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I democratici nell’era proporzionale

The Beached Margin 1937 by Edward Wadsworth 1889-1949

E.  Wadsworth, The Beached Margin (1937)

Fra i grandi vecchi che intervennero ad Orvieto nel 2006, nel seminario di studi che precedette la nascita del partito democratico, prese la parola anche Alfredo Reichlin. Cominciò da lontano, dal movimento operaio, dal quale provenivano quelli come lui, e parlò del disagio del cattolicesimo democratico che confluiva nel nuovo partito con il timore che l’egemonia sarebbe rimasta saldamente nelle mani degli ex comunisti, ma anche del malessere della sinistra, che temeva dal canto suo di stingersi in un nuovo contenitore non ancorato saldamente nella tradizione del socialismo europeo. Poi però accorciò le distanze, guardando ai compiti ai quali il nuovo partito era chiamato – crisi della democrazia, diritti di cittadinanza, ricostruzione della politica, europeismo – ed aggiunse: «l’identità di un grande partito non è l’ideologia, ma la sua funzione storica reale». Parole sante, a dar retta alle quali la si finirebbe in un sol colpo di chiedersi quanto è di sinistra, o di centrosinistra, il partito democratico, a dieci anni dalla sua fondazione.

Quel che davvero conta non sono i richiami identitari, tantomeno le medianiche evocazioni dello spirito originario, ma quale funzione in concreto il Pd abbia esercitato, e quale funzione pensi ancora di esercitare. Certo, il contesto è cambiato: la democrazia competitiva nella quale il nascente partito democratico doveva inserirsi non c’è più. Non c’è il maggioritario, ma una legge che, faute de mieux, rimette in campo le coalizioni, o qualcosa che prova a rassomigliarci. La partita a due, centrosinistra versus centrodestra, è diventata una partita a tre, o a quattro: maledettamente più complicata. Così che la crisi della democrazia, di cui ragionavano ad Orvieto i partecipanti al seminario, è ben lungi dall’essere alle nostre spalle. La partecipazione politica continua a calare, il virus populista si è grandemente diffuso, la risposta immaginata in termini di riforme costituzionali è naufragata: la salute complessiva del sistema politico, insomma, non è gran che migliorata. Quando dunque Renzi oggi dice che senza il Pd viene giù tutto, non usa solo un argomento da campagna elettorale, ma rivendica quella funzione nazionale di cui parlava Reichlin, e che ha portato i democratici ad occupare a lungo posizioni di governo. Caduto Berlusconi, il Pd ha sostenuto prima Monti, poi Letta, poi il governo del suo segretario Renzi, adesso Gentiloni. In nessuna di queste esperienze di governo il Pd ha governato da solo, o con i soli alleati di centrosinistra: non ve ne sono mai state le condizioni, ed è difficile anche che vi siano nel prossimo futuro.

Di tutte le riflessioni che il Pd è oggi chiamato a fare, questa è forse la più urgente: come si attrezza un partito nato con l’ambizione veltroniana della vocazione maggioritaria, dentro una congiuntura che quella vocazione ha abbondantemente smentito, ridimensionando anzi sempre di più le forze maggiori. Basta guardare al di là delle Api quel che succede alla socialdemocrazia tedesca, o al socialismo francese, per convincersene.

Quanto al suo profilo programmatico, il Pd ha sempre rivendicato il carattere di una forza progressista, riformista, europeista. Non sempre però è stato chiaro a tutti, dentro il Pd, di cosa riempire queste parole. Basti pensare che ad Orvieto era nientedimeno che D’Alema a chiedere «una nuova cultura politica che andasse oltre il vecchio schema socialdemocratico». Si voleva andare al di là, e si è ricaduti al di qua. Quella nuova cultura politica, che veniva identificata con la terza via, con il New Labour di Blair, o il Neue Mitte di Schroeder è proprio ciò che il D’Alema di oggi, quello che ha mollato il Pd da sinistra, mai prenderebbe ad esempio. Ma più che la contraddizione palese, o la credibilità dei suoi interpreti, conta politicamente il fatto che con questa giravolta è rispuntata quella sinistra identitaria, radicalizzata, che il Pd aveva cercato di riassorbire.

Certo, di mezzo c’è stata la grande crisi economica e finanziaria del 2008: il Pd ha avuto la sventura di nascere con il vento contro, mentre finiva la spinta euforica della globalizzazione, e la marea, ritirandosi, lasciava riaffiorare tutti i problemi rimasti aperti: le diseguaglianze crescenti, l’erosione delle classi medie, le precarietà diffuse, le insicurezze e le paure non governate. Ma, anche così, la funzione storica del Pd non è cambiata di molto, tra ancoraggio europeo e prospettive di riformismo sociale ed economico dentro una solida cultura di governo. Questo è, o dovrebbe essere, il Pd, una cosa riconoscibilmente diversa dalla destra nazionalista di Lega e Fratelli d’Italia, dal populismo giustizialista dei Cinquestelle, dal centrismo moderato di Forza Italia.

Nessuna mutazione genetica è dunque in corso. Altra storia è se, in questa fase, in cui il mondo sembra un’altra volta finire fuori dai cardini, sia abbastanza essere una forza tranquilla – come diceva il Mitterand che saliva per la prima volta all’Eliseo – o se invece non prevalgano passioni e umori più forti, al cui confronto il riformismo appare una pietanza scipita. Le elezioni non sono lontane, e fra poco questo interrogativo verrà sciolto dalle urne.

(Il Mattino, 15 ottobre 2017)

Il partito trasversale dei guastatori a tutti i costi

afro-demolizioni-1939

Afro, Demolizioni (1939)

Volano parole grosse. È oltre i limiti della democrazia, protesta preoccupatissimo Roberto Speranza, per conto di Mdp. Solo Mussolini aveva fatto cose simili, urla Di Battista. Così che davvero l’ordinamento democratico della Repubblica pare messo in pericolo dall’iniziativa del Pd, fatta propria dal governo, di mettere la fiducia sul testo della nuova legge elettorale all’esame della Camera. Una decisione politicamente impegnativa, che arriva sul finale della legislatura, ma che non piomba sul Parlamento come un fulmine improvviso scagliato da un dio iroso, bensì come l’ultima possibilità di dare all’Italia un sistema di voto accettabile, essendo naufragati tutti i tentativi esperiti finora. Prima l’incostituzionalità del porcellum, poi l’incostituzionalità dell’italicum, quindi il naufragio del tedeschellum (o teutonicum, che dir si voglia), in mezzo i propositi variamente assortiti, e tutti abortiti, di tornare al mattarellum: tutta questa profusione di latinorum dimostra senza dubbio alcuno la difficoltà del Parlamento italiano di dare un assetto stabile, convincente e soprattutto condiviso alle regole elettorali.

Se spingessimo più indietro lo sguardo, non daremmo un giudizio diverso. La famosa legge-truffa, fortemente osteggiata dal partito comunista, passò, a suo tempo, col voto di fiducia. E a metterlo quella volta non fu il Duce, come forse pensa Di Battista, ma un certo Alcide De Gasperi. Passano gli anni, e sul finire della prima Repubblica torna alla ribalta la questione elettorale. Ma a dare la scossa non fu certo il Parlamento, bensì un referendum popolare, quello promosso da Mario Segni sulla preferenza unica. Insomma, è giusto rivendicare il carattere squisitamente parlamentare della materia elettorale, ma è onesto riconoscere la difficoltà sempre incontrata all’interno del Parlamento, dalle proposte legislative di riforma in questa materia. Così come sarebbe altrettanto onesto rilevare che il rosatellum attualmente in discussione, l’ultimo latinorum della serie, ha un appoggio politico ampio. Anche se per ovvie ragioni né Berlusconi né Salvini voteranno la fiducia al governo, c’è intesa sulla legge. Il che non era, e non è, affatto scontato.

Questo significa che, oltre ai centristi, tre fra le maggiori forze politiche, di maggioranza e di opposizione, condividono l’impianto della legge. La quarta, i Cinquestelle, è invece sulle barricate. Ma come si fa a dimenticare che hanno qualche responsabilità nel naufragio del precedente tentativo, questa estate, di approvare una legge elettorale sul modello tedesco? Grillo, sul sacro blog, difendeva l’accordo, ma la base ribolliva di rabbia contro quella “cagata di legge elettorale”. E così, alla prova dell’Aula, con la consueta gragnuola di emendamenti, l’accordo non ha retto, e i voti grillini sono mancati. Il solito palleggio di responsabilità tra maggioranza e opposizione ha in seguito intorbidato le acque, ma a nessuno è parso, nelle settimane successive, che Grillo e compagni volessero rimettere mano alla legge. Tutt’al contrario. Ai Cinquestelle il sistema proporzionale partorito con le decisioni della Consulta sta più che bene, perché non gli mette al collo il cappio della coalizione. Posizione legittima, ma che difficilmente può tirare il Paese fuori dalle secche. Promette anzi di lasciarcelo chissà per quanto.

La situazione, vista dal lato del partito democratico, è invece la seguente: assumersi la responsabilità di approvare il rosatellum ricorrendo alla fiducia per evitare l’ennesimo fallimento, oppure alzare bandiera bianca, e consegnare definitivamente il Paese all’ingovernabilità?

Certo, le alternative non si presentano mai così nettamente. Hanno le loro sfumature. È chiaro che il ricorso alla fiducia punta a bypassare malumori e dissensi che attraversano sia il Pd che Forza Italia. È vero pure che anche il rosatellum non garantisce maggioranze stabili: la quota uninominale prevista difficilmente porterà l’uno o l’altro schieramento fino al 50,1%. Ma cosa c’è dall’altra parte? Che cosa motiva il rifiuto della legge da parte dei Cinquestelle, o da parte di Mdp? C’è, da parte loro, l’indicazione di un’alternativa praticabile? Allo stato, no. Allo stato, c’è solo la marea montante della polemica, portata spesso al di sopra delle righe, e condotta non in nome dell’interesse generale, ma dell’interesse proprio. Per quale motivo, infatti, non sarebbe nell’interesse generale del Paese introdurre un terzo di collegi uninominali che spingono le forze politiche a coalizzarsi fra loro, gli altri due terzi rimanendo proporzionali? Non si capisce. Mentre si capisce benissimo perché né i grillini, né quelli di Mdp vogliono il rosatellum: perché non fa al caso loro (mentre fa al caso di quegli altri).

Ora, ci si può dolere che la disputa sulla legge elettorale non si elevi dalla contingenza politica del momento. Ma questa doglianza riguarda tutti i partiti, nessuno escluso. Resta però che col rosatellum si fa almeno un passo in avanti nel senso della governabilità, e soprattutto si produce una legge forte del più largo consenso finora disponibile in Parlamento. Né ce n’è un altro. E, di questi tempi, trovare una maggioranza larga che assume su di sé il peso di una decisione politica per tirare il Paese fuori dallo stallo in cui si è cacciato dopo la bocciatura del referendum costituzionale, non è cosa da poco. Anzi è tanto, e sarebbe sbagliato buttarlo via.

(Il Mattino, 11 ottobre 2017)

La nuova scommessa bipolare

Ligabue 1945 Lotta di galli

A. Ligabue, Lotta di galli (1945)

All’ultima curva, prima di imboccare il rettilineo finale della legislatura, la legge elettorale torna ad essere tema di confronto politico e parlamentare, e si torna a parlare di una sua possibile approvazione.

Difficile, però, fare previsioni: sulla carta, le forze politiche che sostengono il Rosatellum bis – così è stata ribattezzata la nuova proposta – avrebbero i numeri per farla passare. Ma da qui al voto finale ci sono un’ottantina di voti segreti, e la partita è così delicata che incidenti sono sempre possibili.

In realtà, la nuova versione del Rosatellum non risolve i problemi di governabilità del Paese, ma per quello ci vorrebbe un doppio turno alla francese che non è nel novero delle cose possibili. La legge in discussione si limita a distribuire per due terzi i seggi su base proporzionale, e per il terzo rimanente assegna i seggi in collegi uninominali dove i singoli candidati possono essere sostenuti, anziché da liste singole, da una coalizione. Chi può investire sulla costruzione di coalizioni plaude alla legge; chi non ha alcun potere coalizionale la avversa.

A preoccuparsi sono quindi, innanzitutto, i Cinque Stelle, che non saprebbero a chi sommare i loro voti nella parte uninominale. E infatti il fuoco di sbarramento è cominciato subito: il neo candidato premier Di Maio ha avuto parole durissime contro quello che ha definito “un attentato alla volontà popolare”, con argomenti che in verità varrebbero per qualunque legge che abbia effetti disproporzionali. Dopodiché in Parlamento hanno piazzato una mina, nella forma di un emendamento contra personam, che non consente di indicare come “capo della forza politica” chi non può essere eletto in Parlamento. Leggi: Berlusconi. E leggi pure il tentativo di pescare su questa norma voti a sinistra per far saltare l’accordo sulla legge.

Ma di che genere di accordo si tratta? Detto che, se passasse, questa legge elettorale penalizzerebbe i grillini, chi, viceversa, se ne avvantaggerebbe? Guardando tra gli emendamenti presentati, si capisce qualcosa guardando la proposta di rimettere l’indicazione del futuro leader alla forza politica della coalizione che ha preso più voti. L’emendamento è a firma Forza Italia, ma avrebbe anche il favore della Lega. Il che significa che la competizione per la leadership si trasferirebbe dentro la legge elettorale, invece di stare nelle primarie che fin qui Salvini chiedeva e che Berlusconi non aveva nessuna voglia di concedere. Ma significa anche che le distanze nel centrodestra si sono accorciate, e che il Cavaliere comincia a pensare di avere tutto l’interesse a calarsi nuovamente in uno schema bipolare. Assisteremmo così ad una nuova piroetta: dopo essere stato, per tutta la seconda Repubblica, il campione della democrazia maggioritaria, Berlusconi si era convertito al proporzionale, e in lunghe e pensose interviste aveva spiegato come il proporzionale fosse ormai l’unico abito confacente al sistema politico italiano. Ora, invece, complice forse i sondaggi siciliani che danno il centrodestra avanti a tutti, Berlusconi cambia di nuovo: vada per la coalizione con Salvini, e per un voto che in qualche modo la sancisca e leghi le mani per il dopo voto.

Ma le lega veramente? In primo luogo, va detto che l’emendamento è ai limiti, se non oltre il dettato costituzionale. Perché nessuna formula sulla scheda elettorale può limitare il potere del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio: cosa dunque comporti indicare il “capo della forza politica” non è chiaro. In secondo luogo, e soprattutto, queste coalizioni, che esistono solo su un terzo dei seggi, ben difficilmente raggiungeranno il 51%, con gli attuali rapporti di forza: e allora come si farà? Ci sarà un inciampo in più per la formazione di maggioranze parlamentari diverse da quelle indicate nella parte uninominale della legge. La qual cosa può forse essere persino apprezzata, almeno da chi non ama il carattere parlamentare della nostra Repubblica. Ma senze vere maggioranze popolari emergenti dalle urne il risultato sarebbe: nessuna maggioranza.

Il rischio è alto, insomma. E l’impressione è che l’emendamento sia una spia del ricompattamento che si sta producendo nel centrodestra, piuttosto che una strada realmente percorribile.

A meno che la cosa non piaccia pure a Renzi, che sarà sicuramente, a sinistra, quello che prenderà più voti. Ma un conto è il singolo emendamento, un altro è l’impianto complessivo della legge. Lì la partita sembra essere un’altra, perché questo tema delle coalizioni è stato gettato tra i piedi del Segretario da chi, dentro il partito democratico, lo considera ormai un ostacolo alla costruzione di un nuovo centrosinistra, di un nuovo Ulivo o di quel che sarà. Franceschini non perde infatti occasione per ripetere che la coalizione s’ha da fare, col che evidentemente sottintende che se, per dialogare con Mdp, fosse necessario mettere da parte Renzi, ci sarebbe chi, nel Pd, farebbe da sponda.

Questo è, alla fine, il nodo decisivo: la legge è studiata per contenere i Cinquestelle, ma non dà affatto garanzie di governabilità, promette intanto di rimescolare le carte nel centrosinistra, e, forse, di dare una mano al centrodestra. E però è firmata dal Pd, come se Renzi scommettesse sul fatto che, alla fine, prevarrà comunque la sua forte leadership nel partito. Ce n’è abbastanza per considerare i giochi tutti aperti.

(Il Mattino, 30 settembre 2017)

 

A Matteo critiche vecchie. Alleanze inutili col proporzionale

PRESENTAZIONE DEL LIBRO QUEL CHE RESTA DI MARX

Cosa significhi reinventare un «partito popolare e nazionale, un partito della nazione», dentro un nuovo sistema proporzionale, dopo venticinque anni di seconda Repubblica? «È tutto da vedere», mi risponde Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, ma di certo non è cosa che si vedesse dai commenti seguiti al voto amministrativo di domenica.

«Secondo me i commenti risentono ancora di un clima e di uno stile formatosi durante gli anni della seconda Repubblica. Non ci si rende conto che il maggioritario è finito. Un ciclo politico è compiuto. Qualunque proiezione sul futuro di dati che provengono da elezioni amministrative è perciò da prendere con le pinze. Tanto più che, in generale, è difficile comparare e proiettare il voto delle elezioni amministrative sul piano politico nazionale».

Eppure son tutti lì a ragionare di coalizioni e schieramenti, anche solo per mettere in difficoltà Renzi. Prodi prova a incollare i pezzi del centrosinistra. Orlando chiede primarie di coalizione. Veltroni dice no all’autosufficienza.

Però Il modo in cui si forma l’orientamento dei cittadini verso (o contro) la politica prescinde largamente da questa discussione. Le prossime elezioni si faranno con una legge proporzionale. Con il proporzionale i governi si formano in Parlamento, molto più che col maggioritario. Gli elettori votano per il partito preferito da ciascuno. Quello che poi determina gli equilibri di governo è la qualità, l’efficacia dell’offerta politica.

D’Alimonte su «Il Sole 24 Ore» scrive che il voto di Genova, di Sesto San Giovanni, di Pistoia (ma anche di Padova, che è andata al Pd) dimostra che ormai tutto è contendibile.

L’unico dato generale e generalizzabile è che hanno perso tutti. È un ulteriore segnale di sgretolamento, di frana: non dico nemmeno di un sistema di partiti, ma di un paesaggio politico. Soprattutto nelle elezioni locali, è ancora più difficile parlare di partiti, che non svolgono più alcuna vera funzione rappresentativa. Dire allora che il centrodestra quando è unito vince, può vincere, è persino ovvio, prevedibile e in verità anche previsto, in situazioni come quelle liguri, di Genova o Spezia, che conosco da vicino. Ma questo cosa ha a che fare col tema di come prepararsi alle elezioni politiche?

Cosa allora vi ha a che fare? Nell’editoriale che ho scritto ieri, ho provato anch’io a mettere da parte le mere sommatorie elettorali e a indicare nelle questioni europee il terreno decisivo della sfida.

Innanzitutto la parte maggioritaria dell’elettorato deciderà in base al bilancio su cinque anni di governo Renzi-Gentiloni: come si fa a ignorarlo? E l’intera legislatura è stata incentrata sul nesso fra Italia ed Europa. Ebbene, è da vedere come si costruirà l’agenda europea dopo le elezioni tedesche e soprattutto chi darà le carte. Da noi conterà la capacità di dire veridicamente ai cittadini, senza imbrogliare, come e perché determinati problemi sono problemi europei.

Ma se è il rapporto con l’Europa a determinare l’agenda, non è complicato per i democratici immaginare dimettere insieme una coalizione di centrosinistra, in vista di una futura alleanza di governo? Dove sono i «buoni europei», a sinistra del Pd?

Ma non è questione di sinistra o destra. I cittadini votano in base ai problemi i più diversi, alle esasperazioni più diffuse, a insoddisfazioni, interessi corporativi, o anche a grandi visioni e grandi narrazioni. Non credo che i cittadini siano molto appassionati di queste categorie di destra/sinistra. Certo c’è una storia, una sedimentazione di valori, ceti politici diversi, culture diverse, che si dicono di destra o di sinistra. Ma non se ne può parlare in base a semplici etichette. È evidente che c’è una certa continuità in un arco di forze che va dai moderati di centro fino a Pisapia: ma a che serve cominciare dalle etichette? È questo il problema che definisce l’agenda politica con cui si deve misurare una leadership?

Provo allora a fare l’avvocato del diavolo e ti chiedo: ma quelli che invece dicono che una forza di sinistra non può condividere strutturalmente l’impianto politico e istituzionale di questa Unione europea, che in essa istanze di sinistra non possono trovare spazio, che l’euro è l’equivalente di quello che sono stati Reagan e Thatcher negli anni Ottanta?

Se, per essere di sinistra, invece che di far pesare le questioni nazionali sul modo in cui si compone l’agenda europea, si tratta di dire: “questa Europa è fallita”, non condivido ma capisco: è legittimo. Ma poi chi dice così non si può mettere insieme con chi pensa: “ma come è fallita? Vediamo invece cosa realisticamente è successo, in base a una cartografia sobria, realistica, del mondo”. Come si fa a dire ad esempio, come fa Veltroni, che per essere di sinistra bisogna fare la lotta alla precarizzazione? La precarizzazione è il modo in cui si riflette sui governi e le nazioni di tutto il mondo questo tipo di globalizzazione. Ed è quanto meno un problema di dimensioni europee. Non possiamo parlare delle cose italiane a prescindere dal contesto. E il nostro contesto storico, economico, la parte che ci spetta in un concerto plurinazionale si decide in Europa. Quello diventa un grande discrimine. Aggiungo: chi ha cambiato il paradigma del rapporto con l’Europa, anche rispetto al centrosinistra degli anni passati, si chiama Matteo Renzi. Sembra poco ma non lo è. Prima si trattava sott’acqua: l’Europa era sentita come vincolo, invece che come responsabilità condivisa. Renzi ha invertito la tendenza. È ancora difficile e non è diventato ancora oggetto di un diverso racconto del Paese, ma questo è il tema.

Nel Novecento, l’essere di sinistra si definiva in base al contesto internazionale, e in base ai mondi sociali di riferimento: l’una e l’altra cosa. La mia impressione è che dopo l’89, essendo mutato il quadro internazionale, la sinistra ha sentito sempre meno la necessità di collocare istanze e rivendicazioni dentro un contesto più ampio di quello nazionale. Non ce la fa più. Prima, quando c’erano i paesi del socialismo reale, viveva quel rapporto come un motivo identitario, oggi lo subisce soltanto.

Diciamo però che quello che è stato importante nel comunismo italiano è il modo in cui ha cercato di interpretare l’interesse della nazione italiana. Per il resto, a parte il PCI, non c’è alcuna grande e gloriosa storia del comunismo in Europa. Però certo: oggi la declinazione dell’interesse nazionale è insieme la declinazione dell’interesse europeo.

Un’ultima cosa voglio chiedertela sul partito. A che punto è il “partito pensante” annunciato da Renzi durante il congresso?

Se devo trovare una connessione fra la leadership di Renzi è un universo identitario dico altro, dico il governo di questi cinque anni. Tutto il resto è da rifare. Ma il problema non è Renzi e nemmeno i suoi difetti. S’è fatto un Congresso due mesi fa: se ci fosse un’alternativa a Renzi sarebbe già emersa. Il Pd rimane però la forza centrale per come ha incorporato il nesso Italia-Europa. Non basta, ma è il punto al quale siamo.

Quel punto è parecchio condizionato dall’esito del referendum costituzionale.

Il referendum è stato uno spartiacque drammatico. Ma chi lo ha perso è il Paese. Si può discutere di come è stata condotta la campagna referendaria (male, almeno al 70%). Ma il referendum non era sul governo; era sull’ossatura politico-istituzionale di questo Paese, in pezzi da vent’anni. Ma dove sono le forze che provano a spiegare che il deficit di competitività di cui soffre l’Italia almeno dal 2001 è una conseguenza dell’impalcatura politico-istituzionale, e che il referendum serviva per spezzare la rete di interessi corporativi e diffusi che rendono molto difficile fare dell’Italia un Paese come la Francia o la Germania?

Già, dove sono queste forze? Saluto Beppe Vacca e noto che mantiene nella voce l’equilibrio fra l’analisi senza indulgenze dello stato del sistema politico e una certa serenità e fiducia nel prossimo futuro. Davvero il miglior commento delle sue parole è in quelle di Gramsci: «Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

(Il Mattino, 28 giugno 2017)

Uniti si vince nei comuni ma non si governa

carta-che-vince-carta-che-perde

Il dato è questo: il centrodestra ha vinto; il centrosinistra ha perso. Quanto ai Cinquestelle, hanno perso pure loro, ma siccome la loro sconfitta è maturata al primo turno, ieri è passata in secondo piano. Se è in questi termini che viene riassunto il risultato delle elezioni amministrative, colpisce che nessuno noti il paradosso che inficia buona parte delle interpretazioni circolate all’indomani del voto. Perché dalla vittoria del centrodestra si trae la lezione che quando va unito il centrodestra è ancora competitivo, ed è anzi in grado di espugnare roccaforti rosse come Genova, Pistoia o Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Mentre dalla sconfitta del centrosinistra si trae la lezione che il Pd di Renzi patisce l’isolamento in cui si è cacciato, rompendo a sinistra. Cioè, seguitemi: sia che si vinca, sia che si perda, la lezione è la stessa, che uniti si vince. Ma che lezione è questa, che viene comprovata da qualunque risultato? Non è una lezione, in realtà, ma è solo l’effetto di un sistema elettorale e di una partita locale che consentivano e anzi incentivavano il formarsi di coalizioni. Cambiate la legge elettorale, e soprattutto cambiate la posta in gioco, e non avrete più l’evidenza che oggi pare tanto indiscutibile quanto vuota di significato.

Sulla legge elettorale con la quale andremo al voto alle politiche non ci sono certezze, ma dopo il naufragio dell’accordo su un sistema simil-tedesco, è difficile immaginare che si trovi il modo di porvi mano (salvo piccoli aggiustamenti tecnici richieste per quel minimo di armonizzazione fra i sistemi delle due Camere che è possibile ottenere per decreto, su punti largamente condivisi). Cosa saranno allora le coalizioni che domenica vincevano o perdevano, quando non ci sarà nessun ballottaggio a dargli la spinta decisiva per conquistare il governo non di una città ma del Paese? Macron la rivoluzione del sistema politico l’ha fatta grazie al ballottaggio, qui da noi come la si farà? D’accordo, sono tempi volatili, in cui è possibile ipotizzare anche movimenti elettorali significativi, ma che centrosinistra e centrodestra ce la facciano da soli a conquistare la maggioranza è al momento ipotesi del terzo tipo. Quand’anche Berlusconi, Salvini e Meloni dovessero arrivare a un bel 35-40%, con quali altri pezzi arriverebbero più su, fino a quota 50,1%? Perché Salvini guarderebbe volentieri ai grillini, ma questi mai e poi mai accetterebbero di allearsi col Cavaliere. Il quale si volgerebbe invece verso il centro, ma vaglielo a spiegare a Salvini.

Quanto all’eventuale coalizione di centrosinistra, con o senza il vinavil di Prodi, ben difficilmente potrebbe aspirare a un risultato migliore. Prima dovrebbe mettere insieme una miriade di sigle di cui si è perso ormai il conto: da quelle parti il processo di riaggregazione non è ancora cominciato. Dopodiché, avendo tenuto dentro tutto e il contrario di tutto, con chi andrebbe a trattare un accordo di maggioranza, oltre il perimetro della sinistra? Una simile riedizione dell’Unione di prodiana memoria (dell’Unione, più che dell’Ulivo: il punto al quale era arrivata la frantumazione del centrosinistra prima del progetto dem era infatti l’Unione del 2006, e comprendeva almeno una dozzina di soggetti politici) sarebbe attraversata da un discrimine netto, fra quelli che un accordo coi moderati di centrodestra non lo farebbero mai, e quelli che in verità lo farebbero, avendolo peraltro già fatto.

Per correggere una così sconfortante rappresentazione dello scenario politico-elettorale – e soprattutto: per non lasciare che in questo guado ci rimanga in mezzo il Paese, lasciando che le forze populiste si ingrossino ancora, continuando a lucrarci su – c’è forse un solo modo: prendere sul serio la posta in gioco, l’altro elemento sul quale il voto di domenica, di carattere locale, non ha detto nulla. La posta in gioco è la posizione dell’Italia in Europa, e la capacità di regolare le questioni grandi dei prossimi anni – dall’economia all’immigrazione, dal lavoro alla difesa comune – passandole al setaccio del confronto europeo. È lì che si siederà il prossimo Presidente del Consiglio italiano: non in qualche Palazzo di città ma nei consigli dei Capi di Stato e di governo. Non solo, ma comunque si giudichino gli ultimi confronti elettorali nei paesi UE – dalla Brexit in poi –, è evidente che a deciderne l’esito, in un senso o nell’altro, è stata la posizione assunta rispetto agli impegni presi (o da prendere) con Bruxelles.

Che cosa allora significa oggi l’Europa, per l’Italia? Sarebbe bene che questa domanda, e le parole per istruirla, venissero prima della costruzione di coalizioni posticce, per cui succede che a destra festeggino uniti quelli che l’Euro affama il popolo e quelli che inneggiano al mercato unico, mentre dall’altra parte dovrebbero provare a rimettersi insieme quelli che non c’è spazio per la sinistra dentro questa Unione, e quelli che invece vogliono governarla insieme a Macron.

Sono proposte di fatto incompatibili. Le coalizioni di domenica scorsa – abbiano vinto o perso, come più vi piace – non hanno alcuna omogeneità rispetto alle grandi questioni europee ed internazionali. E se è vero che ha un costo riconoscerlo, è anche vero che solo affrontandolo si costruiscono profili politici credibili, che tornino ad essere attraenti per un elettorato stanco di vedere risse, balletti, polemiche e ripicche. Bisogna che i grandi partiti che intendono assumersi responsabilità di governo nel futuro prossimo declinino in termini chiari e forti le loro priorità, portando la sfida elettorale a un’altezza diversa da quella in cui si impelagano tutti i giorni, sforzandosi di offrire leadership, programmi e interpreti di una nuova stagione, e non semplicemente la riedizione di quelle vecchie.

Solo così quella ridicola discussione sulle sommatorie di partiti e percentuali retrocederà in secondo piano, e la scelta elettorale tornerà ad essere legata a un senso storico e politico generale, di medio-lungo periodo, che ridia significato e funzione a partiti, che nella mera gestione clientelare dell’esistente hanno ormai perduto ogni ragione d’essere e ogni legittimità.

(Il Mattino, 27 giugno 2017)

I Cinquestelle all’esame di maturità

arte concettuale

Prima il convegno di Casaleggio junior, con giornalisti, studiosi, imprenditori; poi Grillo alla marcia di Assisi e relativa professione di francescanesimo, adesso l’incontro con gli arcinemici del Pd per un accordo su una legge elettorale alla tedesca (proporzionale con soglia di sbarramento al 5%). I Cinquestelle vorranno pure fare pulizia di tutto il marciume della vecchia politica, ma non trascurano, intanto, ti mandare messaggi rassicuranti al resto del Paese: il cambiamento sarà radicale per quanto riguarda la classe politica, ma non così radicale da non consentire di presentarsi come un forza ragionevole, preparata, affidabile e di buon senso. Che si tratti dell’euro o dei vaccini, del presidente Trump o della scuola, le posizioni pentastellate virano verso lidi più tranquilli: non sono più spudoratamente contro i vaccini o contro l’euro; non sono più acriticamente entusiasti dell’uomo forte ma neanche ideologicamente contrari alla scuola privata. Quel che fortissimamente vogliono sono in fondo soltanto due cose o tre: il reddito di cittadinanza, un’economia sostenibile e, va da sé, la fine dei partiti politici così come li abbiamo conosciuti. Ma un simile programma è perfettamente compatibile con parole rispettose nei confronti del Capo dello Stato (decisivo in questa delicata fase di fine legislatura)  e commenti amorevolissimi nei confronti del Pontefice (perché ancora esiste un elettorato cattolico). Mandati messaggi di grande equilibrio, si può anche avviare la trattativa sulla legge elettorale: ovviamente nelle sedi istituzionali e senza streaming.

Si tratta di un atteggiamento sicuramente più responsabile, anzitutto perché rimanda a data da destinarsi la più esacerbata professione di fede “roussoviana”, fatta di democrazia diretta, mandato imperativo e qualche vaffa day (che, a dire il vero, nel «Contratto sociale» di Rousseau non erano previsti). Anche il Movimento Cinquestelle si dota insomma di un programma di massima e di un programma di minima: quest’ultimo è quello che serve per accreditarsi come forza di governo e stringere accordi almeno in materia elettorale; quell’altro viene ancora utilizzato per incanalare la protesta e raccogliere tutti gli umori antipolitici del Paese. E rimane attivo, anzi attivissimo, al punto che la proposta di Grillo sul sistema tedesco è molto furbescamente accompagnata da un’altra proposta, sulla data del voto: che sia prima, assolutamente prima del 15 settembre, perché dopo scatterebbero i cosiddetti vitalizi dei parlamentari. Ora, se anche il voto cadesse davvero prima di quella data, già complicata di per sé, non sarebbe sufficiente allo scopo se poi non si convocasse il nuovo Parlamento in fretta e furia, per impedire ai vecchi onorevoli di conquistare l’agognata pensione in regime di prorogatio.  Ma questi sono particolari che non cambiano il senso del conto alla rovescia che campeggia sul blog di Grillo: al momento in cui scrivo apprendo non solo che a Grillo va bene il proporzionale alla tedesca, ma pure che «mancano 108 giorni, 19 ore, 28 minuti e 32 secondi alla pensione privilegiata dei parlamentari».

Una nuova legge elettorale che riduca la frammentazione del sistema politico sarebbe, comunque, un passo avanti. E sarebbe importante che PD, Forza Italia, Lega e M5S lo compissero insieme. Certo, la direzione maggioritaria che il Pd renziano aveva intrapreso, non ha superato lo scoglio del referendum del 4 dicembre. Ma è sempre più chiaro che un congegno elettorale non basta, nell’attuale quadro politico e istituzionale, per assicurare la governabilità del Paese. È ragionevole prevedere allora che, all’indomani delle elezioni, le forze maggiori dovranno trovare un qualche accordo perché la nave della prossima legislatura prenda il largo. Ma affrontare la fase parlamentare che seguirà in forza di un sistema di voto adottato sulla base di un’intesa larga, fra tutte o quasi le maggiori formazioni politiche, renderà perlomeno spuntato l’argomento dell’orrido inciucio che da una ventina d’anni a questa parte viene sollevato contro ogni sorta di accordo che venga tentato per uscire dallo stallo attuale. Persino il Movimento dovrà convenirne, e il fatto che sembri oggi disponibile a condividere con gli altri partiti una scelta sul sistema elettorale di questo rilievo, se non é frutto di mera furbizia tattica (e soprattutto se Grillo non si sfilerà alla prima occasione utile, magari proprio per via del count-down) rappresenta sicuramente un’ottima notizia. Non si tratta della «costituzionalizzazione» dei pentastellati, al cui interno rimangono sin troppe opacità – dal ruolo del Capo alla gestione della piattaforma, dalle regole sulle espulsioni ai rapporti con la stampa – ma di sicuro è una sorta di candidatura a svolgere non più un ruolo di squilibrio è rottura del vecchio sistema, ma un possibile ruolo di equilibrio e di costruzione del nuovo sistema.

(Il Mattino, 30 maggio 2017)

Silvio e Matteo, l’intesa e la discrezione

Pavlov

La solidarietà di Berlusconi a Matteo Renzi e a Maria Elena Boschi vale quel che vale. Per un leader politico che non ha conosciuto un solo giorno in cui non fosse sotto attacco della magistratura, è il minimo sindacale. È la risposta che il Cavaliere dà ormai di default, ogni volta che qualcuno inserisce il file: “magistratura e politica”. Ciò non vuol dire che il tema non sussista, né che Berlusconi non pensi davvero che le intercettazioni pubblicate in questi giorni ledano la sfera privata, ma siamo al cane che morde l’uomo, non all’uomo che morde il cane: non è quella, insomma, la notizia.

La notizia è invece che Berlusconi vuole essere della partita. E la partita più importante che si giocherà di qui alla fine della legislatura è quella che riguarda la legge elettorale. Ora che il Pd ha messo nero su bianco la sua proposta (in soldoni: metà maggioritaria, metà proporzionale), si apre la possibilità concreta di un percorso parlamentare. Per il quale però occorrono numeri che il partito democratico ha alla Camera, ma non ha al Senato (o, se li ha, sono talmente risicati che è difficile fare previsioni). Dunque bisogna inserirsi nella discussione: dare qualcosa per avere qualcosa. Così funziona. Cosa ha da perdere Forza Italia, in questo momento, e cosa può dare? Quello che ha da perdere è la possibilità di presentarsi come un’alternativa credibile alla sinistra di Renzi e ai Cinquestelle. Credibile significa: in grado di competere. Allo stato, la possibilità di competere passa per due condizioni: la presenza di una leadership riconosciuta, la capacità di aggregare lo schieramento di centro-destra. In un sistema maggioritario, si tratta di condizioni irrinunciabili. In un sistema proporzionale no. Dunque, quanto più Berlusconi sente lontane quelle condizioni, tanto più inclinerà per una soluzione di tipo proporzionale.

Questo semplice principio consente una prima lettura delle parole pronunciate ieri dal Cavaliere. Accantoniamo dunque il Berlusconi animalista che passeggia nel parco di Arcore tra simpatici animali e punta al voto dei proprietari di cani e gatti; mettiamo pure da parte le dichiarazioni sui volti nuovi, competenti e con voglia di fare necessari al partito e veniamo al sodo, badiamo a quel che c’è di nuovo. E di nuovo c’è che il leader azzurro considera possibili le elezioni in autunno, il che significa: non è sulla data delle elezioni che Forza Italia opporrà barriere insormontabili. Oppure: se troviamo un’intesa sul sistema elettorale, possiamo ragionare anche sulla data.

Poi il Cavaliere aggiunge: con Salvini non siamo poi così lontani, a parte la questione dell’euro. E qui il primo principio non basta più, ma forse ci vuole la lezione storica. Se infatti si torna con la memoria al Mattarellum – la prima legge elettorale con cui Forza Italia si misurò, con successo, nel ’94 – si ricorderà che, a parte altre differenze, la quota proporzionale era fissata più in basso rispetto all’attuale proposta del Pd: al 25%, contro il 50% del cosiddetto «Rosatellum». E però la legge non impedì affatto alla coalizione di centrodestra di presentarsi nei collegi uninominali della quota maggioritaria con una fisionomia variabile: al Nord in alleanza con la Lega Nord, al Sud con Alleanza nazionale di Fini. La prova di governo, dopo la vittoria alle elezioni, durò solo pochi mesi, ma resta memorabile l’impresa elettorale: Berlusconi riuscì infatti a mettere insieme due forze politiche che più lontane non si sarebbero potute dire (anche su temi fondamentali come l’unità nazionale).

Fermo restando allora il principio sopra enunciato, ho l’impressione che il Cavaliere abbia certo motivi di ostilità nei confronti della proposta dei democratici, perché preferirebbe un sistema alla tedesca che conducesse diritto e filato ad una qualche grande coalizione, che cioè dopo il voto emarginasse gli opposti estremismi di destra e sinistra, ma sappia anche che con il «Rosatellum» non è impossibile stringere accordi con la Lega a livello di singoli collegi. Un sistema del genere è sicuramente preferibile a qualunque soluzione di tipo premiale, sia che il premio vada alla lista (Forza Italia ben difficilmente sarà il primo partito italiano) sia che vada alla coalizione (perché qui vale il principio: un accordo organico con la Lega per un centrodestra unito è di là da venire). Un congegno elettorale che sia maggioritario ma non troppo, e che mantenga spazio sia per accordi elettorali prima, che per accordi politici dopo, è confacente alla situazione in cui si trova attualmente Forza Italia. E lo è anche al Pd, mentre lo è molto meno ai Cinquestelle, che non hanno il personale politico sperimentato per la prova nei collegi uninominali, e non hanno neppure facilità di accordi: né nei singoli collegi, né nella prospettiva del governo.

Se poi, per essere della partita, bisogna spendere parole di solidarietà nei confronti di Renzi e Boschi – parole che sono abbastanza urticanti per le vecchie e nuove file dell’antiberlusconismo, e che quindi aprono un fossato sempre più ampio fra il Pd e quello che si trova alla sua sinistra – beh: che ci vuole? Con una mano Berlusconi accarezza idealmente tutti gli animali domestici degli italiani; con l’altra aizza invece il cane di Pavlov della sinistra dura e pura, la quale con un riflesso condizionato parla di intelligenza col nemico e chiama inciucio qualunque tentativo di intesa fra centrodestra e centrosinistra. Che se invece la legge elettorale la facesse il Pd da solo, certamente si ritroverebbe addosso l’accusa di essersela cucita su misura. Ma questa, delle eterne divisioni e contraddizioni della sinistra, è evidentemente un’altra storia.

(Il Mattino, 21 maggio 2017)

Primarie Pd, le idee per scegliere

pd puzzle

Primarie a bassa intensità, noiose, clandestine. Primarie scontate, primarie con rito abbreviato, primarie spopolate: definite in molti modi, rappresentano comunque l’appuntamento più largo e partecipato che in questo modo offre la vita interna dei partiti italiani. E dunque vale la pena darci un’occhiata, provare a orientarsi tra i profili e i programmi dei tre cavalieri – Renzi, Orlando, Emiliano – che in singolar tenzone si contendono la guida del partito (e, a norma di statuto, anche la premiership).

Sinistra

Ci sono quelli che dicono che la distinzione fra destra e sinistra non ha più molto senso. E tuttavia il partito democratico (che con Renzi segretario ha definitivamente aderito al socialismo europeo) continua a definirsi come un partito di sinistra, e tutti e tre i candidati condividono questa collocazione. Cambiano però gli aggettivi qualificativi, che sono necessari per apprezzare le differenze. La sinistra di Orlando somiglia alla tradizione socialdemocratica, e l’insistenza sul tema dell’uguaglianza fa sì che “democratico” sia senz’altro l’aggettivo da scegliere per la sua proposta programmatica. Quella di Renzi è invece una sinistra liberale, con più robusti innesti di liberalismo nelle proposte economiche, nell’idea di modernizzazione, nell’insistenza sul tema dello sviluppo. Emiliano, infine, è l’unico che non disdegnerebbe affatto l’aggettivo populista, che prova a presentarsi come l’uomo che lotta contro l’establishment e i potenti («il Pd dei banchieri e dei petrolieri»).

Populismo

A proposito di populismo, detto che per Emiliano non sembra affatto che sia un vero avversario, e che anzi ci andrebbe volentieri a braccetto, Orlando e Renzi usano entrambi la parola per denunciare un pericolo per le istituzioni democratiche, o perlomeno per le politiche di cui il Paese avrebbe bisogno. Orlando lo considera un «rischio mortale» per il Pd e, pensando a Emiliano ma anche a Renzi, denuncia le dosi di populismo entrate nelle vene del partito (ad esempio sul tema dei costi della politica, che Renzi riprende e che Orlando invece non cavalca mai). Per Renzi, al di là di stile, tono e qualche volta argomenti, la vera risposta al populismo stava però nella riforma costituzionale, cioè nel passaggio ad un sistema politico e istituzionale semplificato e più efficiente.

Legge elettorale e sistema istituzionale

Sul primo punto, in cima all’agenda dei prossimi mesi, siamo al ballon d’essai delle dichiarazioni quotidiane. C’è molto tatticismo, e il sospetto fondato che alla fine non cambieranno le cose. Ci terremo probabilmente la legge uscita dalla sentenza della Corte costituzionale, con piccoli aggiustamenti. Renzi, comunque, punta tuttora a correttivi maggioritari; Emiliano si dichiara per un maggioritario con collegi uninominali, e tutti e due vogliono togliere i capilista bloccati. Orlando proviene da una cultura di tipo proporzionalista, ha sposato nella sua mozione la proposta Cuperlo con il premio di lista ma è disponibile ora al premio di coalizione. La riforma costituzionale, dopo il referendum, è invece divenuta un terreno completamente minato: nessuno ci cammina più su. Nella mozione congressuale di Renzi c’è un cenno alla riforma del titolo V (autonomia regionale), in Orlando nemmeno quello. Ma è giusto ricordare che Renzi e Orlando stavano dalla stessa parte, mentre Emiliano ha osteggiato fragorosamente il programma di riforme del governo, e ha votato no al referendum.

Alleanze

Insieme alla legge elettorale sta il punto politico: le alleanze. Gli ultimi giorni si sono giocati su questo tema: Orlando agita contro Renzi lo spauracchio dell’accordo con Berlusconi. Renzi ribatte che Orlando la coalizione con Berlusconi l’ha già fatta. Ma in realtà il tema non può essere declinato concretamente in assenza di una legge. Se rimane un impianto proporzionale, le alleanze si faranno dopo il voto, non prima: secondo necessità. Non è chiaro infatti come si possa evitare l’accordo con il centrodestra senza un meccanismo maggioritario sul modello del tanto deprecato (e dalla Corte costituzionale bocciato) Italicum. Le discriminanti sembrano in realtà altre. Orlando non ha difficoltà a riprendere il dialogo con i fuoriusciti del Pd, Renzi invece ne fa una questione di coerenza: con Pisapia e il suo campo progressista sì, ma come si fa a stringere un’alleanza con D’Alema e Bersani, che il Pd lo hanno rotto? Che senso ha dividersi il giorno prima e allearsi il giorno dopo? Quanto a Emiliano, guarda con interesse agli elettori grillini, e si capisce che cercherebbe alleanze da quella parte.

Unione europea

Dici Europa e li trovi tutti d’accordo: sembra quasi una gara a chi si dice il più europeista di tutti (anche se tutti aggiungono subito dopo che così com’è l’Unione non va). Emiliano, i cui toni populisti non sembrerebbero andare a braccetto con il sogno europeista, innalza addirittura il vessillo degli Stati Uniti d’Europa; Orlando ne fa prioritariamente una questione di policies e punta alla costruzione del “pilastro sociale” che mancherebbe all’Unione; Renzi tiene insieme le due cose e soprattutto prova a rilanciare l’iniziativa politica per cambiare l’Europa, proponendo di affidare alle primarie la scelta del candidato alla Presidenza della Commissione. In realtà, con la probabile elezione di Macron (apprezzato da tutti e tre) e un possibile, rinnovato asse franco-tedesco, gli spazi per i giri di valzer si riducono: Renzi batte i pugni a Bruxelles, Emiliano dice che lo fa troppo poco, e Orlando dice che lo fa inutilmente. Questioni di immagine, più che di sostanza.

Mezzogiorno

Il Mezzogiorno c’è nei programmi di tutti e tre. Ma nessuno dei tre candidati lo ha scelto come terreno sul quale marcare una vera differenza rispetto agli altri due. Neppure Emiliano, che pure è governatore di una regione meridionale, la Puglia. Tutti e tre pongono la questione meridionale come una questione nazionale. Tutti e tre sono consapevoli che l’Italia non potrà mai crescere oltre lo zero virgola se a crescere non sarà anzitutto il Sud. Ma nessuno dei tre ha chiesto un solo voto per il Sud, e alla fine il risultato che prenderanno in Campania o in Sicilia, in Puglia o in Calabria dipenderà molto di più da dinamiche di tipo localistico, che dal profilo programmatico che hanno assunto. E al dunque: Renzi voleva portare il lanciafiamme a Napoli, ma poi non lo ha fatto. Orlando invece a Napoli ci ha fatto il commissario, e chiamarsi fuori non può; Emiliano infine s’è preso lo sfizio di strizzare l’occhio a De Magistris appoggiando pochi giorni fa «l’insurrezione pacifica contro Salvini». Tant’è.

Migranti e sicurezza

Tutti e tre i candidati subiscono la pressione dell’opinione pubblica e tendono a declinare i due temi insieme. Tutti e tre si coprono – come si suole dire – su quel fianco sul quale tradizionalmente i partiti di sinistra si mostrano più scoperti. Così Emiliano spende parole sull’accoglienza e sul bisogno di manodopera straniera della sua Puglia (non proprio un argomento di sinistra), ma nel confronto televisivo tiene a ricordare che lui, da magistrato, girava con la pistola nella tasca dei pantaloni. Renzi fa la polemica con l’Unione europea che scarica sul nostro Paese il peso maggiore nell’accoglienza, ma si allinea alle posizioni più dure in tema di legittima difesa (non proprio una posizione di sinistra); Orlando vuole superare il reato di immigrazione clandestina, ma difende la sua legge che accelera l’esame del diritto d’asilo, togliendo il grado di appello (legge assai poco amata a sinistra). In compenso, nessuno di loro indietreggia di fronte al compito di salvare le vite umane in mare e difendere le Ong.

Economia

Per tornare a trovare differenze più accentuate fra i tre candidati, bisogna allora tornare a guardare ai temi dell’economia e della società. La più chiara di tutte: Orlando e Emiliano sono per una patrimoniale, mentre Renzi la esclude. Il programma economico e sociale di Renzi è per il resto tracciato nel solco di quello seguite dal suo governo. E cioè il jobs act, poi gli 80 euro, «cioè la più grande operazione distributiva che sia mai stata fatta», poi la riforma della pubblica amministrazione e quella della scuola. Orlando in realtà faceva parte del governo e Renzi non ha mancato di ricordarglielo, ovviamente. Ciò non toglie che Orlando ha criticato la politica dei bonus, che vanno a tutti, ricchi e poveri indistintamente, e provato a riprendere il tema più classicamente socialdemocratico della redistribuzione dei redditi («sradicare in tre anni la povertà assoluta»). Emiliano ha forse il programma più a sinistra: critica l’abrogazione dell’art. 18, vuole tassare le multinazionali del web, vuole una forma universale di sostegno al reddito. E però vuole pure la riforma dell’IVA, finanziandola con il recupero dell’evasione dell’imposta.

Partito

Come sarà il partito democratico dal 1° maggio? Se vince Renzi, è l’accusa degli altri due, sarà quello che è stato finora: un partito fortemente segnato dalla leadership di Matteo, tinto di prepotenza e poco inclusivo. Emiliano era sul punto di andarsene, poi è rimasto ma continua a dipingere Renzi quasi come un pericolo. Orlando ha finito la campagna elettorale arrivando a dire che o vince Renzi o vince il Pd. In effetti, Renzi è arrivato alla guida del Pd sull’onda della rottamazione, non mancando di aggiungere che preferiva farsi dare dell’arrogante piuttosto che farsi fermare dai veti incrociati dei maggiorenti del partito. Nella sua mozione, però, gli accenti sono mutati: cita Gramsci, propone non un partito pesante ma un partito pensante, ne mantiene il tratto aperto e contendibile, fondato sul modello delle primarie, ed è soprattutto l’unico che prova a tratteggiare un modello nuovo di militanza. Emiliano chiede invece di cambiare lo statuto e l’identificazione fra candidato premier e segretario nazionale, Orlando propone invece le primarie regolate per legge.

Le persone

Le differenze, tutto sommato, ci sono. Ma sicuramente si disegnano con più nettezza se si guarda alle rispettive personalità. Orlando è quello più “strutturato”, che prova a incarnare la serietà della politica; Emiliano fa quello fuori dalle righe, che sta tra la gente e fuori dal Palazzo (pur essendoci seduto dentro); Renzi vuole essere ancora l’uomo delle riforme, che ha cominciato e vuole continuare. Uomo della mediazione Orlando, uomo della declamazione Emiliano, uomo della rottamazione Renzi. Correzione di rotta per Orlando, rivoluzione gentile per Emiliano, cambiamento per Renzi, bandiera finita nella polvere dopo il 4 dicembre. Non se ne è parlato molto, ma il senso dato a quel voto è un vero discrimine fra i tre. Un no sacrosanto per Emiliano; una severa lezione, per Orlando; uno stop imprevisto dal quale ripartire per Renzi. Solo il voto di oggi potrà indicare la strada. E questo, dopo tutto, è il bello della democrazia (non quella diretta).

(Il Mattino 30 aprile 2017)

Legge elettorale, le regole del Colle

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Un indizio è soltanto un indizio, due indizi fanno una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. La scrittura della nuova legge elettorale non è un romanzo di Agatha Christie, ma ieri di indizi ne sono venuti proprio tre, come voleva la regina del giallo. Il primo lo ha fornito Silvio Berlusconi, che salito al Quirinale per il messaggio di auguri del Capo dello Stato, ha detto che di legge elettorale si tornerà a parlare dopo la Consulta, essendo necessario, su una materia così «seria», confrontarsi attorno a un tavolo per giungere a un testo condiviso.

Campa cavallo? L’unica indicazione che il Cavaliere ha fornito nel merito non va, peraltro, in direzione del Mattarellum proposto domenica, nell’Assemblea nazionale del Pd, da Matteo Renzi. Serve una legge – ha detto – che «faccia corrispondere maggioranza parlamentare e maggioranza politica». Ora l’idea stessa di una corrispondenza confligge con i meccanismi disproporzionali di qualunque legge capace di generare effetti maggioritari, come i collegi uninominali del Mattarellum. Quindi, quello del Cavaliere a tutto somiglia meno che a un via libera.

Del resto, Forza Italia non ha mai amato la legge che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica: proprio per via dei collegi, che obbligano le forze politiche a raggiungere un accordo a livello locale, collegio per collegio, su un solo nome. Cioè costringono Berlusconi a subire il forte radicamento territoriale della Lega in certe aree del Paese.

Il secondo indizio – e siamo alla coincidenza – è venuto dai lavori parlamentari, con la scelta di non procedere all’esame della materia elettorale prima della sentenza della Consulta. La Lega ha alzato la voce, denunciando l’inedita alleanza, in commissione affari costituzionali, fra Pd, Forza Italia, M5S, e accusando i parlamentari di puntare al vitalizio, tirando per le lunghe la legislatura almeno fino al prossimo autunno. Ma non occorrono motivazioni così basse: si può fornire una spiegazione più politica per la decisione assunta, che sta meno nella volontà di allungare i tempi e più nelle perplessità che la proposta di Renzi solleva. In Forza Italia s’è detto. Quanto ai Cinquestelle, confidando di vincere le elezioni, essi sperano ancora in un Italicum magari riveduto e corretto dalla Corte, ma che mantenga comunque un premio per il primo partito. Se poi così non fosse, la seconda scelta non sarebbe certo il Mattarellum, che dà qualcosa in più, col meccanismo uninominale, alle formazioni in grado di esprimere una classe dirigente ampia e riconosciuta (che ad oggi il Movimento non ha), bensì un sistema proporzionale, che dà a ciascuno il suo senza risolvere la questione del governo. Con i chiari, anzi i raggi di luna dei cieli romani, mancare l’appuntamento del governo nazionale ma ingrossare le proprie file in Parlamento non sarebbe forse una cattiva soluzione, per Grillo & Casaleggio.

Infine il Pd: il voto di domenica lo ha ricompattato intorno alla proposta del segretario, però è noto che molti, dentro il partito, pensano che per Renzi le cose si complicherebbero non poco in uno scenario di tipo proporzionale. Nel gioco parlamentare che la prima Repubblica allestiva per giungere alla formazione dei governi (per farli, certo, e per disfarli), la regola non scritta era infatti che il Presidente del Consiglio non fosse il segretario del partito. Ci sono voluti Spadolini prima e soprattutto Craxi poi per cambiare le consuetudini dei capi democristiani. Era un altro mondo, naturalmente, ma a parte nostalgie e rimpianti – almeno in parte giustificate dalle prestazioni non eccelse dell’assetto istituzionale della seconda Repubblica – di sicuro c’é, nel Pd, chi si chiede perché dare ancora a Renzi, col Mattarellum, una dote maggioritaria che potrebbe portarlo di nuovo alla guida del governo.

Queste, ammettiamolo, sono solo ipotesi, congetture, ragionamenti astratti. Ma poi c’è il terzo, decisivo indizio: ci sono le parole del Presidente della Repubblica. A sentir le quali, di nuovo: la legge elettorale si allontana. Per Mattarella il sistema va senz’altro  «riallineato rispetto agli orientamenti del corpo elettorale», ma solo nel momento in cui «l’andamento della vita parlamentare ne determinerà le condizioni». Non c’è posizione più corretta dal punto di vista costituzionale, ma è comunque una non piccola sottolineatura. Qualcosa di più di una precisazione in dottrina. Tanto più che il richiamo, detto che non si può andare al voto con due leggi opposte fra Camera e Senato – una «fortemente maggioritaria», l’altra «assolutamente  proporzionale» – è stato accompagnato dall’invito a trovare una soluzione «più ampia della maggioranza di governo».

Di nuovo: è assolutamente corretto ed anzi auspicabile, e però una soluzione del genere da un lato prende tempo, dall’altro è molto difficile che si trovi intorno al Mattarellum, voluto allo stato solo dal partito democratico (renziano) e dalla Lega. Ora si può immaginare che la legge elettorale la facciano il Pd e la Lega? Forse no. E forse, se tre indizi fanno una prova, la battaglia politica che Renzi deve ingaggiare per spuntare una legge che gli restituisca lo scettro della leadership è molto più dura del previsto.

(Il Mattino, 21 dicembre 2016)

Renzi tra autocritica e rilancio

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Un voto quasi unanime dell’Assemblea nazionale segna la ripartenza del partito democratico. La minoranza non partecipa al voto, ma dà il via libera alla proposta di Renzi di ricominciare dal Mattarellum, «l’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi». E che può tastare la voglia di elezione degli altri partiti. Il congresso viene riportato alle scadenze statutarie, quindi dopo le politiche, anche per evitare di farne solo una conta, e nel frattempo si prova a rilanciarne l’azione con una conferenza programmatica e una mobilitazione dei circoli sul territorio. C’è spazio anche per qualche spunto personale e qualche stilettata polemica, per una parola di solidarietà per il sindaco di Milano, Sala, e per un attacco frontale alla Raggi e ai Cinquestelle, ma gran parte del discorso è rivolta a ristabilire un clima di confronto civile all’interno del partito.

L’ex premier fa velocemente il bilancio dei mille giorni passati al governo, rivendica il lavoro compiuto ma non vi si dedica troppo: non è il momento di celebrarsi. L’analisi del voto è severa, senza compiacimenti per quel 41% di sì che non cambia i termini del risultato: per il Pd è stata una sonora sconfitta, soprattutto al Sud e tra i giovani. «Abbiamo straperso», dice Renzi senza giri di parole. Ma è escluso che si torni indietro, e per togliere ogni dubbio mette nella colonna sonora dell’Assemblea l’inno beffardo di Checco Zalone alla prima Repubblica. E però, a fine giornata, le idee forti per ripartire daccapo e rimettersi il partito in asse col Paese latitano un po’.

Le quattro sconfitte.

Renzi non comincia dall’analisi del voto, ma ci arriva presto. E non fa sconti, non usa giri di parole. Ammette che la via del cambiamento istituzionale come risposta alla crisi generale del Paese è ormai preclusa. La sconfitta è maturata non una ma quattro volte: nel Sud, tra i giovani, nelle periferie, sul web.  Non è poco, perché chiama in causa la natura stessa di un partito di sinistra, che proprio in quelle aree e in quelle fasce sociali dovrebbe invece riscuotere più consenso. Fa male a Renzi soprattutto non aver convinto le nuove generazioni, sia per il segno generazionale che aveva impresso alla sua leadership, sia perché le riforme costituzionali dovevano parlare del futuro della nuova Italia, e dunque convincere anzitutto loro. L’unico lenimento alla sconfitta è la consapevolezza che quelli del No non hanno una proposta politica: « C’era nel fronte del No chi diceva che in 15 giorni avrebbe fatto le sue proposte di riforma. Aspettiamo i prossimi cinque mesi».

Le riforme

Un libro racconterà l’esperienza del governo Renzi. In altri tempi, i mille giorni sarebbero forse stati ripercorsi da Renzi con il passo di una campagna napoleonica: l’ex Presidente del Consiglio deve invece limitarsi al progetto editoriale e a un’orgogliosa rivendicazione del lavoro svolto. Quando però dice che le riforme approvate dal suo governo non puzzano, ma resteranno nella storia del Paese, si sente che lo dice con convinzione. È significativo tuttavia che scelga, per riassumere il senso dell’operato del suo governo, la legge contro il caporalato, la legge sulle unioni civili, la legge sullo spreco alimentare. Il bilancio è cosa del passato, e il mio governo è già passato remoto, dice Renzi, ma intanto sceglie di non citare la buona scuola e il jobs act, e di richiamare le misure condivise da tutto lo schieramento democratico. Lo fa anche perché registra dal voto e dal dibattito interno l’esigenza di spostare più a sinistra il baricentro del partito. (Sull’orizzonte del nuovo governo Gentiloni c’è poco o nulla nel suo discorso, e così anche in quello di tutti gli altri relatori dell’Assemblea: giusto, insomma, lo spazio di una parentesi).

Il tempo dei tour è finito.

Il terreno sul quale più ampia si fa la disponibilità del Segretario è quello del partito e della sua interna organizzazione: Renzi annuncia un imminente incontro con tutti i segretari provinciali e regionali, poi una grande mobilitazione dei circoli e, più in là, una conferenza programmatica. L’accento viene portato sul noi, sul senso di appartenenza, sulla comunità dei democratici (in contrapposizione con l’azienda privata Casaleggio & associati, che procede a colpi di contratti e di penali per gli eletti del Movimento Cinquestelle). Accetta le critiche alla personalizzazione della lotta politica e rinuncia a ripartire in tour, col camper: il partito di Renzi, insomma, non si materializza neppure questa volta. Del resto, l’analisi è persino edulcorata rispetto alla realtà del partito in molte zone del Paese, e Renzi ne è chiaramente consapevole. Lo si capisce per esempio dal passaggio in cui dice che nel Mezzogiorno si è sbagliato a puntare sul notabilato locale, invece che cercare forze nuove e vive nella società. La frittura di pesce di De Luca non è stata ancora digerita.

Niente melina.

La proposta del Mattarellum è quella che ha scatenato il momento più vivace della giornata, con Giachetti che insulta il novello Davide, Speranza, sceso in campo contro Golia-Renzi («hai la faccia come il c.!», gli urla Giachetti, e parte la bagarre). Si capisce perché: era la proposta che il Pd di Bersani, con Speranza capogruppo, aveva lasciato cadere, assecondando la scelta del 2013 di votare col Porcellum. Col Mattarellum la legge elettorale mantiene un impianto maggioritario, grazie ai collegi uninominali, il che consente a Renzi di tendere una mano a Pisapia, il quale ha il non facile mandato di federare lo sparso arcipelago alla sinistra del Pd, e di spegnere o almeno attenuare le pulsioni proporzionaliste che serpeggiano in Parlamento, in quasi tutte le forze politiche: nella minoranza Pd, che la considera come una sconfessione della stagione renziana; in Forza Italia, che non avrebbe più il problema di allearsi con Salvini; nei piccoli partiti, che non avrebbero il problema di confluire nei grandi; fra gli stessi Cinquestelle, che di andare da soli fanno una religione. Ma Renzi sa che i collegi uninominali premiano il partito che ha più nomi e classe dirigente da mettere in campo e, checché se ne pensi, questa forza rimane, a tutt’oggi, il partito democratico. Di qui la proposta, e l’energico invito a non fare melina. Col Mattarellum hanno vinto sia la destra che la sinistra: quindi un accordo lo si può trovare, ha detto Renzi. E forse ci crede davvero.

Ideologia, malgrado tutto

C’è qualcosa che Renzi ha lasciato fuori? Ha fatto il bilancio del governo e l’analisi del voto; ha indicato un nuovo fronte di impegno nel partito e formulato una proposta chiara e forte sulla legge elettorale; ha menato fendenti ai grillini e qualche stilettata a Bersani & Company: che altro? Forse di altro il Pd avrebbe bisogno. Perché molti interventi – da Cuperlo a Orlando, da Martina a Del Rio – hanno ragionato di una crisi della sinistra, in Italia e in Europa, che data da molti anni. Si sono sentiti accenti preoccupati sulle diseguaglianze crescenti, sulle nuove povertà, sui populismi alimentati da paure e insicurezze, sulle nuove esigenze di protezione sociale, sulla necessità di ripensare il ruolo dello Stato, ma la distanza tra il Pd e quest’orizzonte di temi e problemi rimane ampia: sul piano  culturale e ideologico prima ancora che su quello programmatico. A quelli che pensano che le ideologie sono defunte basterebbe sussurrare due o tre nomi: Trump, Le Pen, Brexit; e aggiungere parole come: Islam, emigrazione, banche, euro. A torto o a ragione, su tutte queste parole esiste un compatto fronte di idee in cui pesca la destra europea, e i suoi emuli italiani. E la sinistra? Come legge il Pd la globalizzazione, come legge o corregge la modernizzazione del Paese, come ridefinisce il suo profilo mentre il socialismo europeo continua ad andare a rimorchio delle forze moderate e popolari, dalla Merkel, in Germania, a Fillon, in Francia? Renzi è rimasto sulla superficie, e forse non poteva fare altrimenti, per riprendere in mano il partito e guidarlo nella prossima campagna elettorale. Ma che il Pd abbia bisogno di sterrare le radici della propria storia, per ripiantarle meglio e più in profondità, è pensiero di cui, dopo il 4 dicembre, molti ormai si sono fatti persuasi.

(Il Mattino, 19 dicembre 2016)

La sfida nel Pd e il declino del riformismo

unexpected_meeting_palette_knife_by_leonid_afremovLe prime giornate d’autunno, le prime piogge, i primi freddi, sono il clima più indicato per quei quesiti esistenziali che nei momenti di crisi, o di passaggio, inevitabilmente affiorano. Ma se i dubbi riguardano le scelte politiche, allora non è nelle condizioni atmosferiche che bisogna cercare la ragione per cui compaiono. La Direzione del partito democratico si è conclusa con un voto unanime, ma la minoranza di Bersani, Cuperlo e Speranza ha scelto di non votare: le distanze, dunque, permangono. E il paradosso è che esse riguardano meno, molto meno il merito della riforma costituzionale, che l’Italicum, la legge elettorale. I prossimi giorni e le prossime settimane, comunque, ci diranno se l’iniziativa avviata da Renzi per «togliere l’alibi» alla minoranza interna, sortirà qualche effetto.

Ma se si solleva un po’ lo sguardo da questa partita molto tattica, fatta di mosse e contromosse, di frenate e aperture, di reciproci logoramenti e reciproche diffidenze, si vedrà, in un orizzonte più largo, non il cielo grigio di Roma e le prime foglie gialle, ma lo stato della sinistra riformista in Europa. Uno stato che definire di crisi è usare un tenero eufemismo. In Gran Bretagna, Corbyn sembra rinchiuso in una ridotta sempre più angusta, tanto che spunta di nuovo il nome di Tony Blair come ciambella di salvataggio per un partito sempre più lontano da un profilo di governo. In Francia Hollande è ancora in sella, ma il cavallo socialista pare giunto a fine corsa, e si avvicina l’eventualità di un ballottaggio per le presidenziali in cui la sinistra dovrà ingoiare l’amaro boccone di votare una destra presentabile e repubblicana, pur di fermare l’avanzata del lepenismo. In Germania la Merkel è in difficoltà, ma ad incalzarla  non sono i socialdemocratici. I quali sono da tempo entrati in una logica rassegnata, da «second best»: ipotizzare che possano andare oltre la partnership di minoranza in una grande coalizione è, al momento, complicato. In Spagna, infine, i socialisti sono in una profonda crisi di leadership, ben lontani dal costruire, da posizioni di forza, un orizzonte egemonico. Il resto d’Europa conferma, anzi aggrava questo quadro.

Ma al di là delle problematiche congiunture elettorali, è sul piano culturale che è sempre più difficile capire in che cosa i socialisti europei si differenzino dalle formazioni moderate o conservatrici. In che cosa l’agenda sui temi fiscali, del welfare, dell’immigrazione, della sicurezza, della stessa costruzione politica dell’Unione permetta di tirare un discrimine chiaro e netto.Di che cosa parlano, quali bisogni individuano come prioritari, quali domande sociali, quali interessi e anche quali ideali. Tutti i partiti che aderiscono al gruppo socialista del Parlamento europeo si definiscono progressisti, ma che cosa questa etichetta significhi è perlomeno dubbio: progressista è chi vuole una più stretta unione politica, o chi difende il welfare nazionale? Forse progressista è chi vuole politiche inclusive verso i migranti, e più ampi diritti di cittadinanza, ma allora perché tra i socialisti europei ci sono pure quelli dei muri e dei respingimenti? E l’euro: è stato o no un progresso? Lo si può dire forte e chiaro (e lo si può dire con la stessa forza e chiarezza a Roma, Atene e Berlino)? La  globalizzazione, l’internazionalizzazione dei mercati, le nuove tecnologie: fattori di progresso o seminatrici di paure?

La verità è che, come molti osservatori hanno notato, le linee di faglia lungo le quali si struttura il confronto politico si spostano, ed oggi la linea principale è saldamento presidiata dalle formazioni populiste. Che parlano oggi la lingua a tutti comune: la casta, i costi della politica, la corruzione e l’onestà. A questi temi si aggiungono quelli che articolano i timori di questo inizio di millennio, su cui la destra sembra avere più argomenti: lo straniero, il musulmano, la crisi ecologica, il terrorismo. Qual è invece il lessico della sinistra? Difficile trovare le parole. C’è chi considera questo spostamento di campo – di linguaggi, di emozioni, di convinzioni – un effetto della lenta, ma inesorabile consumazione ideologica dei partiti tradizionali, e chi invece capovolge il rapporto, e ritiene che sia l’emergere di nuove istanze, di nuove soggettività, di nuovi scenari globali ad accompagnare le diverse declinazioni del socialismo europeo verso la porta di uscita della storia. Che sia in un modo o nell’altro, il risultato sotto gli occhi è un pesante ingolfamento della tradizione riformista, che non riesce da tempo a indicare un futuro possibile verso il quale orientare le cuori e le menti di quella specie di umanità – oggi un po’ più rara di ieri – che rimane l’umanità europea.

Certo è ingeneroso usare questo metro lungo per giudicare l’esito della Direzione del Pd, il cui orizzonte era disegnato molto più ravvicinatamente dall’appuntamento di dicembre. Ma se la partita interna si accontenterà di rappresentarsi come la sfida tra quelli che hanno i voti, e spregiudicatamente comandano, e quelli che conservano il senso della sinistra, e molto si dolgono, allora si farà sempre più probabile che il destino del partito democratico si unisca, prima o poi, a quello dei partiti fratelli.

(Il Mattino, 12 ottobre 2016)

Il referendum decisivo per il futuro

272175433-giocare-a-carte-carta-da-gioco-tavolo-da-gioco-pokerE di nuovo ieri il premier Matteo Renzi ha ribadito, parlando in chiusura della festa nazionale del partito democratico, a Catania, la disponibilità a rivedere la legge elettorale. Lo aveva detto anche il giorno prima, ed era sembrato che fossero quelle le parole più importanti del suo intervento a tutto campo. Se le si guarda dal punto di vista della lotta politica – e dal punto di vista più limitato della lotta politica all’interno della maggioranza – lo sono indubbiamente. La minoranza del Pd, con Cuperlo e Speranza, continua a chiedere modifiche dell’Italicum. Lo stesso fanno i centristi, da Alfano a Casini. Quando dunque Renzi si dichiara disponibile a intervenire sulla legge, parla innanzitutto a questi settori. Quando però prova a rilanciare l’iniziativa politica, parla a tutti gli italiani. E allora le parole più importanti divengono altre: «una riforma elettorale si cambia in 3-5 mesi, una riforma costituzionale no». Non sarà un diamante, e non sarà per sempre, ma una riforma costituzionale dell’ampiezza di quella in discussione ha, non può non avere l’ambizione di durare per un bel pezzo. Abbiano o no ragione quelli per i quali l’Italicum non è il vestito giusto per l’attuale sistema politico tripolare – e tra di loro c’è anche il presidente emerito Napolitano, primo sponsor delle riforme – è persino ragionevole mostrare disponibilità sul terreno della legge elettorale, per portare a casa un risultato molto più durevole sul terreno delle riforme.

Un risultato, cerca di dire Renzi, capace di futuro. Tutto il discorso di Catania di ieri aveva questo significato. Dalla parte del sì sta il futuro del paese, dalla parte del no stanno i fallimenti della seconda Repubblica. Sta il passato, sta un’altra stagione della vita politica italiana ormai conclusa. E ovviamente sta Massimo D’Alema – sceso in campo come leader del no alla riforma – che più di tutti la incarna. Renzi prova a rilanciare l’iniziativa politica, a raccontare le riforme del suo governo (le unioni civili, la scuola, il jobsact) e i buoni propositi per l’anno venturo (primo fra tutti la riduzione delle tasse).

Ma soprattutto torna ad essere quello che sta davanti, con gli altri ad inseguire. Complici infatti le difficoltà dei Cinquestelle – ancora incartati con il caso Roma e i dolori della sindaca Raggi –, complici le guerre intestine nel centrodestra – con l’investitura di Parisi, voluta dal Cavaliere ma osteggiata dalla dirigenza del partito –, il presidente del Consiglio torna a dare le carte. A mettersi al centro degli equilibri e delle prospettive di governo del Paese. Tutto però dipende dalla capacità di apparire non come quello che vuol sfangarla, sopravvivendo alle forche caudine del referendum, ma come quello che cambia l’Italia. Il viatico è dunque la legge elettorale («sia che la Corte costituzionale dica sì, sia che dica no»), ma l’orizzonte è l’Italia del futuro. La prima è la polpetta che i partiti devono dividersi (se ci riescono, il che non è affatto scontato), ma il secondo è l’elemento davvero decisivo di cui ci si deve impadronire. La vittoria al referendum è insomma legata, per Renzi, alla possibilità di allestire uno scenario che coinvolga tutto il paese e non solo le sue classi dirigenti, che rimangono incerte spaventate o divise dal salto in un nuovo sistema politico-istituzionale.

Al premier, del resto, non manca il dinamismo per condurre questi due mesi, due mesi e mezzo di campagna elettorale all’attacco, su più fronti. Cercando sponde internazionali. Girando per l’Italia. Parlando a tutto campo. Mettendo anche un po’ di furbizia nell’orientare l’attività politico-parlamentare delle prossime settimane (vedi alla voce: legge di stabilità). E aprendo canali di comunicazione anche là dove, fino a poco tempo fa, si era al muro contro muro. A Napoli è così. Oggi il premier è in Campania, per una serie di appuntamenti in cui non gli mancherà certo il modo di confermare, insieme all’attenzione per il Mezzogiorno portata avanti con i patti per il Sud, questa nuova linea dialogante. E in serata, per l’evento organizzato da «il Mattino», siederà nel palco reale del San Carlo insieme al sindaco Luigi De Magistris. Certo, è una serata di gala, non un incontro istituzionale. Ma è, o può essere anche l’occasione per mostrare di avere il vento nelle vele anche alla città più «derenzizzata» d’Italia. A cui stasera in fondo si tornerà a chiedere se convenga continuare il gioco comunardo della repubblica indipendente, o unire il proprio destino a quello del resto del Paese.

(Il Mattino, 12 settembre 2016)

Renzi e i rivali. Due visioni, un unico destino

divisibilità indefinita

La fiducia chiesta dal governo sulla legge elettorale non è un vulnus alla democrazia, il cui stato di salute non è dunque messo a repentaglio dalla decisione presa ieri dal Consiglio dei Ministri e comunicata dal Ministro Boschi ad un’aula rumorosa e colorita. Piuttosto, si tratta del punto massimo al quale è giunto lo scontro politico: non solo fra maggioranza e minoranza, ma anche all’interno della stessa minoranza, e segnatamente all’interno del partito democratico.

Che non si tratti di uno sbrego costituzionale è dimostrato, oltre che dai regolamenti parlamentari, dalla Costituzione e dalle leggi in vigore, dal fatto che il Presidente della Repubblica non ha ritenuto sin qui di intervenire, lasciando che la questione fosse definita nella dialettica fra Parlamento e Governo. Resta però vero che il passo compiuto da Renzi, col chiedere la fiducia, è una decisione con ben pochi precedenti e soprattutto non priva di conseguenze. I casi analoghi verificatisi in passato– la riforma elettorale voluta da Mussolini nel ’24, la cosiddetta «legge truffa» nel ’53 – alimentano le parole roboanti spese ieri a margine dei lavori della Camera: Renato Brunetta ha parlato di «fascismo renziano», Nichi Vendola di «squadrismo istituzionale», ma sono paragoni privi di qualunque senso storico, frutto per un verso di una polemica politica al calor bianco (e ci sta), ma per altro verso di quella retorica del disconoscimento che purtroppo paralizza l’Italia da decenni (e ci sta un po’ meno).

Le conseguenze della decisione assunta ieri, però, vi sono tutte. Renzi ha passato il Rubicone sul quale finora si erano fermati i precedenti tentativi di sbloccare il sistema. Il primo tentativo, quello di Mario Monti, è presto naufragato, forse perché alla caratura intellettuale e tecnocratica di quella esperienza non corrispondeva un’analoga caratura politica. Fuor di metafora: i partiti che sostenevano il governo Monti non erano disponibili a scommettere davvero sul suo successo. Ma anche il tentativo di Enrico Letta, dopo la rielezione di Napolitano, non è andato a buon fine, e di nuovo è difficile sostenere che sia dipeso dalla mancanza di intenzioni riformatrici. Queste intenzioni si sono variamente raccolte, in questi anni, con pareri sempre più autorevoli e commissioni sempre più sagge: la volontà politica, però, è un’altra cosa.

E qui, forse, sta lo strappo vero. Formalmente parlando, questo governo è infatti ancora un governo di larghe intese, rimpicciolite – come si sa – dal passaggio di Forza Italia all’opposizione. Il consenso sulla legge elettorale si è perciò ridotto, ma l’investimento politico, proprio perciò, è aumentato. Finora, il motivo del consenso largo non v’è dubbio che abbia avuto un effetto paralizzante sull’azione di governo: Renzi sta mettendo fine a questa liturgia. Prestando il fianco a due obiezioni: la prima, che in certe materie di rilevanza costituzionale quel consenso è indispensabile; la seconda, che quando invece si è proceduto senza ricercarlo si sono fatti disastri, come col Porcellum voluto dal centrodestra nel 2005, o come con la riforma del titolo quinto della Costituzione fatta dalla sola maggioranza di centro-sinistra, nel 2001. Ma c’è un ma, cioè una bella differenza. Quei passi venivano compiuti da maggioranze deboli, essenzialmente per mettere i bastoni tra le ruote agli avversari che si apprestavano di lì a poco a vincere le elezioni politiche. Era insomma un modo per inibire il gioco altrui, non per giocare meglio la partita. Renzi sta facendo un’altra cosa: sta provando a giocarla davvero, quella partita, e fino in fondo. La chiamano democrazia decidente, e non ci siamo abituati. Ovvio dunque che sollevi allarme, che susciti preoccupazione, che procuri qualche inquietudine: è una cosa nuova.

Ma su questa novità Renzi ha deciso di puntare, senza esitazione, senza bon ton istituzionale, senza neppure concedere agli avversari l’onore delle armi, bensì con sfrontata arroganza. Lo diceva lui stesso, durante le primarie: preferisco passare per arrogante che arrendermi. Beh, ci è riuscito. In questo modo sono sicuramente messi a dura prova gli equilibri parlamentari, ma non perché il fascismo sia alle porte, non perché ci ritroviamo in una democrazia priva di contrappesi, e neppure perché si introduce così un presidenzialismo di fatto: tutte storie. Non per questo, ma per il preciso significato politico da cui il passaggio è investito: il governo sta o cade con l’approvazione della legge elettorale. Renzi sta o cade con essa. Lo sa la maggioranza, lo sa la minoranza. Le disquisizioni sulle soglie troppo basse o troppo alte, sul premio di maggioranza troppo ampio, sul turno di ballottaggio con o senza apparentamento sono tutte «ben fondate», come dicono i tecnici, ma non toccano la sostanza della sfida.

Che si avverte nel partito di maggioranza più ancora che in tutto il resto del Parlamento. Ciò non avviene però a causa di quanto basso sia il tasso di «sinistra» che vi sarebbe in Renzi, ma per la difficoltà a stare oggi nei partiti, in tutti i partiti, in posizione di minoranza. Alzi la mano chi è in grado di trovarne una, di codeste minoranze, che non stia in realtà quasi sempre sul punto di andarsene da un’altra parte. Vale per il Pd come per Forza Italia (vedi Fitto), o per il Nuovo Centrodestra (vedi De Girolamo) o per la Lega (vedi Tosi). Inutile dire dei Cinque Stelle e della inflessibile pratica grillina delle espulsioni. Su questo terreno si può forse dire allora che difficilmente sarebbe per Renzi una vittoria la lacerazione definitiva del partito democratico. E non perché la minoranza del Pd troverebbe chissà quali spazi fuori dal partito – ipotesi francamente improbabile – ma perché non sarebbe una buona cosa dimostrare che quegli spazi non ci sono neppure dentro. Significherebbe che il Pd è riuscito a dotarsi di una forte leadership personale, ma non a renderla compatibile con una vera dialettica interna. Che è invece l’autentico contrappeso politico che al nostro sistema continua a mancare, e che nessuna legge elettorale è, da sola, in grado di procurare.

(Il Mattino, 29 aprile 2015)

Maggioritario magico

Nel dibattito sulla riforma della legge elettorale torna a disegnarsi uno spartiacque che aveva preso forma anche all’inizio degli anni 90 tra fautori del proporzionale e fautori del maggioritario. Siccome l’accordo fra i partiti sembra pencolare dalla parte dei primi, sono oggi i fautori del maggioritario a lamentare una riforma che, ai loro occhi, appare più come una controriforma, un ritorno alla bassa cucina della prima Repubblica, ai governi fatti e disfatti in Parlamento (come se, appunto, il Parlamento fosse una bassa cucina), allo scippo del potere che il principio maggioritario assegnerebbe senz’altro ai cittadini di scegliersi il governo il giorno stesso delle elezioni, senza le deprecate trattative tra i partiti (come se in Costituzione non fosse scritto che i governi nascono con la fiducia del Parlamento, e non con il solo suffragio elettorale). A chi obiettasse che nei vent’anni che sono alle nostre spalle il maggioritario non ha dato gran prova di sé, viene risposto che ciò è dipeso da tutto il resto: dalle riserve proporzionali previste dalla legge, dai regolamenti parlamentari che favoriscono il frazionamento dei gruppi politici, dai rimborsi elettorali ai partiti che ne certificano – per dir così – l’esistenza in vita ben oltre il necessario, e così via. Da tutto, insomma meno che dal maggioritario.

Ci può stare. Quel che però non ci può più stare è la semplificazione, usata con grande disinvoltura, per cui maggioritario significherebbe di per sé efficienza e proporzionale significherebbe di per sé inefficienza; il primo sarebbe moderno e il secondo sarebbe logoro e stantìo. Siccome è evidente che si può mettere un sistema proporzionale in condizione di funzionare, così come si può mettere un maggioritario in condizione di non funzionare (ne abbiamo avuto ampiamente prova), deve essere altrettanto evidente a tutti che sistemi elettorali diversi disegnano sistemi politici diversi, i quali però non sono in astratto buoni o cattivi, ma lo sono invece nelle condizioni storiche, culturali, sociali in cui sono chiamati a vivere. Non c’è politologia che tenga, e neppure analisi comparata di sorta: non sarà la dimostrazione che in Germania funziona così, o in Francia colà, a rilasciare il giudizio storico-politico che ci occorre, per una decisione che supera di gran lunga la tecnicalità elettorale e riguarda nientemeno che un’idea di Paese. Lo stesso mantra del bipolarismo andrebbe recitato con maggiore circospezione. La Prima Repubblica (che era proporzionale) è stata bipolare: quella che è mancata è stata l’alternanza. La Seconda Repubblica (che è stata, grosso modo, maggioritaria) ha invece avuto l’alternanza, scandita con la regolarità di un pendolo. Ma a giudicare dai cambi di casacca, e dall’ultimo governo Berlusconi-Scilipoti, è persino opinabile che, con tutto il berlusconismo e l’antiberlusconismo del mondo, sia stata più nettamente bipolare di quanto sia stata la prima.

Il fatto è che se il sistema politico è frammentato non sarà una legge maggioritaria a ricompattarlo, se non forzosamente. Quel che ci occorre è invece un ricompattamento intorno a progetti politici, non  a mere premialità elettorali – che, come s’è visto, serviranno pure il giorno delle elezioni a darci un governo, ma non lo mettono in condizione di governare negli anni successivi.

E dunque? Dirò una cosa lievemente paradossale: non deprecherei i partiti che si facessero la legge elettorale a loro uso e consumo. Mi domando piuttosto: a uso e consumo di chi, in alternativa, dovrebbero farla? A parte demagogia populiste o tecnocratiche, se si crede ancora nella democrazia rappresentativa, e se non ci si compiace dell’aristocrazia democratica che – secondo Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri – sarebbe di fatto il principio del montismo, cioè della fase politica attuale – c’è solo da augurarsi che i partiti ci vedano giusto e si facciano davvero una legge a loro uso e consumo. Che li aiuti a rendere compatte anzitutto le loro ragioni, senza frazionarle in mille coriandoli proporzionali ma senza neppure confonderle in inutili cartelloni maggioritari. Perché certo, le leggi si fanno per il Paese e per i cittadini, ma non c’è altro modo di definire quello che serve al Paese o alla generalità dei cittadini che non sia per l’appunto il voto alle formazioni politiche in libere elezioni.

L’unità, 3 aprile 2012