, con Berlusconi al potere, di camorra e corruzione si poteva parlare, il centrosinistra poteva parlare, ed anzi erano quelli gli strumenti per attaccarlo (più le signorine, bisognerebbe ricordare). Ora che tocca al centrosinistra e a Renzi, bisogna invece dire che va tutto ben e di camorra non si può parlare. Lo dice proprio lui, che è probabilmente l’unico, insieme forse a Benigni, a poter essere ospite di una trasmissione Rai e parlare dodici minuti di fila senza interruzione. Ad ogni modo, si è forse avuto il principio di una imprevista, doppia confessione. Lui non se ne è accorto, ma le sue parole si possono benissimo intendere così: che, prima, si trattava per molti di un uso strumentale di questi temi, e che ora, per gli stessi, non può non trattarsi di una difesa di posizioni acquisite. In tutto questo, viene infine da domandarsi, il servizio pubblico cosa c’entra?

(Il Mattino, 26 febbraio 2016)

Se la politica si nasconde tra le regole

ouverture-la-regle-du-jeuLa decisione del partito democratico, di tenere le primarie per la scelta del candidato sindaco, è una decisione saggia, oltre che obbligata e lievemente tardiva. Questa volta no, ma prima o poi i dirigenti del Pd si accorgeranno che non può funzionare un sistema che dilapida risorse politiche di credibilità e fiducia non in competizioni elettorali, ma nella decisione intorno al se, al come, e al quando di siffatte competizioni. Rispetto alla precedente esperienza delle primarie per le elezioni regionali, quando la decisione fu a lungo rinviata, il Pd campano questa volta ha fatto meglio, ed è riuscito a dare con buon anticipo la data delle primarie: il 7 febbraio. Scelta saggia, si diceva, e d’altra parte obbligata, per il paradosso che ogni volta si rinnova, che prima ancora di avere certezze sullo svolgimento delle primarie vi sono già candidati in campo che le chiedono a gran voce. Contendibile, infatti, non è solo la carica, ma pure il metodo. Quando però i candidati sono autorevoli, e hanno concrete chance di vittoria, non tenere oppure tenere le primarie diviene una decisione ad hominem, presa pro o contro quel tal candidato. Che, nel caso di Napoli, risponde al nome di Antonio Bassolino. Il quale non fa più mistero di avere intenzione di scendere nuovamente in campo.

Presa una decisione, ne incombe però subito un’altra. Le primarie sì, d’accordo: ma come? Il vertice del partito ha preso tempo, per ragionarci su: confrontarsi, discutere, come si dice in questi casi. Le considerazioni del capoverso precedente possono perciò essere prontamente richiamate qui, un’altra volta: un conto è infatti discutere sulle modalità a bocce ferme, quando un velo di ignoranza copre ancora il nome dei candidati, un altro è farlo quando i nomi circolano già, gli schieramenti vanno profilandosi, e qualunque decisione venga presa vale non tanto per il merito, quanto per il modo in cui taglia la strada, oppure agevola, la corsa del candidato (o dei candidati) già in lizza. Cioè daccapo di Antonio Bassolino.

Lui infatti vuole primarie aperte, e le vuole perché le primarie sono un fatto di democrazia, perché il partito democratico ha bisogno di immettere energie nuove, perché anche Renzi, a suo tempo, fece una battaglia per favorire la partecipazione la più larga possibile – per tutti questi motivi Bassolino vuole primarie aperte, ma soprattutto perché ha più ostilità dentro il partito, fra i maggiorenti locali, che fuori. Sia o no in contraddizione con la sua storia politica passata, Bassolino oggi si presenta come un candidato esterno al Pd, che scende in campo in virtù della sua storia personale, piuttosto che in forza di un rapporto organico con i gruppi dirigenti del Pd. E dunque: più le primarie pescano fuori dal circuito degli iscritti, dell’elettorato mobilitato dai capi corrente, meglio è per lui.

Se allora ci si volge dalle parti del Pd, non meraviglierà che lì, da quelle parti, le primarie le preferirebbero invece chiuse, o almeno socchiuse: riservate agli iscritti, oppure vincolate a una qualche forma di registrazione precedente, o almeno a una sorta di dichiarazione di intenti. Perché però chiuderle o socchiuderle? Per impedire l’afflusso al seggio di elettori di altri partiti o schieramenti, per scoraggiare brogli e rendere il processo più trasparente, per riservare agli iscritti qualche diritto in più rispetto ai semplici simpatizzanti e così salvaguardare l’organizzazione di partito – per tutti questi motivi e perché in questo modo si rende la vita più difficile a Bassolino.

Poi naturalmente ci sono le sfumature: un conto è potersi pre-iscrivere fino al giorno precedente il voto, un altro è chiudere questa fase preliminare settimane prima; un conto è organizzare le iscrizioni in una sede di partito,  un altro è farlo in un luogo meno connotato; un conto è chiedere un contributo volontario, un altro è prevedere un contributo obbligatorio, e magari fissarlo pure alto. Tutte queste diverse opzioni incidono sulla partecipazione, invogliano oppure respingono, e dunque parlano – almeno sulla carta – a favore dell’uno piuttosto che dell’altro.

La cosa, tuttavia, rimane sorprendente, e appassionerà gli scienziati della politica a lungo: sarà che le primarie sono per taluni il mito fondativo del Pd, e come i miti antichi ha mille possibili varianti,  fatto sta che un pezzo della lotta politica nel Pd continua ad essere assorbito da questioni procedurali (che, come si è detto, tanto procedurali non sono), il che ovviamente toglie forza e, alla lunga, credibilità. Soprattutto, non dà al Pd una voce verso la città, che non può certo appassionarsi ai requisiti di partecipazione più vincolanti o meno vincolanti, e lo costringe ogni volta, non si sa per quanto tempo ancora, a consumarsi in una macerazione tutta intestina.

(Il Mattino, 21 novembre – edizione napoletana

 

 

Perché il Pd non deve oltrepassare il punto di non ritorno

mazzo-controllo-deck-buildingSe un candidato unitario non lo si trova, ha detto ieri De Luca, «primarie senza angosce, e parola al popolo». E però il Pd dall’angoscia si sente già quasi afferrato. Anche solo per la ragione illustrata ieri dal governatore. Il voto di Napoli è infatti il voto «più carico di valore politico-simbolico in Italia». Si può discutere se sia davvero così, in generale, ma certo questa volta un eventuale bis di De Magistris, o addirittura una vittoria grillina nella prima città del Mezzogiorno, la terza città italiana, sarebbe un vero terremoto. Meglio dunque che centrodestra e centrosinistra si attrezzino. E meglio che il Pd lo faccia senza angosce, certo. Ha la guida della Regione, ha una responsabilità di sistema, di fatto sostiene in questo momento, a livello centrale e locale, l’asse principale della vita politica e istituzionale del Paese e prova a legittimarsi anzitutto come argine ai populismi di destra e di sinistra: ha dunque il dovere di presentare una proposta politica credibile, autorevole, chiara.

Dov’è, allora, questa proposta? Per De Luca, una proposta del genere ha da essere quella di un candidato unitario, in grado di unire anche una coalizione più larga intorno al suo nome, in grado pure di parlare alla città; in grado, infine, di governare. Fin qui, tutto ok. Ma se tutte queste condizioni non saranno soddisfatte, ha aggiunto, si andrà allora alle primarie – le famose primarie «senza angosce» –, e lui allora userà, ha promesso, parole di verità «dure» e «ineludibili». Ora, se questo non è un altolà quasi minaccioso a Bassolino non si capisce cos’altro sia. E però è difficile che non sia contemporaneamente anche l’inizio di un cammino parecchio angoscioso, e di un nuovo faticosissimo calvario per i democratici campani. Che sperimenteranno un’altra volta la contraddizione capitale, quella che li costringe ogni volta a attorcigliarsi fino all’autolesionismo intorno alla competizione elettorale. Più che una contraddizione, una vera e propria maledizione: l’uomo che raccoglie più consensi, il candidato più popolare, è anche quello guardato con i maggiori sospetti, da parte almeno di un pezzo del Pd che ne vorrebbe impedire, o frenare, il cammino. È stato così nelle primarie regionali di quest’anno, quando è toccato proprio a De Luca, dato per favorito, urtarsi contro chi gli voleva impedire la corsa, per via delle vicende giudiziarie che lo riguardavano. E poco è mancato che lo sgambetto non riuscisse. Ma in fondo fu così anche nelle comunali del 2011, quando il favorito era Cozzolino, che vinse le primarie salvo poi vedersele annullate per brogli. Com’è finita lo si sa. Quanto invece alle prossime comunali, con Bassolino ai nastri di partenza da una parte e le parole «dure e ineludibili» di De Luca dall’altra, il rischio che il Pd si infili in qualcosa di più di una cavalleresca competizione elettorale c’è tutto. E per una ragione molto semplice: perché i duellanti sono di gran lunga più forti del partito che dovrebbe organizzare il duello, allestire l’arena e preparare la competizione. È così da un numero ormai imprecisato di anni: da quando Bassolino faceva il sindaco a Napoli e De Luca a Salerno: una vicenda che dura da qualche lustro. Ma adesso accade di nuovo: quanto più si approssima il momento della scelta, quanto più si serrano i ranghi e si avvicina la conta, tanto più il partito democratico si assottiglia, si fa quasi da parte, rimpicciolisce fin quasi a scomparire. Si parla male dei contenitori, cioè dei partiti politici, perché si vogliono i contenuti, o almeno così si dice. Poi però si vede che quando i contenitori non ci sono, oppure non ce la fanno a contenere alcunché, i cozzi e gli urti che si producono fra le personalità più ingombranti – che siano leader o cacicchi, capobastone o capi carismatici – mettono a repentaglio tutto il resto. Le primarie, quando non siano meramente confermative, favoriscono questo processo: dove esiste un partito strutturato, esiste anche la possibilità di riassorbire le tensioni del voto. Le primarie diventano cioè un fattore di mobilitazione e, potenzialmente almeno, un valore aggiunto per il vincitore chiamato poi alla sfida elettorale. Dove tutto questo fatica ad esistere, il rischio della guerra per bande, di pura interdizione dell’una parte contro l’altra, cresce a dismisura.

Così il Pd ha dinanzi una doppia, anzi tripla sfida. L’ultima e la più lontana è quella delle elezioni municipali, in primavera; penultima quella delle primarie, quando saranno; ma la prima, e la più vicina in ordine di tempo è quella cominciata già in queste settimane, e in cui i democratici devono riuscire a non oltrepassare il punto, superato il quale la contesa interna finisce col lasciare solo macerie sul terreno, e rovinare irrimediabilmente le partite successive. È già successo, può succedere ancora.

(Il Mattino – ed. Napoli, 6 ottobre 2015)

Assoluzione di Fitto, il dovere di riflettere

Acquisizione a schermo intero 01102015 192458.bmpForse qualche riflessione occorre, dopo che la Corte d’Appello ha mandato assolto «perché il fatto non sussiste» Raffaele Fitto, ex governatore della Regione Puglia, poi europarlamentare e, da ultimo, leader della formazione dei Conservatori e Riformisti, staccatisi da Forza Italia.  L’assoluzione arriva a distanza di ben nove anni dall’ordinanza di custodia cautelare che avrebbe portato Fitto in carcere, se la Camera non avesse respinto la richiesta della Procura. Fitto era stato accusato di corruzione, ed era stato condannato in primo grado, nel 2013, a quattro anni di reclusione e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per una presunta tangente di 500.000 euro versata dall’imprenditore della sanità Gianpaolo Angelucci. Sotto prescrizione cadono invece gli altri reati contestati, l’associazione a delinquere, l’abuso d’ufficio e l’illecito finanziamento ai partiti. Di fronte a una sentenza simile, che ribalta l’esito del processo di primo grado, il procuratore della Repubblica di Bari, Giuseppe Volpe, ha diramato una nota per dire che la decisione presa dalla Corte di Appello ha «confermato la fondatezza dell’ipotesi accusatoria». Confermato. La fondatezza.

Ora, è evidente che, in generale, non basta un’assoluzione per giudicare manifestamente infondata l’ipotesi sulla base della quale la pubblica accusa ha proceduto, ma ancor meno si può ritenere il contrario, che cioè basti la prescrizione a darla invece per confermata. Un bel tacer ogni dotto parlare vince, avrebbe detto il poeta Metastasio, ma forse la circostanza induce molto poco a fare della poesia.

L’accusa investiva infatti Raffaele Fitto e il governo della Puglia (lasciato un anno prima, nel 2005) per una vicenda non piccola, che toccava uno dei capitoli centrali delle politiche regionali, la sanità. Non diversamente, del resto, è andata in Campania ad Antonio Bassolino. Anche nel suo caso al centro delle inchieste c’era un pezzo fondamentale del governo regionale, la gestione del ciclo dei rifiuti. E anche nel suo caso, a sette anni dall’emergenza, i fatti hanno preso a non sussistere più. Ora che di Bassolino si torna a parlare come di un possibile candidato alla poltrona di primo cittadino, viene da chiedersi quante scorie di quelle vicenda rimarranno comunque nel dibattito pubblico in conseguenza non di un apprezzamento politico, ma di un’iniziativa giudiziaria. Tutti sanno d’altronde che, purtroppo, l’assoluzione che arriva dopo l’accusa non ripristina affatto, agli occhi dei più,  lo status quo ante. Le parole del procuratore Volpe sono una conferma lampante di ciò.

E dunque qualche riflessione occorre. Sanità e rifiuti sono le voci più importanti su cui si dà prova di buon governo o di cattivo governo di una regione. Ma non è la stessa cosa se i cittadini arrivano a pronunciare il loro giudizio, nell’urna, mentre pendono inchieste, accuse e condanne, che poi si risolvono in un nulla di fatto, oppure quando nulla di questa nera nuvolaglia ingombra l’orizzonte. È chiaro, infatti, che il corso politico degli eventi risente dei procedimenti giudiziari, e quando, a distanza di anni – di molti, troppi anni –  si deve prendere atto che l’ipotesi accusatoria può forse continuare ad apparire fondata agli occhi di qualche magistrato, ma è in realtà franata in secondo grado, è inevitabile domandarsi se non vi sia da rifletterci su. Perché in gioco non è solo il destino individuale delle persone, che pure non è certo un particolare trascurabile; in gioco sono aspetti cardinali di una democrazia liberale: l’equilibrio fra i poteri e il rispetto delle forme della rappresentanza democratica.

La ragione per cui questi interrogativi vengono sollevati in queste occasioni, quando il problema dei tempi del processo riguarda il sistema della giustizia nel suo complesso sta tutta qui: la casta non c’entra per nulla. E non basta neppure osservare che fa parte della normale dinamica processuale che una sentenza d’appello capovolga il giudizio di primo grado. Se così non fosse, si potrebbe infatti concludere perfino che è inutile prevedere un secondo grado di merito. Ma non basta, perché il nodo dei tempi di svolgimento del processo resta, e resta pure una cultura, che si fa fatica a contrastare, per cui è sufficiente un’accusa per anticipare di fatto una condanna, salvo poi ricredersi quando le risultanze processuali danno esiti diversi, a così tanta distanza dai fatti che nessuno se ne ricorda più. O magari non ricredersi nemmeno, ma ribadire che l’accusa stava in piedi comunque, assoluzione o non assoluzione.

Che dire? Qualche riflessione occorre davvero.

(Il Mattino, 1 ottobre 2015)

La dialettica triste del Pd

Immagine2Il rinvio dell’assemblea provinciale del Pd è stato ben camuffato dalla segreteria provinciale del partito: ci vuole prima una fase di ascolto. Di coinvolgimento, di partecipazione. Certo, come no. In realtà, qualunque cosa verrà ascoltata nel corso delle  «quattro giornate per Napoli» messe in cantiere, è già chiaro che cosa il Pd non vuol sentire: il nome di Antonio Bassolino, che da ben più di quattro giorni rimbomba in città. Con involontaria autoironia, il segretario del Pd Carpentieri ne lascia intravedere la presenza anche quando vorrebbe scacciarne persino l’ombra. Lui ha parlato di una «fase di ascolto», Bassolino, nell’intervista rilasciata a questo giornale, aveva detto: «per ora ascolto la città». Tutti ascoltano dunque, o forse origliano, cercando di capire le mosse dell’uno o dell’altro. E in questa asfissiante surplace il Pd napoletano mostra di essere sempre allo stesso punto, cioè in mezzo al guado: non essendo in grado di dire no, ma non essendo in grado neppure di dire sì. Di più: non essendo in grado di affrontare anche solo la discussione sul nome di Bassolino, per paura che finisca col sovrastare ogni altro nome, proposta, progetto. L’unica cosa che il Pd riesce a fare, in questo frangente, è prender tempo, e avviare l’ennesima caccia all’escamotage. Per ora si rinvia; poi si vedrà. Lo si è fatto con le regionali, lo si fa di nuovo adesso. E come allora il Pd non ha trainato, ma si è lasciato trainare, così rischia di andare anche questa volta, a rimorchio, nel più pilatesco dei modi.

Forse il segretario Carpentieri si augura un intervento risolutivo di Renzi, o della dirigenza nazionale. Spera che qualcuno da Roma convinca Bassolino a non candidarsi, un po’ come avrebbero dovuto convincere De Luca. Ma come nessuno è riuscito a togliere dalla testa di De Luca di correre per la Regione, e alla fine ha avuto ragione lui, vincendo le elezioni, così anche questa volta sarà difficile che qualcuno riesca a distogliere Bassolino dai suoi propositi, il giorno che decidesse davvero di puntare nuovamente su Palazzo San Giacomo.

L’unico, forse, che può riuscirci è proprio De Luca, il quale di sicuro preferirebbe non avere Bassolino come proprio dirimpettaio. Per ora però De Luca rimane al coperto (ascolta pure lui?), e lascia magari che altri facciano intendere come lui la pensa. Così ad esempio ieri Umberto De Gregorio, vicinissimo al governatore, ha condotto un lungo esercizio di dissuasione: Bassolino rappresenta il vecchio, la sua immagine è ancora compromessa con la crisi dei rifiuti, non è vincente e si rischia di fare un regalo a De Magistris, e infine non funziona col turno di ballottaggio previsto dalle elezioni comunali.

Son tutti argomenti da pesare. Il guaio è che però non c’è la bilancia per farlo. Non solo infatti il Pd rinvia ogni decisione, ma mantiene un dubbio amletico circa lo strumento per prendere una qualunque decisione. Lo strumento c’è, è previsto dallo statuto, come ricordava ieri l’onorevole Valente: sono le famose primarie Ciononostante De Gregorio può dire di essere non contro le primarie, ma contro le primarie in cui uno come Bassolino scenda in campo.

Curioso: si provava a dire la stessa cosa, per fermare la corsa di De Luca, e ora invece sono i deluchiani a tentare la stessa operazione, per cui il metodo di selezione della candidatura viene approvato o rifiutato a seconda del candidato che rischia di selezionare.

Insomma: ancora una volta non solo non si sa come finirà, ma non si sa nemmeno quando finirà. Va così, continua ad andare così, dalle parti del partito democratico napoletano.

(Il Mattino – ed. Napoli, 24 settembre 2015)

La carta che manca ai democrat

102296644-73096575.1910x1000Se non è un’impasse, poco ci manca. Il Pd non ha un candidato sindaco per Napoli, e non sa quando l’avrà. Ma in politica il tempo non è una variabile indipendente. E più tempo passa, più si restringono le possibilità che il Pd riesca a pescare la carta vincente. Anche perché i democratici non hanno a disposizione un mazzo intero di carte, ma tre carte soltanto.

La prima carta è un nome della società civile: un nome autorevole, prestigioso, e fuori della mischia. In verità, questa mitologia della società civile che offrirebbe alla politica le risorse di leadership che la politica non è in grado di accumulare da sé è ultimamente un po’ in ribasso, dalle parti, almeno, del Pd. Che ha oggi la guida, a livello nazionale, di un governo tutto politico, e per la prima volta da molto tempo di un governo che, piaccia o non piaccia, non trova motivi di consenso o di dissenso nel fatto che sia formato da ministri politici invece che dai cosiddetti tecnici.

Le cose, tuttavia, stanno un po’ diversamente a Napoli. Dove si mantiene un generale senso di discredito nei confronti della classe politica, al quale ha attinto e ancora abbondantemente attinge il sindaco De Magistris. Qui l’idea – se ci si pensa: alquanto balzana – che ad assumere un ruolo politico debba essere chiamato uno che con la politica non c’entra nulla consente ancora di tener per buono lo schema del candidato della società civile. Che il più delle volte finisce in realtà con l’essere, molto più ragionevolmente, solo una figura il cui curriculum non è stato usurato da troppe esperienze consiliari, o parlamentari. Ma tant’è.

L’altra carta a disposizione del Pd è la carta che i democratici non sono finora mai riusciti a calare: la carta di un nome di partito, intorno al quale fare quadrato e da sostenere in maniera unitaria. Il partito democratico napoletano non ha, allo stato, un leader riconosciuto. L’ultimo è stato Bassolino e si sa in che modo sia stato scaricato. Dopo di lui, hanno prevalso le divisioni e le lacerazioni interne, fino all’autolesionismo: fino cioè al disastro delle primarie annullate del 2011, che tutti ricordano. Pochi ricordano invece che quando Bassolino vinse le elezioni municipali era ancora soltanto un dirigente di partito. Dietro di lui si raccolsero però tutti gli altri, e soprattutto si raccolse la città, a cui le forze di sinistra seppero offrire, in quel frangente difficilissimo, una chance politica di rinnovamento. Quella era la carta: organizzazione di partito, programma, e leader. Ma, a dir bene le cose, la capacità di leadership si dimostrò sul campo. E cioè venne dopo, e venne anche grazie al fatto che un partito intero (o quasi) ci aveva creduto, e provato.

Vi sono però le condizioni per riprodurre lo stesso schema oggi, e giocare la carta di un uomo di partito, oggi? Il partito ha organizzazione, programma, capacità di fare squadra? Se sì, allora poco importa che manchi ancora il nome di grande formato: importa invece, o importerebbe, la voglia di fare una scommessa politica. Una scommessa vera, perché si tratta per il Pd di recuperare l’emorragia di voti del 2011, in uno scenario che vede in campo non solo De Magistris, ma anche i grillini, che quattro anni fa non c’erano ancora. Per riuscirvi, bisognerebbe che il Pd ritrovasse la capacità di parlare alla città, e che fosse in grado di contendere con il centrodestra sul terreno della credibile proposta di governo, a confronto della quale l’esperienza di questi anni si potesse dimostrare in tutta la sua confusione e velleitarietà. Ma la domanda rimane: riesce il Pd a costruire una roba del genere? Più tempo passa, e più si assottiglia questa possibilità.

La terza carta, infine. La terza carta è persino ovvia: è Antonio Bassolino. Naturalmente, anche questa carta presenta qualche controindicazione: come fa il Pd a candidare Bassolino, senza ammettere che non si è ancora riavuto, da quando Bassolino è uscito di scena? Di fatto però questa è una controindicazione seria solo per il Pd, non certo per Bassolino stesso. Il quale per ora «ascolta la città», come ha detto ieri nell’intervista a questo giornale. E quel che ascolta, per ora, non sembra affatto scoraggiarlo. Perché è un fatto che pezzi importanti della società napoletana – tanto fra gli strati popolari, quanto nel mondo produttivo e delle professioni – guardano a un ritorno di Bassolino come all’unico che possa stare in campo, a sinistra, con qualche possibilità di successo. Si dice: la discesa in campo di Bassolino trasformerebbe però la campagna elettorale in una sorta di «giudizio di Dio» sul bassolinismo. Questa però tutto è meno che un’obiezione. Perché anzi vorrebbe dire che Bassolino è l’unico ancora in grado di spostare i temi della discussione pubblica, e magari anche i punti dell’agenda cittadina.

Poi ci sono altre variabili, da quelle personali (Bassolino ne avrà davvero la voglia, e la forza?) a quelle politiche generali (Renzi che fa, se ne lava le mani?). Ma le carte quelle sono: il Pd ricomincia da tre, ma ancora per poco. Più passa il tempo, infatti, e più i democratici rischiano di non ritrovarsi nulla in mano.

(Il Mattino – ed. Napoli, 19 settembre 2015)

Il salvagente dei naufraghi

Turner - Scene

E se il Pd candidasse Antonio Bassolino al Comune di Napoli? La damnatio memoriae alla quale è stato prematuramente condannato l’ultimo leader politico che ha avuto la sinistra in Campania e nel Mezzogiorno è ormai finita da tempo. Eppure sarebbe un non piccolo paradosso se, dopo aver portato De Luca alla regione, il Pd si affidasse davvero a Bassolino per Palazzo San Giacomo.

Non è però solo questione di lancette di orologi che tornano indietro, o di nostalgia canaglia. È che il Pd non è più riuscito a conquistare, dopo la debacle del 2011, quella centralità politica e programmatica che gli consentirebbe, pur in mancanza di forti e riconosciute leadership, di proporre credibilmente un suo dirigente politico come interprete di una nuova stagione.

Così annaspa. E a poco meno di un anno dalle elezioni comunali – quando si voterà anche a Salerno, Benevento e Caserta, e in molte altre importanti città italiane, sicché il voto prenderà facilmente il significato di un test politico nazionale – a poco meno di un anno ha ancora poche idee ma confuse.

Da una parte, c’è chi chiede di non abbandonare il metodo delle primarie. Certo, non sono più un elemento costitutivo dell’identità del partito democratico, Renzi stesso ha fatto capire che è disposto a riconsiderarne l’applicazione, in certi contesti territoriali non rappresentano affatto garanzia di qualità, ma sta il fatto che proprio a causa della debolezza degli organismi di partito le primarie consentono di «esternalizzare», per dir così la scelta, e cioè di non portarne fino in fondo la responsabilità. È un’interpretazione pilatesca del ricorso alle primarie, ma è quella che rischia di prevalere, per superare vecchie e nuove impasse.

Un’altra possibilità è pescare il jolly: trovare un volto nuovo su cui investire, nella speranza che riveli insospettate doti di leadership e trovi cammin facendo quella autorevolezza che notabili e maggiorenti di partito non saranno certo disposti a riconoscergli, ex ante. Neanche questa è una strada priva di rischi, ovviamente: già nel 2011 il Pd provò a togliersi dai guai affidandosi a un’espressione della società civile, il prefetto Morcone, coi risultati che sappiamo: non solo perse le elezioni, ma non riuscì a conservare intorno a quella esperienza neppure una base da cui ripartire.

E allora: se non è l’una, e non è neppure l’altra, cos’è? Se le primarie rischiano di produrre nuovamente lo spettacolo di un partito diviso tra vecchie cordate, e lo scouting di una figura nuova appare una scommessa troppo aleatoria, che cosa resta: Antonio Bassolino?

Ovviamente vi diranno: non bisogna partire dai nomi, ma dal progetto. Senza voler essere troppo cinici e ribadire che invece no, senza un volto che aggreghi è ben difficile costruire qualunque proposta politica, rimane il fatto che proprio il progetto non c’è, o almeno non c’è ancora.

Eppure lo spazio ci sarebbe. Non solo per la quantità di problemi insoluti che la città ha dinanzi, e su cui dunque qualcuno dovrebbe pur provare a costruire una risposta, ma perché, a voler uscire da ambiguità e timidezze, c’è una grande parte della società napoletana che proprio non se la sente di farsi altri cinque anni a sostenere la parte del popolo greco. È quello che il sindaco De Magistris ha scritto invece sul suo profilo facebook: Renzi sta facendo la Troika, Napoli sarà la sua Grecia. Forse al sindaco è sfuggito come è finita la trattativa in sede europea, o forse non gli importa davvero: gli importa piuttosto di giocare anche lui la sua parte, non certo per risolvere i problemi della città ma per incarnare una certa figura retorica nella consueta chiave retorica del povero contro il ricco, del debole contro il forte, dello straccione contro il signore. Sarebbe meglio se Napoli si scegliesse invece un sindaco all’altezza delle ambizioni di una città capitale, piuttosto che di un paese periferico. Ma è naturale: finché il Pd e il centrosinistra non prendono una strada, non lanciano un’idea, non provano a ricostruire un tessuto di alleanze con le forze vive della società, non innescano nuove dinamiche di partecipazione e di selezione della classe dirigente, e  insomma non fanno nulla o quasi, De Magistris può spararsi le sue pose, e confidare sul fatto che il tempo passa, le elezioni si avvicinano, e candidature alternative non emergono. Salvo, forse, Bassolino.
(Il Mattino, 21 luglio 2015 – ed. napoletana)