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La trita retorica antimeridionale

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Cade oggi l’annuncio della data del referendum per l’autonomia della Regione Lombardia e della Regione Veneto da parte dei due presidenti leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia. Il referendum è solo consultivo, e salta a piè pari quanto stabilito dalla Costituzione vigente, che all’articolo 116 prevede la possibilità che «forme e condizioni particolari di autonomia» siano attribuite alle regioni «con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali». Vi è dunque una via costituzionale all’autonomia regionale, che Maroni e Zaia scelgono però apertamente di ignorare, preferendo indire un referendum consultivo privo di valore giuridico e senza effetti immediati. Evidentemente, l’obiettivo non è quello di intavolare una discussione seria, bensì quello di mettere fieno in cascina della Lega, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Da qualche anno, con la segreteria di Matteo Salvini – subentrato a Umberto Bossi dopo la sconfitta del centrodestra nelle elezioni del 2013 – i toni regionalisti della Lega si sono un poco attenuati: non perché Salvini fosse un campione dell’unità nazionale e avesse un debole per il Mezzogiorno d’Italia, ma semplicemente perché, dopo qualche legislatura trascorsa al governo, la predicazione contro Roma ladrona aveva inevitabilmente perso mordente, e credibilità. Messa dunque la sordina al federalismo e anzi al separatismo delle origini, la retorica populista che fornisce il principale impasto ideologico del leghismo ha dovuto dirigersi altrove, preferendo indirizzarsi contro Bruxelles e verso l’euro, contro l’Islam e contro i migranti. Sono stati questi i nuovi bersagli polemici mirando ai quali la Lega di Salvini ha potuto rifarsi la verginità: l’Unione europea è divenuto il nuovo mostro centralista che minaccia l’autonomia dei popoli, ed il musulmano che sbarca sulle coste della Penisola è divenuto, al posto del meridionale imbroglione, il nuovo nemico che attenta alla sicurezza e alla prosperità delle valli padane. Il vessillo della sovranità nazionale è stato di conseguenza issato contro la globalizzazione, contro le élites tecnocratiche che governano l’Unione, contro i flussi migratori che rubano il lavoro agli italiani.

Gratta gratta però, la preoccupazione è sempre la stessa, e sotto elezioni torna a farsi sentire: come far pagare meno tasse alle regioni più ricche d’Italia, come rifiutare qualunque forma di perequazione a vantaggio delle meno sviluppate regioni del Mezzogiorno, come soddisfare gli egoismi localisti dell’elettorato tradizionale della Lega, come sottrarsi a ogni logica di solidarietà nazionale. Dietro la proposta di Maroni e Zaia c’è insomma il solito refrain: gli altri sono parassiti. Parassiti sono le burocrazie sovranazionali, parassita è lo Stato centrale, parassiti sono i partiti, parassiti le amministrazioni pubbliche, parassita e improduttivo è, ovviamente, il Sud. Che l’iniziativa sia poco più che simbolica non cambia la sostanza: del resto, dall’ampolla piena dell’acqua del Po alle camicie verdi, la storia della Lega è piena di simboli più o meno posticci, con i quali cementare una discutibilissima identità etnica, e inventare un fantomatico popolo del Nord. Né è mancato un referendum dopo il quale il partito di Bossi proclamò formalmente, già dieci anni fa, l’indipendenza della Padania, mai riconosciuta – come puntigliosamente recita Wikipedia – da alcuno Stato sovrano.

Il fatto è che però i simboli non sono mai inerti, politicamente parlando. E anche in questo caso, sotto le fitte nebbie della demagogia, si nasconde lo zampino della politica. Maroni e Zaia vogliono spostare l’attenzione da quello che è stato fatto (o non è stato fatto) a quello che ora promettono di fare. Avrebbero potuto chiedere fin dal giorno del loro insediamento di discutere di autonomia regionale, ai sensi dell’art. 116: ma sarebbe stato un percorso faticoso, lungo, irto di ostacoli, in cui soprattutto il gioco del dare e dell’avere non è detto che avrebbe loro giovato. È molto più comodo, invece, limitarsi ad agitare il panno, e appellarsi al popolo con una consultazione diretta (che una volta di più si rivela uno strumento di manipolazione della democrazia), la quale certifichi simbolicamente quanto siano pronti a mollare la zavorra inutile del resto del Paese. La vecchia idea che il tessuto produttivo del Nord si difende se si sottrae il contribuente padano alle ingiustizie fiscali di Roma e alle politiche assistenzialiste sbilanciate a favore del Sud si innesta però sopra un dato politico reale: la prevalenza nell’opinione pubblica di sentimenti di chiusura e di diffidenza, di paure e incertezze che rendono la risposta populista terribilmente efficace nell’orientare gli umori dell’elettorato. Ed è su questo terreno che la Lega torna a competere, in una deriva che, di qui alle elezioni politiche, rischia di tradursi in una pericolosa escalation.

(Il Mattino, 21 aprile 2017)

La tentazione di abolire i Parlamenti

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La critica – radicale, definitiva, inappellabile – che Michelle Houellebecq rivolge, sul Corriere della Sera, all’indirizzo della democrazia rappresentativa richiede, per essere discussa seriamente, un passo indietro. Di quasi tremila anni.

Houellebecq parla alla vigilia delle elezioni presidenziali in Francia – alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, istitutivi del primo nucleo di comunità europea – e non si limita a prendere le distanze dall’offerta politica del suo Paese («mi asterrò con particolare entusiasmo»), ma, nel formularla, vi mette il carico da novanta, esprimendo un rifiuto completo e senza sfumature delle istituzioni parlamentari come tali, dell’idea che democrazia possa ancora voler dire rappresentanza – oggi, in un tempo in cui la tecnologia sembra rendere possibile l’utopia della democrazia diretta. Questo è il suo primo argomento. Il secondo è invece che non è vero, se mai lo è stato, che il popolo è ignorante, e che dunque non può prendere direttamente decisioni politiche che richiedono particolari competenze. Il terzo infine è che solo il popolo è legittimato a decidere, e nessun’altra istanza è più democratica di quella che al popolo rimette le decisioni su ogni e ciascuna materia su cui occorra deliberare.

Nessuno di questi tre argomenti contiene – bisogna pur dirlo, con tutto il rispetto per il più famoso scrittore francese vivente – una critica particolarmente originale della democrazia moderna. Che non ricorre affatto all’escamotage della rappresentanza solo perché non si riesce a sentir tutti su ogni argomento. Che non si dota di organismi parlamentari solo per togliere la parola al popolo, di cui non si fida. E che infine non costruisce percorsi di legittimazione costituzionale solamente per limitare in chiave oligarchica l’esercizio del potere politico. Per tutto questo, si potrebbe rinviare Houellebecq a qualche buon manuale di diritto costituzionale, per regolare le questioni su ciascuno di questi punti, e intanto domandargli chi diavolo sceglierà – quale Staff, quale Garante, quale Blog – gli argomenti da sottoporre a referendum popolare, e chi governerà nel frattempo, tra un referendum popolare e l’altro.

Così replicando, si mancherebbe l’essenziale. Da quando i moderni hanno costruito la libertà politica grazie all’invenzione dei parlamenti, eletti con voto libero, universale e segreto, al fianco degli istituti democratici è subito spuntata, infatti, la critica dei fautori della democrazia diretta: niente di nuovo sotto il sole. Prima di essere una piattaforma dei grillini, Rousseau era effettivamente un filosofo di questa fatta.

Ma l’essenziale – cioè il vento populista che gonfia le vele di Houellebecq – non lo si coglie senza tornare indietro, di tremila anni. A Omero, al secondo canto di quel primo, immenso monumento della cultura europea e occidentale, che è l’Iliade. Sono i versi in cui, dinanzi ai capi achei riuniti, prende la parola Tersite, l’unico soldato semplice a cui Omero presti una voce distinta in tutto il poema. Dunque: parla Tersite, ed è un atto d’accusa spietato, condito di ingiurie e improperi, contro i capi achei che hanno portato i loro uomini sotto le mura di Troia per una guerra di cui solo loro, i capi, si ingrasseranno spartendosi il bottino. Parla Tersite, e inveisce contro il duce supremo, Agamennone, mosso solo da sete di oro e di giovani donne da conquistare. Parla Tersite – il gaglioffo Tersite, brutto e deforme, calvo e con la gobba – e non ha tutti i torti, perché quando mai c’è stata una guerra al mondo, a cui non si sia stati spinti per brama di potere, di gloria o di ricchezza? Non ha tutti i torti Tersiet, ma uno, fondamentale, lo ha: non sa che sta parlando non solo contro Agamennone e gli altri capi achei, ma anche contro l’Iliade e l’epica stessa. Non lo può sapere, perché lui sta proprio dentro l’Iliade, è dentro la narrazione delle guerra troiana, essendo di quella epopea soltanto un personaggio. Lo sa però Omero, che dopo avergli lasciato libero sfogo per qualche verso lo fa percuotere e zittire dal glorioso Ulisse. E ci consegna l’unica difesa possibile del senso umano della storia dal tersitismo, il primo nome che ha preso il populismo nella storia occidentale.

Se la ragione è di Tersite, e di Tersite soltanto, non ci sarà infatti più nessuna guerra di Troia, ma anche nessun valore, nessuna causa, nessun canto, nessun senso delle vicende umane diverso dal riso, dallo sberleffo e dallo scherno. Non ci saranno eroi nel tempo degli eroi, ma nemmeno poeti nel tempo della poesia, e uomini di Stato nel tempo degli Stati. Tersite non racconta; deride. Ha ragione, ma non ha tutta la ragione; vede il basso e se ne compiace persino, con la sua sguaiataggine, ma così non riconosce nessuna possibile altezza per la figura umana.

Houellebecq dirà allora: cosa però c’è di più democratico di Tersite? Dobbiamo stare con gli uomini del popolo o con la casta dei tronfi capi achei? Ma questa domanda è frutto di un equivoco, frutto dell’idea che democratico sia solo lo scurrile e il plebeo, e dunque solo il movimento che abbassa e degrada, e non anche il movimento che sale verso l’alto, che forma e trasforma anche il vile ed anche il plebeo. Democrazia è questa seconda cosa qua: è la costruzione di un popolo sovrano, non la distruzione di ogni possibile sovranità.

Nella sua lunga conversazione, Houellebecq dice ancora un’altra cosa importante, sull’assenza di una cultura europea: ci sono solo culture locali, e poi una «cultura globale anglosassone.» C’è del vero, in questa affermazione, che meriterebbe un lungo discorso. Ma intanto: quella di Agamennone, Tersite e Ulisse non è una storia che appartenga a una cultura locale, e nemmeno alla cultura globale anglosassone. Se Europa fosse anche solo il luogo in cui queste storie si continuano a leggere, studiare e raccontare non sarebbe piccola cosa. Come non lo sarebbe costruire un quadro istituzionale europee che, certo, non risolvesse i suoi problemi picchiando con lo scettro i Tersite che provano a prendere la parola, ma neppure lasciando che lo scettro cada dalla mano di Ulisse e da ogni mano. Perché, quando cade, qualcuno che lo raccoglie nuovamente c’è, e di solito non è un Tersite, ma qualcuno che lo stringe molto più forte di prima.

(Il Mattino, 25 marzo 2017)

 

Quell’Italia che torna alla prima Repubblica

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Due referendum sul jobs act: uno per cancellare lo strumento dei voucher, l’altro per tornare a far valere l’art. 18 per le imprese con più di cinque dipendenti. E poi un terzo referendum sulla materia degli appalti pubblici, e i diritti dei lavoratori delle imprese subappaltatrici. La raccolta, partita per iniziativa della Cgil, è arrivata alla bella cifra di 3,3 milioni di firme. Ora, con la decisione dell’Ufficio centrale, ha il bollino della Cassazione. Firme certificate, quorum raggiunto, richiesta di referendum valida. Se la Corte Costituzionale dovesse considerare i quesiti ammissibili, gli italiani potrebbero tornare al voto già nella prossima primavera, sempre che non ci tornino per la fine anticipata della legislatura. Ma, in un caso o nell’altro, quel popolo di navigatori (santi, eroi) che è il popolo italiano potrà, come Ulisse, vedere finalmente la costa del ritorno in patria. Cioè nei più confortevoli paesaggi della prima Repubblica: con la legge elettorale proporzionale, lo Statuto dei lavoratori, la partitocrazia, Pippo Baudo appena riapparso in TV e tutto quanto il resto.

Come dargli torto? La prima Repubblica ha portato l’Italia dalle macerie della seconda guerra mondiale fin nell’esclusivo club del G7, cioè delle sette maggiori potenze economiche del mondo, mentre la seconda non ha smesso di perderne, di posizioni. È vero, la prima Repubblica cambiava governi più frequentemente del cambio di stagione, mentre la seconda ha provato ad allungarne un po’ le opere e i giorni. Ma nella prima, se è vero che i governi si davano il cambio, i parlamentari però rimanevano dov’erano; nella seconda, il prezzo della stabilità è stato invece pagato ogni volta con la più ampia transumanza parlamentare che la storia ricordi, roba dinanzi alla quale cedono il passo anche gli inventori e primi interpreti del trasformismo, al tempo del fu Regno d’Italia.

Perciò: meglio tornare. La seconda Repubblica apparirà come una rischiosa avventura in terre incognite, per le quali in un momento di sbandamento l’Italia si è inopinatamente spinta: crolla il muro di Berlino, finisce la guerra fredda, franano i partiti, scompare la DC e il PCI cambia nome, ci sta che si perda la bussola per qualche lustro. Del resto, tutto quel gran parlare di fine delle ideologie e di postmodernità, in un Paese che non aveva ancora ben digerito neppure la modernità, non può non aver contribuito a creare un artificiale clima di confusione. All’inizio forse di euforia, ma alla fine sicuramente di smarrimento.

Perciò: meglio tornare. Meglio vedere Heather Parisi e Lorella Cuccarini di nuovo in televisione. Meglio seguire le piste dei Pooh, che vanno in concerto un’ultima volta. Meglio metter su un disco in vinile, che vende di più e la musica si ascolta pure meglio. Meglio Rischiatutto e Bim Bum Bam, con i cartoni animati degli anni Ottanta: Lady Oscar, Mimì e la nazionale di pallavolo, i Puffi e Candy Candy. Se poi anche la moda ci dà una mano, tornando ancora più indietro, agli anni Settanta, con le prossime collezioni a colpi di camicie floreali e jeans ricamati, allora è fatta, allora forse potremo guardarci attorno e pensare che siamo di nuovo a casa. Altro che Telemaco che va per mare alla ricerca del padre: Pinocchio è tornato, Gian Burrasca è tornato. Che se poi in tasca avessimo pure la vecchia lira, e non l’odiato euro, allora veramente potremmo riavere indietro anche il resto, chissà: forse persino un baby-boom in stile anni Sessanta, invece di ritrovarci tra i piedi tutti questi sgradevolissimi immigrati.

Si dice che il dentifricio non lo puoi rimettere nel tubetto una volta uscito. Ma è la seconda Repubblica che ha tentato l’impresa impossibile di rimettercelo: noi rivogliamo direttamente il tubetto. E naturalmente rivogliamo Pippo Baudo. E Berlusconi che torna a far televisione, e da quest’altra parte rivogliamo Enrico Berlinguer.

Ora, non è che l’iniziativa della CGIL non sia una cosa seria. Lo è, e pone anzi a tema non solo il jobs act, ma l’intero complesso della legislazione sul lavoro come è venuta cambiando negli ultimi venti anni, dal pacchetto Treu a venir giù, fino agli ultimi interventi del governo Renzi. Altrettanto serio è il nodo della legge elettorale, per risolvere il quale ci si sta sempre più orientando in direzione di uno schema di carattere proporzionale che pare rinverdire i fasti della prima Repubblica.

Ma per ogni storia c’è forse una storia parallela, proprio come per ogni libro c’è un libro parallelo. Giorgio Manganelli rivelò il trauma intellettuale che l’epilogo di Pinocchio procura al lettore, con quel burattino che alla fine diventa buono e ubbidiente come tutti gli altri. E si inventò un’altra storia. Ecco: non vorremmo che questa idea di ritrovare la strada di casa riservi anche a noi, prima o poi, un qualche indesiderato impatto traumatico, e che l’Italia finisca da tutt’altra parte.

(Il Mattino, 11 dicembre 2016)

L’eccezione di Matteo cancellata

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Tanto tuonò che piovve. Bisognerà, al solito, aspettare i dati definitivi, ma la pioggia è arrivata. E forse continuerà, come nel piccolo, prezioso capolavoro di Nicola Pugliese, Malacqua, la pioggia continuerà fin quando non si sarà «reso palese l’accadimento». Perché ancor prima della sconfitta di Renzi c’è nelle urne di ieri (se i risultati confermeranno le previsioni) un vincitore indiscutibile: i Cinquestelle, insomma Beppe Grillo e i suoi. Difficile pensare che siano altri a potersi intestare la vittoria. E l’accadimento è quello preconizzato fin dall’inizio: la liquidazione di un’intera classe politica inetta e corrotta, su cui il Movimento ha costruito le sue fortune elettorali. E che continua, come la pioggia di Malacqua: che scende e ridiscende interminabilmente.

Il referendum costituzionale aveva infatti un oggetto di merito – la fine del bicameralismo paritario, la ridefinizione dei rapporti tra Stato e Regioni, e insomma un certo numero di articoli sui procedimenti legislativi, il CNEL, gli istituti della democrazia diretta, le Province e qualcos’altro ancora – ma l’eccezionale percentuali di affluenza, ben al di sopra di quelle delle ultime consultazioni referendarie, dimostra che al voto si è andati ben dentro uno schema politico, il cui significato è ancora una volta lo stesso (ripetiamolo: con i dati di cui attualmente disponiamo): il ceto dirigente, la «casta» va spazzata via. Va buttata giù. L’eccezione che Matteo Renzi aveva rappresentato, con il voto alle Europee del 2014, stando così le cose sarebbe cancellata.

Non è facile prevedere come se ne verrà fuori, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Ma resta un punto di fondo, al quale la seconda Repubblica rimane evidentemente inchiodata: il rapporto di fiducia tra le classi dirigenti e il resto del Paese non si è ancora riannodato. La crisi economica e sociale è sempre più – anche in altri Paesi, non solo in Italia – una crisi democratica, che si esprime in una reazione di rigetto nei confronti dell’establishment, o di ciò che viene così descritto. Mondi come quello del lavoro dipendente, della piccola impresa, della scuola, appaiono sempre più lontani dalla rappresentanza politica e sindacale, sia dal punto di vista dell’espressione di voto che, più in profondità, dell’affidamento simbolico e culturale a ciò che la mediazione politica dovrebbe significare, nella ricerca di un interesse generale intorno al quale costruire una prospettiva di crescita complessiva del Paese.

Quella prospettiva non c’è, non viene afferrata o non viene rappresentata. Gli elementi di socialità che temperavano le leggi di mercato grazie al compromesso del Welfare State, si sono sempre più ridotti. C’è di volta in volta una logica economica, un quadro di compatibilità, un insieme di impegni istituzionali, un sistema di valori, un corredo di politiche o anche semplicemente un principio di realtà che viene respinto. Perché restringe sempre di più lo spazio di chi ne apprezza i benefici, mentre amplia la platea di chi invece se ne sente escluso. I governi – tutti i governi, non solo quello italiano – si presentano come cementati in un unico blocco: saldato in uno con l’assetto finanziario che sorregge l’euro, in uno con l’edificio della globalizzazione, in uno con l’architettura istituzionale nazionale e sovranazionale.

Questo blocco ispira sempre meno fiducia. Soddisfa sempre meno i bisogni delle persone, mentre per altro verso continua ad alimentarne i desideri. Più si allarga questa forbice – fra ciò che sarebbe possibile, e ciò che è invece tristemente reale – più prevale il risentimento nei confronti di quelli che del blocco fanno parte. Dall’altra parte sta Grillo, stanno (di nuovo: non solo in Italia) le formazioni populiste, capaci di innescare meccanismi di identificazione molto più forti, molto più immediati.

A questo dato che una volta si sarebbe detto strutturale, si aggiunge un elemento di carattere sovrastrutturale, che di nuovo premia forze politiche come quella dei Cinquestelle. Nell’età della disintermediazione, la capacità di politica che i partiti sono in grado di sviluppare si è quasi azzerata. Il consenso non si costruisce più dentro i corpi intermedi; il professionismo della politica è respinto; l’idea stessa della rappresentanza è guardata con sospetto, e la sfera pubblica è sempre più segmentata in nicchie personalizzate, che sempre meno sfociano in uno spazio comune, condiviso, universale.

Il referendum, nel suo oggetto, c’entra forse poco con tutto questo. Ma è caduto dentro un’onda più lunga, che si è sollevata molto più in alto di quanto Renzi immaginasse. Sarà stato un errore dare al cambiamento le vesti di un passaggio sulla riforma dell’ordinamento della Repubblica, o sarà che l’acqua continua a cadere incessantemente: in ogni caso è sempre più da credere che sarà Grillo, più di ogni altro, a provare a vestire ora, innanzi agli italiani, i panni del vero mago della pioggia.

(Il Mattino, 5 dicembre 2016)

La democrazia e i giochi pericolosi

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L’idea di Angelino Alfano, di rinviare il referendum costituzionale, non ha fatto molta strada. Il ministro dell’Interno l’aveva avanzata con molta prudenza, sostenendo che c’era soltanto, da parte del governo, una disponibilità a valutare l’ipotesi nel caso in cui le opposizioni avessero avanzato una richiesta in tal senso. Ma le opposizioni hanno comunicato subito, a stretto giro di posta, la loro posizione: non se ne parla nemmeno. E la cosa è finita là.

Come poteva essere altrimenti? Come si poteva immaginare che i Salvini, i Grillo e i Brunetta chiedessero per favore di lasciar perdere, e che dall’altra parte Renzi, quello che ha cominciato tutto con lo slogan “Adesso”, si risolvesse per il rinvio della data? Solo chi non ha seguito i due anni di navigazione del governo Renzi, e chi, prima ancora, non ricorda che questa legislatura è partita, sotto l’egida dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il mandato esplicito di realizzare le riforme, può credere che dopo i numerosi passaggi parlamentari, dopo il voto di Camera e Senato, dopo l’indizione del referendum, dopo l’apertura della campagna elettorale, sia ancora possibile fermare il treno in corsa.

Angelino Alfano lo ha pensato per davvero? Difficile a credersi. Più probabilmente, ha pensato – o ha dato voce a chi pensa – che l’eventualità di una vittoria del No rappresenta un pericolo troppo grande che il Paese non può correre, e che dunque è necessario trovare una via d’uscita. O perlomeno prendere tempo, procrastinare, e usare i margini concessi dal rinvio del voto per una precisa manovra politica. Se infatti per far passare il referendum – questo è il ragionamento che circola in certi ambienti – bisogna scindere il suo esito dagli altri temi che nel corso della campagna si sono ad esso sovrapposti – la legge elettorale, la sorte del governo e della legislatura, il destino del premier – e se a questo fine non basta la correzione di rotta, impressa sul piano della comunicazione nelle ultime settimane, bisogna evidentemente fare di più.

Si è già data disponibilità a cambiare la legge elettorale? In effetti, è un’esigenza formulata a chiare lettere anche dal Presidente Napolitano, che Renzi stesso ha finito con l’accogliere nella Direzione nazionale del suo partito. Ma ecco: siccome non basta ancora, siccome i sondaggi rimangono sul filo e danno anzi il Sì un passo indietro, bisogna mostrare una più grande disponibilità: a superare anche il governo Renzi, se fosse necessario, per avere in cambio il sì alla riforma. Ecco allora che prende corpo l’ipotesi: un rinvio, dettato dall’emergenza terremoto, e qualche mese per costruire un diverso scenario politico in cui non sia più Renzi l’unico dominus della situazione. Un modo per cuocerlo a fuoco lento, o semplicemente per creare le condizioni perché passi la mano. In maniera indolore o traumatica si vedrà, ma intanto si sarà trovata una maniera per decantare, e al limite depoliticizzare il voto sulla riforma.

Non occorre attribuire tutti questi pensieri al ministro Alfano. È sufficiente, per comprenderne l’esternazione, tenere presente che il suo interesse e l’interesse del suo partito è quello di portare a termine questa legislatura, perché la fine anticipata rappresenterebbe la fine anche di Ncd. Un minuto dopo il No, Alfano sarebbe spazzato via. Renzi no: si giocherebbe la sua partita alle politiche, ma Alfano a quale santo potrebbe votarsi? Da una parte avrebbe il trionfo bacchico dei Grillo e dei Salvini a togliergli ogni spazio, e dall’altra avrebbe un partito democratico pronto a chiedere correzioni di rotta a sinistra.

Ma soprattutto Alfano non avrebbe (e non ha) i voti. Lo spazio della politica in cui si muove, in cui continua a muoversi, non è quello della legittimazione popolare, ma è quello dell’accordo di palazzo, tutto interno alle trame politiche che vengono tessute fuori dal confronto franco e aperto con gli elettori. È  a loro, invece, che tocca decidere se affidare alla riforma costituzionale il futuro del Paese, ed è naturale che a porre questa domanda sia il governo nato sostanzialmente a questo scopo.

Del resto, uno dei significati della riforma non è forse il compimento di una transizione costituzionale che esponga con chiarezza governo e Parlamento al giudizio del corpo elettorale? E non è dunque in palese contraddizione con il verso stesso della riforma l’ipotesi ventilata da Angelino Alfano il Temporeggiatore? Mentre si sottolinea che la riforma è indispensabile per dare alla politica più speditezza, si cercano strategie più o meno confessate per troncare e per sopire, come il Padre Provinciale dei Promessi Sposi. Ma quello, si sa, era un personaggio secondario. E forse anche l’esile trama imbastita da Alfano ha dietro di sé protagonisti innominati.

(Il Mattino, 3 novembre 2016)

Emiliano e Dema l’ultima alleanza contro Renzi

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Il gioco dell’oca della sinistra ha dunque avuto inizio un’altra volta. La prima regola per partecipare è ovviamente possedere la pedina da muovere sul tabellone della politica italiana. Che in un gioco competitivo, in cui si vince o si perde, la sinistra si presenti con una sola pedina, questo in verità non è mai accaduto, negli ultimi cento anni. Così, lungi dall’esserci la sola pedina del Pd, c’è, per cominciare, la pedina D’Alema, poi la pedina Bersani, quindi la pedina Cuperlo, infine la pedina Speranza: ciascuna si muove con una propria velocità. A volte un passo avanti, a volte due indietro. A volte fermi per un turno o due. Cuperlo dialoga, D’Alema stoppa; Speranza si sforza di essere possibilista, Bersani rimane piuttosto pessimista. D’Alema stoppa di nuovo. E tutti tornano alla casella di partenza.

Poi ci sono le altre pedine, quelle manovrate da chi sta fuori dal Pd: la pedina Sinistra italiana (a sua volta rappresentata da due sottopedine: da quelli che provengono da Sel e vanno verso il Pd, tipo il sindaco di Cagliari, Zedda, e da quelli che provengono dal Pd e vorrebbero tenersene il più distante possibile, tipo Fassina o D’Attorre), la logora pedina comunista (o post-, o ex-, o ri-: tipo Ferrero, o Bertinotti), la pedina che in ossequio a una vecchia idea potremmo chiamare della sinistra indipendente, formata dagli intellettuali di area, tipo Rodotà o Zagrebelski. Fino a non molto tempo fa, inoltre, sullo stesso tabellone giocavano per alcuni anche i grillini; ma ormai, dopo il connubio della sindaca Raggi con la destra romana, è molto più difficile farne una costola della sinistra. Da ultimo, però, c’è l’importante pedina che potremmo definire civil-rivoluzionaria, in omaggio alla vecchia, naufragata idea del Pm Ingroia (presente al raduno di D’Alema e Quagliariello), ma anche al profilo dei suoi due vistosi portabandiera: Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, e Michele Emiliano, governatore della Puglia. Loro stanno a cavalcioni: uno fuori e l’altro dentro il Pd, ma entrambi passionali e pugnaci, e soprattutto entrambi determinatissimi a mettere la loro esperienza amministrativa a disposizione. Di cosa? Di un nuovo soggetto politico, di una rinnovata partecipazione dal basso, di una nuova e più democratica maniera di fare politica, di una riapertura di dialogo a sinistra, della costruzione di un’alternativa, della ridefinizione, infine, del concetto stesso di sinistra. A disposizione di tutto questo, e del loro personale futuro politico, naturalmente.

Perché il conto è presto fatto: se l’esposizione dei partecipanti al gioco prende metà articolo, qualche problema c’è. C’è un problema portato dal protagonismo di alcuni dei personaggi elencati, ma c’è anche, in realtà, un problema legato a certe idee radicate. Anzitutto la vocazione per l’opposizione, in quanto luogo dove è più facile custodire intatta la propria identità e purezza; in secondo luogo, un modello di democrazia che definire consensualista è fargli un complimento ingiustificato. Bastava ascoltare Zagrebelsky, la sera del confronto con Renzi, dire che vede con un brivido di paura un governo che duri cinque anni (cioè che duri il tempo dettato dalla fisiologia costituzionale attuale, quella che il professore strenuamente difende), per convincersi che non di costruire un consenso ampio intorno alla decisione si tratta, ma di indebolire puramente e semplicemente il momento della decisione. Per lasciarla, evidentemente, in mani più miti e più sapienti: la decisione è infatti la chiave dell’esercizio del potere, ma a Zagrebelski e a certa dottrina non basta che sia un potere democratico, legittimato dal voto; preferisce, piuttosto, che a prendere la decisione siano gli ottimati del sapere (costituzionale, s’intende).

Ora, il gioco dell’oca della sinistra ha un traguardo, il 4 dicembre, fissato dal referendum sulla riforma costituzionale, cioè da Renzi. Ma i partecipanti non corrono, a ben vedere, per far vincere il no in odio a Renzi, ma perché, se vince il no, il tabellone non cambierà, e le pedine potranno rimanere tutte lì: nello stesso, sparso ordine in cui sono abituate a muoversi. Così si giocano, in realtà, due partite. In una, gioca il partito democratico nella sua larga maggioranza. E Renzi, che punta davvero a riporre il vecchio tabellone nella scatola del passato: dal punto di vista dei costumi politici, infatti, ancor prima che dal punto di vista dell’ordinamento della Repubblica e dell’assetto istituzionale, il referendum rappresenta indubbiamente un cambiamento profondo. Un’altra scacchiera. E nuove regole di gioco. Nell’altra, si gioca invece per posizionarsi nello scenario che seguirà all’appuntamento elettorale, qualora dovesse vincere il no.

In quest’altra partita, De Magistris ed Emiliano stanno forse qualche casella più avanti. Riescono infatti a intercettare quell’animus populista, quello spirito anti-casta, quella polemica nei confronti del ceto politico (di cui pure fanno parte, inevitabilmente) che gode oggi di un ampio favore, e che obiettivamente i D’Alema, i Cuperlo o i Bersani faticherebbero a rappresentare. La riforma non li spazzerà via (non spazzerà via nessuno), ma è chiaro che se vincesse il no, i due eroi della sinistra popolare non solo resterebbero in campo ma darebbero ulteriore fiato alla loro ottima e abbondante retorica (e qualche chance in più alle loro legittime ambizioni di recitare su un palcoscenico nazionale).   Che poi una vittoria del no significhi davvero per la sinistra avere qualche opportunità in più e non pescare invece la carta imprevisti, lasciando il tabellone in mano ai Grillo e ai Salvini, questo è più difficile a credersi.

(Il Mattino, 15 ottobre 2016)

L’Italia paradosso: dice sì alla riforma ma è tentata dal no

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Il sondaggio condotto da Ipsos per il Corriere della Sera sul referendum costituzionale del 4 dicembre merita qualche parola di commento. Esso infatti ci dice che il No alla riforma è in questo momento in vantaggio, e che tuttavia la partita è ancora aperta, dal momento che la distanza fra i due schieramenti è molto ridotta (52% per il No contro il 48% per il Sì) ed è ancora molto elevato il numero di coloro che non sembrano orientati a votare, o comunque non danno, allo stato, indicazioni di voto (44%). Ma poi ci dice qualcosa anche sulle motivazioni del voto. Qualcosa di sorprendente. L’istituto dei sondaggi ha provato infatti a verificare le opinioni degli elettori anche sui singoli punti del testo di riforma: se cioè l’elettore sia o no favorevole alla riduzione dei senatori, o a mettere fine al bicameralismo perfetto; se poi condivida la soppressione del CNEL o la modifica della disciplina referendaria o la cancellazione delle province dalla carta costituzionale. Su tutte queste voci, prevale il sì. Naturalmente, si può eccepire che la loro stessa formulazione favorisce una risposta in senso favorevole. E che in questo caso le intenzioni di voto sono poco significative perché pochi sanno. E però colpisce che persino alla domanda sui senatori scelti dai consigli regionali – che com’è noto non godono di particolare credito presso la pubblica opinione, visti i continui scandali raccontati dalla grande stampa  – prevalgono i sì. Infine, la domanda di chiusura taglia la testa al toro: richiesti di dire se siano o no d’accordo con i contenuti della riforma nel loro complesso, gli italiani dicono in maggioranza di sì, di essere molto o abbastanza d’accordo (42%), mentre ad essere poco o per nulla d’accordo è solo il 35%.

Traduciamo: gli italiani approvano i contenuti della riforma, ma esprimono disapprovazione per motivi diversi da quelli di merito, da ciò che la riforma prevede e da come la Costituzione cambia. Vale a dire: dicono di no per motivi puramente politici.

Quel che così emerge è però qualcosa di più radicato e di più profondo di ciò che possiamo constatare anche con i nostri personali sondaggi, chiedendo cioè in giro come siano orientate le persone che conosciamo, che incontriamo al bar o sul luogo di lavoro. Perché è facile verificare che le intenzioni di voto oggi espresse sono molto più legate alla partita politica che si gioca attorno al referendum, che non al cambiamento costituzionale. Si dirà che il premier ha sbagliato a personalizzare il confronto, se non altro perché ha consentito alle opposizioni (diversissime fra loro) di fare fronte comune. Ma al di là dell’errore di comunicazione di Renzi, e della possibilità di correggerlo nel corso dei prossimi due mesi di campagna elettorale, c’è un tratto più fondamentale che in quel sondaggio trova espressione. C’è un’antica faziosità e partigianeria tutta italiana, che gli storici faranno forse risalire ai guelfi e ai ghibellini, ma che sicuramente arriva fino ai nostri giorni. Fino almeno all’antiberlusconismo, che è stato l’ampio cappello sotto il quale a lungo si è accomodata l’opposizione di sinistra al Cavaliere. Ma arriva anche alla bandiera della libertà dal comunismo, che è stata issata dallo stesso Berlusconi ben dopo la caduta del muro di Berlino. E funzionava.

Nell’uno e nell’altro caso, si è trattato evidentemente di vessilli ideologici, di motivazioni di carattere simbolico, in grado di coagulare immediatamente una maggioranza che per le vie faticose del consenso informato – la dico con una metafora medica, visto che il Paese sembra ancora affetto da qualche virus patologico – non era altrettanto facile ottenere.

Vale la pena scomodare la storia, per rimarcare una continuità di costumi politici che attraversa da gran tempo il nostro Paese, ma vale la pena anche rimarcare le discontinuità. È vero infatti che in Italia le due Chiese – quella democristiana e quella comunista  – hanno formato i rispettivi popoli forse più dell’identità nazionale, per cui l’appartenenza a un campo oppure all’altro determinava i comportamenti politici ed elettorali – ma anche, a lungo le alleanze sociali – indipendentemente dalle scelte di merito. Era tutta politica, a danno però delle politiche, cioè delle linee concrete di azione e di scelta. Ma è vero pure che, per un largo tratto, quelle chiese hanno svolto almeno un’azione di carattere pedagogico, formato comunità, fornito una coscienza, elaborato elementi di un lessico politico e culturale che ha portato dentro la vicenda del Paese masse ingenti di uomini e donne. Oggi invece rischiamo di avere, di quel passato ideologico, solo il riflesso condizionato, senza più alcuna sostanza sottostante. Continuiamo a schierarci di qua o di là a prescindere, senza più nessun’altra ragione per difendere la scelta. Non nel merito, ma neppure nella collocazione internazionale, o nella visione del mondo. Che visione del mondo si esprime, infatti, nel far cadere Renzi o nel tenerlo su? Nessuna, eppure la partita rischia davvero di ridursi a questo. Con la stessa semplificazione di un tempo, ma con molta meno ragionevolezza di allora. E con davanti una Costituzione da cambiare o da lasciare così com’è.

Forse il Paese avrebbe bisogno di liberarsi da certe tossine, o forse sarebbe sufficiente che non ne assumesse di nuove. Perché mentre a chiacchiere celebriamo la fine delle ideologie, le uniche forze politiche nuove, che non abbiano radici nella storia repubblicana – cioè la Lega dapprima, i Cinquestelle poi – si presentano come movimenti fortemente ideologizzati, in grado di trangugiare qualunque contraddizione in nome di obiettivi puramente simbolici e significativamente distanti da qualunque realtà (la secessione padana, la democrazia diretta grillina).

Così stando le cose, il compito che ha dinanzi il fronte favorevole alla riforma è veramente un compito storico, perché sarà enormemente complicato portare a coincidenza il sì al merito della riforme con l’espressione di voto finale. Ed è dubbio, a questo punto, che ci si riuscirà solo con il fioretto degli argomenti in punta di penna, o con gli inviti a ragionare con pacatezza sugli articoli del nuovo testo costituzionale.

(Il Mattino, 4 ottobre 2016)

Le due sinistre alla sfida della modernità

acquisizione-a-schermo-intero-29092016-142241-bmpCon la decisione sulla data di svolgimento del referendum sulla riforma costituzionale si chiudono i preliminari di gioco, e comincia la partita vera e propria. Quasi tutti gli attori politici in campo si sono ormai schierati. In un senso o nell’altro, con maggiore o minore determinazione, ma si sono schierati. Rimane da capire la posizione di quel pezzo minoritario della sinistra del partito democratico che traccheggia: ha finora chiesto che le venisse riconosciuto il diritto di dissentire rispetto alle posizioni del partito, ma non ha ancora deciso di esercitare quel diritto, legando al cambiamento dell’Italicum le residue possibilità di seguire Renzi e la maggioranza sulla strada delle riforme.

Quando queste residue possibilità si saranno esaurite – e manca davvero poco, dopo la decisione della Consulta di rinviare a dopo il referendum l’esame di costituzionalità della legge elettorale – sarà definitivamente fotografata la distanza fra la sinistra per il sì e la sinistra per il no. Fra la sinistra di Violante, Finocchiaro, Orlando, Orfini, e quella di D’Alema, Bersani, Cuperlo, Speranza, (che andrà ad aggiungersi ai fuoriusciti dal Pd e agli altri piccoli pezzi della sinistra italiana).

In termini politici, è la distanza fra quelli che vorrebbero far saltare gli attuali equilibri, formatisi nel partito e nel governo attorno a Matteo Renzi, e quelli che invece li sostengono. Ma la riforma apporta cambiamenti così profondi al nostro ordinamento giuridico – fine del bicameralismo paritario e fiducia alla sola Camera, competenze legislative delle regioni e nuovo Senato, abolizione delle province, riforme degli istituti di democrazia diretta – che riesce difficile non farne uno spartiacque, una sorta di displuvio che inclina su due opposti versanti gli uni e gli altri.

Il referendum produce queste contrapposizione, sopratutto quando si carica di significati politici forti:  l’Italia che vota  sì al divorzio o all’aborto è diversa dall’Italia che vota no. È così anche per l’Italia che, per esempio, vota sì per abolire il finanziamento pubblico ai partiti: dopo infatti sono venuti Berlusconi e i Cinquestelle, forme diverse di rifiuto della partitocrazia della prima Repubblica che sul finanziamento pubblico si reggeva. Cambiamenti, che lasciano indietro quelli che faticano a riconoscerli.

Fu così anche nell’immediato dopoguerra, quando si votò per la forma di Stato: monarchia o Repubblica? Bersani ha ricordato che nella Democrazia cristiana c’erano (e ci rimasero) gli uni e gli altri, i monarchici e i repubblicani, ed è vero. Ma è vero pure che dopo il voto l’Italia voltò una pagina della sua storia, e non fu in nome del Re che si fecero la ricostruzione e il miracolo economico.

Fuor di metafora, e di impropri paragoni storici, l’Italia sta affrontando un cambiamento istituzionale profondo, che la sinistra di D’Alema e Bersani affronta come un’involuzione, un regresso, qualcosa che, in «combinato disposto» con la legge elettorale, rappresenterebbe addirittura un pericolo per la democrazia. Innalza insomma la bandiera del conservatorismo costituzionale. Non a caso, si trova al fianco di quella generazione di giuristiche ha costruito una sorta di linea Maginot intorno all’intangibilità della Carta costituzionale.

Nella tradizione comunista, per quasi tre decenni circa, almeno fino al completamento del regionalismo, negli anni Settanta, la parola d’ordine è stata quella dell’attuazione della Costituzione. Dopo d’allora, però, il vessillo del cambiamento istituzionale è passato di mano, e, in corrispondenza del declino dei partiti, si è imposta l’esigenza di un ammodernamento istituzionale. Attardarsi a difendere la seconda parte della Carta del ’48, scritta ancora sotto l’impressione della dittatura fascista – in tutt’altra epoca, in tutt’altro tempo – si è fatto sempre più difficile. La “grande riforma” evocata da Craxi, i progetti delle commissioni parlamentari costituite ad hoc, a partire dagli anni Ottanta, la Bicamerale presieduta da D’Alema, infine le riforme di stampo federalista approvate dal Parlamento dal centrosinistra e dal centrodestra – la prima promossa dagli elettori, nel 2001, la seconda bocciata nel 2006 – sono stati tutti tentativi, falliti, di ridefinire il profilo della Repubblica, di ridare fiato e respiro ad una politica in grande affanno. Ora, c’è sicuramente una buona dose di retorica nell’argomento che usa il partito democratico, quando sostiene che, votando no, si rimane fermi: perché se, votando sì, si producesse lo scasso istituzionale, non sarebbe così irragionevole rimanere al palo. Questa in verità, può ben essere l’obiezione dell’opposizione di centrodestra; più complicato è farla propria a sinistra, per quegli esponenti che, peraltro, in Parlamento la riforma l’hanno votata. Ma per mantenersi coerenti con le parole che stanno spendendo e ancora spenderanno in campagna elettorale – c’è da giurarci: accentuando l’allarme democratico, con l’avvicinarsi del voto – costoro dovranno sempre più allontanarsi dall’idea che le istituzioni di questo Paese debbano essere cambiate. E sempre più disegnare il profilo di una sinistra conservatrice. Come quello con cui d’altronde polemizzava il buon vecchio Marx: socialismo reazionario, socialismo romantico, socialismo feudale.

(Il Mattino, 26 settembre 2016)

Il referendum decisivo per il futuro

272175433-giocare-a-carte-carta-da-gioco-tavolo-da-gioco-pokerE di nuovo ieri il premier Matteo Renzi ha ribadito, parlando in chiusura della festa nazionale del partito democratico, a Catania, la disponibilità a rivedere la legge elettorale. Lo aveva detto anche il giorno prima, ed era sembrato che fossero quelle le parole più importanti del suo intervento a tutto campo. Se le si guarda dal punto di vista della lotta politica – e dal punto di vista più limitato della lotta politica all’interno della maggioranza – lo sono indubbiamente. La minoranza del Pd, con Cuperlo e Speranza, continua a chiedere modifiche dell’Italicum. Lo stesso fanno i centristi, da Alfano a Casini. Quando dunque Renzi si dichiara disponibile a intervenire sulla legge, parla innanzitutto a questi settori. Quando però prova a rilanciare l’iniziativa politica, parla a tutti gli italiani. E allora le parole più importanti divengono altre: «una riforma elettorale si cambia in 3-5 mesi, una riforma costituzionale no». Non sarà un diamante, e non sarà per sempre, ma una riforma costituzionale dell’ampiezza di quella in discussione ha, non può non avere l’ambizione di durare per un bel pezzo. Abbiano o no ragione quelli per i quali l’Italicum non è il vestito giusto per l’attuale sistema politico tripolare – e tra di loro c’è anche il presidente emerito Napolitano, primo sponsor delle riforme – è persino ragionevole mostrare disponibilità sul terreno della legge elettorale, per portare a casa un risultato molto più durevole sul terreno delle riforme.

Un risultato, cerca di dire Renzi, capace di futuro. Tutto il discorso di Catania di ieri aveva questo significato. Dalla parte del sì sta il futuro del paese, dalla parte del no stanno i fallimenti della seconda Repubblica. Sta il passato, sta un’altra stagione della vita politica italiana ormai conclusa. E ovviamente sta Massimo D’Alema – sceso in campo come leader del no alla riforma – che più di tutti la incarna. Renzi prova a rilanciare l’iniziativa politica, a raccontare le riforme del suo governo (le unioni civili, la scuola, il jobsact) e i buoni propositi per l’anno venturo (primo fra tutti la riduzione delle tasse).

Ma soprattutto torna ad essere quello che sta davanti, con gli altri ad inseguire. Complici infatti le difficoltà dei Cinquestelle – ancora incartati con il caso Roma e i dolori della sindaca Raggi –, complici le guerre intestine nel centrodestra – con l’investitura di Parisi, voluta dal Cavaliere ma osteggiata dalla dirigenza del partito –, il presidente del Consiglio torna a dare le carte. A mettersi al centro degli equilibri e delle prospettive di governo del Paese. Tutto però dipende dalla capacità di apparire non come quello che vuol sfangarla, sopravvivendo alle forche caudine del referendum, ma come quello che cambia l’Italia. Il viatico è dunque la legge elettorale («sia che la Corte costituzionale dica sì, sia che dica no»), ma l’orizzonte è l’Italia del futuro. La prima è la polpetta che i partiti devono dividersi (se ci riescono, il che non è affatto scontato), ma il secondo è l’elemento davvero decisivo di cui ci si deve impadronire. La vittoria al referendum è insomma legata, per Renzi, alla possibilità di allestire uno scenario che coinvolga tutto il paese e non solo le sue classi dirigenti, che rimangono incerte spaventate o divise dal salto in un nuovo sistema politico-istituzionale.

Al premier, del resto, non manca il dinamismo per condurre questi due mesi, due mesi e mezzo di campagna elettorale all’attacco, su più fronti. Cercando sponde internazionali. Girando per l’Italia. Parlando a tutto campo. Mettendo anche un po’ di furbizia nell’orientare l’attività politico-parlamentare delle prossime settimane (vedi alla voce: legge di stabilità). E aprendo canali di comunicazione anche là dove, fino a poco tempo fa, si era al muro contro muro. A Napoli è così. Oggi il premier è in Campania, per una serie di appuntamenti in cui non gli mancherà certo il modo di confermare, insieme all’attenzione per il Mezzogiorno portata avanti con i patti per il Sud, questa nuova linea dialogante. E in serata, per l’evento organizzato da «il Mattino», siederà nel palco reale del San Carlo insieme al sindaco Luigi De Magistris. Certo, è una serata di gala, non un incontro istituzionale. Ma è, o può essere anche l’occasione per mostrare di avere il vento nelle vele anche alla città più «derenzizzata» d’Italia. A cui stasera in fondo si tornerà a chiedere se convenga continuare il gioco comunardo della repubblica indipendente, o unire il proprio destino a quello del resto del Paese.

(Il Mattino, 12 settembre 2016)

La riforma della Costituzione ha un motivo che non si vede

immagine 29 agosto

Vi sono stati, finora, due piani di discussione della riforma costituzionale, in vista del referendum del prossimo autunno. Il primo concerne il merito, cioè il contenuto della riforma. Il secondo riguarda invece la partita politica che si gioca attorno al referendum. C’è però un terzo piano, sul quale sarebbe necessario portare la discussione, e che è purtroppo ben poco frequentato nel dibattito di queste settimane. Nel merito, i difensori della riforma rivendicano l’importanza di scelte che mettono fine al bicameralismo paritario e ridefiniscono i rapporti fra il livello statale e quello regionale, dopo anni di pseudo-federalismo malissimo digerito; quanti sono contrari trovano invece confusa o involuta la fisionomia del nuovo Senato delle Regioni e paventano una restrizione degli spazi di legittimità democratica delle istituzioni. Sul piano politico, invece, gli avversari della riforma trovano un comune denominatore nella possibilità di far cadere Renzi (e si direbbe proprio lui, più ancora che il governo da lui presieduto); al contrario, Renzi sa che con la vittoria al referendum il resto della legislatura sarebbe in discesa, e magari potrebbe riprendere verve l’antica spinta rottamatrice.

Qual è però il terzo piano, quello assai poco frequentato finora? Forse lo si vede meglio se lo si osserva da lontano, da molto lontano. Dalla foresta amazzonica, per esempio, dove si spinse l’antropologo Claude Lévi-Strauss. Imbattendosi in società «fredde» che, a differenza di quelle «calde», vivevano vicini allo «zero di temperatura storica». Società che allo studioso francese sembravano stazionarie, preoccupate esclusivamente di «perseverare nel loro essere». Lévi-Strauss aveva certamente in testa un solo modello di storia, un solo «regime di storicità»: quello tipico delle società occidentali, persuase di vivere (da almeno un paio di secoli) dentro il corso progressivo di una storia che procede per successivi accumuli, e che è palesemente ispirata e diretta verso il futuro.

Quella persuasione è ormai andata smarrita. Un altro studioso francese, lo storico François Hartog, ha parlato di crisi del regime moderno e coniato l’espressione «presentismo» per spiegare in qual modo oggi viviamo l’esperienza del tempo. L’avvenire non è più, infatti, il punto luminoso verso il quale la società umana è diretta, e così il fiume della storia, invece di dirigersi sicuro verso la foce del futuro, si slarga e ristagna nella morta gora del presente.

Il «presentismo», in realtà, ha dapprima significato l’impazienza rivoluzionaria di buttare a mare il passato, o di ottenere tutto e subito, come gridavano i muri di Parigi nel maggio del ’68. Poi, però, passata la febbre rivoluzionaria, e abbassatasi drasticamente la temperatura storica, ha voluto dire e vuol dire un tempo privo di vere aspettative, accartocciatosi su se stesso, sprofondato definitivamente al di qua di ogni linea d’orizzonte. Un provincialismo non dello spazio ma del tempo, per dirla con il poeta inglese Eliot, in cui non ha più parte il passato, che ha perso ogni esemplarità, ma in cui anche il futuro ha perso qualsiasi attrattiva.

Domanda: se questa diagnosi è corretta – e a questa diagnosi concorrono molti fenomeni storici e sociali: dalla crisi del lavoro salariato alla diffusione dei social media, dalla fine delle grandi narrazioni politiche e ideologiche ai progetti di naturalizzazione coltivati (anche) dalle scienze umane – se la diagnosi è corretta, la domanda diviene: cosa significa fare una riforma profonda della costituzione, in una simile temperie culturale? Non dovrebbe significare immettere nuovo dinamismo ed energia politica nel tessuto istituzionale del Paese? Non dovrebbe essere questa la vera scommessa, ben al di là del merito dei singoli articoli toccati dal processo di revisione?

Vi è in effetti un modo di presentare gli effetti del cambiamento costituzionale, per il quale la riforma produce al più un adeguamento, un aggiornamento del contesto istituzionale. Si tratterebbe cioè – secondo questo racconto – non di aprire un nuovo corso, una nuova storia, ma al più di non rimanere indietro rispetto al presente: del futuro c’è così, in questa maniera di apprezzare la riforma, ben poca traccia. Ce n’è ovviamente ancora meno in chi guarda invece al passato: è la retorica che monumentalizza la Carta del ’48, trasformandola in un patrimonio immutabile, ed è un altro modo, irrimediabilmente passatista, di sfuggire all’appuntamento con i compiti che la storia assegna alla politica. Ma chi vuole la riforma forse non può accontentarsi di vivere vicino allo zero di temperatura storica, o ha anzi il dovere di spingere lo sguardo più in là, oltre la crisi del tempo attuale, provando per una volta ancora a dire in maniera solida e non effimera che questo presente è inferiore all’avvenire che si tratta di aprire. Non è del resto la stessa incapacità che affligge oggi l’intera costruzione europea?

(Il Mattino, 29 agosto 2016)

Sì alla riforma contro i furti al Sud

home_polloLa regione più giovane d’Italia, la Campania, perde 200 milioni di euro l’anno perché nella ripartizione dei fondi per la sanità si tiene conto solo dell’età: lo ha ricordato ieri il governatore De Luca, e ha ricordato una cosa vera. Il proverbio dice: a buon intenditor poche parole, ma per De Luca, evidentemente, in giro di buoni intenditori non ce ne sono, e perciò l’ha messa giù così: noi del Sud siamo polli e quelli del Nord sono magliari.

Il dato però è già abbastanza vistoso di per sé, perché i termini coloriti possano aggiungere qualcosa: è un fatto che la maniera in cui avviene il riparto penalizza sistematicamente il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Ora, uno potrebbe dire che è comprensibile che vadano più risorse dove ci sono più anziani, i quali hanno bisogno di più medicine e di più cure. Ma la letteratura scientifica ha dimostrato da tempo che l’età è solo uno dei fattori che incide sullo stato di salute di una popolazione, e ha evidenziato come esista una correlazione precisa fra la salute e l’indice di deprivazione sociale, cioè in primo luogo il tasso di reddito e il tasso di istruzione.  Che al Sud sono più bassi che al Nord.

Le basi per mantenere gli attuali criteri di ripartizione del fondo sanitario sono dunque assai discutibili. E lo sarebbero ancora di più, se si considerasse che la salute ha rapporto con le condizioni generali dell’ambiente, che la Campania ha un elevato tasso di mortalità infantile, o che da noi i malati di tumore hanno un tasso di sopravvivenza più basso.

De Luca ha insomma tutte le ragioni per fare la voce grossa, e infatti la fa. C’è però una così scarsa considerazione di quel senso di appartenenza alla medesima comunità nazionale, che le rivendicazioni del governatore campano vengono derubricate a rumore di fondo, oppure classificate come l’abituale lamentela che viene dal solito meridionalismo accattone.

La questione della sanità è però solo una delle molte questioni che si accumulano lungo una medesima linea di faglia, che riguarda il rapporto fra le diverse aree del Paese. Ebbene, siamo ad un passaggio essenziale: di riscrittura della Carta costituzionale. Nella riforma c’è, fra l’altro, il tentativo di ridefinire i termini del rapporto fra lo Stato e le Regioni. Ridisegnando il profilo della Camera alta – dove siederanno i rappresentanti degli organismi regionali – e delimitando le competenze rispettive, statali e regionali. Il giudizio che ciascuno vorrà dare su questa complessa materia può essere ovviamente positivo o negativo, e anche molto positivo o molto negativo. Pure i critici della riforma, però, dovranno ammettere che è difficile far peggio di oggi, a giudicare almeno dalla quantità di conflitti sollevati in materia innanzi alla Corte costituzionale.

Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema, quanto piuttosto il fatto che qualunque riforma è poi affidata a un certo iter attuativo, e alle interpretazioni che delle norme offriranno gli attori politici e istituzionali. Tocca, insomma, alla politica. E bisogna augurarsi che tocchi a una politica nuovamente compresa della sua funzione nazionale, disponibile a ragionare in termini unitari, e a far prevalere i fondamentali elementi di solidarietà da cui dipende la coesione del Paese.

La riforma contiene fra l’altro – ed è un’innovazione di non poco conto – la cosiddetta clausola di supremazia, in forza della quale la legge dello Stato può intervenire anche su materie che sarebbero di competenza delle regioni: si tratta di una riforma – per alcuni di una controriforma – di stampo centralista, e però (o perciò) probabilmente di un buon punto di riforma. Ma anche l’esercizio di questa clausola non riposa su un semplice automatismo, e dipenderà quindi da equilibri politici, da rapporti di forza, da interessi e spinte contrapposte. Nessuno può cioè illudersi che la riforma costituzionale possa surrogare responsabilità che sono sempre e solo legate alla direzione politica della nazione.

Se gli anni della seconda repubblica sono stati dominati da una retorica nordista, leghista, separatista, e da un appello alle identità dei territori in chiave localistica ed egoistica, ciò non è dipeso da uno stallo istituzionale, ma dal collasso di quel sistema di partiti a cui era stata affidata per decenni una essenziale funzione di integrazione sociale e politica. Ora quella funzione di fatto non è più svolta, e diviene quindi fondamentale iniettare nuova legittimazione politica attraverso l’ammodernamento istituzionale. Ma i polli ed i magliari non scompariranno il giorno dopo il referendum: da quel giorno comincerà casomai una nuova partita, con un nuovo campo di gioco e nuove regole. È bene, allora, che cominci ad esistere e a farsi sentire un nuovo meridionalismo in grado, questa volta, di giocare quella partita e, magari, di vincerla.

(Il Mattino, 14 luglio 2016)

Quella stretta di mano al Mezzogiorno

panzerotti-frittiQuestione di simpatia? Matteo Renzi e Michele Emiliano l’hanno ritrovata, e a detta di quest’ultimo un certo feeling è indispensabile per fare bene un lavoro comune. L’occasione è stata il Patto per la Città Metropolitana di Bari, a cui farà presto seguito il Patto con la Regione. Ma nella tregua di ieri, in nome di una logica istituzionale che spinge governo e poteri locali a lavorare insieme, non si sono avvertiti particolari motivi di tensione fra i due. Anzi, sembra che ci sia stato qualcosa di più, oltre il reciproco riconoscimento di ruolo, e cioè che abbia preso fisionomia una prima intesa politica. Certo, se il referendum sulle trivelle fosse andato diversamente, se si fosse raggiunto il quorum ed Emiliano l’avesse vinto, sarebbe stata un’altra musica, e il governatore della Puglia avrebbe probabilmente continuato a spingere sul pedale della contrapposizione. Ma dopo il voto lo scenario è cambiato, e Emiliano ha cominciato a valutare diversamente i costi di un isolamento.

Da una parte, a casa sua, il sindaco di Bari, Decaro, e le forze economiche locali gli chiedevano di sottoscrivere un Piano che finanzia non l’intero ammontare dei progetti presentati dalla Regione, ma una sua fetta consistente. Emiliano non ha mancato di commentare: «è chiaro – ha detto – che c’è differenza tra avere i soldi in tasca e andarli a chiedere, e questo un po’ ci indebolisce dal punto di vista della libertà». Dopodiché però, con sano realismo, ha assicurato che fra un paio di settimane anche la Regione Puglia firmerà l’accordo.

Dall’altra parte, Emiliano deve essersi guardato intorno, e risalendo la Penisola si è accorto che a sinistra, dentro e fuori il Pd, non c’è una falange unita e compatta, pronta a fare di Emiliano il leader degli anti-renziani. Dentro il Pd, del resto, ci provano già Enrico Rossi, il governatore della Toscana, e Roberto Speranza, leader della minoranza dalemian-bersaniana (con cuperliani di complemento): avesse vinto il referendum, avrebbe avuto forse la forza per scavalcarli, ma dopo il voto quella forza Emiliano di sicuro non ce l’ha. E fuori la cosa sarebbe stata ancora più complicata: vuoi perché ne risentirebbero certamente gli equilibri politici della Regione, vuoi perché per andare sino in fondo bisognerebbe scegliere una strada populista e antagonista lungo la quale è già pronto a lanciarsi Luigi De Magistris, che di populismo e antagonismo sa spanderne a pienissime mani. Di Masanielli, insomma, ce n’è già uno. E non teme la concorrenza. Emiliano allora ci ha pensato su, ha dato un’ultima, malinconica scòrsa al voto referendario, e poi ha scritto a Matteo: vediamoci.

Renzi, dal canto suo, non se l’è fatto dire due volte. Quando, pochi giorni, era venuto in Campania, aveva sottolineato che all’appello mancavano ormai solo il Sindaco di Napoli e il governatore della Puglia. Ora può dire che ce n’è rimasto solo uno. A quanto pare, la strategia dei patti con le istituzioni territoriali attraverso i quali ridefinire pezzo a pezzo l’impegno del governo per il Mezzogiorno sta dando, almeno sul piano politico, i suoi frutti. Del resto, non si sottolinea mai abbastanza che il Pd non è solo al governo, è anche alla guida di tutte le regioni meridionali: non è pensabile, dunque, che non si debba accollare il peso di questa così ampia responsabilità. Se non altro perché, al termine della legislatura, gliene verrà chiesto conto. Nei prossimi mesi, terrà ovviamente banco il referendum sulla riforma costituzionale, e il premier – personalizzazione o non personalizzazione del confronto – ha sicuramente bisogno di vincerlo. Perciò, in questa fase, gli viene buono qualunque accordo gli consenta di allargare il consenso, di smussare i distinguo all’interno del Pd, e soprattutto di presentarsi alla guida di un cambiamento reale. Ma dopo saranno anche i temi dell’economia a dettare i tempi della politica nazionale. E Renzi deve continuare a mostrare che la capacità realizzativa esibita nei primi mesi di governo non è andata smarrita. Deve ripartire da lì, dalle opere e dalle infrastrutture, ma anche da un investimento sugli uomini che aiuti a costruire, nel Mezzogiorno, una politica di segno diverso. Il suo governo ha in effetti impresso una decisa correzione in senso centralista delle spinte federaliste e anti-meridionalistiche degli anni passati. Renzi viene e stringe mani, ed è un bene che le mani si aprano per stringere a loro volta il patto per il Sud, Si tratta ora di dimostrare che la correzione di rotta che porta un po’ di risorse in più nel Mezzogiorno non serve solo a mettere in riga qualche avversario politico recalcitrante, con un attento uso della carota dei finanziamenti, ma anche a costruire il profilo di un nuovo meridionalismo, di ben altra qualità rispetto ai vecchi vizi culturali (e clientelari) del passato. I panzerotti di Bari saranno serviti a questo?

(Il Mattino, 18 maggio 2016)

 

Ora il coraggio di una politica per l’energia

energia-alternativa-ambiente-pulito-65482261Previsioni rispettate: niente quorum, niente abrogazione. La legge rimane così com’è. E due lezioni si possono tirare da questa sfida referendaria. Una, la più evidente, riguarda la vittoria dell’astensionismo. E siccome Renzi aveva sposato in maniera del tutto esplicita il partito del non voto, la vittoria di Renzi. O forse meglio la sconfitta dei suoi avversari, Michele Emiliano in testa. Che ovviamente ha subito preso a dire che, nelle urne, si è formato «il più grande gruppo europeo per un nuovo modello industriale/energetico», ma lo dice per mantenere il ruolo di sfidante di Renzi, non certo perché gli bastava inventarsi il grande gruppo, quorum o non quorum.

D’altra parte, la prima delle partite del 2016 era obiettivamente la più difficile: con le amministrative di primavera e il referendum costituzionale in autunno, la leadership di Matteo Renzi sarà senz’altro messa a più dura prova. E però Emiliano – e l’arcipelago della sinistra-sinistra, e l’ecologismo fondamentalista grillino – ci avevano sperato. E pure a destra s’era fatta sentire qualche voce, con il medesimo obiettivo di fare uno sgambetto al Presidente del Consiglio. Non è andata così, e in fondo c’era da aspettarselo. Troppe volte gli italiani hanno disertato le urne, nelle ultime occasioni di consultazioni referendarie, per sperare questa volta di invertire il trend.

Emiliano e gli altri confidavano forse nel terreno scelto, quello dell’ambiente, del mare pulito, dell’orizzonte sgombro di trivelle e piattaforme. Confidavano nelle risorse di una coscienza ambientalista che è oggi difficile contraddire apertamente, senza passare per irresponsabili. Come una volta si marciava per la pace nel mondo, così oggi si marcia per l’ambiente e la natura. Sia pure; ma il referendum riguardava, com’è noto, non il mondo intero bensì un aspetto molto particolare della politica energetica del nostro Paese. I promotori, però, hanno voluto che assumesse un significato simbolico, che esprimesse in maniera inequivocabile il rifiuto integrale di un’economia fondata sul petrolio, e il passaggio prossimo venturo a un mondo finalmente «carbon free». Non a caso, si è discusso molto poco dell’unica questione sensata, e di merito, che il quesito sollevava: se cioè sia ragionevole – ragionevole dal punto di vista della razionalità economica, non dal punto di vista dell’ideologia verde – che un paese, che certo non ha grande abbondanza di idrocarburi, rilasci concessioni a tempo indeterminato. Materia troppo tecnica, che avrebbe affossato ulteriormente la partecipazione popolare? Può darsi, ma l’impressione più generale è che in materia di ambiente e sviluppo sostenibile il nostro paese non dia un grande esempio di discussioni di merito, condotte in maniera razionale, con una valutazione attenta di costi e benefici. Crescono i comportamenti ispirati a una corretta educazione ambientale, ed è un bene; ma non cresce affatto, nell’opinione pubblica, una valutazione più matura dei problemi legati all’approvvigionamento energetico e al futuro industriale del Paese. Perciò la specifica materia del contendere è finita nel dimenticatoio, e si è discusso di trivelle sì e di trivelle no come se dall’esito del referendum dipendesse l’ingresso nella nuova era dell’Acquario.

E qui cade la seconda lezione che viene da questo referendum. Perché diciamo la verità: l’astensione rientra certamente tra le possibilità che ha l’elettore, e l’invito all’estensione fa parte anzitutto della libertà di opinione e di propaganda, in prossimità di un voto. Ma rimane un comportamento ispirato da motivazioni tattiche, legate alla possibilità di avere più facilmente ragione dei sostenitori del sì appoggiandosi alla quota fisiologica (a quanto pare in aumento) di coloro che disertano le urne.  L’astensione dal voto non è però il voto contrario all’abrogazione: non lo era per i padri costituenti, che vollero il quorum ma respinsero un emendamento che si proponeva l’esplicita equiparazione fra non voto e voto contrario; e non lo è neppure per la Corte costituzionale, che ha in passato ritenuto legittima la riproposizione di un quesito che non aveva superato il quorum. Il che significa che l’astensione non contiene per la suprema Corte l’espressione di una volontà giuridicamente rilevante.

Fuori dalla difficile materia giuridica, questo significa pure un’altra cosa: che a Renzi arride senz’altro la vittoria politica, perché quelli che «Renzi è un usurpatore» a sinistra continuano a prosperare; ma, pur avendo colto una vittoria sonante, egli non l’ha conseguita provando a bucare il pallone ideologico che porta in quota l’ambientalismo del no «senza se e senza ma». Così, dentro quel pallone, continuano a vagolare le nostre teste svagate. E certo non è il massimo, per un Paese che di problemi ambientali ne ha fin sopra i capelli, ma che come ogni Paese serio ha bisogno pure di una vera strategia energetica nazionale. E soprattutto di qualcuno che abbia il coraggio di spiegarla agli italiani.

(Il Mattino, 18 aprile 2016)

Se la sinistra disconosce il realismo

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La zuppa e il pan bagnato. Il referendum sulle trivellazioni marine e la condanna di Verdini: se non è l’una cosa, è l’altra ad agitare le acque in casi dei democratici. È indubbio che le sfide più importanti del 2016, da cui dipenderà il prosieguo della legislatura, siano le elezioni amministrative prima, il referendum costituzionale poi. E però ogni giorno ha la sua pena, e ieri a far penare il Pd sono state prime le trivelle, poi le disavventure giudiziarie del senatore toscano.

Vediamo. Ad aprile si vota sulla possibilità di rinnovare le concessioni alle piattaforme petrolifere già in attività al largo delle coste italiane. I nove consigli regionali che hanno preso l’iniziativa referendaria avevano proposto anche altri, più ampi quesiti, ma il governo li ha disinnescati introducendo modifiche alla legislazione vigente, e così la Consulta ha ammesso un unico referendum. Siccome i punti principali della strategia energetica del Paese non sono toccati dal referendum in questione, è chiaro, e lo ammettono anche i proponenti, che la consultazione ha un significato eminentemente politico. Ma se la minoranza del Pd la cavalca diviene anche una cartina di tornasole dei nodi irrisolti nel rapporto del partito democratico con la base dei propri iscritti e militanti, e con l’opinione pubblica.

Se vincessero i sì, il voto verrebbe immediatamente tradotto dalle associazioni ambientaliste in un perentorio invito a tagliare in modo drastico l’uso dei combustibili fossili. Ora, non è che tale invito, col voto o senza il voto di aprile, possa essere preso a cuor leggero. La conferenza di Parigi, conclusasi recentemente, ha affermato che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia «urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta», e non è possibile fronteggiare una simile minaccia senza una progressiva decarbonizzazione dell’economia. Quasi duecento Paesi hanno sottoscritto queste conclusioni (che attendono però le ratifiche nei parlamenti nazionali). E però, se la direzione di marcia è tracciata, resta il dovere dei governi di ragionare realisticamente sul modo in cui conseguire gli obiettivi indicati a Parigi. Dall’affermazione di principio all’implementazione delle politiche il passo non è affatto breve. E siamo al punto. Perché il partito democratico è incalzata da una rigida coscienza ambientalista, assai diffusa presso la sua base, per la quale qualunque scostamento dal principio è un inaccettabile cedimento morale. Se il paragone non urtasse le sensibilità degli uni e degli altri si potrebbe dire: anche l’elettore di sinistra, non solo quello cattolico, è cresciuto in questi vent’anni a pane e valori non negoziabili. È cresciuto cioè in una forma larvata di grillismo morale, impastata di intransigenza e indignazione puramente verbale, che si traduce in una crescente insofferenza verso ogni forma di mediazione politica fra gli interessi in gioco. A volte si tratta del più schietto interesse nazionale altre volte di interessi privati (le compagnie petrolifere, in effetti, esistono), ma in un caso o nell’altro ci si scontra sempre con il rifiuto di comporre le spinte ideali con le esigenze materiali. Sta qui, d’altra parte, la crisi e anzi l’inconsistenza dei partiti politici italiani, il cui compito di mediazione viene rifiutato quasi a priori, come se il solo fatto di tenere in considerazione anche il piano dell’interesse equivalesse di per sé a un inaccettabile cedimento morale.

Così le minoranze di sinistra, fuori e dentro il partito democratico, possono sempre far sponda, per imbarazzare il governo, con un’opinione pubblica, che da venti e passa anni ha imparato a sospettare per principio dell’attività politica, e a cui non si può mai dire fino in fondo come stanno le cose, cosa si può o non si può fare.

Lo si vede bene se solo si pensa alle furibonde polemiche sollevate in questi giorni da Bersani e compagnia sull’eredità dell’Ulivo, che Renzi avrebbe dilapidato snaturando il Pd. Ora però, se vi è un campione dell’ulivismo questi è Prodi. E a Prodi le trivelle non dispiacciono affatto, anzi è presumibile che, fosse al governo, non si barcamenerebbe molto diversamente. L’Adriatico di Prodi non sarebbe diverso, insomma, da quello di Renzi: come la mettiamo?

Poi, nello stesso giorno in cui ci si vergogna dell’astensione del Pd al referendum, arriva pure la condanna di Denis Verdini, ed è come agitare il panno rosso dinanzi al toro sempre imbufalito dell’indignazione morale. Di nuovo il rumore di fondo del grillismo democratico cresce. Come si fa a governare con Verdini? Probabilmente, lo si fa né più né meno come lo si faceva ieri con Berlusconi, quando, a causa della mancanza dei numeri in Parlamento, si formava il governo Letta. La qual cosa potrà certo meritarsi un giudizio negativo, sui risultati dell’azione di governo, ma un conto è non condividere il jobs act, oppure la legge elettorale, un altro è provare a costruire pregiudiziali morali grandi come macigni. La cui conseguenza è nell’immediato, qualche difficoltà supplementare per chi è al governo, ma nel lungo periodo è la condanna della politica a un permanente stato di minorità. Quanto convenga alla democrazia italiana vivere sempre sotto questa permanente ipoteca dallo sgradevole sapore moralistico non è dato sapere. Però va così.

(Il Mattino, 18 marzo 2016)

Riformare i candidati

i-colori-dell-autunno-2014-legambiente-valtriversa-704x318Parlando alla Camera, Renzi ha indicato una data «ragionevole» per il referendum sulle riforme costituzionali: l’autunno del prossimo anno. Ma, intanto, nella prossima primavera si voterà per le elezioni municipali in molte città italiane, e in particolare nelle prime tre grandi città del Paese: Roma, Milano, Napoli. Domanda: non sarebbe ragionevole votare insieme per l’una cosa e per l’altra, per le riforme costituzionali e per le elezione dei sindaci? Risposta: dipende. Dipende dal punto di vista dal quale si osserva la cosa. Dal punto di vista del premier, molto probabilmente sì. Significherebbe infatti mettere le comunali nella scia delle riforme, nella speranza che un voto trascini l’altro, così che le difficoltà del partito democratico nelle grandi città sarebbero bastantemente celate dalla più grande partita del cambiamento costituzionale.

In verità, la sequenza già indicata in Parlamento un senso ce l’ha: se infatti le cose al Pd dovessero andar male in primavera, Renzi si potrebbe prendere la rivincita in autunno. Ma il fatto è che nell’ultima settimana la situazione romana è precipitata, Marino si è dimesso e la sfida non si  gioca solo su Napoli e Milano, e sulle altre città minori. Ora ne va anche della Capitale: sarebbe dunque difficile circoscrivere una eventuale sconfitta in una dimensione puramente locale. Il desiderio inconfessabile di giocarsi tutto in un unico round comincia a prendere forma.

È complicato. Lo è sotto il profilo dei tempi, poiché le riforme non sono ancora all’approvazione definitiva, e lo è dal punto di vista politico, perché un simile accorpamento tra questioni amministrative e questioni costituzionali susciterebbe più di uno strepito. Ma il solo fatto che la cosa venga prospettata è indice delle difficoltà in cui si dibatte il Pd. Difficoltà che, forse, vanno anche al di là della scelta dei nomi e del profilo dei candidati: l’impressione è infatti che Renzi non trovi nel suo partito un serbatoio nel quale attingere per sfornare quella famosa classe dirigente, che è famosa proprio come la famosa invasione degli orsi in Sicilia, «nel tempo dei tempi»: una roba fantastica, insomma, perché al momento non se ne hanno notizie certe.

Così bisogna provarle tutte. Nelle prossime settimane, il partito democratico deve trovare i candidati giusti, e in molti casi, prima ancora dei candidati, dovrà chiarirsi le idee quanto al metodo di selezione. La retorica delle primarie «elemento identitario» del partito, inscenando la quale il Pd è nato, è decisamente in ribasso, perché nessuno sa bene cosa ne uscirebbe fuori. Un conto è fare le primarie confermative, alla Prodi, un altro è fare primarie competitive, in cui però sia in gioco di fatto il governo del Paese, come è stato con Renzi, un altro, tutt’altro conto ancora è farle là dove conta solo il notabilato locale, dove tutto si decide in base al «chi sta con chi», e dove la ragione sociale del partito si è – a dir poco – parecchio appannata.  A leggere l’intervista del vicesegretario del Pd, Guerini, su questo giornale, pare che questo appannamento sia a Napoli un po’ più vero che altrove, forse perché a Napoli alle difficoltà del partito si somma la volontà di fermare Bassolino: la sua candidatura è, infatti, per il solo fatto di stare in campo, una bocciatura per il resto del partito. Come che sia, a Napoli nessuno sa (e Guerini non chiarisce) quale progetto abbia il Pd sulla città. Dopo le dimissioni di Marino, in verità, non è chiaro neppure a Roma, posto che prima invece lo fosse, mentre a Milano la cosa sarebbe diversa, se non fosse che la mancata ricandidatura di Pisapia spalanca un buco che non è facile colmare. Improvvisamente (ma non troppo),ci si accorge che del Pd che, a livello nazionale, veleggia sopra il 35% nei sondaggi, in giro, nei territori, ce n’è pochino, e non solo perché calano gli iscritti o si chiudono i circoli. In una situazione del genere, è probabile peraltro che la minoranza interna troverà nuovi motivi per polemizzare, anche se la debolezza dei partiti politici è un dato cronico, quasi consustanziale al percorso dell’intera seconda Repubblica.

Proprio perciò non sarebbe male – dal punto di vista del premier, almeno – usare il battesimo referendario della terza Repubblica, il prossimo anno, per fare un’operazione di ricambio profondo anche nelle città. Per dire: noi siamo quelli del sì alle riforme, e coprire così, con il proprio investimento personale, tutte le magagne piccole e grandi del Pd.

Poi, certo, non è mica detto che arrivi il sì largo e rotondo che Renzi si aspetta dal referendum. Ma la partita politica avrebbe un significato chiaro, e verrebbe giocata su un terreno sul quale Renzi potrebbe muoversi con disinvoltura, tanto più che l’avversario più temibile sembra oggi essere, in attesa che il centrodestra si ristrutturi, il movimento Cinque Stelle. Come dire: una scelta di sistema, di qua o di là, riforme o rivoluzione. Il tutto lo si farebbe poi senza pagare dazio alle debolezze politiche locali, senza dover subire candidature più o meno discutibili, o semplicemente improvvisate, senza – infine – dar fiato e spazio ai propri avversari interni.

Insomma, una sfida vera e grande, all’altezza delle ambizioni del presidente del Consiglio. Che poi ci siano le condizioni per arrivarvi, politiche e parlamentari, è un altro paio di maniche. Ma questo non vuol dire che non si possa accarezzare l’idea. Sempre meglio accarezzare idee in autunno che prendere sberle elettorali in primavera.

(Il Mattino, 15 ottobre 2015)