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Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

Il Cavaliere resuscitato

Quando Silvio Berlusconi si alza, prende il posto di Marco Travaglio, stende finalmente il foglio che ha sventolato per tutto il tempo e comincia a elencare i processi e le condanne inflitte al giornalista, sa che ormai l’ha spuntata. La regia inquadra ogni tanto il sorrisetto di Travaglio – solitamente sicuro e beffardo, stavolta invece imbarazzato e quasi intimidito – ma Berlusconi non ha nessuna intenzione di fermarsi. L’imitazione del quadernetto, che ad ogni puntata di Servizio Pubblico Travaglio apre dinanzi agli spettatori per elencare le malefatte dei politici, e più di tutti del Cavaliere, gli sta riuscendo alla perfezione. Allora Santoro si spazientisce e accusa Berlusconi di avere violato l’intesa raggiunta prima dell’inizio del programma. La tela è squarciata, il palinsesto della trasmissione viene rivelato al pubblico. Ma l’arrabbiatura di Santoro non si spiega solo con l’improvviso strappo alle regole – che peraltro lo spettatore non comprende cosa mai dovessero regolare: il numero dei processi citabili? La lunghezza dell’intervento? La maniera di riferirsi al collega Travaglio, infangandone l’onore? – ma con ciò che sta accadendo sotto gli occhi di tutti: Berlusconi al centro della scena, sicuro di sé e soddisfatto nel doppiopetto rispolverato per l’occasione, e Santoro ridotto al ruolo di comprimarioImmagine

Evidentemente gli accordi non erano questi. Intendiamoci: Santoro porta a casa un record di ascolto che resisterà a lungo, a La7, e sarà battuto nelle prossime settimane, sulle altre reti, solo dal Festival di Sanremo, a conferma che lo spettacolo col quale siamo stati intrattenuti rientra nel genere nazional-popolare. E, del genere, il conduttore televisivo e l’ex-premier sono i campioni, opposti e speculari, da un ventennio a questa parte. Santoro ha dunque, numeri alla mano, di che festeggiare: l’operazione è riuscita. Ma il fatto è che è riuscita a tal punto che il paziente, anziché essere morto, come dice la battuta, è addirittura resuscitato. Forse Santoro se l’aspettava, forse no. Di sicuro se ne è lavato le mani: in apertura di trasmissione ha spiegato che non sarebbe toccato a lui infilzare il toro Berlusconi. Ma se il suo programma non sarà più un arena, cosa potrà ancora essere? Forse il punto più alto della parabola televisiva di Santoro verrà ricordato anche come l’inizio della sua discesa.

Quanto al Cavaliere, è presto per misurare gli effetti politici della sua performance. I sondaggisti sono molto incerti: col pubblico si saranno spostati anche i voti? Difficile a dirsi. Di certo, lo spettacolo di ieri sembrava costruito apposta per restituire l’impressione che l’Italia intera non riesce ancora a spostarsi dai termini nei quali ha pensato e rappresentato la politica negli ultimi due decenni. A cominciare dagli argomenti sciorinati da Berlusconi, attingendo al meglio del suo repertorio: la Costituzione che gli lega le mani, gli alleati che ne frenano lo slancio, i comunisti e l’invidia sociale, l’IMU da eliminare e le tasse che il suo gruppo non smette di pagare. All’appello – cosa alquanto paradossale – è mancata solo la tirata contro i giudici comunisti, colpa di un Travaglio guardingo e spaurito, che non l’ha incalzato sul terreno solito dei processi, dei bunga bunga e delle leggi ad personam. Al suo posto, new entry, il complotto della Germania cattiva, che lo ha sbalzato di sella. Santoro, in verità, ha cercato inizialmente di imputare a Berlusconi i fallimenti del suo governo, ma ha ottenuto un unico effetto: quello di rimetterlo al centro della scena, offrendogli la possibilità di scaricare su Monti tutto il peso della crisi. Altro paradosso: dopo tanta richiesta, da parte dell’opinione pubblica, di cambiamento, di rinnovamento, persino di rottamazione, l’altra sera di tutto questo non c’era traccia, e la novità dell’ultimo anno sembrava consistere solo nella recessione addossata da Berlusconi al Professore e al suo Ministero. Quanto a Bersani e al Pd, non sono mai stati citati. Non da Berlusconi, ma neppure da Santoro. Con l’ulteriore paradosso che i due sono riusciti, per tutta la serata, a starsene comodamente l’uno all’opposizione dell’altro. Come se il Paese avesse bisogno sempre solo di prendersela con qualcosa o con qualcuno, e mai di costruire una nuova maggioranza e, così, una prospettiva concreta per il Paese. Ma non è forse questo l’obiettivo ultimo del Cavaliere, visto che sa di non poter vincere? E Santoro, l’arcinemico, non ha finito col dargli così l’aiuto più grande? 

Il Messaggero, 12 gennaio 2013

Un anno d’Europa senza Berlusconi

Il 4 novembre 2011 la vita in Italia era la vita di un paese benestante: i consumi non erano diminuiti, i ristoranti erano pieni, i posti di vacanza erano iperprenotati, e l’Italia non sentiva “un qualche cosa che potesse assomigliare ad una forte crisi”. Così disse il presidente del consiglio italiano in conferenza  stampa, nel corso del G20 di Cannes, in Francia. Otto giorni dopo Silvio Berlusconi rassegnò precipitosamente le dimissioni. Altri otto giorni e il nuovo governo di Mario Monti ottenne la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Ora è trascorso un anno: i ristoranti non si sono ancora riempiti, i posti di vacanza non registrano il tutto esaurito, e soprattutto gli italiani avvertono, e come!, un qualche cosa che assomiglia ad una forte crisi. Non solo assomiglia: è una forte crisi. Il Cavaliere disse anche, in quella occasione, che non vedeva in Italia esponenti in grado di rappresentare il Paese. Il 9 novembre il Presidente della Repubblica diede notizia di aver nominato il professor Mario Monti senatore a vita: qualcosa dunque cominciava a vedersi. E, dopo un anno, un certo deficit di rappresentanza del nostro paese in Europa e all’estero è stato forse colmato. È allora per questo che ci siamo liberati di Berlusconi: per presentarci in maniera più decorosa a conferenze europee e summit mondiali?

Anche per questo, sicuramente. Si potrebbero in verità elencare altre ragioni per cui la maggioranza dell’elettorato italiano ha visto con favore la fine di quel governo, ma non v’è dubbio che, fra queste, la ripresa di credibilità internazionale e il recupero di un certo peso politico in seno alle istituzioni europee hanno avuto un ruolo determinante. Ci sono voluti mesi perché smettessimo di parlare di spread sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, e in verità ogni tanto, come accade con certi reumatismi che non passano mai, la fitta dello spread torna a farsi sentire, e a ricordarci i vincoli esterni che dobbiamo assolutamente rispettare.

Ma è sufficiente tutto ciò? Può essere il vincolo esterno a scandire le politiche del governo nazionale? Si può essere europeisti per forza, e metterci, in più, solo un certo contegno? Già una volta, in realtà, è toccato all’Italia di essere qualcosa per forza: quando, negli anni novanta, compimmo lo sforzo di star dentro i parametri di Maastricht per partecipare alla costruzione della moneta unica, e il riformismo dei governi di centrosinistra di quegli anni fu, per l’appunto, dettato dalla necessità. O almeno così ci fu raccontato e ci raccontammo. A distanza di anni, e dopo aver ricavato un assai gramo raccolto da quelle decisioni, il punto, forse, non è se fosse vero che quella era la strada giusta, ma se fosse davvero l’unica percorribile, e soprattutto se la si dovesse percorrere proprio perché era l’unica. Benedetto Croce diceva che l’azione umana ha dinanzi a sé un largo spettro di possibilità, in cui compie le sue scelte. Quando però ci si volta indietro, si trova che quelle scelte apparentemente libere erano in realtà imposte da una rigorosa necessità, che è compito dello studioso consegnare all’intelligenza storica dei fatti. A noi accade purtroppo tutto il contrario: guardiamo avanti, e scorgiamo soltanto necessità, obblighi ai quali non possiamo sottrarci. Abbiamo anzi un governo che sembra non volerci ricordare altro. Quando però ci volgiamo indietro, si scopre che, forse, dell’altro si sarebbe potuto fare: altro che tecnica! Spazi di libertà ce n’erano, e decisioni eminentemente politiche sono state prese.

Il fatto è che nessuna politica democratica può affermarsi, se non è in grado di sciogliere al tempo giusto necessità, vincoli, condizioni, in un libero progetto e in una convinta assunzione di responsabilità. Se non è in grado di avere una propria autonoma visione del nesso fra ambito nazionale e ambito internazionale e di proporla al proprio paese come la migliore speranza, piuttosto che come la sola possibilità.

Oggi il centrosinistra italiano è una forza di chiaro stampo europeista. L’unica, probabilmente, viste le pulsioni populiste che si agitano: a destra e non solo.  Su questo terreno, il centrosinistra fornisce dunque le più ampie garanzie ai partner europei. Ma qual è la qualità di questo europeismo? Bastano i certificati di garanzia, o ci vogliono nuove istruzioni per l’uso? Forse non basta dire che vogliamo più Europa, se l’Europa che vogliamo è solo quella che dobbiamo volere. Non basta usare l’europeismo come una ciambella ideologica di salvataggio, alla quale aggrapparci dopo il tramonto di ogni altra visione del mondo. Non basta dire dove non vogliamo finire, se non sappiamo dove vogliamo andare a parare. Non basta nulla, se non c’è modo di far sentire agli italiani qualche cosa che non assomiglia ad una forte crisi, ma ad una forte speranza di cambiamento.

L’Unità, 11 novembre 2012

I passeggini e il senso della politica

È già improbabile che vi troviate a fare due passi con Catherine Millet, l’autrice dello scandaloso «La vita sessuale di Catherine M.», figuriamoci se vi potrà mai capitare di farlo mentre spingete avanti un passeggino. Peccato, perché è la situazione ideale per fare due chiacchiere con un venditore d’almanacchi il quale, dopo aver notato che non esistono più le mezze stagioni, che sono tutti ladri e che però suo figlio è in gamba, sicuramente passerà a lamentarsi di questi nostri tempi scettici e relativisti, in cui più nessuno crede a nulla, i veri valori non contano più e non c’è un ideale o un senso da tutti condiviso.

A quel punto, voi non avreste dovuto fare altro che pregare Catherine, che ci ha scritto su un paio di paginette, di parlare dei passeggini di oggi. Perché i passeggini di oggi non sono come quelli di ieri: hanno o possono avere in più un nome, una targa, sei o otto ruote, freni a disco anteriori, manubrio ergonomico regolabile in altezza (per tutelare la schiena del conducente), telaio superaccessoriato, imbotitture, cappottine e altro ancora. In breve: tutto quello che serve per soddisfare le ansie di salute, sicurezza e competitività dei genitori, e tracciare così un profilo ideologico abbastanza preciso dell’uomo contemporaneo.

Al venditore che non trova più un senso in quello che fa basterà dunque far osservare le cose che gli stanno intorno, che sono piene zeppe di connotazioni di senso, solo che tali connotazioni sono inavvertite, anche se non nascoste, e subìte, anche se non imposte. Il che vuol dire anche che sono assai coriacee, e difficilmente modificabili: non sarà, infatti, rifiutando di andare a spasso coi passeggini (e con Catherine Millet) che le cose cambieranno. Fuor di metafora: se è vero che le litanie postmoderne sulla fine del senso, la fine delle ideologie, la fine della storia e via finendo hanno stancato, è vero pure che non basta far la critica della modernità semplicemente chiamandosene fuori. Un altro mondo, insomma, non è possibile, se non si comincia a cambiare un po’ questo nostro mondo.

Il senso infatti c’è, ed è nelle cose e in mezzo a noi. Solo che tanto poco lo riconosciamo, tanto poco è nostro, quanto poco lo elaboriamo in comune, limitandoci ad assumerlo inconsapevolmente.

Il fatto è che i significati che intessono le nostre storie, singolari e collettive, non risiedono mai in menti individuali: e non perché non siamo bravi o capaci a farceli stare dentro, ma perché proprio non ci stanno: non sono fatti per stare «nelle» teste, ma per stare «tra» le teste. Non sono cioè pensieri privati, stati mentali individuali o rappresentazioni meramente soggettive. Per questo un grande studioso di psicologia, James Gibson, invitava a guardare non a quello che abbiamo dentro le nostre teste, ma a quello dentro cui le nostre teste stanno.

Ma se è così, se il senso ha una costituzione intimamente pubblica, come non chiederci allora che cosa comporta quel fenomeno massiccio che è oggi la deformazione (a volte, più bruscamente, la privatizzazione) della sfera pubblica – a cui non infrequentemente corrisponde un’altra deformazione eguale e contraria, cioè la pubblicizzazione della vita privata? Non si tratta solo di lamentarsi dell’una e dell’altra, come poveri venditori di almanacchi, anche se di motivi per lamentarsi ne abbiamo: tanto è scandalosa la commistione di interessi privati nella gestione della cosa pubblica da un lato, quanto è indecorosa l’ostentazione pubblica dei propri personali piaceri dall’altro. Grazie a qualche governo Berlusconi, la seconda Repubblica ha mostrato egregiamente come si possano avere insieme entrambe le cose. Ma più in profondità si tratta di vedere che, per questa via, rattrappiscono in generale le condizioni (linguistiche, sociali, finanche materiali) alle quali soltanto è possibile qualcosa come la costruzione in comune di un senso condiviso. Al solito venditore d’almanacchi che si chiede dove mai sia più un senso, visto che c’è stata la secolarizzazione, la demitizzazione, la deideologizzazione, il disincantamento del mondo e non so cos’altro, si può dunque rispondere che il senso nessuno ce l’ha non perché ormai siamo tutti scafati, perché Dio è morto, Marx pure e la Millet non viene a passeggio con noi, ma perché il senso è una roba che si costruisce insieme, e che dunque richiede certe condizioni: una vita sociale articolata in corpi intermedi, un minimo di uguaglianza e di pari dignità, partecipazione politica, luoghi pubblici in cui una comunità può riconoscersi e rappresentarsi, e così via.

Chiacchierando con un venditore, la si può pure buttare in politica: lui chiederà che cosa pensiamo dei tecnici, e noi, che stiamo ancora mani al passeggino, gli potremo mostrare l’ipermoderno oggetto tecnico per chiedergli se a lui va bene o no che il senso ce lo ammanniscano solo i produttori di passeggini, ben assistiti dall’ufficio marketing. Poi, finita la passeggiata, ci saluteremo, con l’augurio di ritrovarci ancora insieme.

La democrazia contro la paura

Di tante maniere per amare la democrazia ce n’è una che è la migliore di tutte, ed è quella di considerare pregi i suoi presunti difetti. Perché la democrazia di difetti ne ha: uno vorrebbe che venissero eletti ogni volta i migliori, i più preparati, i più incorruttibili, ma nella conta dei voti queste qualità non sempre spiccano e alla fine le cose non vanno proprio così. Uno si augurerebbe sempre il trionfo della verità, e invece la democrazia fa dell’opinione la regina del mondo. Uno vorrebbe infine un po’ di stabilità, di sicurezza, di lunga durata, e invece la democrazia costringe periodicamente i cittadini al rito elettorale, affida la vittoria ora agli uni ora agli altri, rovescia i governi, e cambia volentieri i rappresentanti del popolo.

Ora, se vogliamo far nascere davvero dalle ceneri della crisi un’Italia migliore, è forse venuto il momento di dire che tutto questo non è una iattura, ma una fortuna. Che la democrazia scommette sul  cambiamento, ha fiducia nel futuro, mette in gioco ogni volta le sorti del paese perché confida che il paese saprà scegliere, magari imparando dai suoi errori. Lo fa non perché suppone cinicamente che la verità non esiste, e allora tanto vale fare la conta dei voti, ma al contrario va sempre nuovamente ricercata, e per questo è meglio farlo tutti insieme.

In verità, non c’è bisogno di filosofeggiare per capire l’importanza politica delle parole del premier Monti. Ieri il premier ha detto che esclude di guidare il governo anche dopo il 2013. La parola torna ai cittadini, la politica si riprende il suo spazio, e, com’è giusto, conduce la sua giusta (possiamo dirlo?) lotta per il potere. L’esperienza del governo Monti è stata ed è importante, al di là (anche se è sempre difficile andare al di là) delle cose buone e delle cose meno buone fatte o da fare. Ma è ancora più importante l’esperienza alla quale il paese si consegnerà con le elezioni politiche. Che non sono un ostacolo, un fastidio o un ingombro, ma un’occasione, anzi l’unica vera occasione per mettere davvero il Paese su una nuova e più fruttuosa strada. Scegliendo, e investendo con convinzione sul valore della propria scelta.

Per questo, se è grande la responsabilità che il premier sta portando in questi mesi, aiutando l’Italia e l’Europa a tirarsi fuori dalla più grave crisi nella quale s’è mai potuta cacciare, ancor più grande sarà quella che porteranno i partiti in campagna elettorale.

E se lo spread, allora, salisse? E, peggio: se qualcuno usasse, se non ha già usato, questo argomento per comprimere gli spazi della democrazia, i luoghi della critica, le possibilità di cambiamento? In quel caso gli si ricorderà quel che la democrazia deve sempre ricordare, per tenere in pugno le ragioni della sua legittimazione, cioè che essa è nata per sconfiggere l’uso politico della paura, di cui quell’argomento è soltanto l’ultima versione. Monti lo sa, e non ha inteso usarlo, né ha inteso sequestrare il futuro al paese. Sta ai partiti, e in primo luogo al Pd, indicare come intende disegnarlo. Come si fa a giocare la speranza contro la paura, la fiducia nel meglio contro il timore del peggio. Che se poi lo spread salisse davvero, salisse ancora (come se poi finora fosse sceso precipitevolissimevolmente), beh: sarebbe una buona ragione per farle subito le elezioni, non certo per rimandarle o per preconfezionarne l’esito.

L’Unità, 11 luglio 2012

Un governo tecnico in cerca di “supplementi d’anima”

C’è un passaggio, nelle parole pronunciate ieri da Monti, che conviene osservare da vicino: non per impugnare la matita rossa e blu, ma solo per capire bene. “La crisi economica – ha detto il premier – se non è affrontata con convinzione e coraggio può diventare culturale e di valore”. Il contesto in cui cadevano queste assennate parole – l’incontro con Benedetto XVI – giustifica l’attenzione rivolta alle condizioni morali e spirituali del paese. Il papa ha invitato l’Italia a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, e ha indicato nella grande tradizione umanistica del nostro paese i fondamenti culturali a cui attingere per invertire la rotta. Un grande “rinnovamento spirituale ed etico” deve collegarsi alla tradizione storica dell’Italia, per riprenderla, rielaborarla, riproporla su basi nuove. Ed è vero: la nostra eredità culturale e civile è dote preziosa per tenere unito il paese, e rimetterlo sul sentiero della crescita. Si può naturalmente discutere su cosa diventino i valori, anche i più “etici” e “spirituali”, quando siano separati dalle condizioni effettive in cui furono pensati e posti in essere, e se una sorta di philosophia perennis possa mai accompagnare un paese attraverso le sue tante e diverse stagioni storiche e politiche. Ma queste son domande di filosofi. Nel momento in cui i timori di uno sfilacciamento del tessuto sociale si fanno sempre più grandi, è comprensibile ed anzi auspicabile che forti si intendano le parole che infondono fiducia, che donano speranza, che richiamano tutti al comune senso di appartenenza e alla più coraggiosa assunzione di responsabilità. E fa bene il Presidente del Consiglio ad accoglierle e rilanciarle, specialmente di fronte a segnali di malessere sociale che vanno acuendosi sempre più. Ancor più è apprezzabile che Monti abbia sentito ieri l’esigenza di riprendere la parola che fin dal giorno del suo insediamento aveva accompagnato la proposta programmatica del suo governo: la parola equità. Ci vuole equità, aveva detto, e ancora ieri ha ripetuto. E dentro la tradizione umanistica si trovano davvero le risorse per ripensare il valore non solo morale ma anche politico dell’equità: quella dimensione in cui il rigore della giustizia non può mai andar disgiunto da un ricco senso di umanità, e le proposizioni di principio non vengono mai fatte valere in astratto, nell’ignoranza delle circostanze concrete in cui gli uomini vivono.

Ma resta il passaggio che citavamo in apertura. Perché non può sfuggire che, a rigor di logica, se il premier teme che l’acuirsi della crisi economica possa comportare conseguenze più ampie, sul piano culturale ed etico, allora per lui l’elemento “culturale” ed “etico” si trova in posizione di effetto, mentre la crisi economica, recessione e disoccupazione si trovano in posizione di causa. Ma questo significa che ben difficilmente il rapporto può rovesciarsi, e d’improvviso la fiducia e la speranza, il coraggio e i forti auspici morali possono essere la causa, e la ripresa economica l’effetto. Sempre a rigor di logica si dovrebbe piuttosto pensare il contrario, e che un clima di aspettative favorevoli si stabilirà solo grazie a nuovi investimenti: non solo di fiducia.

Certo, abbiamo bisogno di supplementi d’anima. Forse ne ha ancora più bisogno un governo come quello in carica, che non ha l’etichetta di governo tecnico perché analisti cocciuti si ostinano a ricordare le competenze professionali del premier, ma perché Monti stesso parla alla politica come ad un mondo ben distinto e a volte – lui ritiene – anche distante dal governo. La politica viene individuata come una sfera diversa, con la quale si discute, ma della quale tuttavia non si fa parte e non si intende far parte.

Forse c’è la convinzione che la popolarità dell’esecutivo ne trarrà guadagno, o forse si ritiene che sia così più facile trovare nel governo il punto di mediazione fra interessi contrapposti. Può darsi. Ma sta il fatto che è proprio questo distacco a volte ostentato che rende comprensibile che il premier cerchi supplementi morali a sostegno della sua azione, pur con qualche bisticcio fra la causa e l’effetto. Perché a pensarci il vero supplemento dell’azione di governo c’è, e non può avere altro nome che, per l’appunto, politica. E in tutta Europa, sembra  proprio che ne stia di nuovo venendo il tempo.

L’Unità, 14 maggio 2012

La Grande Scorciatoia

Quando, nell’agosto del 2005, Mario Monti rilasciò a La Stampa l’intervista alla quale ha voluto riferirsi due giorni fa, concedendone un’altra allo stesso giornale, si sollevò un dibattito ampio e animato intorno all’ipotesi formulata con grande precisione dall’ex commissario europeo: “non  un partito di centro ma un’operazione di centro, nel senso che richiede il convergere di sforzi da destra e da sinistra ed è indispensabile non solo alla sopravvivenza del mercato ma della stessa democrazia”.

Come adesso, così anche allora mancava circa un anno alle elezioni; anche allora, il centrodestra non aveva dato prova di buon governo. Monti però dava un giudizio non lusinghiero non solo sul governo Berlusconi, ma anche sull’opposizione. A suo giudizio, né il centrodestra né il centrosinistra avrebbero potuto realizzare quelle “riforme liberali” di cui il paese aveva impellente bisogno.

Il centrodestra perse le elezioni, il centrosinistra le vinse di un’incollatura e franò poi al governo: le tanto attese riforme non furono fatte, coi risultati che sappiamo (aggravati da un nuovo ciclo berlusconiano, l’ultimo e certo il peggiore). In continuità con il giudizio di allora, il Monti di ora attribuisce dunque all’attuale esperienza di governo il valore di primo passo in direzione dell’“operazione di centro” già prospettata nel 2005.

Monti riprese nuovamente la parola una settimana dopo, sul Corriere, per rispondere alle critiche. Gli fu facile lasciar cadere le obiezioni fondate sulla debolezza delle forze politiche di centro, e più chiara si fece l’idea che l’operazione somigliava piuttosto a una grande coalizione che a un grande centro. Il punto stava per lui nel fatto che, sotto il profilo del governo dell’economia, i due poli erano più vicini fra loro di quanto non lo fossero al loro interno. Quanto ciò fosse vero allora e sia vero oggi è difficile a dirsi. Sensibile poi all’argomento di quanti gli avevano fatto osservare che una grande coalizione avrebbe cancellato “l’unico progresso istituzionale fatto dall’Italia dopo gli scandali degli anni Novanta” (Sergio Romano), cioè l’alternanza fra i due poli, rispose che considerava anche lui il bipolarismo un passo avanti, e tuttavia non poteva non notare che tutti i difensori dell’assetto bipolare riconoscevano la necessità di miglioramenti così sostanziali, che, in assenza, il sistema politico si presentava piuttosto come “una grande frittata che non funziona” (Giovanni Sartori).

E così siamo, io credo, al punto. Non però allo stesso punto di allora. Non solo perché si è realizzata una delle condizioni che agli occhi degli osservatori impediva il realizzarsi dell’operazione, cioè l’uscita di scena di Berlusconi (e da ultimo pure di Bossi), ma perché nelle stesse parole del Monti di allora stava la consapevolezza che la grande coalizione era un’ipotesi subordinata rispetto alla prima urgenza, cioè un sistema politico da riformare. Il che era tanto più vero in quanto, nelle parole di Monti, ad essere minacciata non era solo la sopravvivenza del mercato, ma della stessa democrazia.

Quel che allora accadde, grazie alla sciagurata introduzione del Porcellum, fu in realtà studiato apposta non per riformare il sistema politico, ma per incepparlo ulteriormente – cosa che in effetti non mancò di accadere con la striminzita vittoria dell’Unione. Ex contrario, sappiamo cosa ci occorre innanzitutto oggi: far ripartire la politica. E dunque: il superamento del Porcellum e la riforma istituzionale, meglio ancora se accompagnata dall’attuazione dell’art. 49 della Costituzione (quello che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”).

Tanto più che sono ancora le parole di Monti (questa volta dell’ultimo Monti) a richiamare implicitamente la necessità che si delineino chiare visioni politiche alternative, non offuscate da supposte neutralizzazioni tecniche. Monti mantiene infatti la caratterizzazione dell’attuale esperienza di governo come tecnica, distinguendola da una “nuova fase di governi politici”. A questa distinzione si deve certo obiettare che tutti i governi sono politici, nella misura in cui ricevono in Parlamento il sostegno delle forze politiche, ma è evidente che la più forte ragione per mantenerla da parte del Presidente del Consiglio è non la competenza professorale sua e degli altri ministri (in fondo, anche Prodi era un professore universitario, anche se non bocconiano), bensì l’esigenza di mettere il governo al riparo della cattiva fama di cui godono i partiti. Segno che, di nuovo, è da lì che bisogna ripartire, se non si vuole assecondare definitivamente un clima e una piega, che, complici gli ultimi eventi, non promette nulla di buono. Non tanto o non solo per i mercati, che peraltro sono forti abbastanza per far sentire le loro ragioni, quanto per la tenuta della democrazia, le cui ragioni, dopo tutto, tocca ancora ai partiti far valere.

L’Unità, 6 aprile 2012

Papi stranieri

La prima volta che accadde i partiti non c’erano ancora. C’erano però, divisi e meno solidi degli omologhi europei, gli stati regionali. I quali, incapaci di trovare un punto di equilibrio, pensarono che la cosa migliore sarebbe stata di affidarsi a un sovrano straniero. Nella persona di Carlo VIII. Che un po’ combattendo, più spesso mercanteggiando, attraversò col suo esercito la penisola, spingendosi fino a Napoli. Non ottenne gran che, anzi batté presto in ritirata, ma la sua impresa aprì un ciclo cinquantennale di guerre, dal quale l’Italia ha impiegato secoli per riprendersi.

Non siamo però così pessimisti e non esageriamo con le metafore. Se oggi si invocano i papi stranieri (con la minuscola: quello con la maiuscola pare abbia concluso le sue gaie scorribande) non è però da temere che ce ne possano venire secoli di sventure e di guerre  orrende, come diceva amaramente quel gran politico di Niccolò Machiavelli. Ma serpeggia, anzi si manifesta apertamente un’analoga sfiducia nelle risorse del sistema politico nazionale. E cioè, in primo luogo, dei partiti. E come allora, così ora, c’è chi pensa di cercare il punto di equilibrio fuori dal sistema dei partiti, magari non spalancando le porte delle città, come allora, ma sbriciolando quel che resta di formazioni politiche le quali, bene o male, sono ancora la via costituzionalmente indicata per la determinazione della politica nazionale. Perché questo è il punto: chi determina la politica nazionale? O c’è qualcuno che pensa per davvero che le soluzioni sono sempre tecniche, mentre a creare problemi sono sempre i politici? Sta volgendo al termine la più sconquassata delle stagioni che l’Italia repubblicana abbia attraversato, che è stata anche quella di maggiore debolezza dei partiti politici. Come non vedere il rapporto diretto che sussiste fra l’uno e l’altro fattore? E come pensare allora di costruire la soluzione per il 2013 sulle macerie dei partiti, per fare largo al papa straniero, o al mite condottiero di turno? Non abbiamo già sperimentato abbondantemente, coi risultati che sappiamo, l’idea che la politica sia il campo in cui qualcuno, venuto da un’altra parte e dunque (solo apparentemente) non compromesso con il teatrino della politica, scenda tra ali di folla per salvare l’Italia dalla crisi, dallo sfascio o dai comunisti? Prima ancora che venisse giù il muro di Berlino e la prima repubblica, l’opinione pubblica aveva già cominciato a baloccarsi con il «partito che non c’è», quello fatto dagli uomini migliori del paese. Quando poi i partiti non ci sono stati per davvero, s’è visto chi c’è stato al posto loro. E non è stato un bel vedere

Certo, una differenza con il Papi con la maiuscola c’è, e non è una differenza di colore. Non si tratta cioè della diversa posizione nella classifica degli uomini più ricchi del paese, e neppure di una differenza di stile, come se Berlusconi avesse perso credibilità in Europa per qualche battuta di troppo sulla Merkel. È che l’uomo di Arcore si è dovuto accontentare di un ingresso laterale, da destra, nella vita politica italiana, mentre  al prossimo papa straniero si vuole offrire la possibilità di entrare dal più largo portone centrale. L’intuizione di Berlusconi – che era tutta nel nome originario del suo partito, Forza Italia – quanto meglio funzionerebbe, qualcuno starà pensando, da questa nuova, più agevole posizione!

Ora, è difficile dire se dal conclave uscirà il nome di Monti, oppure quella di Passera, o ancora quello di Montezemolo (che è un pochino calato nel borsino dei papabili, ma siccome è notoriamente un uomo fortunato non ce la sentiamo di escluderlo del tutto). Quel che purtroppo è facile intravedere è il tentativo à la Carlo VIII: la croce addosso ai partiti, dipinti come gli staterelli di allora, rissosi e inconcludenti. L’impasse, le pressioni degli Stati europei e infine l’uomo che viene da fuori e scompagina i giochi. Che poi qualcuno disponibile a mercanteggiare, in città, purtroppo, lo si trova sempre. Quel che invece bisognerebbe trovare, è il modo di evitare, dopo vent’anni, di replicare ancora lo schema di Papi.

L’Unità, 22 febbraio 2012

Don Camillo e Peppone uniti da Monti?

Mi piace pensare che il commissario Rehn abbia ragione: in un clima di concordia nazionale, don Camillo e Peppone, perfino loro sarebbero con Monti. Ora però non esageriamo. Don Camillo era uno che dopo ogni ramanzina per atei e miscredenti si ritirava a  parlare col Crocifisso delle debolezze degli uomini; e Peppone era uno che poteva anche piegare il capo e venire a qualche accomodamento, ma solo dopo avere arringato con durezza i compagni perché non perdessero di vista il sol dell’avvenire. Per mettersi l’uno e l’altro dietro un governo tecnico, per seguire con compunzione una conferenza stampa del presidente del Consiglio e mettersi d’accordo in nome dello spread, non di Dio né di Stalin, non avrebbero dovuto solo rinunciare ad agitare forconi e ramazze, ma anche accettare che la spinta alla modernizzazione, l’imperativo della competenza e la logica della razionalizzazione tecnica riducessero al silenzio il Cristo ligneo della canonica di don Camillo, e spegnessero i raggi del sole atteso con incrollabile fiducia dai compagni di don Peppone.
Rehn avrà voluto dire che l’Italia ha bisogno in questo momento di coesione nazionale, e che se, sui titoli di coda o nelle ultime pagine dei romanzi di Guareschi, i due amici nemici potevano in qualche modo affratellarsi, a maggior ragione possiamo farlo noi ora. E questo è sicuramente vero. Però, per la miseria: loro litigavano. E come se litigavano. Non mettevano mica la sordina ai loro contrasti ideologici, e se, per pragmatismo, senso di umanità o semplicemente stanchezza deponevano le armi, non avrebbero mai rinunciato per questo ad aspettare la rivoluzione o la redenzione. Ed anzi: proprio su queste aspettative costruivano legami e facevano comunità.  Perciò ci lascino almeno litigare, i competenti commissari dell’Unione, senza scambiare mai l’unità per conformismo, e vedranno che avremo forse persino qualche motivazione in più per fare tutti i compiti a casa. O, in alternativa, provino piuttosto a suscitare passioni altrettanto frementi per l’Europa.

L’Unità, 26 novembre 2011

TRA TECNICI, POPULISTI E NORMALI

I populisti li riconosci subito: sanno tutto dei film comici e delle commedie scollacciate degli anni ’70: ti citano a memoria Bombolo o Alvaro Vitali, Totò o Franchi e Ingrassia. I tecnocrati, loro, sono i nemici giurati della scuola italiana di doppiaggio: i film li vedono solo in lingua originale. I populisti sudano; solo i tecnocrati si deodorano. I populisti dormono della grossa, probabilmente russano; i tecnocrati riposano non più di quattro ore per notte, in uno stato di semivigilanza. I populisti al ristorante sghignazzano ad alta voce; i tecnocrati bisbigliano piano. Quando un populista legge, è solo perché ha preso il quotidiano sportivo in edicola: lui è uno del popolo e ha l’idea che al popolo piacciono solo il calcio, le donne e le battute grevi. Un tecnocrate, invece, legge soprattutto i listini di borsa e del calcio conosce, al più, i bilanci. Il populista è sempre sopra le righe; il tecnocrate mantiene sempre un certo low profile. Quando fai la foto a un populista, lui stringe mani, fa le corna e si mette sempre al centro dell’inquadratura; un tecnocrate non si fa fotografare, sta sempre dietro le quinte e, comunque, se proprio deve, non sorride. Il populista gesticola vistosamente, il tecnocrate compie solo movimenti minimi. Nessuno ha mai visto un tecnocrate assentarsi per soddisfare bisogni primari; il populista, invece, ci fa le battute sopra. Perché è sfacciato, mentre il tecnocrate è represso. Quello tiene sempre in braccia un bambino, in pubblico; questo soffre di anaffettività persino in privato. E quando va dal dottore, è per avere conferma dei suoi timori, mentre il populista non ci crede ancora che bisogna morire («non fiori, ma opere di bene» l’ha inventata un tecnocrate, perché al funerale del populista lacrime e corone di fiori si sprecano).

Insomma, come direbbe il filosofo, il mondo del populista è un altro che quello del tecnocrate. Ma possibile che non ci sia nulla nel mezzo? In realtà qualcosa c’è, ma è chiaro che fino a quando la scena è occupata dalle caricature che in un mondo ci si fa dell’altro mondo, quello che c’è in mezzo non si vede. E così sembra che popolo sia solo quello a cui il populista liscia il pelo, e che capacità e competenza siano necessariamente sinonimo di tecnocrazia e poteri forti. E invece così non è. Ma come si fa a dire come stanno le cose, che cioè in mezzo c’è – o ci dovrebbe essere – la politica, vista la cattiva reputazione di cui gode nel nostro paese? Eppure è la politica che ha il compito di staccare il popolo dalla sua deriva populista, così come è ancora la politica ad attirare la competenza tecnica in una zona che non è più quella di un’anodina neutralità. Non c’è bisogno di compiere studi superiori per sapere che quella del popolo è una (faticosa) costruzione  giuridico-politica; che il popolo non rappresenta affatto un’unità naturale (men che meno un’unità etnica, come sproloquiano i populisti padani), e che dunque richiede un lavoro paziente, un tessuto di parole e di rappresentazioni per nulla immediato o scontato; così come non occorre risalire al mito di Prometeo e al dono della techne all’uomo per capire che non può esistere una pura tecnica politica, che la politica non è mai mera amministrazione dell’esistente, e che per governare ci vogliono decisioni e assunzioni di responsabilità per nulla neutrali.

È bene perciò che prendiamo il governo Monti come una via per uscire anche da una simile impasse. Per avviare un lavoro che negli ultimi anni non è mai stato condotto, a destra come a sinistra, consentendo ai populismi di assorbire tutta l’energia politica disponibile, sia nella versione giustizialista di sinistra che in quella mediatica di destra, e alle competenze tecniche di presentarsi col volto impersonale e irresponsabile della ferrea necessità, Caricatura del sapere questa, caricatura del potere quella.

Se la cosa riesce, magari non tireremo solo l’Italia fuori dai guai, ma vedremo anche qualche tecnocrate in più andare allo stadio ed esultare, e qualche populista in meno sbroccare in tv. Al primo scapperà una risata, il secondo per una volta si morderà la lingua. E forse tutte e due parteciperanno al rito delicato e prezioso della democrazia, senza manifestare insofferenze per le sue lentezze, o fastidio per le sue mediazioni.

(Il Mattino, 22 novembre 2011)

La normalità e l’anomalia al tempo di Monti

Ieri tutti i giornali dicevano: una fiducia da record. E si capisce: 556 voti favorevoli, 61 contrari, il governo Monti ha stracciato ogni precedente. Non solo, ma si è anche costituito in tempi eccezionalmente brevi: meno di una settimana. Questi numeri non sono normali. Segno di una fase di emergenza che il Paese attraversa, e che ha richiesto decisioni rapide ed efficaci, oltre che grande senso di responsabilità da parte di tutti gli attori, politici e istituzionali. Ma se nessuno si metterà a fare l’elogio della lentezza o l’apologia della flemma, resta vero che a introdurre l’ossessione dei record in politica è stato Silvio Berlusconi, e fare i conti con la sua eredità significherà anche decidere se lasciarsi afferrare o meno da una simile ansia da prestazione.

Da dove viene, però, la smania dei record? Da più lontano e da un altro ambito. Viene dallo sport, che per Robert Musil è stata la vera invenzione del Novecento. Ulrich, il giovane protagonista de L’uomo senza qualità, era capace di tirare in ballo gli allenamenti sportivi per spiegare addirittura le esperienze mistiche, e la cosa poteva funzionare, perché mentre “lo sport è un fatto contemporaneo, la teologia è cosa di cui non si sa quasi niente”. Con la  «discesa in campo» di Berlusconi, non è accaduto lo stesso? Non ha invaso lo sport anche la politica? Non è per la stessa ragione che Maurizio Crozza ha presentato in tv la squadra di ministri come fosse una formazione di calcio, con allenatore il sottosegretario Catricalà e direttore di gara Mario Monti?  Perché meravigliarsi dunque se si vuole che il governo macini record su record? E la stessa storia dello spread: non è di nuovo una faccenda di primati?

È anche altro, naturalmente. E non è neppure il caso di prenderla anto sportivamente, visto che ne va dell’equilibrio finanziario del Paese. Ma poiché da parte di tutti c’è la consapevolezza che con il nuovo governo si chiude un’intera stagione politica e si apre una fase nuova, di ricostruzione morale e civile del paese, perché non riflettere anche su elementi della cultura politica di questi anni, per vedere se anche lì non ci sia qualcosa da ricostruire? In effetti, se non c’è nulla di male a trovare analogie sportive per i fatti della teologia, nulla di male vi sarà neppure a servirsi di termini calcistici per intendere la politica: ma un conto è analogare, un altro identificare, applicando la stessa logica all’uno e all’altro ambito. È invece la vita delle istituzioni non si presta gran che alla fame di record delle competizioni sportive, e si orienta invece in base ad altri parametri. All’opposto dei numeri ad effetto non c’è infatti solo la retorica della pacatezza, ma stanno anche continuità, solidità, serietà, la capacità di dispiegare gli effetti della propria azione in un arco di tempo lungo, senza fretta né gare, senza risultati da polverizzare o avversari da sbaragliare. La mediazione invece della furia del dileguare, per dirla addirittura con Hegel.

Il Presidente del Consiglio sembra esserne consapevole. Nel primo discorso tenuto al Senato, ha sottolineato ad esempio che, in tema di riforme, bisognerà certo aver presente lo stato dei conti, ma essere anche determinati ad introdurre principi la cui validità si estenda ben oltre la contingenza. Se d’altra parte l’imperativo unico fosse esclusivamente fare cassa, ben difficilmente si riuscirebbe a mantenere fede all’impegno di equità preso con il Paese. In ogni caso, ragionare di riforme considerandone gli effetti strutturali, lenti ma progressivi, è indice di un approccio ben diverso da quello che ispirava le conferenze stampa di Berlusconi, capace di annunciare riforme a grappoli, a decine, pur di dimostrare di aver battuto ogni record in materia – poco importa se per riforme si intendesse di tutto e di più, e se oltre l’effetto annuncio non si è riusciti ad andare quasi mai.

Non è il caso, ora, di coltivare nostalgie democristiane. Ma è vero quello che proprio ieri ricordava il neoministro della cooperazione Andrea Riccardi, su un terreno tra i più delicati che nei prossimi mesi sarà forse sondato dalle forze parlamentari: la DC era contraria al maggioritario perché temeva una legislazione a corrente alternata, un sistema elettorale che a ogni nuovo cambio di legislatura costringesse, con nuove maggioranze, a ricominciare tutto daccapo. Una vittoria dell’oggi che si traduce in un conflitto irrimediabile domani potrà forse giovare a una parte politica, ma di sicuro nuoce al paese.

Questo non significa che alternanza, bipolarismo, spoil system siano incompatibili con la continuità istituzionale, con una buona cultura dell’amministrazione e una chiara individuazione delle responsabilità politiche. Ma sono tutte cose che suppongono una tessitura comune, una trama civile e politica più resistente dei cambi di maggioranza. Proprio questo tessuto il berlusconismo ha stressato in ogni modo, sottoponendolo a continui strappi, in molteplici direzioni – e segnatamente, verso tutti i presidi posti a garanzia di quella più solida continuità.

Forse Napolitano, nominando Monti senatore a vita, ci ha voluto obbligare a tenere sempre a mente la frase di Gasperi: un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione. Oggi, bisognerebbe anche aggiungere che uno statista non guarda neppure ai sondaggi, o all’audience da record dell’ultimo programma televisivo. E forse neppure allo spread, se questo gli accorcia troppo la vista.

(L’Unità, 20 novembre 2011)