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De Giovanni Accademico dei Lincei. «La filosofia come diritto alla politica»

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Il caffè amaro, i quadri del Seicento napoletano alle pareti, la presenza di un gatto silenzioso e invisibile da qualche parte in giro: Biagio De Giovanni mi fa accomodare nel suo bel salotto, e comincia a parlare. Oggi diventa accademico dei Lincei e la nomina prestigiosa è un’occasione per ripercorrere una vita di studi e di pensieri. «Io ho la passione per il parlare. Mi è capitato di recente di imbattermi in un pensiero di Benedetto Croce: “altro è lo scrivere, altro il parlare”. Anche per me è così», mi dice, e intanto io osservo che però questi suoi ultimi anni sono stati pienissimi di scrittura. E che scrittura. Sono usciti uno di seguito all’altro, negli ultimi anni: un dialogo a due voci con Marcello Montanari su Gramsci e il Novecento (“Sentieri interrotti”); uno studio sul pensiero moderno nei suoi esiti più alti (“Hegel e Spinoza. Dialogo sul Moderno”); un saggio teso e drammatico su Giovanni Gentile e Emanuele Severino (“Disputa sul divenire”); due grandi lavori al confine tra filosofia, politica e diritto, là dove si trova il centro degli interessi intellettuali di De Giovanni: “Alle origini della democrazia di massa” e “Elogio della sovranità”: non si può dire che in età avanzata il filosofo napoletano abbia rinunciato a pensare.

Così, faccio un po’ fatica a riportarlo indietro nel tempo, ai suoi inizi, agli anni trascorsi all’università di Bari, all’impegno politico, all’esperienza parlamentare a Strasburgo: la conversazione precipita di continuo sul presente, sull’Italia di oggi, sulla crisi della sinistra e l’avanzata del populismo, su Macron e sulla Germania. Ed è inevitabile che mi annunci l’uscita di un paio di libri: uno su Croce, in cui De Giovanni pubblica la prolusione tenuta all’Istituto di studi storici lo scorso anno; l’altro invece su Kelsen, Schmitt e le categorie della politica novecentesca.

Ma io sono qui, nella sua grande casa a Mergellina, in un pomeriggio quieto e raccolto, per fargli raccontare le stagioni di una vita lunga e intensa. Mi accorgo di avere più nostalgia io della sua vita che non lui stesso.

«La laurea in giurisprudenza? Io ho un libretto universitario da iscritto a filosofia. Ma mio padre, avvocato penalista, mi chiese se fossi proprio sicuro della mia passione. Se ti iscrivessi a giurisprudenza, mi disse, avresti qualche possibilità professionale in più. Io accolsi questo consiglio, avendo però comunque in testa di laurearmi in filosofia del diritto. A volta i padri riescono perfino a vedere lontano: da lì è cominciato tutto».

Gli studi di legge non sono infatti restati senza seguito: sono anzi ben dentro l’idea stessa che De Giovanni ha del lavoro filosofico: «Secondo me, il laureato in giurisprudenza, proprio perché ha cognizione del funzionamento dello Stato, finisce con l’avere un pensiero più concreto, senza eccessivi teoretismi. Qualche volta i filosofi peccano di astrattezza. Il laureato in giurisprudenza, rispetto al puro filosofo, ha in testa la polis, il senso dell’organizzazione della vita umana, e tende ad avere un pensiero più dentro le cose».

De Giovanni non sta parlando solo dei suoi primi interessi, di quel piccolo classico che è diventato ormai il suo primissimo libro, «La nullità nella logica del diritto», ripubblicato di recente. Sta parlando del rapporto fra filosofi e giuristi, della sottovalutazione del momento giuridico in tanta parte del pensiero novecentesco:

«Più che sottovalutazione, direi un enorme isolamento del diritto nella mera dimensione della coercizione, della violenza. C’è tutta una tradizione di pensiero che ha ridotto la giuridicità a questo. Il testo di Walter Benjamin su diritto e violenza è un riferimento centrale. Ma questo riduzionismo comincia prima, c’è già in Marx, e prosegue dopo, per esempio in Foucault. C’è qui tutto il dramma del Novecento, ci sono Kelsen e Schmmitt, i grandi apici del pensiero novecentesco, due visioni del mondo alternative e connesse.

«Io provo invece a inserire il diritto nel processo di civilizzazione della forza. E in questa idea del diritto non come violenza ma come grande ordinamento della vita io ho avuto in Giuseppe Capograssi un costante punto di riferimento. Personale all’origine e vivissimo ancora oggi».

Gli chiedo allora cosa pensi della costruzione biopolitica contemporanea, che di nuovo sembra tenersi assai lontana, nel pensare il mondo odierno, dall’impiego di una concettualità di tipo giuridico:

«Quello che mi lascia attonito sono le modalità attraverso le quali questa interpretazione in chiave biopolitica si fa distruttiva di tutta la storia della filosofia politica, di tutte le categorie fondative con le quali la filosofia politica moderna ha funzionato. È un vero strappo concettuale. Quando fai questa operazione, in una fase nella quale le discontinuità sono vive nella vita degli uomini e delle società, è vero: cogli qualcosa dello spirito del tempo; ma il moderno come io lo penso è un’altra cosa. La modernità resta un libro chiuso, o del tutto travisato, se lo pensi senza il suo momento giuridico. La dialettica tra politica e diritto, non intese come discipline ma come mondi vitali, è il nucleo essenziale dell’Occidente. È la vitaIità del mondo che nasce in questo nesso contrastato, oppositivo e aspro fra ordinamento giuridico e autonomia della decisione politica».

La filosofia del diritto, dunque, e il ricordo del primo maestro, il gentiliano Angelo Cammarata, che insegnò a Napoli nel dopoguerra per circa un decennio, e che con ironia tutta siciliana soleva dire a De Giovanni: «come sarebbe bella l’università senza gli studenti!». È così che dall’attualità delle dispute intellettuali di oggi cerco di precipitare di nuovo indietro nel tempo. Da Napoli a Bari: gli anni dell’insegnamento universitario, la scuola barese che si raccolse tra l’università, il partito comunista e la casa editrice De Donato, il ruolo di Gramsci nella cultura italiana:

«Bari per me è stato un incontro fortunatissimo. Il mio primo incarico risale al 1959: avevo 28 anni. Ero incaricato di storia delle dottrine politiche. La filosofia del diritto non si poteva toccare: era riservata ad Aldo Moro, che pur essendo penalista scriveva di teoria dello Stato e teneva i corsi di filosofia del diritto per non lasciarli a quel “branco di comunisti” che veniva da Napoli o da altre facoltà.

«Sono poi passato a insegnare filosofia morale, ma quegli anni sono stati una svolta, nella mia vita. A Bari ho conosciuto la politica. Ero un timido, un introverso, con molte paure di parlare in pubblico. Un po’ le vicende del ’68, un po’ l’incontro con Beppe Vacca, di cui seguii la tesi, mi cambiarono. Arcangelo De Castris, Franco De Felice, Beppe Vacca, gli incontri alla De Donato: si creò un’atmosfera che mi trascinò letteralmente a vivere la riflessione e lo studio a tavolino in una prospettiva diversa. E nel ’69 – dopo la scelta del PCI sulla Cecoslovacchia, quando mi sembrò, forse un po’ ingenuamente, che si stava allentando il rapporto con l’Unione Sovietica – entrai nel partito comunista. In seguito, ho dovuto considerare la mancata chiamata a Napoli, nel ’67, la mia più grande fortuna. Se fossi andato a Napoli, non avrei fatto un’esperienza di vita e di pensiero che, forse, non avrei potuto conquistare in altro modo. E a quella stagione appartiene anche il mio libro su Hegel, “Hegel e il tempo storico della società borghese” che fu per me uno spartiacque».

Dopo il libro su Hegel, del 1970, il libro su Marx, del ’76, sull’analisi delle classi ne Il Capitale: un libro assai meno fortunato:

«Ignorato da tutti! È che la congiuntura stava cambiando. Uscì “Krisis” di Massimo Cacciari, che cambiò profondamente lo scenario culturale italiano. Fu un contributo dirompente, quello di Cacciari: critica del marxismo, pensiero negativo, Nietzsche e Wittgenstein, un insieme di riferimenti che metteva in crisi anche lo sforzo del gruppo di gramsciani baresi dei quali io facevo parte, sia pure in dialettica con certe letture che giudicavo troppo chiuse».

Sulla questione Gramsci chiedo a De Giovanni di soffermarsi. Perché quando negli anni Settanta lascia Bari per Salerno e poi per Napoli, si allontana anche da quella fucina di riflessioni sul pensiero gramsciano:

«I miei ripensamenti sono stati abbastanza radicali. Nella mia vita ho avuto più discontinuità che continuità. Scarti a volte più umorali, a volte più riflessivi. Me lo ascrivo a merito, ma anche a demerito. Il gruppo barese, formato ancora oggi da miei carissimi amici, ha però trasformato nel tempo la riflessione su Gramsci in una forma per me troppo rigida. Io mi sono sentito sempre più lontano dalla cristallizzazione del gramscismo, dall’idea che il gramscismo potesse essere la chiave che apre tutte le porte. A partire dagli anni Ottanta, avvertivo l’esigenza di una via d’uscita».

Nasce così l’idea de “il Centauro”, la rivista diretta da De Giovanni dal 1981 al 1986. Solo sei anni, ma intensissimi («ma puoi fare con Cacciari una cosa che duri più di sei anni?», mi chiede scherzoso De Giovanni), aperti da un editoriale in cui il Direttore manifestava l’esigenza di “accogliere qualcosa che ponga in discussione i vincoli di tradizioni che si considerano già interamente pensate”. Non a caso in quella rivista scrissero tutti, meno gli amici gramsciani di Bari.

«Furono loro scettici nei confronti della mia scelta. Ma intanto veniva fuori un’altra generazione di pensieri, non solo di persone ed età. “il centauro nacque anche contro la volontà dei maggiorenti del partito. Accettarono la cosa solo quando di riviste ne vennero fuori due: da una parte “Laboratorio politico” di Mario Tronti, con dentro l’operaismo italiano; dall’altra “il Centauro”, che dirigevo io, che almeno avevo il merito di non avere niente in comune con l’operaismo. Fu comunque un’operazione molto aperta, antidogmatica, in cui Gramsci finì con con il perdere la centralità avuta negli anni precedenti».

E come finì, quella esperienza?

«Cacciari se la prese perché secondo lui in un mio scritto lo avevo confuso con il pensiero debole. In realtà, la nostra diversità aveva funzionato per qualche anno come collante, ma a un certo punto ci rendemmo conto che prolungare la cosa non aveva senso. Ricordo la riunione in casa di Giacomo Marramao, a Napoli. Io parlai della “linea della rivista”. Dal fondo si sentì una voce dire in veneziano: “se entra la linea esco io”. Era Cacciari. Aveva ragione. Avevamo contribuito a mostrare consapevolezza di una discontinuità e di una crisi. L’effetto c’era stato, almeno in certi ambienti culturali, e ci bastò quello».

Finisce “il Centauro”, nel 1986. Ma è ormai prossimo alla fine tutto un insieme di rapporti intensissimi fra vita intellettuale e vita politica, che avevano segnato l’esperienza italiana.

«In Italia c’era stata un fatto particolarissimo: un partito comunista senza paragoni nel resto d’Europa. Ricordo i comitati scientifici dell’Istituto Gramsci: Luporini, Badaloni, Franco Ferri… Discussioni sui destini del mondo, seminari politico-filosofici che rifluivano poi nel Comitato Centrale del partito. Avevi la sensazione – in parte vera, in parte no – di un’effettiva dialettica, retto da una struttura della storia che ormai non c’è più. La dirigenza del PCI poteva anche chiudersi, ma era colta, in grado di dialogare con il mondo della cultura. Palmiro Togliatti era uno che all’uscita del rapporto sui crimini di Stalin rispose su “Rinascita” con una sua traduzione dal tedesco di un frammento di Hegel ignoto ai più. Hegel diceva: anche il volto di un assassino è illuminato da un punto di luce. Cioè: la personalità umana non ha un solo lato, è sempre molto complicata. Tu capisci? Di Maio non conosce i congiuntivi, Togliatti traduceva Hegel dal tedesco. Sbagliando, facendo errori ciclopici: però era Togliatti».

A proposito di Togliatti, che dire dell’articolo in prima pagina sull’Unità, a venticinque anni dalla morte? Siamo nell’agosto dell’89. De Giovanni siede nella direzione nazionale del partito, fresco di elezione al Parlamento europeo. Ha pubblicato a inizio d’anno un libro, “La nottola di Minerva” che contiene già l’ambizione di una rottura con la tradizione continuista del PCI.

«Ma dei libri non si accorge nessuno. Quando mi chiamo il vicedirettore dell’Unità, Giancarlo Bosetti, io gli chiesi se avesse letto il libro. In verità mi disse di sì, che proprio per questo avevano pensato a me. Mi sentii più tranquillo e scrissi. L’articolo uscì in prima pagina, col titolo: «C’era una volta Togliatti e il comunismo reale». In quell’articolo dicevo che un mondo era finito. Successe l’ira di Dio. Mi ritrovai il pezzo in televisione. Duecento e più articoli. Fu ripreso persino dal Washington Post.

«A settembre, alla prima riunione della direzione nazionale, avvertii il gelo intorno a me. Giancarlo Pajetta, di solito scherzoso, a stento mi salutò. Mi misi sul fondo. Natta introdusse il discorso dicendo: “D’estate i compagni devono stare molto attenti a quel che dicono, perché possono avere dei colpi di sole”. Tempo sei mesi e fui fatto fuori dalla Direzione».

Era comunque cominciata la stagione dell’impegno europeo. Il Pci aveva abbandonato nel corso degli anni Ottanta le posizioni antieuropeiste. E nel decennio successivo appoggiò convintamente la scelta di Maastricht. De Giovanni trascorse dieci anni a Strasburgo. Non posso non chiedergli che cosa è successo all’Europa, da allora.

«È stato il momento più bello e illusorio: l’unificazione tedesca, l’allargamento a est, l’unione monetaria, la codecisione del Parlamento europeo, lo spazio Schengen. Tutto sembrava possibile. Io ebbi una grande esperienza come presidente della commissione istituzionale negli ultimi due anni e mezzo del mio secondo mandato, quando approvammo il Trattato di Amsterdam».

Perché però quel percorso si è arrestato? Perché alla Costituzione europea non si è mai arrivati?

«Perché la Germania si è unificata. Ma non sto dando una risposta antitedesca. È che l’unificazione della Germania ha scosso tutti gli equilibri. La Germania non si è chiamata fuori, non ha scelto il “Sonderweg”, ma non è riuscita ad assumere il ruolo di grande nazione europea. Questo elemento ha compromesso il vecchio equilibrio franco-tedesco e bloccato la possibilità di progredire. L’altro elemento che ha pesato è l’interpretazione della globalizzazione come un processo soft, come l’avvio del grande cosmopolitismo. Ne veniva la convinzione che non vi fosse più bisogno di politica. Quando poi ci si è scontrati con la durezza della globalizzazione, l’Europa non ha saputo dare risposte perché non aveva più dentro di sé la dimensione del conflitto politico».

Il pensiero di De Giovanni su questi temi è consegnato in particolare a due libri, “L’ambigua potenza dell’Europa” e “La filosofia e l’Europa moderna”, usciti alla fine di quella stagione, nei primi anni Duemila. Nel primo, in particolare, De Giovanni sosteneva che la sovranità statuale dovesse rimanere il perno della costruzione europea:

«Ne “L’ambigua potenza” davo ancora un’interpretazione ottimistica di questo processo. L’ineliminabilità della statualità, l’insufficienza del puro patriottismo della Costituzione di hambermasiana memoria: tutto questo è entrato in crisi. Da un lato rimane necessario, dall’altro è difficile se non impossibile. Nessuno mi farà pensare che la Commissione possa diventare all’improvviso il governo dell’Europa. Nessuno però mi riesce più a far capire come questa necessaria relazione fra gli Stati riesca ad essere creativa di spazi politici comuni. Chissà se dopo questa crisi drammatica l’Europa non sia costretta a rimettersi a pensare, a cercare un terreno meno friabile di costruzione dell’Unione».

L’esperienza nelle istituzioni comunitarie finisce nel ’99, quando, nonostante l’indicazione dell’allora segretario Veltroni, De Giovanni non viene rieletto. Le ragioni della mancata rielezione rimangono, per carità di patria, fuori dal taccuino. Il filosofo in lui rinato allo studio e alla ricerca preferisce cavarsela con una battura: «Ringrazio il Padreterno per non essere stato eletto, perché dopo quei dieci anni al Parlamento sono tornato a tempo pieno sui libri». Prima però di chiudere con il bisogno di filosofia che gli riempie le giornate, gli chiedo qualcosa sulla politica nazionale. Gli chiedo della questione meridionale. De Giovanni è tranchant:

«La questione meridionale è completamente fuori dalla cultura politica contemporanea. Il dualismo nasce rigorosamente all’interno di una nazione. Quando l’unità nazionale si incrina, e non ci sono più risorse per politiche distributive, finisce anche la questione meridionale. Vedi del resto la Catalogna: ormai le regioni ricche non guardano più le regioni povere».

E il Pd? De Giovanni ha ripreso la tessera, in controtendenza rispetto all’emorragia che il Pd ha subito negli ultimi tempi. Non è del resto la prima volta che De Giovanni va controcorrente. Si è iscritto al partito democratico per sostenere Renzi nelle primarie di quest’anno.

«Il rischio populistico è fortissimo. Sarà sbagliato, settario, ma io considero i Cinquestele una patologia della democrazia. E quindi il ruolo del partito democratico (sarà di destra, di sinistra: lasciamo perdere) non può che essere quello di punto di equilibrio per la difesa e lo sviluppo della democrazia rappresentativa e per un rapporto critico ma forte con l’Europa. È l’unico partito che può farlo. La centralità del Pd non deriva da astrazioni categoriali ma da compiti politici concreti, dalla necessità di deve combattere l’estremismo salviniano e la patologia populista. Che c’è a destra come a sinistra».

Sono trascorse più di due ore. Ho lasciato fuori da questo insufficiente resoconto gli anni salernitani, il velo di commozione con cui De Giovanni ricorda i libri splendidi di Roberto Racinaro, rettore a Salerno negli anni di Tangentopoli, finito in carcere e poi completamente assolto da ogni vicenda, ma distrutto moralmente e fisicamente. Ho lasciato fuori i rapporti con Napolitano, l’esperienza come Rettore all’Orientale di Napoli, l’incredibile storia del quadro di Caravaggio posseduto per un giorno soltanto, le pagine di Musil sull’Europa e sulla guerra – l’uomo che “straccia la sua esistenza al vento” – e infine i recenti, importanti discorsi di Macron. De Giovanni mi chiede di alzarmi. Apre una porta, mi mostra il suo ultimo quadro, da gran collezionista qual è: «Questo è un Giovanni Lanfranco», mi dice, e mi lascia di stucco. Le chiese di Napoli, pietre e luce, Caravaggio e Vico: tutto cammina ora con i suoi passi e nella sua voce.

«Noi siamo sempre figli degeneri di Hegel. Questo è tempo di scissioni. Quindi la filosofia è necessaria. Non c’è epoca più filosofica di questa. Essendo radicale la scissione, nel suo senso più lato, la filosofia – questa malattia del pensiero, come la definiva Croce –irrompe perché non basta più la storiografia, non basta più la storia degli storici. Diviene necessaria, perché necessaria diviene una rifondazione delle cose. Lasciami dire però – poiché non ne abbiamo parlato fin qui – che per me non è senza Croce, ma senza Gentile che non esiste la filosofia italiana. Non esisterebbe Gramsci come non esisterebbe Severino. L’attualismo è stata la vera filosofia italiana del Novecento. E Gentile è stato una delle chiavi della mia vita filosofica».

“Io che origlio alle porte dei filosofi”: così ha detto una volta De Giovanni di sé, con una modestia che i suoi ultimi libri non giustificano. È per via degli eccessi di teoria che sente come estranei, ma non certo perché non sappia leggere e interpretare il bisogno di filosofia del nostro tempo.

«Per me la filosofia è tornata così. Qui stanno i miei ultimi libri. Siamo tornati ai grandi momenti di crisi in cui il rapporto fra vita e forme si interrompe e la crisi diventa generale. Le forme consolidate – la famiglia, la società, il partito, lo stato – si vanno dissolvendo. Come riorganizzi allora la vita comune dell’umanità? Rottura di confini o ritorno delle identità? E che significa ritorno delle identità? O al contrario: il mondo sopporta la distruzione dei confini?».

Domande, pensieri che non si arrestano, questioni che rimangono aperte. Fuori è ormai sera, Napoli lungo il mare è bella come non mai.

(Il Mattino, 10 novembre 2017)

Occidente e Islam sconfitti entrambi dalla Tecnica (int. a E. Severino)

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Chi è il giovane che guida un camion contro la folla, a Nizza, o che sino i due killer che in Normandia, a Saint-Etienne du Rouvray, irrompono all’interno di una chiesa, e tagliano la gola a un parroco, un uomo di 84 anni, Jacques Hamel? Chi è il terrorista? Che cosa lo muove, che cosa lo arma? La conversazione con Emanuele Severino, filosofo, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha preso le mosse da questa domanda, ma anche dal dubbio che dietro le fedi, le ideologie, le psicologie individuali e collettive, vi sia qualcos’altro, e che almeno una parola della filosofia, la parola nichilismo, aiuti a indicarlo. Chi è dunque il terrorista? Chi è il tagliagole, il kamikaze, l’uomo che uccide a sangue freddo, quello che spara indiscriminatamente a giovani, donne, bambini?

«Oggi sta diventando chiaro che il terrorismo include ma non coincide con il terrorismo fondamentalista islamico. Certo, è venuto in chiaro come siano radicalmente sbagliati i motivi che spingono quelli che non si sentono a proprio agio nelle società occidentali a reagire in modo così violento. Il terrorismo islamista è però solo la componente eminente, non l’unica. È vero tuttavia che le diverse forme di disagio trovano una giustificazione, forse persino una santificazione nella causa islamica. Ma ci sono anche casi in cui questo non avviene. Definire il terrorismo come esclusivamente terrorismo islamico fondamentalista è, dunque, improprio. Vi sono altre componenti: anzitutto il disagio, il risentimento degli emarginati. Ma anche la sublimazione di patologie mentali: la sublimazione, dico, nel senso di una giustificazione religiosa, ma anche nel senso dell’esibizione di un coraggio cieco e assoluto di fronte alla morte. Perché questa gente appartiene alla categoria dei candidati al suicidio. Temo anzi che saranno sempre di più, tra quanti pensano al suicidio, quelli che risolveranno il problema motivandolo religiosamente o politicamente o ideologicamente».

Il pensiero corre ai demoni di Födor Dostoevskij. Il rivoluzionario, il teorico, il fanatico, ma anche l’ingegnere disoccupato, il nichilista Kirillov, ossia il suicida, quello che accetta di firmare una falsa confessione, prima di togliersi la vita con un colpo alla testa, per accollarsi la responsabilità di un assassinio. E nel modo in cui si forma, nel grande romanzo russo, la cellula di rivoluzionari che dovrebbe gettare la Russia nel caos con una serie di attentati terroristici, nel modo in cui vi entrano i demoni, divorati da passioni ideologiche e motivazioni personali diverse, non vi è forse qualcosa dei profili così diversi dei terroristi che hanno agito in queste settimane: persone emarginate, ma anche ricchi rampolli della borghesia islamica? Ragazzi con gravi disturbi mentali, ma anche giovani radicalizzatisi in un crescendo di odio e fanatismo? Non avremmo ragione di usare allora come denominatore comune, una parola della filosofia (che peraltro Dostoevskij ben conosceva), la parola nichilismo?

«Se per nichilismo si intende quello che per esempio intendevano i nichilisti russi nell’800, ma anche Friedrich Nietzsche, allora sì, la categoria di nichilismo può essere appropriata. Io credo però che la categoria abbia un significato più profondo».

Qual è allora il più profondo della crisi in gioco? Che cosa dobbiamo vedere, che non vediamo quando ragioniamo sulle modalità di una strage, o anche quando ci interroghiamo intorno alle cause economiche o sociali, politiche o religiose che la ispirano?

«Credo che tutte quelle affermazioni in cui si dice che la crisi attuale non è semplicemente una crisi economica o culturale ma è una crisi molto più profonda, rimangano in realtà alla superficie. Se si va a vedere cosa indicano come il più profondo, si trova che non è tale. Certo è vero: non ci troviamo semplicemente alle soglie di una crisi economica, o culturale, ma ciò di cui propriamente si tratta è quel rovesciamento radicale e inevitabile, in cui la tradizione dell’Occidente è portata al tramonto dai protagonisti autentici della contemporaneità. Bisogna anzi parlarne al singolare: questo protagonista autentico è la Tecnica».

Severino introduce con accortezza al cuore del suo pensiero. È sempre difficile portare lo sguardo dalla superficie delle cose a ciò che avviene al di sotto di essa, e vi è sempre il rischio che questo rivolgimento dello sguardo venga considerato un modo per allontanarsi dalla drammatica attualità del conflitto in corso. Come se non contassero più i morti ammazzati, la terribile contabilità di queste settimane, le immagini concitate che rimbalzano ogni giorno sullo schermo, ma solo potenze astratte e impersonali che, nella loro nitida silhouette concettuale, trascendono però infinitamente le nostre piccole vite umane. In realtà, ciò che suona il più astratto è, per Severino e per la filosofia, il più concreto: chi pensa astrattamente, diceva Hegel, è chi non riesce a vedere la tremenda concretezza delle forze che dominano l’orizzonte del presente.

«Si parla di una terza guerra mondiale. Ne ha parlato il Papa, ma prima del Papa ne ha parlato Friedman [il riferimento è al politologo americano George Friedman, che si è dichiarato pronto a scommettere che il XXI secolo non farà eccezione: come i precedenti, anche il secolo in corso avrà il suo conflitto mondiale]. Se comincia qualcosa come una guerra non possiamo pensare che si dia una risoluzione a breve termine. Ma se ci sono gli elementi per dire che una guerra è possibile, c’è anche la possibilità di indicare l’esito inevitabile di una simile guerra».

Severino resta uno degli ultimi filosofi che mantiene alla parola filosofica il suo carattere originario, di parola vera e incontrovertibile. Mi richiama, dunque, appena provo ad usare la parola «scenario», come si trattasse della prospettazione di un corso possibile di eventi accanto ad altri, e continua:

«Vado da tempo dicendo nei miei scritti che ad uscire vittorioso da questo non breve conflitto non è nessuno dei confliggenti: né l’Occidente democratico-capitalistico, né il mondo islamico, bensì lo strumento di cui l’uno e l’altro sono costretti a servirsi. Questo strumento è la Tecnica».

Appare chiaro allora che per Severino la conflittualità più visibile, che attualmente terrorizza il mondo, non dice il più profondo dello scontro in atto. È una lotta di retroguardia, non la vera anima del conflitto. Più avanti Severino ricorderà come l’Islam, come tutte le forze della tradizione, individui in realtà nella civiltà della tecnica il suo vero nemico. Anche quando parla del Satana americano, l’Islam prende di mira l’America e l’Occidente per via del suo consumismo, del suo allontanamento dalla dimensione religiosa, e infine del suo essere un frutto della civiltà della tecnica. Così è per l’intera civiltà degli ultimi cinque secoli, figlia dell’incontro fra cristianesimo e tecnica e scienza moderna.

«Se si è d’accordo che la Tecnica è lo strumento di cui tutte le forze si servono per prevalere, allora ognuno degli avversari ha uno scopo, per raggiungere il quale gli è necessario il continuo incremento dello strumento di cui si serve. Ognuno dei contendenti deve aumentare all’infinito la potenza. Ma in questo modo l’incremento della potenza, grazie alla tecnica, occupa sempre più spesso l’area dello scopo che la forza in conflitto si propone di realizzare».

Ecco il teorema fondamentale: la Tecnica da mezzo diviene scopo, e così riduce inevitabilmente al silenzio gli scopi per i quali i confliggenti – un tempo gli USA e l’URSS, oggi l’Occidente e l’Islam – sono scesi in campo. È ciò che nel suo libro su «Islam e Prometeo» Severino ha chiamato non «pax americana», ma «pax tecnica», perché l’America, come ogni altra forza storico-politica mondiale – il capitalismo, il nazionalismo, il comunismo, ma anche l’Islam – è ad essa assoggettata.

«La tecnica che in ultimo prevarrà sarà la Tecnica capace di ascoltare quella distruzione assoluta della tradizione, che la grande filosofia ha pensato, quella distruzione radicale Nietzsche chiama per esempio «morte di Dio». Che non è una parola in libertà di un uomo un po’ folle, ma anzi ha una potenza che la cultura contemporanea e la stessa Chiesa non comprendono. La Chiesa vede nel relativismo il suo nemico, e non scorge il sottosuolo filosofico del nostro tempo dove si dimostra l’impossibilità di ogni limite che arresti l’agire dell’uomo».

Questa impossibilità di porre un limite, la parola della filosofia che dice alla tecnica «tu puoi» è, insomma, la più grande volontà di potenza. Nessun contrattacco della tradizione potrà mai prevalere su di essa, secondo Severino. E però, nel salutarlo e nel ringraziarlo per la lunga conversazione, un dubbio mi assale: ma questa fede nell’impossibilità di porre un limite all’agire dell’uomo non è, da ultimo, proprio la stessa che nutre il terrorista che lancia il suo camion sulla folla del lungomare di Nizza, o spinge a tagliare la gola a un anziano curato di provincia?

(Il Mattino, 27 luglio 2016)

Voi, nei Panni del Presidente

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Stai per cominciare a leggere, caro lettore, la cronaca di un fatto mai accaduto. Rilassati, Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisioni accesa e tu devi disporti a diventare il Presidente della regione Campania, dopo avere vissuto mesi intensissimi, a colpi di polemiche, primarie mille volte rinviate e poi infine celebrate, colpi bassi e carte bollate, sentenze che ti inseguono e la strada stretta e impervia fra ineleggibilità e incandidabilità che la legge Severino ti ha lasciato: di lì sei passato, respingendo sdegnato accuse infamanti – tipo Gomorra nelle liste – fino all’ultimo assalto della Commissione antimafia, che ti ha bollato come impresentabile. Però ora sei stato eletto, hai dribblato la cerimonia di insediamento, hai nominato la giunta.

Un bel giorno, nell’ufficio o al telefono del tuo più stretto collaboratore si fa vedere o sentire qualcuno, che mostra di conoscere sin troppo bene la tua vicenda giudiziaria. Sa che sei in attesa di un giudizio sulla sospensione degli effetti della legge Severino, da cui può venire tanto la possibilità di rimanere alla guida della Regione, quanto una sospensione per diciotto mesi: in politica, un’eternità. Questa persona non dice di sapere come stanno le cose: dice di poterle determinare, quelle cose. E mentre fa capire di avere questa influenza sul giudice, perché del giudice è il marito, ti chiede un importante incarico in qualche azienda sanitaria campana. La nomina, si capisce,  dipende da te. Ebbene, non è mai accaduto che il tuo più stretto collaboratore sia venuto da te per riferirti della vicenda, ma se fosse venuto tu cosa avresti fatto, caro lettore? Avresti avuto diverse possibilità. Una possibilità è denunciare subito il fatto alla magistratura. Un’altra è prendere tempo. Un’altra ancora è concludere l’affare: nomina in cambio di sentenza. Quest’ultima è di sicuro la scelta più drastica, ma è anche quella che comporta la più turpe violazione della legge. Sotto la pressione enorme in cui ti trovi, comunque, non è semplice scegliere. Avresti anche un’altra scelta, altrettanto netta, ma di segno opposto: metterlo alla porta, e non perdere un minuto di più. Oppure, si diceva, andare dal magistrato. È la cosa più giusta, la più lineare: denunci la cosa e tagli di netto ogni relazione pericolosa. Ma forse temi la canea mediatica che si potrebbe scatenare. Magari l’uomo che denunci dirà che sei stato tu ad avvicinarlo e a cercare un modo per influenzare il giudizio, e sui giornali la vicenda potrebbe durare a lungo. Sei vulnerabile, i tuoi modi piacciono ai cittadini campani ma molto meno a certi editorialisti, forse non hai nemmeno tutta questa fiducia nella magistratura e non vedi chiaro in fondo a questa storia. Prendi allora in considerazione l’ipotesi rimanente: dire al tuo collaboratore di prendere tempo, di rimandare, di rassicurare ma insieme di rinviare, e intanto cercare di capirci meglio. Naturalmente tutto questo, caro lettore, non è mai avvenuto.

Il tempo passa. Viene settembre. Il caso pende ora dinanzi alla Corte costituzionale ma il nodo non è ancora sciolto. L’uomo che diceva, o millantava, di poter orientare la decisione del giudice non ha ricevuto alcun incarico. Perciò si fa sotto di nuovo, telefona, dice che se lui non diverrà manager, la regione avrà un altro Presidente. Ora però mettiti in altri panni, caro lettore, e in questa storia mai accaduta immagina di essere un magistrato. Sulla tua scrivania arrivano le intercettazioni da cui puoi capire cosa bolle in pentola: qualcuno chiede con insistenza una nomina, sostenendo di aver fatto la sua parte e di aspettarsi la dovuta ricompensa. Che però non arriva, che non è ancora arrivata. Che cosa fai, caro lettore? Quella nomina interessa la sanità campana, e il presidente della regione sta annunciando una piccola rivoluzione: azzeramento della struttura tecnica dell’azienda sanitaria regionale, e nuove nomine. Cosa fai, dunque? Anche a te tocca scegliere. Forse, se hai una radicata cultura della prova, se consideri che il «pactum sceleris», l’accordo delittuoso, risalterà in tutta la sua evidenza quando la nomina sarà sopravvenuta, aspetti di verificare se il presidente della regione procederà, dunque, alla nomina. Tu non sai ancora se egli sia vittima, oppure correo, o magari l’una e l’altra cosa insieme. Non sai, non hai nelle intercettazioni nulla che ti permetta di dare il patto per concluso. Ti manca la prova regina, il colpo del ko. Però sai anche che puoi procedere in altro modo.

Puoi rinunciare a verificare se l’uomo che vendeva (o millantava di vendere) sentenze avrebbe avuto davvero l’utile richiesto. Puoi dare tutto in pasto all’opinione pubblica, e lasciare che la vicenda rimbalzi dal piano processuale a quello mediatico. La prova regina si allontana definitivamente, ma l’eco è garantita. Ma può darsi anche che in questa storia mai esistita tu ritieni di avere già in mano quello che ti serve per procedere. E agisci secondo uno schema consolidato: intercettazione, perquisizione, avviso di garanzia. In fondo, ora che, secondo l’ordinamento vigente, l’acquiescenza alla pressione corruttrice basta a configurare il reato, puoi ritenere del tutto legittimo muoverti subito – certo per l’urgenza del momento e il grande agitarsi di mediatori, faccendieri e factotum – senza dover aspettare che dalle intenzioni si passi ai fatti, dalle promesse alla loro realizzazione. La recente giurisprudenza, e pure un certo clima nel paese, è con te. Anche così la cosa deflagrerà sui giornali, e dentro ci finiranno tutti: quelli che hanno agito, quelli che hanno promesso di agire, quelli che hanno detto che altri avrebbero agito. Dentro – s’intende – il gran polverone di storie vere, meno vere, probabili o mai accadute che da quel momento in poi i giornali non potranno non raccontare. Tu cosa faresti, caro lettore? Ora che hai finito, quel che è certo è che aprirai la porta, e accenderai la tv.

(Il Mattino, 14 novembre 2015)

Realismo fuori dalla realtà

Dunque la storia sarebbe andata così: a un certo punto, verso la fine del Settecento, mentre in Europa si sta per fare la rivoluzione, la filosofia compie una «svolta trascendentale», e smette di credere che là fuori ci siano cose. Da allora, alberi o fontane, ciabatte o satelliti non sono più cose, per i filosofi, ma soltanto «dati di senso, fenomeni, apparenze». Sulle prime si continua a credere che le cose sussistano, però invisibili e inaccessibili: di sotto ai fenomeni, al di là delle apparenze, dietro ai dati sensibili. Poi, però, i filosofi si accorgono che li si lascia fare (pochi protestano, il mondo è in subbuglio, le rivoluzioni politiche si accavallano a quelle industriali), e allora tentano il colpaccio… (continua sul blog dell’Unità🙂

L’unità, 23 settembre 2012

Lo schifo

Stimo molto Severino, moltissimo, ma questa volta mi ha fatto davvero arrabbiare. Magari è colpa dell’intervista, ma lui non è obbligato a farsi intervistare, per far sentire la sua voce: ha invece la possibilità di scrivere, per il Corriere, pagine intere sulla faccenda. Spero perciò che lo faccia.

Severino mi ha fatto arrabbiare (come mi arrabbio solo con chi stimo veramente) perché non può lasciare che la filosofia dica che in corso è solo lo scontro fra due forme opposte di violenza, e buttar lì che lui, per sé, farebbe, ove potesse, testamento per "rifiutare tutto". In questo modo, con la scusa che le grandi cose non avvengono dall’oggi al domani (ma se è per questo non avvengono neanche dall’oggi al dopodomani), non solo lascia pensare che la filosofia non abbia nulla da dire, ma che lo "schifo" che lui prova nel pensarsi attaccato a tubi e sondini non ha nulla a che vedere con la filosofia. Una filosofia che non sostenga il suo schifo (o qualunque cosa sia) o uno schifo che non abbia una filosofia per dirsi e per pensarsi, non servono a nulla. Letteralmente: a nulla.

Cesare e Pinco Pallo

La scienza non avrà l’ultima parola, dice Severino, ed a me non riesce di capire come l’ultima parola possa venire così, di bel bello, dopo la penultima (e la terzultima, e la quartultima). Mi pare peraltro maggiormente interessante capire com’è fatta una parola ultima, che non chi ce l’abbia.

Ma dall’intervista rilevo che secondo Severino (che lo ha scritto e ripetuto altre volte) "l’insegnamento originale di Gesù non è solamente ma è essenzialmente politico.  Proprio l’espressione che viene ricordata per indicare come si debba rispettare l’autonomia dello Stato, ‘date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio’, denuncia invece il carattere essenzialmente teocratico della predicazione evangelica. Gesù non può pensare che a Cesare si dia qualcosa che è contro Dio. Ma se a Cesare, che è lo Stato, si dà qualcosa che non può essere contro Dio, allora Cesare dev’essere un alleato di Dio, di Gesù, del Dio della Chiesa, cioè Cesare dev’essere cristiano, lo Stato dev’essere cristiano. Quindi appartiene all’essenza del cristianesimo il voler essere presente nella vita pubblica, nella società".

Ora, mi soffermo solo sull’argomento. Che non funziona. Se io dicessi a Pinco Pallo: dai X a Tizio e Y a Caio, come posso concludere da quel che dico a Pinco Pallo che Tizio è alleato di Caio? Come posso concludere, dal fatto che Gesù raccomanda a Pinco Pallo come regolarsi con Tizio e Caio, che Tizio è alleato di Caio? L’alleato sarà al più Pinco Pallo (e per giunta: a certe altre condizioni). C’è bisogno di un po’ di ipotesi supplementari per trarre la conclusione di Severino. Ma quelle ipotesi non ci sono nel Vangelo, e di ipotesi supplementari se ne possono fare tante. E in generale, questo modo di fare l’esegesi è veramente la cosa meno convincente che vi sia.

(Dell’intervista è notevole pure la conclusione, dal tono indubbiamente religioso)

Severino e Spinoza

Non avevo visto l’articolo scritto da Severino per il Corriere della Sera, in occasione del Meridiano Mondadori, curato da Filippo Mignini e Omero Proietti, con tutte le opere di Baruch Spinoza. Lo trovo grazie a Millepiani. Dopo avere presentato la figura, Severino viene a quella che giudica la cosa essenziale, "radicalmente più decisiva del modo in cui Spinoza «dimostra » l’esistenza di Dio — e più decisiva di ogni altra «dimostrazione» di tale esistenza, proposta lungo la storia del pensiero occidentale". Questo punto emerge fin dalle prime battute dell’Ethica, nelle definizioni che aprono la prima parte dell’opera ed è precisamente la distinzione tra "ciò che esiste necessariamente, cioè non è mai inesistente, ed è Dio, l’Eterno, [e] ciò che invece non esiste necessariamente, nel senso che non è sempre esistente ed è l’insieme delle «cose prodotte da Dio», esistenti nel Tempo".

Ora, non v’è chi non sappia che Spinoza comincia proprio da una distinzione simile: di là la sostanza, di qua i modi. E se io ardissi contestarla, mi si potrebbero addurre montagne di testi che si riconducono a questa distinzione. Dunque niente contestazione. Tuttavia cosa accade, quando questa distinzione diviene più decisiva di tutto quello che Spinoza avrebbe detto sul fondamento di questa presunta evidenza? Che di tutto il resto non occorre più far parola, perché tutto dipende, per Severino, da quella distinzione. Dal punto di vista teoretico, Spinoza non serve più (e infatti, giunto al punto decisivo, di Spinoza l’articolo non parla più. E così di Spinoza Severino finisce col ricordare il profilo biografico e le tracce intellettuali lasciate in eredità al romanticismo, e nient’altro, perché nient’altro resta).

Paradossalmente (ma non troppo), Severino filosofo teoretico è interessato alla lettera di Spinoza proprio al modo di uno storico. Come uno storico, non come un filosofo, va a caccia dell’evidenza che è la follia dell’Occidente (che le cose divengano), dopodiché abbandona l’oggetto della ricerca per aggredire da filosofo quell’evidenza (questa aggressione è peraltro una robustissima riflessione filosofica, che ha tutta la mia ammirazione). Ma l’oggetto della ricerca non gli serve più a nulla, e dunque in philosophicis non gli è mai davvero servito.

Si parva licet, per me è molto diverso. Per me non significa un bel nulla che Spinoza cominci da quella distinzione. Anzi: non è vero che quella distinzione è decisiva in Spinoza, ed è vero invece che si tratta di mettere in discussione quella distinzione. E’ vero invece che vi sono luoghi di Spinoza a partire dai quali quella distinzione viene in questione. Dico forse meglio, o almeno più nettamente: non è vero che tra la sostanza e i modi la relazione posta da Spinoza sia una relazione di distinzione (con tutto che Spinoza distingue eccome!). La relazione che vede Severino è poi una distinzione logico-concettuale (sostanza e modo non sono distinti nel senso che stiano in luoghi diversi), ma c’è modo leggendo Spinoza di domandarsi: come si formano, da dove vengono le distinzioni logico-concettuali? Siamo sicuri che debbano avere l’ultima parola? A partire da simili domande, la lettura di Spinoza non finisce prima ancora di cominciare, anche se naturalmente lo storico inorridisce, perché non si tratterà più di attenersi superstiziosamente a ciò che è scritto. Questo però è per me ciò a cui, senza vestire per un tratto i panni dello storico e senza mischiare i mestieri, il filosofo teoretico deve mirare.

Vattimo e Severino

Ieri, sulla Stampa, un articolo di Marco Baudino presentava il convegno romano con e su Gianni Vattimo. C’era anche un articolo dello stesso Vattimo, al quale risponde oggi amabilmente Severino. Severino ha ragione sul punto: Vattimo mi attribuisce una filosofia che non è la mia, fatta di strutture epistemiche e principi primi che devono spiegare (cioè dominare) il divenire. Chiarito l’equivoco, possiamo essere d’accordo: si tratta di pensare l’essere, quello che c’è. Però Vattimo pensa all’attualità, e arriva sinanche a pensare che quello che c’è, è grosso modo quello che c’è sui giornali: l’attualità nel senso finanche della quotidianità. Mentre io voglio scendere nel profondo: la quotidianità stessa ci impone di andar oltre, verso il profondo.

E’ curioso. Senza impegnare altro che questi articoli di giornale, mi chiedo come possa Severino non sospettare che scrivendo che la quotidianità "impone di andar oltre" (corsivi miei), presta il fianco alle osservazioni di Vattimo: c’è una superficie, e c’è un profondo oltre la superficie… D’altra parte Vattimo scomoda implicitamente Foucault ed esplicitamente Hegel per pensare la filosofia come il proprio tempo pensato in concetti, senza dire nulla sul fatto che al nostro tempo forse appartiene proprio questo tratto, che non si lascia pensare in concetti. E forse non è nemmeno una roba del nostro tempo soltanto.

A che titolo

Caro Direttore,
è per me motivo di non poco imbarazzo leggere gli ultimi articoli di Emanuele Severino sul suo giornale. Sono tra quelli che riconosce a Severino il merito di avere scritto libri fondamentali per la comprensione dei problemi della filosofia; tanto più mi rammarico oggi perché uno dei maggiori filosofi teoretici viventi scrive articoli così superficiali e inutili. In quello apparso venerdì 5 gennaio (non online), egli si propone di mostrare la debolezza degli argomenti contro la pena di morte. Severino comincia col richiamare, su base storica, il fatto che “la comprensione giuridica della pena capitale è determinata dal contesto politico”. Ora, Severino sa che sulla base storica che utilizza non può dimostrare nulla di incontrovertibile circa la natura di queste determinazione, e nulla di incontrovertibile lui stesso può suggerire circa l’attuale contesto politico e la conseguente comprensione giuridica della pena. Sin qui, il suo articolo è dunque, rispetto alle tesi che sostiene, semplicemente inutile.
L’articolo prosegue. Severino ricorda un venerando principio; che il tutto è prima delle parti; ricorda come in politicis questo abbia significato che lo Stato viene prima degli individui; ricorda infine come questo abbia comportato che si considerasse giusto e legittimo mettere a morte un individuo quando fosse in pericolo lo Stato. Di queste posizioni che “sin dall’inizio” (ma non è affatto inizio, quello che Severino così chiama) appartengono alla nostra civiltà, Severino non offre la minima discussione, mentre il principio in questione non va affatto da sé, non va da sé l’idea che lo Stato costituisca una totalità, e neppure va da sé che per questo sia necessaria o comunque ben fondata la pena capitale. Però Severino discute la posizione abolizionista di Cesare Beccarla. Richiamata brevemente la costellazione illuminismo-contrattualismo alla quale Beccarla apparterebbe non senza ambiguità, Severino osserva che è errata l’idea di Beccarla, secondo la quale la pena di morte è in contrasto con il patto sociale che sarebbe secondo lui all’origine dello Stato: “Rousseau aveva già mostrato che tale contrasto non sussiste”. Può darsi, come può darsi di no. Di certo, non è una citazione del nome di Rousseau a risolvere la faccenda, e sotto questo aspetto l’articolo di Severino è decisamente sbrigativo e superficiale.
Ma Beccarla propone, a rincalzo, l’argomento secondo il quale non è vero che la pena di morte avrebbe un effetto deterrente massimo. Ancora oggi, ricorda Severino, Amnesty International si appella all’opinione maggioritaria secondo la quale la pena di morte non ha affatto questo effetto di deterrenza. Cosa ha da dire al riguardo Severino? Che “se la morte non è la pena più temuta da chi compie il massimo dei delitti, cioè l’omicidio, ne viene che la morte è una delle pene che sono più adatte a punire i delitti minori”. E, poi, che se c’è un’opinione maggioritaria ce n’è anche una minoritaria, e dunque perché non erogare la pena di morte, sia pure in un numero minore di casi, tenendo proporzionalmente conto anche di questa opinione?
Si può considerare nel merito l’opinione di Severino. Ma prima sarebbe opportuno segnalare che siamo giunti alla fine dell’articolo, e Severino ha ormai concluso che ci vogliono argomenti più forti di quelli discussi (s’è visto quanto approfonditamente) senza nulla aver detto circa l’essenza della pena, circa l’idea del diritto e della giustizia, circa tutto quello da cui si può far discendere o non discendere la legittimità e la liceità della pena capitale. Esclusa l’ignoranza, io mi chiedo come sia possibile che Severino non trovi tra gli argomenti degli abolizionisti e nel dibattito filosofico-politico contemporaneo nulla che discenda da una certa idea del diritto, della giustizia, della morale o della politica, nulla non dico che dimostri alcunché ma che perlomeno meriti la confutazione da parte di Severino. E se è probabile che nessun abolizionista crederà di portare argomenti così forti da essere logicamente incontrovertibili, è altrettanto probabile che i fautori della pena di morte non dispongano a loro volta di argomenti di una simile forza. Severino potrebbe considerare che sul piano dell’incontrovertibilità logica i due partiti dunque si equivalgono, ma questo non significa che si equivalgano sotto tutti i punti di vista. E in ogni caso, sarebbe materia di un articolo che Severino non solo non ha scritto ma a cui non ha nemmeno alluso. Eppure Kant, eppure Hegel – per dirne due con cui Severino non si dispiacerà di essere messo a pari – di simili cose hanno discusso, senza limitarsi alle superficiali considerazioni di Severino. (Se poi si obiettasse che Severino ha scritto su un quotidiano, osserverei, in primo luogo, che non si sta facendo un complimento al quotidiano e ai suoi lettori; in secondo luogo, che quando si propongono argomenti alla maniera di Severino, dovrebbe contar poco la sede in cui si espongono; e in terzo luogo che Severino stesso in altre circostanze non ha disdegnato di affrontare su questo giornale questioni di stretta attualità con un armamentario concettuale affilato, ove necessario rinviando ai suoi scritti maggiori. Questa volta non ha fatto nulla del genere, e si è dunque accontentato di essere superficiale).
Rimane il merito. Lascio perdere Beccarla e la coerenza del suo testo, e domando se sia vero quanto Severino scrive, che cioè, non essendosi dimostrato incontrovertibilmente che la pena di morte non ha una capacità di deterrenza superiore ad altre pene, non c’è motivo di escludere assolutamente la pena capitale dall’ambito del sistema penale. Severino ragiona come se l’erogazione di una pena, la sua entità, dipendesse solo dalla sua capacità di deterrenza: così, posto per ipotesi che la capacità di deterrenza della pena di morte è minima, perché non applicarla a reati minimi? Poiché non solo Severino, ma anche Beccarla e il sottoscritto sono in grado di vedere che in questa conclusione qualcosa non va – come non va qualcosa nella conclusione che si potrebbe trarre qualora si dimostrasse che nessuna pena ha capacità di deterrenza: ne verrebbe forse che il sistema penale andrebbe abolito? – è ben chiaro che, se non si discute della concezione filosofica e giuridica della pena soggiacente, tutte queste sono parole inutili. E’ quello che imputo a Severino: avere discusso in maniera del tutto sbrigativa e superficiale, avere finto di non vedere che l’argomento di Amnesty prende in considerazione l’opinione di chi fonda la legittimità della pena di morte sulla deterrenza, solo per mostrare che il nesso in questione è tutt’altro che dimostrato. Ma Amnesty, e gli abolizionisti in genere non sostengono che, qualora fosse dimostrato che la pena di morte ha l’efficacia deterrente maggiore di tutte le altre pene, allora andrebbe applicata.
Severino mette in premessa al suo articolo che mostrare le debolezze degli argomenti degli abolizionisti non significa essere favorevoli alla pena di morte. Allo stesso modo, mostrare la sostanziale inutilità della discussione di Severino non significa essere abolizionisti (e neppure disprezzare il Severino filosofo: tutt’altro). Non significa neppure considerare meglio fondata quella tal concezione della vita giuridica e politica di un paese, quella tal idea di morale, di diritto e di giustizia da cui discenderebbe una parola contro la pena di morte. Il fatto è che nulla di tutto ciò è entrato nell’articolo di Severino, e la presente lettera intende solo esprimerLe, caro Direttore, il rammarico per il fatto che Severino metta il suo nome e sprechi la sua intelligenza per discutere in questa maniera di ciò che meno rileva nell’ambito di una questione così urgente ed attuale. Se dunque c’è motivo per titolare l’articolo di Severino: Le tesi deboli contro il patibolo, come ha fatto il Suo giornale, Le assicuro che ce n’è almeno altrettanto per titolare: Di come si discuta inutilmente del patibolo.
Con stima,