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La sfida tra i due mondi che rottamano il ‘900

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Che i sondaggi ci prendano o no, la sfida presidenziale di oggi, in Francia, ha giustamente l’attenzione di tutta Europa. Può darsi sia scontato l’esito; di sicuro non lo è il significato. Non lo è neanche se Macron dovesse vincere con largo margine la sfida e se, col senno di poi, potremmo dire di avere sovrastimato il pericolo lepenista. Con Macron vince infatti (se vince) una cosa nuova, che non c’era nel panorama politico francese fino a due anni fa. Basta questo, per lustrarsi bene gli occhi e domandarsi se non stiamo voltando definitivamente la pagina del ‘900, la pagina della grande politica, dei grandi partiti di massa, del grande movimento operaio. Dopo aver chiuso con il comunismo, l’Europa chiude anche con il socialismo democratico? Forse sì. È difficile trovare, nel panorama europeo, qualcosa di meno somigliante a Macron del Movimento Cinquestelle, in Italia. Eppure, alla domanda cosa siamo, Macron risponde sul suo sito: un popolo di marciatori, un movimento di cittadini. Zero onorevoli. Sembra grosso modo significare: non c’è bisogno di mettere i cittadini dentro la scatola di un partito. Del resto, la prima delle ragioni che sostengono la campagna per le presidenziali è così formulata: «Emmanuel Macron è diverso dai responsabili politici che lo hanno preceduto: in passato ha avuto un vero lavoro, nel settore privato e nel settore pubblico». È dunque un titolo di merito la discontinuità rispetto ai politici del passato e ai politici di professione: Macron non è né l’uno né l’altro. Quanto alle altre ragioni, sono di questo tenore: Macron propone di ridurre di un terzo il numero dei parlamentari (già sentita?), sa di cosa parla, non deve la sua fortuna politica a nessun’altro che non sia lui, sa riconoscere una buona idea anche se viene dal suo avversario politico, che non attacca mai sul piano personale. La competenza è evocata solo per dire che Macron saprà rimettere in sesto l’economia del Paese. Per il resto, c’è un riferimento non al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni o alla sua rappresentanza ma ai salari: Macron promette di ridurre il cuneo fiscale e di pagare di più le ore di straordinario. Tradurre questo profilo nella figura di un politico di sinistra, di un socialista mitterandiano o dell’ultimo erede del Fronte popolare di Léon Blum è impossibile. Macron non rottama la vecchia sinistra soltanto, rottama il Novecento e i grandi quadri ideologici che lungo tutto il secolo scorso alimentavano lo scontro politico in Europa.

Non è un caso che proprio su questo terreno Macron ha cercato i punti deboli di Marine Le Pen. Certo: da un lato c’è il suo europeismo, dall’altro lato, c’è invece profonda diffidenza non solo verso l’Unione europea, ma verso tutto ciò che va oltre la dimensione dello Stato nazionale. Dal lato di Macron c’è una profonda fiducia nell’ordine economico internazionale e nella sua capacità di futuro; dal lato della Le Pen c’è invece una critica aspra nei confronti di quella specie di dittatura finanziaria che sarebbe il precipitato delle politiche neoliberali imposte da Berlino e Bruxelles. Dal lato di Macron resiste il vocabolario dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei migranti; dal lato di Marine Le Pen c’è sciovinismo e islamofobia, per cui la Francia viene innanzi a tutto e gli stranieri, specie se musulmani, è meglio che non vengano proprio. Queste sono grandi linee di divisione lungo le quali si definisce con nettezza la differenza di identità politica e di proposta programmatica dei due candidati. Ma Macron ci aggiunge la differenza fra il nuovo e il vecchio, una carta che, quando è possibile (e lo sarà sempre, finché non si consoliderà un nuovo quadro politico), viene giocata con grande profitto. E così, mentre dietro Macron non c’è nulla, e  quello che lui promette e di cui discute è solo avanti a lui, dietro la Le Pen ci sono ancora le risorse simboliche della destra estrema, i fantasmi del passato, il radicamento nella Francia profonda, una certa cultura del risentimento, e insomma: quello che rappresentava il vecchio patriarca Jean Marie, fondatore del Front National, dal quale Marine Le Pen, l’erede politica, non si sarebbe mai staccata, nonostante la strategia di «dediabolizzazione» sventolata in questi anni.

Così, al dunque, rimangono due le France che vanno al voto: quella aperta al mondo, progressista, liberale, modernizzante, tendenzialmente cosmopolitica e dal vivace spirito urbano, e quella invece diffidente verso lo spirito di apertura, che agita sentimenti di rivalsa: dei «veri» francesi contro gli immigrati, delle periferie contro i palazzi del potere, dei perdenti della globalizzazione contro i pochi che se ne approfittano, delle persone in carne e ossa contro le gelide astrazioni del capitale, della tecnica e del denaro.

Ce n’è abbastanza per allestire nuovi conflitti e nuove linee di frattura. Ma il lessico della politica europea deve essere necessariamente reinventato.

(Il Mattino, 7 maggio 2017)

Il movimento con il patto di soggezione

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Il codice di comportamento del Movimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in indagini giudiziarie, che oggi sarà ratificato col voto online degli iscritti, rimette nelle mani del «Garante del MoVimento 5 Stelle», del «Collegio dei Probiviri» o del «Comitato d’Appello» la sorta dell’eletto (denominato «portavoce») che dovesse incappare in procedimenti giudiziari. Da oggi, il ricevimento di un avviso di garanzia non equivale a un’espulsione o a una sospensione dal Movimento. Una valutazione in ordine alla gravità delle contestazioni viene affidata agli organi statutari (cioè a Grillo o chi da lui proposto), e può allinearsi come non allinearsi alle decisioni della magistratura.

È una notizia. Il Movimento che per anni ha fustigato tutti gli altri partiti al primo stormire di carte giudiziarie, e che aveva elevato a grido rivoluzionario la parola «onestà!», scandendola fra le lacrime, come un grido identitario, finanche al funerale del leader carismatico, Gianroberto Casaleggio, è ora in grado di considerare onesti anche quei politici che, pur colpiti da un provvedimento della magistratura, non fossero stati ancora raggiunti da una condanna. Almeno quelli fra le proprie file cui dovesse toccare una sorte del genere, perché non è detto che questa improvvisa equanimità di giudizio venga riservata anche agli avversari politici. In passato, infatti il blog di Grillo additava al pubblico ludibrio chiunque risultasse implicato in indagini di qualche tipo, senza andar troppo per il sottile con le valutazioni circa la presunta gravità.

È un passo avanti o uno indietro? Messi di fronte alle difficoltà della vita politica e amministrativa, i Cinque Stelle stanno diventando come tutti gli altri, pronti a chiudere un occhio sulle malefatte della politica, o più banalmente prendono atto con qualche realismo che un avviso di garanzia – per esempio per abuso d’ufficio – non può equivalere immediatamente a una sentenza di condanna? Che non tutte le fattispecie di reato paventate destano la medesima preoccupazione? Che certe reputazioni sono compromesse indipendentemente dall’azione dei pubblici ministeri, e magari certe altre non lo sono nonostante quell’azione?

È evidente che essersi scottati a Parma, a Livorno, a Quarto, infine a Roma doveva avere prima o poi delle conseguenze. A Roma, soprattutto. È già stato chiaro, nelle difficili settimane passate, che bisognava imbastire una difesa della sindaca Raggi a prova di avviso di garanzia. Nomine sbagliate, indagini e arresti mettono un eventuale avviso per il primo cittadino della Capitale nel novero delle cose possibili. Il costo politico delle dimissioni, o anche del ritiro del simbolo, potrebbe essere troppo elevato, soprattutto se non giustificato da fatti di modesta entità. In ogni caso, Grillo vuole riservarsi la possibilità di decidere. Ed è normale che sia così, se si vuole mantenere il controllo politico degli eventi, anche se – va detto – non è la normalità delle dichiarazioni alle quali ci avevano finora abituati gli esponenti del Movimento.

Prendete Di Maio. Un paio di anni fa, di questi tempi dichiarava: «Per me, ai politici non va applicata la presunzione di innocenza. È facendo i garantisti con i politici che abbiamo rovinato lo Stato Italiano». Per difendere queste parole, aveva pure aggiunto, sulla sua pagina Facebook: «Per me, se c’è un dubbio non c’è alcun dubbio. È così che [i politici] vanno trattati». Ora, a meno di non volersela prendere con i magistrati, come si fa a dire che un avviso di garanzia un dubbio non lo fa venire? Ma con l’approvazione del Regolamento, anche Di Maio dovrà tenersi i dubbi per sé, e avere meno certezze sulla flagrante colpevolezza dei politici.

Di certezze dovrà invece continuare ancora a nutrirne di saldissime nei confronti del «capo politico», di Grillo, visto che la qualità democratica del Movimento non è affatto assicurata dalla partecipazione online degli iscritti ai voti di ratifica indetti ogni tanto dal titolare del blog. Basta domandarsi infatti: cosa succederebbe se un avviso di garanzia dovesse arrivare proprio a Beppe Grillo? È evidente che gli estensori del regolamento non si sono posti minimamente il problema. La circostanza che il «capo politico» debba valutare il proprio stesso caso non è disciplinata. Come se fosse esclusa a priori. Grillo è cioè la perfetta incarnazione del sovrano legibus solutus, sciolto dalle leggi che proclama. È l’ultimo discendente di una vecchia idea di Thomas Hobbes, che all’origine del contratto politico moderno metteva non uno, ma due patti: un patto di unione con cui tutti si impegnano reciprocamente a osservare gli stessi doveri, ricevendone gli stessi diritti, e un patto di soggezione, con cui tutti accettano di essere subordinati a (e giudicati da) uno solo, che del primo patto è il supremo garante. Il primo patto prevede una simmetria, che il secondo invece non prevede. Dentro il primo stanno tutti gli iscritti; dietro il secondo sta il solo Beppe Grillo. Ma in un Movimento che per principio «rifiuta la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi» non c’è molto altro: i direttori, infatti, prima o poi si squagliano. Per ora dunque hanno riveduto il solo regolamento, rivendicando autonomia rispetto alle decisioni delle procure; chissà che in futuro, apprezzata questa nuova libertà, non debbano rivedere anche il resto.

(Il Mattino, 3 gennaio 2017)

I grillini, il palazzo e il profumo della prima volta

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Sono loro, i Cinquestelle, la più vistosa differenza fra quello che c’era ieri e quello che ci sarà domani, in esito a questa crisi. Perché sono cominciate le consultazioni del Quirinale, che prenderanno almeno un paio di giorni e sopratutto vedranno sfilare una ventina di gruppi parlamentari, e non si è sentito ancora nessuno che si scagliasse contro questi consumati riti della vecchia politica, o magari che chiedesse di mandare tutto in streaming, perché i cittadini hanno il diritto di sapere cosa dicono i loro rappresentanti.

C’è una ragione: il Movimento non è mai stato così vicino al Palazzo, alle istituzioni, al governo. Con qualche sussulto interno per via della corsa per la leadership ma vicini, vicinissimi. Intendiamoci. In nessuna delle soluzioni di cui si ragiona, è previsto che i Cinquestelle entrino in una qualche maggioranza. Si tratti di un governo istituzionale, di un governo di scopo, di un governo di responsabilità nazionale, di un governo del Presidente o infine di un Renzi-bis, i Cinquestelle non ne faranno parte. La loro richiesta rimane una: al voto subito. Dopodiché molto dipenderà dalla legge elettorale, naturalmente, ma il voto sarà comunque, con ogni probabilità, anche una risposta alla domanda se Grillo e i suoi siano, per gli italiani, pronti per governare.

Lo sono? Secondo Alessandro Di Battista sì. Nell’intervista data al giornale tedesco «Die Welt», ripresa da «Repubblica», uno dei più autorevoli esponenti del Movimento – secondo il giornale, il più popolare – ha provato a delineare i contorni di una forza che non è più, anzi non è mai stata un semplice movimento di protesta. Che ha le idee chiare sui temi decisivi dell’attuale fase storica, quelli che determinano le linee di faglia lungo le quali si dispongono le principali formazioni politiche in Europa. Anzitutto l’immigrazione e l’euro. Sul primo tema, Di Battista è lapidario: «chi è privo di diritto d’asilo deve essere espulso». Sul secondo un po’ meno, nel senso che non dice esplicitamente che l’Italia deve uscire dalla moneta unica (i grillini vogliono che a decidere sia un referendum), ma attribuisce all’euro la responsabilità di tutti o quasi i mali dell’economia italiana.

Se a queste indicazioni aggiungiamo l’enfasi sulla green economy, l’idea di rilanciare lo sviluppo economico del Paese su enogastronomia, turismo e cultura, la lotta alla corruzione, la ricerca di una base sociale nella piccola e media impresa, la diffidenza verso la finanza che ruota intorno alle grandi banche, bene: otteniamo tutti i colori che Di Battista usa per completare il suo ritratto del Movimento. Che sono però due soltanto: il nero e il verde.

Di rosso, infatti, ce n’è pochino. Ma forse perché di rosso ce n’è sempre meno in tutta Europa: nell’Austria che domenica scorsa si è affidata al candidato verde per battere il candidato nero alla presidenza della Repubblica. E nella Francia che sembra andare sempre di più, alle presidenziali del 2017, a una sfida fra la destra lepenista e quella moderata, per archiviare definitivamente il settennato di Hollande. D’altronde, se si guarda dentro il partito socialista europeo: pure lì, il rosso sbiadisce sempre di più.

Ora però, tornando in Italia, il carattere antisistema o antipolitico del Movimento non dipende forse dal fatto che quei colori non erano compresi nella tavolozza costituzionale della prima Repubblica (e neanche nel progetto originario della comunità europea)? Il solo fatto di impiegarli ha effetti dirompenti. D’altra parte, lo scenario non solo politico, ma culturale e ideologico della prima Repubblica è cambiato, ormai un quarto di secolo fa, e tutti questi anni non sono bastati ad allestirne uno nuovo. La proclamata fine delle ideologie è, in realtà, la fine di alcune ideologie soltanto, perché è difficile non definire ideologiche certe prese di posizione, come quella dell’espulsione per tutti i migranti (fatti salvi, buon dio!, i soli richiedenti asilo) o il referendum sull’Euro (che procurerebbe più sobbalzi all’economia di quanti ne procuri la pura e semplice uscita). Si può dire anzi il contrario: che ad avere maggior fortuna elettorale sono proprio le forze in grado di innalzare la temperatura politica del voto, di investirlo di significati netti, persino drammatici, ben lontani dalla retorica delle necessarie riforme o dal ritornello grigio e burocratico della responsabilità.

Se così non fosse, il passaggio che l’Italia è chiamata ad affrontare non sarebbe così stretto. Perché la tavolozza dei colori è ormai mutata, e la sconfitta di Renzi è anzitutto la sconfitta di una via d’uscita dalla crisi della seconda Repubblica in grado di assorbire e far arretrare i Cinquestelle. Ma loro non sono arretrati; sono, anzi, avanzati.

E anche se una legge elettorale di impianto proporzionale dovesse svolgere la funzione di tenere i grillini lontano dall’area di governo, neanche così sarebbe un mero ritorno al paesaggio della prima Repubblica. Che aveva altri colori, un altro sistema politico e un altro orizzonte ideologico.

(Il Mattino, 9 dicembre 2016)

Il lato oscuro dei cugini coltelli

coltello_schiena-6Pur di fare cadere Renzi, Massimo D’Alema è disposto a votare Virginia Raggi. L’indiscrezione pubblicata ieri da Repubblica è stata immediatamente smentita, e tuttavia è rimasta in pagina, sul sito del quotidiano, l’intera giornata: come mai? Pura malevolenza? Forse no, forse il retroscena francamente impastocchiato – e però confermato, anche dopo la smentita, dal giornale – ha un grado di plausibilità tale che non riesce difficile credere ad esso, e può reggere l’apertura della homepage di Repubblica, e il susseguirsi delle dichiarazioni, per tutto il santo giorno. C’è infatti un punto politico, che regge l’articolo, e che non si può liquidare con una smentita ufficiale. È il seguente: che fare con Renzi? Che fare con un premier che, qualora vincesse il referendum costituzionale, si guadagnerebbe il via libera per il restante della legislatura e pure per la prossima? Che fare, se non provare ad assestargli una prima botta con le amministrative, sfilandogli Milano, Roma, e magari pure Torino, per togliergli definitivamente l’aura del vincitore, e poi dargli una seconda botta in autunno, con il no alla riforma costituzionale? Per l’uno-due, c’è bisogno però che prevalga il leit-motiv dell’antipolitica, che il comune denominatore sia il ritornello del «mandare tutti a casa», anche se i vessilliferi di una simile bandiera dovessero essere i grillini (anzi le grilline, la Raggi a Roma e la Appendino a Torino)?

Questa idea, del resto, è formulata in maniera del tutto esplicita da Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel: meglio che Renzi perda. Chi è contro le politiche del governo ne vuole la caduta e deve votare di conseguenza: Roma e Torino c’entrano poco (e i cittadini romani e torinesi pazienza,capiranno). Questo ragionamento si capisce che faccia breccia alla sinistra del Pd, perché lì, in quell’amalgama politico abbastanza indefinito che obiettivamente stenta a prendere forma, si trovano, certo, dirigenti politici (come Fassina, o D’Attore) usciti dal Pd in rotta di collisione col segretario, ma pur sempre provenienti da una nobile e lunga tradizione di realismo politico, ma anche pezzi di sinistra radicale e antagonista, che invece praticano da tempo la logica del «tanto peggio, tanto meglio», in cui quasi sempre finisce col rovesciarsi ogni professione di purezza, o di intransigenza.

Questi ultimi, probabilmente, non hanno nemmeno bisogno di turarsi il naso, per votare i Cinquestelle. Ma nel Pd? Nella minoranza bersanian-dalemiana? In uomini che sono stati al governo, che quando erano al governo hanno provato pure loro a fare la riforma costituzionale, e che ai tempi della Bicamerale hanno saputo reggere per anni alla critica di inciuciare con il Cavaliere? Uomini che, quanto a duttilità e a spirito di compromesso, necessario dopo l’89, in un processo di ridefinizione della sinistra riformista condotto spesso al buio, a tentoni, senza lumi ideologici, in condizioni di obiettiva debolezza politica e programmatica, uomini– anzi: capi comunisti – che, in simili condizioni,si sono spinti molto avanti su molti terreni, e hanno votato cose come il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, o, in politica estera, i bombardamenti nella ex-Jugoslavia, e la religione del pareggio di bilancio in politica economica: in questa generazione di uomini politici che è riuscita a cambiare pelle, completando impensabilmente l’avvicinamento e l’ingresso del partito comunista nell’area di governo, proprio quando sembrava invece che tutto sarebbe finito con il crollo del muro, in costoro, com’è possibile che l’esperienza di governo di Renzi sia vissuta come una specie di sopruso, consumato ai loro danni? Se l’analisi scivola nella psicologia, subito viene in causa la profondità insondabile dell’animo umano, e allora va’ a capire. Però è difficile non ricavare da certi atti e comportamenti l’impressione che a Renzi l’abbiamo giurata, e che c’entri il risentimento personale, più che il giudizio politico. Nella storia comunista c’è forse l’una e l’altra cosa: c’è tanto la fraseologia occorrente per dire che un’altra fase storica di è aperta, e dunque si possono fare accordi persino con quello che una volta era il nemico (li può fare Togliatti con la svolta di Salerno e l’amnistia, Berlinguer con Moro e persino D’Alema con Berlusconi), quanto però l’accoltellamento fra cugini, se non proprio fra fratelli, e una scia di scissioni, espulsioni ed epurazioni in cui prevalgono vendette, rancori e tradimenti.

Questo, per dirla in una maniera grande e tragica. Ma c’è sempre il dubbio che il formato di tutta questa vicenda sia più piccolo, e che i piani della storia politica e della psicologia individuale non si separino mai del tutto. Ed è anzi facile che chi teme di scivolare via dalla prima, finisce col rimanere sempre più confinato, nelle proprie mosse e nelle proprie scelte, solo nella seconda.

(Il Mattino, 16 giugno 2016)

Linus e Bonino con Sala. Parisi: ha scelto bene

bruschettiEmma Bonino e Linus, il direttore di Radio Deejay, saranno in giunta con Beppe Sala, se il candidato del centrosinistra dovesse vincere il ballottaggio contro il candidato del centrodestra, Stefano Parisi. Il lettore indovini ora chi ha rilasciato il seguente commento: «Li conosco entrambi sono due persone molto diverse e tutte e due di grande valore, Sala ha fatto bene a metterli nella sua squadra». Prima ipotesi: l’ha detto il premier Renzi, che su Sala ha puntato molto, e dunque non perde occasione per supportarne le scelte. Seconda ipotesi: l’ha detto Giuliano Pisapia, il sindaco uscente, che aveva sostenuto nelle primarie del Pd la sua vicesindaco, Francesca Balzani (uscita perdente dal confronto), ma che ha poi dimostrato grande cavalleria e spirito unitario affiancando Sala nel corso della campagna elettorale. Terza Ipotesi: l’ha detto Vasco Rossi, che dei radicali è storicamente amico e sicuramente ascolta Radio Deejay che gli passa i pezzi. Quarta e ultima ipotesi: l’ha detto Stefano Parisi, cioè proprio il candidato del centrodestra, che deve provare a battere Sala, e che però, quanto a spirito di cavalleria, non è evidentemente secondo a nessuno.

Ora è facile: ebbene sì, è stato quest’ultimo, che invece di fare dell’ironia sul disc jokey prestato alla politica, novello Gerry Scotti, o, che so, su una storica militante radicale un po’ agée, ha dimostrato di apprezzare le scelte del suo competitor. Come mai? Si tratta solo di buona educazione, di squisitezza personale, di un elegante segno di stile? In realtà no, o meglio: non solo. Tutta la campagna elettorale milanese è stata condotta in realtà in punta di fioretto, senza colpi sotto la cintola, senza toni sguaiati, senza polemiche pretestuose. Da Parisi come da Sala. E entrambi gli schieramenti hanno offerto complessivamente un profilo che altri diranno forse moderato, o liberale, ma che sarebbe più corretto – credo – definire concreto, pragmatico, raziocinativo. È forse merito di Milano, dello spirito meneghino, della tradizione illuministica lombarda, che vive ancora all’ombra della Madonnina? Com’è che lì non c’è nemmeno un candidato sindaco che del premier dica che si deve fare sotto dalla paura, o che inneggi a Zapata e Panchi Villa?

La risposta non è difficile. C’entra naturalmente lo spirito civico – ma sarebbe il caso di ricordare che l’illuminismo, in Italia, ha avuto non una, ma due capitali: Milano e Napoli; solo che una delle due dà ancora a vederlo, mentre l’altra no – c’entra ovviamente il contesto ambientale, sociale ed economico – e qui si aprono evidenti abissi fra il Nord e il Sud del Paese, fra la seconda e la terza città d’Italia – ma c’entra anche la maturità della proposta politica. Milano è anche la città in cui si sente forte la voce di Matteo Salvini, è la città capoluogo della Lombardia a guida leghista, con Roberto Maroni. E però il caso vuole – no, non il caso: ma Stefano Parisi – che a precisa domanda il candidato sindaco del centrodestra rispondesse, con lo stesso garbo: «Salvini mio assessore alla sicurezza? No, mi serve uno a tempo pieno, e Salvini deve fare il leader di partito. E ho già spiegato che nel non dire chi sono i miei assessori io difendo la mia autonomia».

Milano l’è sempre Milàn, ma i temi della sicurezza, della paura dell’immigrato, dell’Europa cattiva si sentono anche lì. E anche a Milano ci sono i centri sociali, ma il centrosinistra di Pisapia, pur senza demonizzarli, ha evitare di fare l’elogio dell’occupazione abusiva o del vento liberatorio dell’anarchia. Il fatto è che lì tanto il centrodestra quanto il centrosinistra riescono a dimostrare di aver acquisito un tratto di credibilità, profilo programmatico, e anche un certo equilibrio politico, e di coalizione, che altrove invece fanno molta fatica a tenere. Prova ne è il fatto che a Milano le percentuali grilline non sono minimamente paragonabili a quelle che i Cinquestelle hanno toccato in città come Torino o Roma. A Napoli il Movimento di Grillo è andato di nuovo in difficoltà, ma in compenso c’è De Magistris che ne fa abbondantemente le veci.

Ancora: a Torino e a Roma si è riusciti, tra grandi sforzi, ad arrivare ad un confronto televisivo diretto fra i candidati in lizza, ma i toni sono rimasti quelli di una fortissima diffidenza: i grillini dilettanteschi e incapaci di governare; i piddini compromessi coi poteri forti e moralmente discutibili. Questi i toni. A Napoli peggio ancora. De Magistris non ne ha proprio voluto sapere di sedersi in mezzo agli altri candidati, e ora, in vista del secondo turno, di fronte a Gianni Lettieri. C’è di mezzo, naturalmente, la strategia elettorale, che sconsiglia a chi è davanti di dare spazio a chi insegue, ma c’è anche una diversa maniera di interpretare, cioè di misinterpretare, il confronto pubblico, elevando pregiudiziali morali e rifiutando la normale dialettica del riconoscimento reciproco.

Ma cosa c’è di normale, oggi, nella dialettica politica napoletana?

(Il Mattino, 14 giugno 2016)

Brambilla, i grillini e le vittorie decise col telecomando

Acquisizione a schermo intero 19032016 120930.bmpMatteo Brambilla c’è. Che ci sia ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa. Perché da quando è stato incoronato dalle comunarie napoletane a candidato sindaco dei Cinquestelle ha fatto fagotto ed è andato via. Scomparso. Sparito. Forse ha temuto di fare la fine di Patrizia Bedori: catapultata a sorpresa a sindaco di Milano, ha dovuto mollare la spugna perché giudicata inadeguata. Prima che qualcuno dalle parti della Casaleggio Associati gli riservi analogo trattamento, il Brambilla avrà pensato che gli serviva del tempo per prepararsi a dovere. Come fanno i ragazzi quando si avvicina l’interrogazione: si prendono qualche giorno di assenza per mandare giù tutto il programma, prima di far ritorno sui banchi di scuola, con tutte le cose che servono in testa.

Ormai però è pronto per l’interrogazione, cioè per la blindatissima conferenza stampa allestita oggi dai capi del Movimento. Ovviamente i giornali, come i professori, non potevano aspettare il loro comodo. Per cui hanno nel frattempo spulciato le tracce (non poche, in verità) che Matteo Brambilla ha lasciato nella sua lunga frequentazione della rete, quando poteva twittare in santa pace senza avere tutti gli occhi addosso. E hanno trovato gridata ai quattro venti la sua fede juventina – che non è il miglior biglietto da visita, sotto il Vesuvio – o scoperto che questo posato ingegnere brianzolo, che meritoriamente si occupa da una vita di ambiente e rifiuti, è anche uno che perde facilmente la pazienza. Almeno dietro la tastiera. Certo, con il pingue consenso dei 276 votanti online (in lettere: duecentosettantasei) che gli son valsi la candidatura grillina, deve rapidamente abbandonare i panni scalmanati vestiti finora sui social media. Ma questo è il meno. La casa madre di Gianroberto Casaleggio c’è per quello: per cucirgli addosso una strategia comunicativa efficace, che lo rilanci come alternativa credibile e affidabile alla guida della città partenopea. Solo che serve una settimana di silenzio e di duro lavoro: il tempo di mettere gli auricolari al candidato, e pilotarlo tra le fauci affamate dei giornalisti (pochi, e ben selezionati, mentre gli attivisti verranno con ogni probabilmente tenuti fuori della porta, perché spira aria di contestazione).

Fin troppo facile fare dell’ironia, perché questo Brambilla ce le ha davvero tutte: i natali monzesi, il tifo per la Juventus, il cognome che più meneghino non si può, i twit che neanche il Gasparri più arrabbiato. Però dicevamo: è il meno. C’è anche un lato serio della vicenda, che va raccontato.

Dicono infatti le cronache che la vittoria del Brambilla è il risultato di una vera e propria congiura. Vittima illustre la candidata più accreditata della vigilia, Lucia Menna. Che ha scoperto solo a spoglio concluso il patto segretissimo che gettava lei nella polvere e sollevava il Brambilla sugli altari. In breve: anche i grillini hanno i loro bravi pacchetti di voti, o di clic, e li spostano con accordi sottobanco e ordini di scuderia calati probabilmente dall’alto. La scena che ieri ha raccontato il Mattino è degna di un film: il candidato che partecipa al festeggiamento insieme con tutti i militanti, in cui magari la rivale gli avrà sportivamente stretto la mano, perché siamo tutti sulla stessa barca e tutti uniti marciamo verso un comune obiettivo, e che poi però sgattaiola via, è stanco e torna a casa dalla moglie Teresa, e invece nel cuore della notte raggiunge la festa quella vera, quella con i congiurati, con quelli che hanno ordito la trama e fregato gli altri. E lì assapora fino in fondo il piacere maligno del tradimento.

Tradimento? Non è una categoria della politica, certo. Ma per le dinamiche che si muovono all’interno di un gruppo di fedeli, di devoti proseliti, di arrabbiati zeloti, funziona perfettamente.

Il fatto è che, una volta di più, nel paradiso della democrazia diretta quando si arriva al voto succede di tutto, meno che la pacifica presa d’atto del risultato. Quello che va in scena è l’opposto della democrazia: non bastano i meetup, non bastano le autocandidature e le votazioni online, se con un tratto di penna il simbolo può essere ritirato, la lista cancellata, a insindacabile giudizio dello staff di Beppe Grillo, cioè del proprietario commerciale del marchio, a cui spetta comunque l’ultima parola. Come agli ayatollah nella democrazia sciita.

La stessa cosa sta succedendo anche nel resto della Campania. A Salerno i grillini si sono divisi. Divisa anche la delegazione parlamentare. Hanno votato, l’esito della consultazione non mette d’accordo nessuno, gli uni sfiduciano gli altri, alcuni commettono il peccato mortale di frazionismo, tutti corrono da Re Salomone ma nessuno fa un passo indietro per il bene del Movimento, e finisce che salomonicamente Grillo toglie di mezzo la lista: e così i Cinquestelle a Salerno non ci saranno. E non ci saranno neppure a Caserta. Pure lì: tante belle riunioni, tante belle iniziative per un programma partecipato, il meetup che vota e sceglie, ma la certificazione col bollino di Grillo non arriva, come la cittadina senatrice Wilma Moronese aveva già lasciato cortesemente intendere.

Ora, siccome nel Movimento sono tutti onesti, a cosa si deve un così alto e così irriducibile tasso di litigiosità? Non c’è che una spiegazione: all’assenza di veri legami politici fra gli aderenti al Movimento. Che si raccolgono intorno a singole tematiche e soprattutto a un profondo rigetto di tutti gli altri partiti, ma non hanno evidentemente trovato ancora una vera ragione per stare insieme. Cioè: per accettare la logica del male minore, e le mediazioni e i compromessi necessari per stare insieme. Così l’unica maniera di rimanere uniti è lasciar fare a Casaleggio. Che qualche volta fa, e qualche altra disfa, secondo che gli aggrada.

P.S. Quelli di Benevento, invece, ce l’hanno fatta! Tanti auguri alla cittadina candidata Marianna Farese.

(Il Mattino – Napoli, 19 marzo 2016)

Se i Cinquestelle cambiano pelle

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Con la rinuncia di Patrizia Bedori a correre per la poltrona di sindaco di Milano forse una nuova pagina è stata scritta. Non solo nella storia del Movimento Cinque Stelle, ma pure in quella di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Al primo, infatti, non toccò forse in sorte di morire perché re Alboino se l’era preso a corte e quello, abituato alla vita semplice dei campi, alle rape e ai fagioli, ne morì? Nel nuovo episodio, la semplice cittadina Patrizia Bedori, che gli attivisti del movimento avevano scelto come loro candidata, viene compulsata non da re dei Longobardi ma addirittura da Gianroberto Casaleggio, che la sente, la interroga, la soppesa e le dà un po’ di tempo per pensarci bene. Il tempo passa e la Bedori getta la spugna: evidentemente, non vuol fare la fine di Bertoldo. Del resto, a proposito di commedia, era intervenuto pure Dario Fo, le cui simpatie grilline sono note, per dirsi preoccupato dalla ragazza, cacando dubbi sulla sua adeguatezza.

Ora si sprecano i commenti dei giornali sulle offese sessiste che la Bedori ha ricevuto in queste settimane, e che l’hanno convinta a fare un passo a lato. Le hanno detto che è «brutta, grassa e obesa»; l’hanno definita «nulla facente super cazzolara svogliata», l’hanno descritta come casalinga e disoccupata con l’intento di denigrarla, ma prima di cercare nel mare della Rete o tra gli avversari politici i motivi di tanta ostilità è nello staff della Casaleggio e Associati che la Bedori si sarà trovata dipinta come la Marcolfa, la moglie di Bertoldo: tanto saggia ma alquanto fuori posto, così che alla fine «ottiene grazia di potersene tornare di dove era venuta».

Cos’è accaduto? O meglio: cosa sta accadendo dalle parti dei Cinque Stelle? Le offese: d’accordo. Ma sono le parole di solidarietà – che dai gran capi del Movimento non sono arrivate – a fare ancor più notizia. Perché è evidente che la Bedori non riusciva a convincere Casaleggio dal giorno dopo l’esito delle comunarie. Basta guardare le altre candidature nel frattempo emerse: la Raggi a Roma, la Appendino a Torino, la Menna o la Verusio a Napoli. Tutte professioniste affermate, tutte persone con i titoli di studio e le esperienze di lavoro giuste, tutte solidamente ancorate nella media borghesia. Chi è avvocato, chi è bocconiana e imprenditrice, chi professoressa e chi esperta informatica: l’epoca delle Ciarambino, delle impiegate pubbliche o delle semplici casalinghe, insomma, volge al termine, e il fatto che i profili che la Rete sta selezionando si somiglino fra di loro lascia intendere abbastanza chiaramente che molto poco spazio viene lasciato al caso. Quando vien fuori una Marcolfa, re Alboino e la sua corte – cioè il suo staff – possono apprezzare la saggezza popolare, in un ultimo omaggio al principio per cui uno vale uno, ma poi sono ben contenti se la Marcolfa si prende Bertoldino e si ritira in buon ordine.

Questo dunque sta accadendo. La fase in cui si imbarcava di tutto e di più, ingrossando il Movimento delle istanze più diverse, di spinte radicali, estremiste o semplicemente strampalate (le scie chimiche, i chip sotto pelle, ma anche la generosa foga civica dei volontari che si battono su singole issues) viene per il momento accantonata, e i Cinque Stelle provano a definire meglio il proprio profilo, offrendo un’immagine che li renda meglio riconoscibili all’elettorato. Non più semplicemente come cittadini qualunque, ma come cittadini competenti, affidabili, votabili non solo dalle poche centinaia di amici attivisti del meet up, che partecipano alle votazioni online, ma anche dal resto della cittadinanza. Che al saggio deve andare a scegliere non il condomino più incazzato, ma l’amministratore più capace, e più capace di dialogare coi mondi diversi delle professioni, degli affari, delle imprese.

Rimane la retorica della democrazia diretta, del portavoce in luogo del leader, delle decisioni prese ogni volta tramite la consultazione di tutti su tutto. C’è evidentemente una contraddizione, se poi le scelte vere non possono avvenire se non in una direzione, che l’attività di marketing politico della Casaleggio & Associati è in grado di indicare. Ma lo aveva spiegato bene qualche tempo fa Massimo Bordin: la democrazia diretta si chiama così perché c’è sempre qualcuno che la dirige. Senza la mediazione dei partiti – che nella retorica grillina, com’è noto, sono il male – una Patrizia Bedori non ha nulla da opporre all’aria che tira in Rete, e a chi la soffia. Del resto lo ha spiegato lo stesso Casaleggio, una volta: «La Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore. Può essere che si affermino entrambi». Già: può essere.

(Il Mattino, 15 marzo 2016)

Nel nome del padrone

ImmagineLa parabola del Movimento Cinque Stelle e quella, ancora più malinconica, di Forza Italia, si presta, prima ancora che all’analisi politica, a quella metafisico-linguistica (addirittura!). Se c’è infatti una cosa che non è possibile sostituire è il nome proprio. Ci chiamiamo così, con nome e cognome, dal primo all’ultimo dei nostri giorni, e anche oltre, perché tale resterà il nostro nome – insostituibile – perfino sulla lapide che di noi tramanderà il ricordo «per saecula saeculorum» (almeno me lo auguro).

Un simile miracolo sembra che riesca al nome, e al nome soltanto. E da sempre filosofi e poeti, teologi e letterati, stregati dal nome proprio, sognano di poter indicare le cose, tutte le cose, con una simile, univoca determinatezza. E però: altro che paradiso del linguaggio! Se tutti i nomi fossero propri, individuali, esclusivi, se non vi fosse più nulla in comune fra di essi, il linguaggio si frantumerebbe in tanti pezzi incomunicabili fra loro e, molto semplicemente non sarebbe più un linguaggio, una «comunità» di parole e discorsi (se avete tempo, fate la prova, provate a metter su una frase formata solo da nomi propri).

Ora, questo piccolo ma istruttivo insegnamento può essere utile per capire cosa stia succedendo dalle parti del centro destra e del Movimento Cinque Stelle, cioè in quelle due aree politiche timbrate inflessibilmente, indeclinabilmente dal nome proprio dei loro fondatori. Si dice Movimento Cinque Stelle, infatti, e si legge Grillo. Grillo Giuseppe detto Beppe. Suo il nome, suo il blog, suo il dominio. Così come d’altro canto si dice Forza Italia e si legge Berlusconi. Silvio Berlusconi. Suo il partito, sue le risorse, sue le televisioni. E non c’è verso. Non c’è risultato elettorale che tenga. L’individuazione è tanto radicale, l’identificazione è tanto stretta e indissolubile, quanto quella che appiccica il nome proprio alla cosa: come non puoi cambiare quello, così non riesce a Forza Italia e al Movimento Cinque Stelle di cambiare i loro leader.

Le due situazioni non sono però fra loro identiche. Grillo, è vero, aveva detto che in caso di sconfitta sarebbe andato a casa, e invece è volato a Bruxelles, ma la vita del Movimento è ancora così breve, che si può ben immaginare una prova d’appello. E però le dinamiche del movimento sono tali, che non si può non temere che spazio per un’altra figura che prenda il posto di Grillo non ce n’è, nonostante la retorica del movimento in cui ciascuno conta uno. Ho detto «nonostante» ed ho sbagliato: bisogna dire «a causa» di quella retorica, che è solo l’altra faccia della metafisica idiosincratica del Nome (maiuscolo: quello di Grillo). Perché se ciascuno conta uno, nessuno può contare per gli altri, rappresentare gli altri, fare affidamento sugli altri e condividere con altri, comporsi insieme agli altri; tutti rimangono inchiodati all’atomo indivisibile del loro nome e non mettono mai nulla in comune.

Ben altra storia ha Forza Italia. Una storia di vent’anni, in cui l’identificazione con il leader indiscusso è stata presso che totale: chiunque altri abbia cercato di «farsi un nome» è stato disperso. Ha dovuto cioè, prima o poi, togliere il disturbo: da Fini a Tremonti ad Alfano. Nessuna meraviglia se Berlusconi non riesce ad immaginare una prosecuzione dell’attività politica del partito se non attorno al suo nome, o almeno a quello di sua figlia.

Proprio il successo di Matteo Renzi dimostra tutti i limiti di questa concezione della politica. Che confonde il leaderismo con una sua interpretazione proprietaria, e arrischia l’ossimoro del partito personale per nascondere il fatto che di partito ce n’è rimasto ben poco, mentre della persona permane il sigillo incancellabile: il nome, ancora una volta. Ora, non v’è dubbio che con Renzi anche il partito democratico abbia trovato un leader. Ma per l’appunto l’ha trovato: non si è cioè annullato come partito per risorgere nella figura del suo leader. Lo ha anzi prima cercato, poi contrastato, infine consacrato. Renzi ha perduto, ed è rimasto nel partito; poi ha vinto, e chi è stato sconfitto è pure lui rimasto nel partito. Nulla del genere è avvenuto nel centrodestra o tra i grillini, dove non si riesce nemmeno a capire che cosa possa mai significare che Berlusconi perda, o che Grillo perda. Se però non c’è una sconfitta possibile, non c’è nemmeno un futuro possibile oltre i loro nomi. O meglio: l’unico futuro possibile, l’unica evoluzione finora intravista è nel segno della divisione. Nessuna meraviglia: il nome proprio porta con sé non partecipazione ma divisione, perché non ce la fa a risolversi in un nome comune, e in una storia collettiva.

Questo rende difficile anche una lettura del voto italiano in una chiave strettamente europea. Dove, in genere, si sono imposte forze populiste, euroscettiche, nazionaliste, e i partiti tradizionali, appartenenti alla due principali famiglie politiche – quella socialista e quella popolare – hanno raccolto meno consensi che in passato. Il successo al di là di ogni aspettativa di Renzi fuoriesce vistosamente da questo quadro, ma fuoriescono anche i risultati raccolti da Berlusconi e Grillo: l’uno, infatti, fatica a stare dentro il partito popolare europeo; l’altro stenta a entrare in coalizione con le forze politiche anti-europee. L’uno e l’altro sembrano cioè destinati a marcare una specificità, che non ha altra spiegazione che il loro nome e cognome. Ho detto «spiegazione» e ho sbagliato di nuovo: dovevo dire «maledizione». Cos’altro infatti si maledice se non il nome proprio? E come in ogni maledizione che si rispetti, sono proprio le ragioni per cui a quelle formazioni ha arriso in passato il successo, che impediscono oggi ad esse di avere anche un futuro.

(L’Unità, 29 maggio 2014)

La partita più difficile del premier

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Stando ai sondaggi, il Movimento Cinque Stelle è il primo partito nel Mezzogiorno. Ora metteteci tutto: che mancano ancora venti giorni al voto. Che i sondaggi non sempre ci prendono. Che la volatilità delle opinioni e delle intenzioni espresse è molto alta. Che in realtà il vero primo partito è, al Sud e in Italia, il partito dell’astensione. Che le elezioni europee non sono le elezioni politiche nazionali e non hanno lo stesso peso. Metteteci tutto questo e altro ancora: l’invasione degli ultracorpi e la fine del mondo come l’abbiamo conosciuto, sta di fatto che Grillo vola nei rilevamenti di questi giorni, e i partiti tradizionali annaspano. Tradizionali? Magari ci fosse un partito tradizionale! In realtà, di tradizionale nell’offerta politica del nostro paese non c’è praticamente più nulla o quasi. Di più: quasi non c’è offerta, punto e basta. Ed in particolare non c’è un’offerta, una proposta, una visione che parli alla società meridionale. E non ci sono strutture partitiche credibili, classi dirigenti degne di questo nome, amministratori all’altezza.

Si dirà: troppo facile generalizzare. Vero. Ma non sono io, è il voto che generalizza, è il voto che esprime un’opinione generale. E nell’opinione generale sta venendo complessivamente meno la fiducia nei compiti stessi della politica, ancor prima che nei singoli uomini o partiti.

Per questo, la sfida che attende Matteo Renzi fa tremar le vene ai polsi. Nei suoi ultimi interventi, Berlusconi ha dato l’impressione di voler contenere i danni, e di considerare non queste elezioni ma le future elezioni politiche il vero banco di prova: non è ovviamente una dimostrazione di salute, bensì piuttosto una realistica presa d’atto delle difficoltà che il centrodestra attraversa, diviso e frammentato com’è, parte al governo e parte all’opposizione. L’altro perno del sistema è però il partito democratico. Se frana pure quello, frana tutto. È dunque il partito che ha le maggiori responsabilità di governo e, peraltro, esprime il massimo tasso di novità possibile in questo momento. Resta però che finora anche il partito democratico, che forse prova effettivamente a pensarsi come partito della nazione – come quel partito, cioè, che tiene insieme i vari pezzi del paese, ancor più che come il partito della sola sinistra progressista – resta, dicevo, che il PD non sembra affatto soddisfare questa ambizione. E in ogni caso non si può dire che abbia tirato fuori un’idea per il Sud, o magari anche solo una trovata o una semplice alzata d’ingegno. Si ricorda lo scontrino esibito dalla Picierno, poi che altro?

Renzi deve cominciare da zero, o quasi. Ha poco tempo, due settimane o poco più, per trasmettere un’idea diversa di ciò che il Pd fa o può fare. Lanciando una sfida capace di suscitare nuove energie. Indicando due o tre obiettivi da perseguire con determinazione in Italia e in Europa. Rimettendo il Sud al centro della politica nazionale. Tocca a lui: dopo la stagione di Bassolino, al Sud il centrosinistra non ha saputo ancora trovare un assetto credibile. Fatica a chiudere la stagione congressuale, fatica a darsi un profilo politico riconoscibile. Sopravvivono qua e là notabilati locali, ma ben difficilmente Renzi potrà aggrapparsi ad essi per imprimere anche nel Mezzogiorno la «svolta buona». E tuttavia una svolta occorre, nelle politiche e negli uomini. Il rottamatore qui non ha ancora finito di rottamare.

Parliamoci chiaro, infatti: l’iniziativa riformatrice di Renzi sul terreno istituzionale è ben percepibile. Anche in altri settori, come per esempio in materia di giustizia o sul lavoro, si vede che il governo intende muoversi. A questa intenzione può corrispondere quindi un’attesa fiduciosa. Ma con il Sud la luna di miele del nuovo governo deve ancora cominciare, e a Renzi tocca inventarsi subito qualcosa per sovvertire il dato che i sondaggi riportano: Grillo al comando e gli altri a inseguire. Il Mezzogiorno potrebbe pesare come un macigno sulle future prospettive di questo governo e del Paese. Che non può certo essere governato abbandonando un terzo del territorio al suo destino.

Hegel diceva che è solo uno spiritosaggine quella di chi ritiene che grandi effetti possano essere prodotti da piccole cause. Nessun naso di Cleopatra ha cambiato insomma le sorti di Roma e del mondo. Se dunque l’effetto dirompente dovesse prodursi nelle urne, sappiamo già che non sarà stato per una candidatura sbagliata, per un difetto di comunicazione o per una partita di calcio andata storta. Suona antipatico ma, dopo tutto, Hegel aveva buoni motivi dalla sua: il reale è razionale. Se le cose succedono, una qualche ragione ci sarà. E non è consigliabile scoprire quale sia soltanto la sera di domenica. Meglio, molto meglio farlo prima.

(Il Mattino, 7 maggio 2014)