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La lotta politica sulla pelle dei malati

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È civile un Paese in cui un esponente politico chiede l’arresto di un altro esponente politico? È civile un Paese nel quale  il primo – poniamo: un vice presidente della Camera dei Deputati – chiede l’arresto di un altro – per esempio: il Presidente di una importante Regione del Paese –? È civile un Paese nel quale il primo chiede l’arresto del secondo non sulla base di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non previo accertamento della commissione di reati, ma perché ha lui stesso individuato il reato? Perché così va, in questo Paese: il vicepresidente della Camera dei Deputati, Luigi Di Maio, afferma che in un Paese civile il governatore campano, Vincenzo De Luca, dovrebbe essere agli arresti. In carcere. In gattabuia. Forse è l’effetto Trump: in campagna elettorale il candidato repubblicano aveva detto infatti che avrebbe nominato un procuratore speciale per mettere sotto inchiesta la Clinton e farla arrestare. Di Maio è solo un po’ più sbrigativo: direttamente in galera, senza passare per la nomina di un procuratore.

Questa, naturalmente, è soltanto la sua idea di civiltà. Ed è un’idea molto lontana dal livello di civiltà giuridica che i paesi europei hanno raggiunto, più o meno da un paio di secoli. Però Di Maio ci fa il piacere di lasciarci immaginare cosa sarebbe il Paese civile che avesse lui alla sua guida: dopo tutto non è nemmeno un’ipotesi così peregrina, visto che è pur sempre il più papabile candidato premier dei Cinquestelle. Sarebbe un Paese in cui uscite sopra le righe come quelle di De Luca costerebbero la detenzione.

Ma intanto il Paese che abbiamo è questo: un Paese in cui Luigi Di Maio si scandalizza per il linguaggio del governatore campano, e tutto infervorato, e tutto consumato dal sacro fuoco dell’indignazione, ne spara una di gran lunga più grossa. Era infelice la battuta di De Luca sulla Bindi? Certo, lo era. Ed era spudorato il comizio di De Luca agli amministratori locali, con il suo elogio iperbolico del perfetto sindaco clientelare? Sì, lo era. Ma è frutto di una incultura giuridica molto più pericolosa, e di una mentalità intrisa di estremismo giacobino, la più lontana possibile da ogni idea liberale della politica e del diritto, l’incitazione all’arresto di De Luca, da parte di Di Maio? Sì, lo è.

Dopodiché cosa succede? Che in commissione tutto si ferma, e quel provvedimento che doveva modificare le regole del commissariamento straordinario, consentendo di riportare la sanità campana (e quella calabrese) sotto la responsabilità politica del governatore, viene sospeso. Chi se la sente infatti di difendere De Luca, mentre il tribunale dei Cinquestelle ne chiede l’arresto per voto di scambio? Non parlano già di schifezza ed abominio (come se la gestione commissariale di questi anni avesse regalato servizi migliori in qualità e quantità)? È chiaro che ora la materia scotta, ed è perlomeno inopportuno, politicamente parlando, mettersi per questa strada. A pochi giorni dal voto referendario, era difficile sfuggire a questa considerazione. Così anche il ministero della Salute ha cominciato a frenare. E addio emendamento.

Ora che quel che succederà dopo il 4 dicembre nessuno lo sa. Bisogna spiegarlo però ai cittadini campani. E spiegarlo bene, perché la sanità è la gran parte del bilancio regionale, oltre ad essere insieme al lavoro, in cima alla preoccupazione delle persone. Senza l’emendamento, la sanità continua a rimanere al di fuori della conduzione del governo regionale. Ospedali, farmaci, prestazioni: tutto. In un Paese civile, questo non accadrebbe se non in via del tutto eccezionale, e per un tempo molto limitato. In un Paese civile, ci si dovrebbe preoccupare piuttosto di come fare perché i politici rispondano del loro operato dinanzi alla pubblica opinione e, in occasione del voto, all’elettorato. Nel nostro Paese, invece, si risponde a Luigi Di Maio.

(Il Mattino, 23 novembre 2016)

La Campania offre un patto al governo

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La provocazione ha avuto effetto: i 200.000 posti del piano di Vincenzo De Luca per la pubblica amministrazione nel Mezzogiorno hanno tirato fuori il dibattito dalle secche in cui c’è sempre il rischio che scivoli, quando si tratta di misurarsi con la sempiterna questione meridionale. La proposta è in sé discutibile, ed infatti è stata discussa. È stata anzi al centro della discussione che ha ravvivato questi Stati Generali, voluti dal governatore De Luca per rilanciare il tema dello sviluppo del Sud e porlo nuovamente al centro dell’agenda nazionale. E nella discussione sono affiorate le domande: siamo sicuri che il Mezzogiorno abbia bisogno anzitutto di un piano straordinario di assunzioni, anziché di un rilancio degli investimenti? Siamo sicuri che è un piano sostenibile per le finanze dello Stato? Siamo sicuri che il tema delle burocrazie pubbliche non sia anche un tema di qualità complessiva dell’azione amministrativa e di efficientamento delle policies? Siamo sicuri che basti indicare un obiettivo generale, e non siano piuttosto da considerare i settori strategici nei quali occorre anzitutto rafforzare la macchina dello Stato?

Ma ora ci sono le domande, e prima non c’erano nemmeno quelle. Diciamo anzi la verità: la proposta di De Luca ha almeno un primo merito, quello di rovesciare senza timidezze la retorica corriva, secondo la quale i soldi dati al Mezzogiorno sono per forza soldi sprecati, che finiscono invariabilmente in clientele, assistenzialismo, ruberie. Finché prevale questa narrazione, è difficile impostare il tema della riforma della pubblica amministrazione in maniera diversa da quella dei tagli, del risanamento e della spending review. Poi ne ha anche un secondo, più generale, dal momento che una proposta del genere suppone che ridurre il perimetro dell’azione pubblica non sia più la priorità assoluta. Con il blocco del turn over in tutti questi anni lo Stato, secondo De Luca, è dimagrito abbastanza: in tutto il Paese e in particolare al Sud.

Su questo, il Presidente Renzi ha convenuto. «Si deve dire che si tornerà ad assumere nella pubblica amministrazione», ha detto il premier, ed in effetti il governo ha cominciato a farlo: nel settore della scuola o in quello della giustizia, per esempio. Poi però ci sono le precisazioni: «servono più ricercatori» – ha aggiunto infatti Renzi – «non più dipendenti». Che tradotto vuol dire: badiamo alle domande di cui sopra. Cioè: stiamo attenti alla qualità della spesa pubblica, non accontentiamoci di buttar dentro qualche centinaio di migliaia di statali, ma ragioniamo su dove e come impiegare nuove risorse.

La prudenza, insomma, è necessaria: dettata anzitutto dal ruolo e dalle responsabilità. Ma in nessun modo Renzi ha ribaltato i dati di partenza del ragionamento che De Luca ha proposto nel suo intervento agli Stati Generali. E cioè: l’amministrazione pubblica è anagraficamente vecchia; l’amministrazione pubblica si è progressivamente dequalificata; lo Stato non può lasciare fuori un’intera generazione.

Questi infatti sono i dati. Poi c’è il numero, la meta iperbolica delle 200.000 nuove assunzioni, e quella è evidente che a Renzi (e non solo a lui) è parsa del tutto fuori dalla portata dell’azione di governo, in questa congiuntura. Ma quel numero doveva essere dirompente, per lanciare con forza l’idea di una nuova stagione di impegno vero dello Stato nel Sud. E doveva anche avere un sottinteso politico, nemmeno tanto velato.

In politica conta chi prende l’iniziativa, chi manifesta un’ambizione, chi si fa portabandiera di un progetto di largo respiro. Renzi lo ha fatto, portando ad approvazione la riforma costituzionale e ora mettendo in gioco il futuro del Paese con il referendum del 4 dicembre. Nelle intenzioni del premier, le riforme sono il viatico della nuova Italia: hic Rhodus, hic salta.

De Luca lo fa a sua volta, chiedendo però al governo di fare un altro salto, persino più grande del primo. Proponendo cioè di riempire il disegno riformatore con un piano almeno altrettanto ambizioso, che parli da molto vicino alle persone, soprattutto in quelle aree dove la crisi economica e sociale morde ancora, e non bastano certo le attuali, risicatissime percentuali di crescita del PIL per delineare una concreta inversione di rotta. In questo senso, De Luca cerca di dare una mano a Renzi, non di mettere in difficoltà il governo. È come se gli dicesse: caro Renzi, prova a spiegare che questa maggioranza che chiama al voto il 4 dicembre sulle riforme è la stessa che vuole affrontare in maniera radicale il tema del lavoro nel Mezzogiorno, che vuole offrire una prospettiva di futuro ai giovani. Prova a far passare l’idea che anche su questo si gioca la partita del voto, e magari così ti riesce pure di vincerla. Poi i numeri li aggiustiamo, e la spesa la teniamo sotto controllo. Ma intanto lanciamo una grande controffensiva politica e culturale anche su questi temi, su un’offerta rinnovata di beni pubblici in tema di sicurezza, di sanità, d’istruzione, di ambiente su cui il Mezzogiorno ha pagato sinora il prezzo più alto.

Ora però queste cose non è che De Luca si limita a suggerirle: le dice lui stesso, in prima persona, e pure questo un significato ce l’ha. Ed è più di un messaggio o di una raccomandazione. È l’offerta di un patto politico, che il presidente della regione Campania si prefigge di stringere più fortemente, dopo che sarà chiaro il risultato del referendum.

(Il Mattino, 14 novembre 2016)

Sì alla riforma contro i furti al Sud

home_polloLa regione più giovane d’Italia, la Campania, perde 200 milioni di euro l’anno perché nella ripartizione dei fondi per la sanità si tiene conto solo dell’età: lo ha ricordato ieri il governatore De Luca, e ha ricordato una cosa vera. Il proverbio dice: a buon intenditor poche parole, ma per De Luca, evidentemente, in giro di buoni intenditori non ce ne sono, e perciò l’ha messa giù così: noi del Sud siamo polli e quelli del Nord sono magliari.

Il dato però è già abbastanza vistoso di per sé, perché i termini coloriti possano aggiungere qualcosa: è un fatto che la maniera in cui avviene il riparto penalizza sistematicamente il Mezzogiorno, e la Campania in particolare. Ora, uno potrebbe dire che è comprensibile che vadano più risorse dove ci sono più anziani, i quali hanno bisogno di più medicine e di più cure. Ma la letteratura scientifica ha dimostrato da tempo che l’età è solo uno dei fattori che incide sullo stato di salute di una popolazione, e ha evidenziato come esista una correlazione precisa fra la salute e l’indice di deprivazione sociale, cioè in primo luogo il tasso di reddito e il tasso di istruzione.  Che al Sud sono più bassi che al Nord.

Le basi per mantenere gli attuali criteri di ripartizione del fondo sanitario sono dunque assai discutibili. E lo sarebbero ancora di più, se si considerasse che la salute ha rapporto con le condizioni generali dell’ambiente, che la Campania ha un elevato tasso di mortalità infantile, o che da noi i malati di tumore hanno un tasso di sopravvivenza più basso.

De Luca ha insomma tutte le ragioni per fare la voce grossa, e infatti la fa. C’è però una così scarsa considerazione di quel senso di appartenenza alla medesima comunità nazionale, che le rivendicazioni del governatore campano vengono derubricate a rumore di fondo, oppure classificate come l’abituale lamentela che viene dal solito meridionalismo accattone.

La questione della sanità è però solo una delle molte questioni che si accumulano lungo una medesima linea di faglia, che riguarda il rapporto fra le diverse aree del Paese. Ebbene, siamo ad un passaggio essenziale: di riscrittura della Carta costituzionale. Nella riforma c’è, fra l’altro, il tentativo di ridefinire i termini del rapporto fra lo Stato e le Regioni. Ridisegnando il profilo della Camera alta – dove siederanno i rappresentanti degli organismi regionali – e delimitando le competenze rispettive, statali e regionali. Il giudizio che ciascuno vorrà dare su questa complessa materia può essere ovviamente positivo o negativo, e anche molto positivo o molto negativo. Pure i critici della riforma, però, dovranno ammettere che è difficile far peggio di oggi, a giudicare almeno dalla quantità di conflitti sollevati in materia innanzi alla Corte costituzionale.

Ma non è nemmeno questo il nocciolo del problema, quanto piuttosto il fatto che qualunque riforma è poi affidata a un certo iter attuativo, e alle interpretazioni che delle norme offriranno gli attori politici e istituzionali. Tocca, insomma, alla politica. E bisogna augurarsi che tocchi a una politica nuovamente compresa della sua funzione nazionale, disponibile a ragionare in termini unitari, e a far prevalere i fondamentali elementi di solidarietà da cui dipende la coesione del Paese.

La riforma contiene fra l’altro – ed è un’innovazione di non poco conto – la cosiddetta clausola di supremazia, in forza della quale la legge dello Stato può intervenire anche su materie che sarebbero di competenza delle regioni: si tratta di una riforma – per alcuni di una controriforma – di stampo centralista, e però (o perciò) probabilmente di un buon punto di riforma. Ma anche l’esercizio di questa clausola non riposa su un semplice automatismo, e dipenderà quindi da equilibri politici, da rapporti di forza, da interessi e spinte contrapposte. Nessuno può cioè illudersi che la riforma costituzionale possa surrogare responsabilità che sono sempre e solo legate alla direzione politica della nazione.

Se gli anni della seconda repubblica sono stati dominati da una retorica nordista, leghista, separatista, e da un appello alle identità dei territori in chiave localistica ed egoistica, ciò non è dipeso da uno stallo istituzionale, ma dal collasso di quel sistema di partiti a cui era stata affidata per decenni una essenziale funzione di integrazione sociale e politica. Ora quella funzione di fatto non è più svolta, e diviene quindi fondamentale iniettare nuova legittimazione politica attraverso l’ammodernamento istituzionale. Ma i polli ed i magliari non scompariranno il giorno dopo il referendum: da quel giorno comincerà casomai una nuova partita, con un nuovo campo di gioco e nuove regole. È bene, allora, che cominci ad esistere e a farsi sentire un nuovo meridionalismo in grado, questa volta, di giocare quella partita e, magari, di vincerla.

(Il Mattino, 14 luglio 2016)

De Luca junior e il partito formato famiglia

Immagine2.jpgLe analisi del voto si fanno sui numeri, ma a volte contano anche le storie. Come quella di Salerno. I numeri parlano chiaro. A Salerno, Enzo Napoli è stato eletto sindaco con la percentuale record per questa tornata elettorale del 70,5% dei voti. Il secondo arrivato ha preso il 9,6%: un abisso. Nella sua giunta entra Roberto De Luca, figlio del governatore campano, con deleghe pesanti al bilancio e allo sviluppo. La nuova consiliatura si apre dunque nel segno della più assoluta continuità con un’esperienza politica che dura dal 1993, da quando cioè Vincenzo De Luca subentrò al dimissionario sindaco socialista, Vincenzo Giordano. In quello stesso anno, De Luca affrontò il voto e venne eletto per la prima volta, con quasi il 58% dei voti, alla testa dei «Progressisti per Salerno». Nel 1993 il Pd non esisteva: esisteva il Pds, Partito democratico della sinistra, che sarebbe poi diventato Ds, Democratici di sinistra, e infine – insieme con la Margherita – Pd, partito democratico. In tutto questo tempo, i «Progressisti per Salerno» hanno mantenuto la guida della città, ripresentandosi ad ogni elezione. De Luca è stato sindaco finché ha potuto, finché cioè il limite dei due mandati non lo ha costretto a lasciare. Ora è alla Regione, ma la giunta cittadina è, in tutto e per tutto, una sua diretta emanazione. Un caso analogo, in una città di medie dimensioni, in giro per l’Italia non c’è. Un caso analogo: cioè il caso di una città che tributa un consenso reale, vero, largamente maggioritario (una volta si diceva bulgaro), ad una stessa formazione politica ininterrottamente per un quarto di secolo. In uno strano gioco di eredità, non c’è solo il testimone che passa di padre in figlio, con il neo-eletto sindaco Napoli nei panni del Mazzarino di turno, che assume la reggenza in attesa che si perfezioni la successione; c’è anche un’eredità che si trasmette graziosamente al Pd, il quale riceve in dote i clamorosi successi politici di De Luca pur senza mai affrontare il voto col proprio simbolo.

Napoli: tutt’altra storia. Anche lì cominciata nel ’93, con l’elezione di Antonio Bassolino (che di De Luca è praticamente coetaneo), e proseguita poi per un secondo mandato. A Napoli il passaggio in Regione arriva prima, nel 2000, e nei dieci anni successivi il centrosinistra tiene sia il Comune (con la Iervolino) che la Regione (con Bassolino). Poi, con la drammatica crisi dei rifiuti, perde tutto: prima la Regione, dove sale il centrodestra di Caldoro, quindi la città, dove viene eletto De Magistris, dopo il clamoroso autogol delle primarie annullate. Ma da allora sono trascorsi cinque anni, e il Pd non ha dato segnali di inversione di rotta. Ha cambiato segretari regionali e provinciali, è passato per esperienze di commissariamento, ha ottenuto sottosegretariati al governo, ma nulla è servito. In realtà, il 2011 non era stato solo l’anno di una sconfitta politica, ma anche il punto in cui di fatto si rompeva un rapporto politico e sentimentale con la città. Cinque anni non sono valsi a ricucirlo. Il Pd ha continuato a dividersi, lacerato da polemiche intestine, dominato da piccoli capi locali, quasi disperso come comunità politica. Quel che è peggio, continua a non apparire degno di fiducia a settori larghi della popolazione cittadina, che non avrebbero motivo per seguire le rodomondate di De Magistris, e che però non trovano sufficienti doti reputazionali (eufemismo) nella classe dirigente che il partito democratico esprime. D’altronde lo si è visto: Valeria Valente ha portato per tutta la campagna elettorale la croce di una diffidenza profonda e di un malcontento che venivano dallo stesso partito democratico. Al di là dei suoi meriti o demeriti personali, è un fatto che non c’era nessuno che avrebbe potuto federare i diversi pezzi del Pd e offrire l’immagine di un partito unito e di una causa comune. Lo stesso Bassolino era sceso in campo non già come l’uomo che avrebbe potuto mettere d’accordo tutti, ma come quello che avrebbe potuto vincere da solo, o quasi, sospendendo i giochi correntizi, sempre meno redditizi, che paralizzano il partito democratico

Due storie opposte, dunque: a Napoli, un quadro a dir poco frammentato, una dirigenza di fatto priva di autorevolezza, e la mancanza di parole che entrino nel discorso pubblico e aggreghino società civile, intellettualità diffusa, mondo produttivo. Che facciano cioè quel che la politica deve fare. A Salerno, invece, un monolite costruito intorno alla figura carismatica di Vincenzo De Luca, in una forma di affidamento personale, capace di trasmettersi anche oltre i limiti naturali di un ciclo politico, edi ridurre le dinamiche di partito a un ruolo subordinato e quasi ornamentale. A Salerno tutta la città segue De Luca, a Napoli quasi nessuno si fida del Pd, ma in tutte e due i casi, per troppo successo o per un completo insuccesso, i democratici non si capisce cosa ci stiano a fare. E poiché purtroppo poche altre storie offre il Mezzogiorno, usi o no il lanciafiamme, Renzi un pensiero serio alle condizioni in cui si trova il partito di cui è il segretario lo deve dedicare.

(Il Mattino, 10 giugno 2016)

Eccesso di legittima difesa

Bruno BrindisiL’attacco di Vincenzo De Luca a Rosi Bindi non è passato inosservato: non poteva. Le parole che ha usato sono andate oltre il segno. Per rinfacciare al Presidente della Commissione Antimafia «l’atto infame» – così lo ha definito – che la Bindi compì, diramando nell’immediata vigilia del voto regionale la lista degli impresentabili, e includendovi anche De Luca, il governatore campano non ha esitato a definire a sua volta la Bindi «impresentabile», infilando però la spregiativa aggiunta: «da tutti i punti di vista». E, come non bastasse, al giornalista che chiedeva cosa rimproverasse alla Bindi, De Luca ha risposto che le rimprovera nientemeno che di esistere. Decisamente troppo: le reazioni del mondo politico non si sono fatte attendere. D’altra parte, chi ha già avuto modo di confrontarsi con il linguaggio «netto deciso e forte» (sono gli eufemismi di Lilli Gruber, in trasmissione), non troverà molti motivi per meravigliarsi di una simile aggressione verbale. In cui De Luca incappa, al di là delle intenzioni esplicite dell’altra sera, per il solo fatto che ricorre spesso a espressioni assai colorite (altro eufemismo). Finché rimanevano confinate in una dimensione provinciale, potevano essere derubricate a folclore; ora che trovano un palcoscenico nazionale e provengono da una più alta carica, non più. Il personaggio inventato da Crozza, che lo imita ormai tutte le settimane, nasce così.

Dopo però che De Luca avrà porto le sue scuse, come ci auguriamo, non sarà inutile che faccia pure qualche riflessione meno estemporanea sull’incidente occorsogli. La scorsa settimana c’è stato il congresso dell’Associazione nazionale magistrati, e si è capito che questa non è più la stagione di uno scontro frontale fra politica e magistratura. Le riforme istituzionali: anche loro hanno fatto un tratto del cammino che dovrà portare all’approvazione definitiva del Parlamento, e presumibilmente al referendum del prossimo anno. Pure le polemiche nel Pd perdono forza, o almeno consistenza. In questo quadro, le parole di De Luca suonano davvero fuori posto: rinfocolano un conflitto fra le istituzioni su cui nessuno, proprio nessuno può seguire il governatore campano.

Ciò è tanto vero, che ad accorrere in difesa della Bindi non sono scesi solo Cuperlo o Miguel Gotor, uomini della minoranza Pd, ma anche un ministro di peso come Maria Elena Boschi. Certo, le parole di De Luca erano viziate da un tratto maschilista inaccettabile, così come è frutto di maleducazione istituzionale riferirsi al Presidente di un importante commissione del Parlamento chiamandola «signora Rosaria Bindi», con la stessa derisione, nello sminuire i titoli o nel cambiare i nomi, che usava Totò nello storpiarli. Ma di nuovo: non ne va solo di galateo istituzionale o di solidarietà femminile: si vuol anche dire a De Luca che le cose a Roma non vanno come a Salerno, e che il grugno che esibisce sporgendo in avanti la mascella può funzionare quando si domina incontrastati la scena politica locale, funziona meno quando si deve tenere un dialogo con il livello di governo nazionale, o con il Parlamento. Che invece De Luca continua a dipingere con disprezzo come la «casta», soffiando su umori antipolitici che prima o poi, a un uomo che è al potere da una trentina d’anni, è possibile che gli presentino il conto.

Ciò detto, è vero pure che, in realtà, De Luca ha parlato per fatto personale: non ci sta a passare per camorrista solo perché l’Antimafia lo definisce impresentabile a causa di una vicenda vecchia di quindici e passa anni, su cui ha rifiutato la prescrizione, o per una condanna in primo grado per abuso d’ufficio, «il più sfessato di tutti i reati» (anche in questo caso il copyright è suo, di De Luca: non di Crozza). Per questo, oltre che per complessione caratteriale, reagisce a muso duro, ribatte colpo su colpo, e forse dà pure qualche colpo in più. Il ragionamento politico che però ieri ha cercato di far passare, mentre veniva incalzato sull’applicazione della legge Severino, sulle sue sorti in caso di sospensione, sugli impresentabili nelle sue liste, merita di essere giudicato per quel che è: un ragionamento tutto politico. Per vincere in Campania il Pd da solo non basta. Dunque bisogna cercare accordo con segmenti di ceto politico moderato, che è quel che lui ha fatto. Le denunce vanno presentate all’autorità giudiziaria, e vanno circostanziate, ma stanno, devono stare su un altro piano. Le solleciti Saviano o chiunque altro: su questo De Luca ha ragione. Poi ci si può domandare se in questo modo, pagando questo prezzo politico, De Luca sarà in grado di produrre comunque la necessaria (e promessa) discontinuità degli atti di governo, ma questa è la materia su cui gli elettori giudicano e giudicheranno, più che la ragione di un veto pregiudiziale, o morale, nei confronti dell’esperienza amministrativa appena avviata.

E invece De Luca viene messo all’angolo, finisce sulla difensiva, è incalzato su un terreno sul quale lui rifiuta di stare. Perciò reagisce in malo modo. Lui, nato e cresciuto nel vecchio partito comunista, disposto forse a passare per un uomo di potere, ma non certo per un uomo di malaffare.

(Il Mattino, 29 ottobre 2015)

Andare oltre l’ondata moralistica

Acquisizione a schermo intero 23052015 131949.bmpI luoghi, i gesti, le strette di mano. A otto giorni dal voto, la contemporanea presenza di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi in Campania, a sostegno dei rispettivi candidati, Vincenzo De Luca e Stefano Caldoro, viene seguita dall’opinione pubblica metro dopo metro, fotogramma dopo fotogramma. La politica è fatta di parole e di programmi, ma anche di volti, di presenze, di incontri, di sale gremite e di microfoni, visite e atti simbolici, dichiarazioni e silenzi. E, contrariamente a quel che si dice, lamentando la piega personalistica della politica contemporanea, i leader non calamitano l’attenzione solo su di loro, a detrimento di tutto il resto, ma contribuiscono anzi a restituire il senso di un confronto politico al voto di fine mese, fin qui oscurato dal rimpallo delle polemiche sugli impresentabili, sulla legge Severino e tutto il resto. Naturalmente il tema della moralità della politica esiste, così come d’altra parte esiste l’esigenza di misurare gli schieramenti in lizza sulla base dei programmi, e dell’idea complessiva di sviluppo della Regione che propongono.

Ma c’è anche una partita politica che il fuoco di sbarramento dell’indignazione ha finora impedito di delineare. Lo sanno molto bene sia Renzi che Berlusconi: su entrambi grava l’onere di comporre e unire le forze, contrastando le piccole e grandi tendenze centrifughe manifestatesi nei rispettivi schieramenti.

Berlusconi è più indietro: l’ultima diaspora degli uomini di Raffaele Fitto dimostra che il processo di ricomposizione, sia o non il Cavaliere a guidarlo a livello nazionale, non è ancora cominciato. Ma c’è una necessità di sistema alla quale prima o poi il centrodestra non potrà non corrispondere, perché la nuova legge elettorale, l’Italicum, assegna un premio di maggioranza al partito, non alla coalizione. E, dunque, in ordine sparso alle prossime politiche, con rimasugli e spezzoni, partitini e liste personali non potrà certo andare.

Ora, proprio in Campania il centrodestra mostra una compattezza che altrove non ha, a riprova del valore politico di questo voto. Con l’unica, in fondo marginale eccezione di De Mita, passato armi e bagagli con De Luca, Caldoro ha saputo tenere insieme la maggioranza che lo ha sostenuto in questi anni, compreso quel Nuovo Centrodestra che a Roma è invece alleato con Renzi: non era affatto scontato. Il progetto che il Cavaliere ha preso a coltivare, una sorta di partito repubblicano sul modello americano, qui trova subito una cartina di tornasole e una base di consenso piuttosto larga.

Quanto a Renzi, quel che è fatto finora mostra se non altro la sua determinazione nel costruire un partito dai connotati profondamente mutati. Altri lo chiamano partito della nazione, come se fosse soltanto un indistinto spazio onniaccogliente. In realtà Renzi ha semplicemente dimostrato di non temere l’opposizione che gli viene da sinistra, dall’interno e dall’esterno del Pd, e la piccola, modesta diaspora che il Pd sta subendo, priva com’è di di apprezzabili effetti politici, gli sta dando ragione. Ha fatto il jobs act, la legge elettorale e sta facendo la riforma della scuola: ha cioè manomesso la costituency tradizionale del partito di sinistra. Se, dopo tutto ciò, i sismografi registrano solo un Civati che se ne va, vuol dire proprio che non ha sbagliato i conti.

Da dove potrebbero venire allora le scosse maggiori? Dall’astensione, o dal risultato dei Cinquestelle. Cioè da quei comportamenti elettorali che traggono indubbio vantaggio dalla colorazione moralistica della campagna elettorale. È, questa, una mera constatazione politologica, che naturalmente non assolve nessuno dai suoi obblighi: dinanzi alla legge o dinanzi alla coscienza. Le liste dubbie, i candidati impresentabili, le ineleggibilità a norme di legge (a meno di ricorsi e sospensioni) non dovrebbero nemmeno essere della partita. Lo sono, e sollevano (un po’ ad arte, un po’ no) ondate di indignazione. Ma quando poi l’onda si ritira rimane il problema di ciò che lascia dopo il suo passaggio. Ieri Renzi ha affermato che non basta la repressione: la camorra la si combatte anzitutto con il lavoro. Affermazione sensata e del tutto condivisibile. Si può proporre allora una analogia, e chiedere con cosa si battono collusioni e connivenze della classe dirigente locale, se cioè non sia proprio la costruzione di un genuino terreno politico di confronto ad essere in ogni senso decisiva. Anche sul piano della moralità della politica. Ma allora, per sterrare il terreno, ci vuole molto di più della polemica sulle liste. Se Berlusconi e Renzi sono venuti per promuovere questo lavoro, allora sono entrambi i benvenuti.

(Il Mattino, 23 maggio 2015)

Prostitute, la crociata di De Luca

ImmagineAvviso alle famiglie. Se sei sindaco, puoi. Se sei Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, devi. Non puoi permettere che le vie cittadine siano infestate da mendicanti, e non puoi nemmeno lasciare che la zona litoranea sia in mano alle prostitute e ai loro infami protettori. Sacrosanto. Però, siccome gli uomini continuano a circolare lentamente e a fari bassi in cerca di signorine, qualcosa ti devi inventare. Le multe salate, ok. L’intemerata pubblica, va bene. Ma non basta, Irma la dolce è ancora lì, e il suo cliente pure: dove allora non arrivano le contravvenzioni, più in alto delle timide leggi italiane il sindaco De Luca «giudica e manda secondo ch’avvinghia», come l’infernale Minosse dantesco. Per il bene della città, delle famiglie, dell’ordine pubblico e del decoro veste gli austeri panni del pubblico svergognatore, e invece di riscuotere la multa presso il comando municipale, pensa bene di mandare a casa, per i begli occhi della moglie o dei figli del malcapitato, lo spietato bollettino, accompagnato magari da un verbale che specifichi con inequivoca chiarezza il motivo della sanzione. E il cliente è bello che sistemato. Prima di lasciare un’altra volta il nido familiare per andare a prostitute  ci penserà non due ma tre volte. Che se poi il contravventore avesse eletto domicilio da qualche altra parte – a casa dei genitori, per esempio, o presso lo studio professionale – la notifica potrebbe spandere i suoi riverberi moralizzatori anche su un’anziana mamma, oppure sugli indignati colleghi di lavoro. La multa non basta, insomma: ci vuole lo scandalo, lo scorno, il pubblico ludibrio. Perché allora non raccomandare ai portieri degli stabili condominiali di mettere avviso in bacheca per i condomini affamati di meretricio? Perché non accludere documentazione fotografica, anche per prevenire eventuali ricorsi? Perché non istituire un albo pubblico dei clienti abituali, dei consumatori incalliti? Si dirà: la privacy. Ma se per una buona causa è giusto fare opera di sputtanamento, allora la soluzione è facile: mandi De Luca a tutti i sordidi capifamiglia salernitani una bella letterina, in cui chiedere papale papale l’autorizzazione a rendere note le loro generalità, qualora dovessero – come dire? –   cadere in fallo. Chi si rifiuterà sarà perciò stesso svergognato, e finalmente la pace tornerà sotto i lampioni.

È così che si fa. Non come il sessuologo à la page che ti spiega che così non si risolve il problema, o come il sociologo post-sessantottino che ti invita casomai a riflettere sulla marginalità sociale e su eventuali programmi di recupero, o come lo psicologo problematico che mette piuttosto l’accento sulle soggiacenti, difficili dinamiche familiari. E neppure, magari, come la femminista aggressiva che, dall’altra parte, rivendica il diritto della donna a far liberamente uso del proprio corpo, con chi crede e come crede. E neanche, infine, come Benjamin Franklin, il quale aveva un amico che non la finiva di pagare le donne, e allora il geniale inventore, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, che ti fa? Si mette a disquisire se sia meglio andare con le vecchie o con le giovani, e consapevole di proporre un paradosso consiglia di preferire le prime, per esperienza e affabilità. E perché si corrono meno rischi e si pecca di meno.

Consigli da smidollati. De Luca ha deciso invece da tempo di interpretare il suo ruolo di sindaco in maniera ruvida, volitiva, mascellare. E insieme enfatica, istrionica, plateale. Essere amministratore è evidente che non gli basta: ha bisogno di sentirsi il padrone assoluto della scena, di avere in pugno la città come un mattatore sul palcoscenico. Di essere e sentirsi tutto d’un pezzo: debolezze e fragilità dell’umana condizione non lo riguardano, non gli appartengono, e non meritano nessun esercizio di comprensione. Così anche i ragionamenti scadono subito a sofisticherie, cavilli, sottigliezze inutili. La privacy, la dignità, i limiti dell’azione pubblica: chiacchiere da intellettuale, fisime da sfaccendati, depravazioni da rammolliti. Se però qualcuno dei suoi fidati collaboratori avesse il coraggio di sussurrargli almeno che le casse comunali non sono floridissime, e che incassare subito e con certezze le multe comminate in litoranea è meglio, molto meglio che aspettare di riscuoterle chissà quando, dopo l’invio a domicilio, forse non lo aiuterebbe a rinunciare a questa singolare forma di eretismo amministrativo, ma una prudente mano al bilancio forse la darebbe. In attesa che De Luca salti su per la prossima crociata.

(Il Mattino, 18 maggio 2014)

De Luca punito dalla sua ambizione

ImmagineIl completamento della squadra di governo, con la nomina di viceministri e sottosegretari, porta sempre con sé qualche sorpresa. Questa volta è toccato al sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, provare il sapore amaro dell’esclusione. A De Luca non ha certo giovato il conflitto aperto con il ministro Lupi e l’infinita querelle sulle mancate deleghe nella precedente esperienza di governo, con Letta. Ma la discontinuità segnata dalla scelta di Renzi di non confermarlo merita una lettura più ampia: a volte i casi personali possono divenire esemplari. Nel breve volgere di una stagione, da una primaria all’altra, De Luca era riuscito a trasferire senza danni da Bersani al sindaco di Firenze il suo amplissimo consenso personale, frutto di una lunga esperienza amministrativa peraltro assai apprezzata nella sua città. In forza di quel vasto consenso, ha però giocato a Roma una partita tutta personale, e preteso non per altri che per sé un ruolo di primo piano. Senza mediazioni possibili. Più che un progetto politico, una visione complessiva del Mezzogiorno, la costruzione di alleanze politiche e sociali che andassero oltre la dimensione locale e si saldassero entro un quadro di riferimento nazionale, De Luca ha offerto a Renzi soltanto se stesso e le sue personali ambizioni: non poteva bastare.

Senza accorgersene (ma non senza volerlo), De Luca è peraltro divenuto col tempo un personaggio ingombrante, persino controverso. I motivi del suo successo – il suo linguaggio a dir poco colorito, il suo pragmatismo spregiudicato, l’indisponibilità a confondersi con l’intero orbe politico – hanno finito col segnarne anche i limiti. Campione di amministrazione e spiccio capobastone, De Luca non ha saputo essere la prima cosa senza essere anche la seconda. E questa seconda si capisce benissimo come non possa, per Renzi, sedere al governo. Con ciò non siamo ancora alla rottamazione di De Luca, ma tenendolo fuori Renzi ha mostrato di avere chiaro che bisogna cominciare da un’altra parte: non si può pensare di costruire il nuovo con gli ultimi rappresentanti, del vecchio.

Resta però che si tratta, per l’appunto, di costruire: una diversa immagine del Sud, e una via per lo sviluppo, che non può passare soltanto dalla destinazioni dei fondi europei o, che so, dall’emergenza criminalità. Ci vuole il riconoscimento che la questione meridionale non è un’invenzione del Sud ma un problema dell’Italia; non una sventura che i meridionali devono sbrigarsi da soli, ma il luogo in cui si decide dell’Italia come nazione. È insomma questione di indirizzi di politica generale, più che di singoli uomini. Con tutto il rispetto possibile: i singoli uomini passano, e il divario fra il Nord e il Sud, purtroppo, resta.

(Il Mattino, 1 marzo 2014)

Dinastia De Luca. La politica non si rinnova

ImmagineDopo essere balzata agli onori delle cronache nazionali per il consenso quasi unanime raccolto da Renzi in città, grazie all’appoggio del sindaco e viceministro (fino a quando?) Vincenzo De Luca, Salerno rischia di tornarci un’altra volta l’8 dicembre, quando il programma principale della giornata prevede in tutta Italia la sfida delle primarie fra Renzi, Cuperlo e Civati, ma il sottoprogramma prevede il sostegno dei candidati locali all’Assemblea Nazionale, e nel collegio salernitano spicca il nome del capolista della lista di appoggio al sindaco fiorentino: non Vincenzo ma Piero De Luca, il figlio. Il quale ha l’arduo compito di far meglio del papà, che nel turno poi annullato di fine novembre portò in dote a Renzi la modica cifra del 97% di consensi, lasciando a Cuperlo la miseria di 50 voti.

Non è ovviamente la prima volta e purtroppo non sarà l’ultima che la passione politica si trasmette contagiosa di padre in figlio; in particolare al Sud, e non solo a Salerno e dintorni, è frequente la riproduzione patrilineare di quei micronotabilati locali di cui ha parlato Mauro Calise nel suo ultimo libro. Ma la diffusione patologica del fenomeno non lo rende meno spia di un malcostume diffuso, oltre che dell’impressionante fragilità dei partiti politici. L’opinione pubblica cerca affannosamente di trovare ragioni ed esempi per tornare ad appassionarsi alla politica e si trova respinta indietro da successioni dinastiche e conferimento di patrimoni politici in virtù di legami di sangue. Come se non ci fosse alcun bisogno, per i biologi, di inventarsi il discutibile seme della cultura: per la politica basta l’egoismo del buon vecchio gene familiare, la trasmissione avviene lo stesso. Non c’è mica solo Berlusconi col suo eterno conflitto di interessi, insomma. Lui, anzi, tra i tanti difetti ha almeno il merito di non aver (ancora?) indicato uno dei suoi figli al timone della neonata Forza Italia, De Luca invece questo scrupolo pare non farselo, e ha sacrificato per Renzi addirittura il figlio, perché togliesse i peccati (se ci sono stati) del precedente turno di votazione.

Altre storie si raccontavano degli dèi più antichi. Il padre di tutti, Zeus – uno che del potere doveva avere un’idea precisa, visto che per occupare la poltrona in cima all’Olimpo aveva dovuto rovesciare il padre Crono dal trono – pensò bene di donare agli uomini, che cercavano di difendersi dalle fiere radunandosi insieme e fondando città, il pudore e la giustizia, cioè i fondamenti della virtù politica, senza i quali gli uomini non avrebbero smesso di dividersi tra di loro. Ma li regalò a tutti, mica solo a uno dei suoi figli, perché tutti prendessero parte alla vita politica della città. Così, almeno, i greci immaginarono che dovesse governarsi la cosa pubblica.

Scendiamo ora appena un gradino al di sotto di Zeus, dalle parti del sindaco e viceministro De Luca. Vi troviamo tutta un’altra maniera di fare politica, e assai meno pudore (lasciamo perdere la giustizia). Né i figli sognano minimamente di ribellarsi ai padri: piuttosto, aspettano pazienti, come nelle famiglie reali, il momento della successione. Qui – si badi – non c’entrano nulla le inchieste della magistratura che investono o lambiscono il sindaco. Non c’entrano gli avvisi di garanzia perché sono appunto di garanzia, non di colpevolezza. Nell’occhio del ciclone mediatico che da qualche settimana ha preso a soffiare in città c’è anzi il rischio che l’attenzione venga distolta dall’anomalia tutta politica rappresentata da un consenso che non sarebbe imbarazzante, se non pretendesse di trasferirsi per primogenitura. E se non cozzasse clamorosamente con la modesta esistenza del partito democratico cittadino. Che ha percentuali di votanti da far impallidire la Toscana o l’intera Emilia Romagna, e tuttavia ha una vita interna ridotta al lumicino: non discute delle opzioni congressuali neanche per sbaglio, non organizza le tradizionali feste annuali del partito, non ha un vero radicamento nel tessuto sociale e civile della città (ma ce l’ha, ovviamente, nelle società a capitale pubblico). Ed evidentemente non ha neppure una classe dirigente all’altezza se, tolto il padre, non c’è che il figlio che possa mantenere gli stessi livelli di consenso.

E così, nel microcosmo di una città di provincia, in cui pure si ha il privilegio di amministrare senza gli affanni delle «strane maggioranze» romane o le insufficienze dei sistemi elettorali ed istituzionali vigenti sul piano nazionale, si trovano riprodotti tutti i limiti della politica italiana, nel tempo che non accenna a finire della seconda Repubblica.

(Il Mattino, 30 novembre 2013)