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A Matteo critiche vecchie. Alleanze inutili col proporzionale

PRESENTAZIONE DEL LIBRO QUEL CHE RESTA DI MARX

Cosa significhi reinventare un «partito popolare e nazionale, un partito della nazione», dentro un nuovo sistema proporzionale, dopo venticinque anni di seconda Repubblica? «È tutto da vedere», mi risponde Giuseppe Vacca, storico presidente della Fondazione Gramsci, ma di certo non è cosa che si vedesse dai commenti seguiti al voto amministrativo di domenica.

«Secondo me i commenti risentono ancora di un clima e di uno stile formatosi durante gli anni della seconda Repubblica. Non ci si rende conto che il maggioritario è finito. Un ciclo politico è compiuto. Qualunque proiezione sul futuro di dati che provengono da elezioni amministrative è perciò da prendere con le pinze. Tanto più che, in generale, è difficile comparare e proiettare il voto delle elezioni amministrative sul piano politico nazionale».

Eppure son tutti lì a ragionare di coalizioni e schieramenti, anche solo per mettere in difficoltà Renzi. Prodi prova a incollare i pezzi del centrosinistra. Orlando chiede primarie di coalizione. Veltroni dice no all’autosufficienza.

Però Il modo in cui si forma l’orientamento dei cittadini verso (o contro) la politica prescinde largamente da questa discussione. Le prossime elezioni si faranno con una legge proporzionale. Con il proporzionale i governi si formano in Parlamento, molto più che col maggioritario. Gli elettori votano per il partito preferito da ciascuno. Quello che poi determina gli equilibri di governo è la qualità, l’efficacia dell’offerta politica.

D’Alimonte su «Il Sole 24 Ore» scrive che il voto di Genova, di Sesto San Giovanni, di Pistoia (ma anche di Padova, che è andata al Pd) dimostra che ormai tutto è contendibile.

L’unico dato generale e generalizzabile è che hanno perso tutti. È un ulteriore segnale di sgretolamento, di frana: non dico nemmeno di un sistema di partiti, ma di un paesaggio politico. Soprattutto nelle elezioni locali, è ancora più difficile parlare di partiti, che non svolgono più alcuna vera funzione rappresentativa. Dire allora che il centrodestra quando è unito vince, può vincere, è persino ovvio, prevedibile e in verità anche previsto, in situazioni come quelle liguri, di Genova o Spezia, che conosco da vicino. Ma questo cosa ha a che fare col tema di come prepararsi alle elezioni politiche?

Cosa allora vi ha a che fare? Nell’editoriale che ho scritto ieri, ho provato anch’io a mettere da parte le mere sommatorie elettorali e a indicare nelle questioni europee il terreno decisivo della sfida.

Innanzitutto la parte maggioritaria dell’elettorato deciderà in base al bilancio su cinque anni di governo Renzi-Gentiloni: come si fa a ignorarlo? E l’intera legislatura è stata incentrata sul nesso fra Italia ed Europa. Ebbene, è da vedere come si costruirà l’agenda europea dopo le elezioni tedesche e soprattutto chi darà le carte. Da noi conterà la capacità di dire veridicamente ai cittadini, senza imbrogliare, come e perché determinati problemi sono problemi europei.

Ma se è il rapporto con l’Europa a determinare l’agenda, non è complicato per i democratici immaginare dimettere insieme una coalizione di centrosinistra, in vista di una futura alleanza di governo? Dove sono i «buoni europei», a sinistra del Pd?

Ma non è questione di sinistra o destra. I cittadini votano in base ai problemi i più diversi, alle esasperazioni più diffuse, a insoddisfazioni, interessi corporativi, o anche a grandi visioni e grandi narrazioni. Non credo che i cittadini siano molto appassionati di queste categorie di destra/sinistra. Certo c’è una storia, una sedimentazione di valori, ceti politici diversi, culture diverse, che si dicono di destra o di sinistra. Ma non se ne può parlare in base a semplici etichette. È evidente che c’è una certa continuità in un arco di forze che va dai moderati di centro fino a Pisapia: ma a che serve cominciare dalle etichette? È questo il problema che definisce l’agenda politica con cui si deve misurare una leadership?

Provo allora a fare l’avvocato del diavolo e ti chiedo: ma quelli che invece dicono che una forza di sinistra non può condividere strutturalmente l’impianto politico e istituzionale di questa Unione europea, che in essa istanze di sinistra non possono trovare spazio, che l’euro è l’equivalente di quello che sono stati Reagan e Thatcher negli anni Ottanta?

Se, per essere di sinistra, invece che di far pesare le questioni nazionali sul modo in cui si compone l’agenda europea, si tratta di dire: “questa Europa è fallita”, non condivido ma capisco: è legittimo. Ma poi chi dice così non si può mettere insieme con chi pensa: “ma come è fallita? Vediamo invece cosa realisticamente è successo, in base a una cartografia sobria, realistica, del mondo”. Come si fa a dire ad esempio, come fa Veltroni, che per essere di sinistra bisogna fare la lotta alla precarizzazione? La precarizzazione è il modo in cui si riflette sui governi e le nazioni di tutto il mondo questo tipo di globalizzazione. Ed è quanto meno un problema di dimensioni europee. Non possiamo parlare delle cose italiane a prescindere dal contesto. E il nostro contesto storico, economico, la parte che ci spetta in un concerto plurinazionale si decide in Europa. Quello diventa un grande discrimine. Aggiungo: chi ha cambiato il paradigma del rapporto con l’Europa, anche rispetto al centrosinistra degli anni passati, si chiama Matteo Renzi. Sembra poco ma non lo è. Prima si trattava sott’acqua: l’Europa era sentita come vincolo, invece che come responsabilità condivisa. Renzi ha invertito la tendenza. È ancora difficile e non è diventato ancora oggetto di un diverso racconto del Paese, ma questo è il tema.

Nel Novecento, l’essere di sinistra si definiva in base al contesto internazionale, e in base ai mondi sociali di riferimento: l’una e l’altra cosa. La mia impressione è che dopo l’89, essendo mutato il quadro internazionale, la sinistra ha sentito sempre meno la necessità di collocare istanze e rivendicazioni dentro un contesto più ampio di quello nazionale. Non ce la fa più. Prima, quando c’erano i paesi del socialismo reale, viveva quel rapporto come un motivo identitario, oggi lo subisce soltanto.

Diciamo però che quello che è stato importante nel comunismo italiano è il modo in cui ha cercato di interpretare l’interesse della nazione italiana. Per il resto, a parte il PCI, non c’è alcuna grande e gloriosa storia del comunismo in Europa. Però certo: oggi la declinazione dell’interesse nazionale è insieme la declinazione dell’interesse europeo.

Un’ultima cosa voglio chiedertela sul partito. A che punto è il “partito pensante” annunciato da Renzi durante il congresso?

Se devo trovare una connessione fra la leadership di Renzi è un universo identitario dico altro, dico il governo di questi cinque anni. Tutto il resto è da rifare. Ma il problema non è Renzi e nemmeno i suoi difetti. S’è fatto un Congresso due mesi fa: se ci fosse un’alternativa a Renzi sarebbe già emersa. Il Pd rimane però la forza centrale per come ha incorporato il nesso Italia-Europa. Non basta, ma è il punto al quale siamo.

Quel punto è parecchio condizionato dall’esito del referendum costituzionale.

Il referendum è stato uno spartiacque drammatico. Ma chi lo ha perso è il Paese. Si può discutere di come è stata condotta la campagna referendaria (male, almeno al 70%). Ma il referendum non era sul governo; era sull’ossatura politico-istituzionale di questo Paese, in pezzi da vent’anni. Ma dove sono le forze che provano a spiegare che il deficit di competitività di cui soffre l’Italia almeno dal 2001 è una conseguenza dell’impalcatura politico-istituzionale, e che il referendum serviva per spezzare la rete di interessi corporativi e diffusi che rendono molto difficile fare dell’Italia un Paese come la Francia o la Germania?

Già, dove sono queste forze? Saluto Beppe Vacca e noto che mantiene nella voce l’equilibrio fra l’analisi senza indulgenze dello stato del sistema politico e una certa serenità e fiducia nel prossimo futuro. Davvero il miglior commento delle sue parole è in quelle di Gramsci: «Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

(Il Mattino, 28 giugno 2017)

Recalcati, Renzi e PPP

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Telefono a Rocco Ronchi. Lo conosco da anni, forse mi fa velo l’amicizia ma lo considero tra i pochi che fanno oggi filosofia in Italia senza rinunciare a pensare, invece di rimasticare pensieri altrui. Il suo ultimo libro, «Canone minore», uscito poche settimane fa da Feltrinelli, è tra i libri più importanti dell’ultimo decennio (mi tengo basso). Lo chiamo però per chiedergli non di Platone, Bergson o Deleuze, ma per via del suo ultimo intervento, apparso sul sito online Doppiozero, in difesa di Massimo Recalcati. Psicanalista lacaniano ormai noto anche al grande pubblico, Recalcati ha avuto l’improntitudine di schierarsi al fianco di Renzi e del Pd durante le primarie; ha partecipato all’evento del Lingotto, ha accettato di dirigere la scuola di formazione del partito; l’ha infine intestata all’ultima, controversa icona laica della sinistra, Pier Paolo Pasolini. Apriti cielo! Sono fioccate le scomuniche, l’ultima delle quali ha avuto del clamoroso: a ripudiare Recalcati ci ha pensato infatti, intervistato da Il Fatto quotidiano, nientemeno che Jacques-Alain Miller, il patrono di tutti o quasi i lacaniani del mondo, che ha dipinto Recalcati come una sorta di malefico Rasputin.

Ronchi è in treno. La conversazione procede tra continui salti di linea, che si traducono in pause di riflessione. Ma provo ugualmente a chiedergli perché un risentimento così diffuso: è una disputa che riguarda l’eredità della psicanalisi, si tratta solo dell’invidia per l’intellettuale di successo?

Il successo di Recalcati non è un successo puramente mediatico, ma si innesta su un bisogno condiviso: quello di comprendere la “mutazione antropologica” – ancora in corso – di cui il berlusconismo è stata la più compiuta espressione. Utilizzando uno dei più sofisticati modelli concettuali, la psicoanalisi lacaniana, Recalcati ha elaborato una diagnosi del nostro presente storico. Si può non essere d’accordo con lui – io, ad esempio, non lo sono – ma si deve comunque riconoscere che Recalcati non ha mai evaso la sua responsabilità di intellettuale. Recalcati ha preso posizione e ha trovato udienza. Il suo successo è, quindi, il successo di una proposta teorica. Il presenzialismo non c’entra. E il successo, anche e soprattutto teorico, dà fastidio. Meglio, perciò, attribuirne le ragioni ai media e alla dabbenaggine del pubblico.

Quello che più mi ha colpito nel tuo articolo su Doppiozero è la descrizione di come funziona il significante “Renzi”, sentina di ogni risentimento. Da cosa dipende secondo te un simile atteggiamento? È questione politica, storica, antropologica? È questione tipicamente italiana?

Io tratto Renzi come un significante. Non mi interessa la verità su Renzi, ma gli effetti di senso che produce nel discorso pubblico. E tra questi, il fastidio è senza dubbio quello più eclatante. Presso un certo mondo intellettuale di sinistra (dunque in quasi tutta la sinistra), esso sfocia addirittura nella ripulsa. Quando ci si ritrova a conversare ai margini di un convegno o nei corridoi dell’università l’antirenzismo è dato per scontato, ritenuto perfino troppo ovvio per poter essere ribadito. Fascisti e razzisti godono di migliore trattamento. Perché? Che cosa disturba e spaventa a tal punto la sinistra e gli intellettuali (che sono la stessa cosa)? La risposta che mi do, ben conscio di scontare un profondo isolamento, è che il significante “Renzi” (che si associa automaticamente ai significanti “riforma”, “governo”, “potere”) stana la sinistra intellettuale dall’angolino appartato in cui si è confinata per condurre un’esistenza comoda all’insegna del primato della morale e dell’indignazione nei confronti dei “mali del mondo”. Il cantuccio, però, si trasforma in un luogo privilegiato quando coincide, com’è il caso della sinistra, con la sede centrale della buona coscienza che gode del monopolio delle cause “buone e giuste”. Ecco: il significante “Renzi” è insopportabile perché disturba il sonno della sinistra, il suo compiaciuto considerarsi “l’angolino pulito del mondo”.

C’è un altro aspetto che mi pare torni in questa querelle, e riguarda la potenza (o l’impotenza?) nello spazio pubblico del sentimento di indignazione, la cui titolarità sembra appartenere in via esclusiva a una certa tribuna intellettuale, quella che sta – come dici tu – nell’angolino. A me i suoi effetti sono sempre sembrati puramente reattivi. Ti domando: si può costruire un progetto politico collettivo fondandolo sull’indignazione?

L’indignazione è un sentimento reazionario. Non solamente pre-politico ma decisamente anti-politico. L’indignato parla in nome del bene violato. La purezza è il suo vessillo. L’impurità sta tutta dalla parte dell’altro, senza mediazioni né sfumature. Bisogna diffidare a priori di qualsiasi movimento sociale che abbia il suo collante nell’indignazione, così come bisogna diffidare a priori, nelle relazioni personali, di qualsiasi individuo che sia privo del senso dell’umorismo. L’umorismo è il rovescio dell’indignazione o, se si vuole, è l’indignazione politicamente educata e fattasi tollerante.

Mi pare di capire che tu trai motivo per una diagnosi più generale sulla cultura contemporanea. Puoi indicarci quali sono i tratti che secondo te l’affaire mette in luce, quali nodi vengono al pettine. C’è forse bisogno di rottamare anche pezzi se non della cultura, delle istituzioni culturali del nostro Paese? (Il termine “rottamazione” è mal scelto, anche per Recalcati. Allora diciamo: bisogna tornare a filosofare col martello?).

Filosofare col martello significa filosofare in modo efficace e restituire alla cultura (che, nella sua radice, è filosofia e solo filosofia) una potenza reale. L’impotenza – o come più dottamente si dice “l’inoperosità” – è, invece, il liquido amniotico in cui galleggia l’intellettuale moderno. Come dice sempre Nietzsche «i moderni ne sanno troppo per poter agire». Soprattutto ne sanno troppo su se stessi. Le sole ragioni che l’intellettuale moderno sa esibire sono, infatti, ragioni per non agire. Di qui l’indignazione che solitamente prova nei confronti di qualsiasi azione e che, contrariamente a quanto si crede, non è diretta al suo contenuto quanto, piuttosto, alla sua “semplice” forma (ecco perché il significante “Renzi” produce effetti così negativi). Per l’intellettuale moderno agire è il male. Non agire è il bene. Il problema più grave è, però, che molto spesso si confonde l’inoperosità col giudizio critico e si eleva quest’ultimo a criterio normativo cui conformarsi e con cui passare al vaglio il resto del mondo il quale, nella misura in cui agisce e non può non agire, è condannabile e condannato. A salvarsi è infatti sempre e solo chi giudica perché solo chi giudica fa il “bene”.

Posso chiederti se c’è però anche qualcosa, nella linea che Recalcati ha indicato nei suoi libri (da «Cosa resta del padre?» in poi) su cui ti sentiresti di aprire a tua volta un confronto con la sua interpretazione di Lacan?

La lettura che Recalcati offre di Lacan è una lettura esistenzialista e cristiana di stampo levinassiano. Nelle sue mani il volto di Lacan si confonde con quello di Levinas perché il desiderio lacaniano, nell’interpretazione che ne dà Recalcati, assomiglia molto al desiderio che, secondo il filosofo francese, struttura l’esperienza: desiderio dell’infinitamente Altro, vertiginosa trascendenza. Lettura affascinante. ma molto distante dal mio pensiero e dal mio modo di intendere Lacan, modo che, per certi versi, è più prossimo a quello del maestro-nemico di Recalcati: Jaques Alain Miller. Per me Lacan è un filosofo dell’immanenza assoluta, un pensatore radicalmente monista che rifiuta il primato dell’uomo in tutte le sue forme. Là dove Recalcati vede un’etica io vedo, infatti, una filosofia della natura.

Un altro punto su cui ti soffermi nel tuo articolo è la figura di Pasolini, al quale Recalcati ha deciso di dedicare la scuola del Pd. Non si tratta ovviamente di arruolare Pasolini, ma le critiche dell’ultimo Pasolini all’istituzione scolastica a me sembrano poco compatibili con una simile scelta. Senza dire della sua profonda distanza dall’imperativo ‘progressista’, di modernizzazione, che sembra appartenere all’identità del partito democratico, non certo a Pasolini…

Non è solo per la sua critica dell’istituzione scolastica (una critica, invero, banale e non originale: Ivan Illich aveva detto meglio) che mi sembra insensato battezzare con il nome di Pasolini una scuola di partito. Tutto Pasolini, e in particolare il Pasolini “corsaro”, è in contraddizione con un progetto politico riformista e pragmatico. La critica pasoliniana della modernità è senza scampo; la sua opzione reazionaria è definitiva. Il suo populismo estetizzante e demagogico ne fa, semmai, una buona bandiera per i tanti movimenti identitari che fioriscono nel mondo. Niente a che fare, insomma, con un significante, come quello di “Renzi”, che, nei suoi effetti di senso, si lega, nel bene e nel male, a quelli di “cambiamento”, “sperimentazione” e “progresso”. Perciò chi vede nella scelta di dedicargli una scuola di partito il tentativo di stravolgerne la “genuina natura eretica” si sbaglia. È piuttosto vero il contrario: quella scelta fa di un intellettuale organico, campione della tradizione (soprattutto immaginaria), il titolare di un progetto modernista ed eretico (per la storia italiana).

Il tuo ultimo libro «Il canone minore» ha in realtà un’enorme ambizione, che è quella di tirar via il discorso filosofico dalle secche in cui si è cacciato: senza più pretese speculative, la filosofia è divenuta solo una voce nella conversazione dell’umanità, come diceva Richard Rorty. Ma è ancora possibile coltivare quelle pretese? Come oltrepassare l’orizzonte del relativismo contemporaneo?

Dici bene. L’ambizione è enorme e non è detto che le mie forze ne siano all’altezza, ma sono certo che l’obiettivo è quello giusto. La filosofia che mi ha cresciuto, in tutte le sue declinazioni (dall’ermeneutica al pensiero debole, dal decostruzionismo alla filosofia analitica) si fondava sulla persuasione che la filosofia fosse impossibile. Braccandosi furiosamente, procedeva a “smascheramenti” sempre più radicali e, sottoposta a questa sfinente autocritica, la filosofia è diventata solo un “gioco linguistico” tra gli altri. Un filosofo moderno, si diceva, è colui che sospende e relativizza il progetto imperialista dell’Occidente mostrandone la natura di “favola”. Non è allora un caso se la fine del secolo scorso ha visto trionfare, su scala planetaria, i gender e i cultural studies, veri eredi dell’autodissoluzione del filosofico. Il canone minore di cui parlo resiste a questo “destino” maggioritario e, tracciando nuovi sentieri speculativi nel contemporaneo, prova a schizzare un’altra storia. Una storia nuova, che accoglie però un’antica sfida, quella formulata da Platone nel «Parmenide»: provare a delineare le condizioni alle quali la filosofia possa finalmente cominciare.

(Il Mattino, 11 giugno 2017)

La voglia di riformismo non è morta

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Anche a Napoli (e anche in Campania) si riparte da Renzi. E la domanda da porre al neo-segretario del Pd è dunque: e adesso? E adesso è la volta che imbraccerà veramente il lanciafiamme? Ed è quello che davvero ci vuole? La metafora che Renzi ha usato in passato esprimeva tutta l’insoddisfazione del segretario nazionale del partito per i risultati del Pd napoletano. Ma oltre l’insoddisfazione Renzi non era andato, in realtà: non erano seguite prese di posizione rispetto ai gruppi dirigenti, non era stata scelta la via drastica del commissariamento, non si era scelto né di tagliare i rami secchi né di coltivare i deboli germogli di rinnovamento comparsi qua e là. Un’opera di rimozione, più che di rottamazione.

La ragione è presto detta: il Renzi rottamatore che nel 2013 prende le redini del partito democratico decide, a Napoli e nel Mezzogiorno, di assecondare le dinamiche locali, piuttosto che di sovvertirle. È una scelta compiuta in stato di necessità (Renzi arriva al governo senza nemmeno passare per il voto popolare), ma anche una scelta dettata da una certa sottovalutazione della funzione del partito nella selezione delle classi dirigenti. Così il Pd renziano si limita da queste parti a sommare quello che c’è, bello o brutto che sia. E quello che c’è ha ovviamente tutto l’interesse a perpetuare lo status quo: non potrebbe essere altrimenti.

Ora però comincia il secondo tempo della partita che Renzi giocò quattro anni fa, e non tutto è rimasto uguale a prima. A tacer d’altro, di mezzo ci sono state le sconfitte alle amministrative di Roma e Torino, che in fondo hanno seguito Napoli nel consegnare il Municipio a una formazione populista. Qui De Magistris scassò tutto già nel 2011, ed entrò a Palazzo San Giacomo; a Roma e Torino è accaduto lo scorso anno, con la Raggi e l’Appendino. E così si è fatta drammaticamente evidente l’usura delle classi dirigenti locali. Scegliere dunque di sostenersi sul notabilato che in periferia racimola voti ma non produce egemonia – come si sarebbe detto una volta – si rivela essere una scorciatoia sempre più stretta e sempre meno praticabile.

Il voto napoletano dimostra tuttavia che anche in questa città resiste un elettorato di sinistra che continua a votare il Pd e a riconoscersi in una proposta politica riformista, di respiro e formato nazionale ed europeo, una prospettiva che difficilmente De Magistris può assicurare. Il punto è come svincolare questo risultato da una geografia di stampo localistico, e congiungerlo al resto del Paese. Se De Magistris è impegnato a costruire un meridionalismo “contro”, questo voto consente a Renzi e al partito democratico di costruire un nuovo meridionalismo “per”?

Ora Renzi può davvero prendere il lanciafiamme? Nella sua versione precedente, quell’arma non ha sparato un colpo, e cambiare tutto per non cambiare nulla è stata la fatale conseguenza di condizionamenti da cui la segreteria Renzi non ha saputo affrancarsi. Il voto di ieri dà al neo-segretario un’indubbia forza: a Napoli e nel Paese. Gli dà anche un obiettivo: impegnare quei voti per tornare a collegare il Sud all’Italia e all’Europa, invece di contrapporlo in una prospettiva ribellistica e rivendicazionista. Cambierà anche il partito, di conseguenza, se non altro perché quel pezzo che pensa che essere di sinistra obblighi a parlare con De Magistris dovrà venire a un chiarimento definitivo.

(Il Mattino, 1° maggio 2017)

La veloce parabola di un’utopia

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C’è qualcosa che non è andato per il verso giusto, nel partito democratico, se Rossi Speranza ed Emiliano, tutti candidati della minoranza alla segreteria di un partito nel quale non è affatto detto che rimarranno, tengono oggi una manifestazione sotto la parola d’ordine della «rivoluzione socialista».

Non è la parola «socialista» fuori posto, dal momento che proprio il Pd ha completato quell’approdo nel socialismo europeo che non era riuscito né al Pds né ai Ds. Achille Occhetto, dopo l’89, ne aveva fatto anzi quasi un punto d’onore, di non lasciare la tradizione comunista per passare in quella socialista. E invece è andata così, e non poteva che andare in tal modo, perché l’unica famiglia politica europea in cui poteva riconoscersi il Pd, partito che doveva riunire tutte le tradizioni del riformismo italiano in un soggetto politico unitario, era il partito socialista.

Ma rivoluzione? Non era il Pd il risultato dell’avvicinamento della sinistra italiana all’area di governo? Da dove viene questa pulsione a rovesciare tutto il percorso compiuto finora dai democratici?  L’uso della parola indica in realtà l’esigenza di marcare la propria identità di sinistra dopo anni che vengono oggi, nel momento della rottura, avvertiti come anni di disorientamento, di smarrimento, di tradimento di storie ed ideali. Anni in cui la sinistra ha governato ma, evidentemente, senza più esser se stessa, almeno per i tre rivoluzionari. La parola «rivoluzione» viene usata allora nel suo significato astronomico: dopo un lungo giro, si torna alla casella di partenza. Che forse non sarà il ’21, oppure il ’45, ma non può essere neppure il 2007, l’anno in cui Veltroni vince le primarie e prende la guida del Pd. E, a dire il vero, non può essere nemmeno il ’96, quando nasce l’Ulivo di Prodi: che socialista non era ma democristiano di sinistra. La rivoluzione di Rossi Speranza ed Emiliano non ha una data assegnabile, ma addita un’origine mitica da qualche parte nel passato: pura e non contaminata dai compromessi accettati per andare al governo. L’euro, le riforme sul lavoro, quella delle pensioni, le liberalizzazioni, il pareggio di bilancio: è possibile che i tre abbiano di qui in avanti per tutti questi capitoli del ventennio trascorso solo parole di critica, per provare a coagularsi con tutto quello che si muove alla sinistra del Pd.

Questo balzo di tigre nel passato fa però sorgere il sospetto che avesse ragione D’Alema quando, a un anno dalla nascita del Pd, nel 2008, descriveva il Pd come un «amalgama mal riuscito». La sua motivazione ideologica più forte doveva stare nel superamento delle divisioni sociali, culturali e politiche che avevano dato forma alla prima Repubblica. In questi termini ne aveva parlato lo storico Roberto Gualtieri, oggi europarlamentare, nel seminario di Orvieto organizzato da Ds e Margherita nel 2006, proprio in vista della nascita del Pd. In quell’occasione il segretario dei Ds di allora, Piero Fassino, aveva sostenuto che era venuto meno il fattore che aveva enfatizzato le differenze tra le diverse culture riformiste italiane socialiste, liberaldemocratiche, cattoliche: il Muro, la divisione del mondo in due. Ma i fatti testimoniano un’altra cosa: se davvero Rossi Emiliano e Speranza compiranno, al grido di “rivoluzione”, il secondo passo fuori dal Pd – il primo avendolo già compiuto D’Alema, con il varo dell’associazione “Consenso” – e se pure il grosso dei bersaniani seguirà, si dovrà dire che la vera motivazione a stare sotto uno stesso tetto risiedeva in realtà nel contesto istituzionale: nell’impianto maggioritario della seconda Repubblica, tendenzialmente bipartitico, e nella personalizzazione della leadership politica. Si trattava insomma di un matrimonio di convenienza: per sfidare il centrodestra tenuto insieme da Berlusconi, ci voleva qualcosa di più di una coalizione fra forze eterogenee. La “macchina da guerra” di Occhetto, nel ’94, non era bastata, l’Ulivo si era rotto e l’Unione si era rivelata una confusa accozzaglia.

Ora però il contesto è mutato di nuovo: con la sconfitta di Renzi al referendum il sistema vira daccapo verso soluzioni di tipo proporzionale – senza premi di lista, senza collegi uninominali, senza correttivi di tipo maggioritario – e allora ognuno può tornare a vestire i panni che gli somigliano di più, senza neppure dover sopportare la fatica di essere minoranza.

Una tal fatica si è fatta negli anni sempre più insopportabile, e questa è un’altra, profonda trasformazione di sistema che ha inciso su giudizi e comportamenti. I partiti sono sempre di più come cozze attaccate allo scoglio dell’istituzione: non riescono a vivere di una vita propria, intorno ai circoli o alle sezioni. Non riescono ad essere un vero soggetto collettivo, una “comunità di destino”, con la conseguenza che prevedono sempre meno spazi di azione effettiva per le minoranze. Dove sono infatti le minoranze nei Cinquestelle, o in Forza Italia, o negli altri partitini che punteggiano il panorama politico? Il Pd, da questo punto di vista, costituiva non la regola ma l’eccezione. Per quanto prepotente si voglia ritenere il piglio di Renzi, anche in questo caso è una logica di sistema a prevalere, più che l’interpretazione personale che ne offrono i protagonisti.

E tuttavia: davvero non era possibile trovare nel Pd un denominatore comune? Che è quanto dire: davvero il Pd non ha più una «mission» davanti a sé? Quando al Lingotto di Torino, proprio là dove Renzi pare oggi intenzionato a tornare per rilanciare la sua corsa alla segreteria, Walter Veltroni tenne il suo primo discorso da segretario in pectore dei democratici, disse, fra le altre cose, che l’Europa stava andando a destra perché la sinistra in quegli anni era apparsa «imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa». Questa doveva essere il «focus imaginarius» del partito democratico. Ed esso era posto abbastanza lontano dalle origini perché alla guida del partito potessero succedersi, dopo Veltroni, un democristiano di lungo corso come Dario Franceschini, un pragmatico comunista emiliano come Pierluigi Bersani, un ex sindacalista socialista della CGIL come Guglielmo Epifani, infine un altro democristiano, come Matteo Renzi, che però non possiede nessuno dei tratti riconducibili alle storie della prima Repubblica. A guardarla così, questa vicenda appare tutto meno che monolitica, e il Pd la cosa più contendibile che ci sia stata sul mercato politico italiano in tutti questi anni.

Perché allora questa vicenda appare alla minoranza ormai priva di futuro? È una domanda che, come spesso capita, ha una risposta nobile e una meno nobile. La risposta nobile fa riferimento alla linea del partito, che deve essere addirittura rivoluzionata dopo anni di timidezze nei confronti delle politiche neoliberiste dominanti. Il baricentro del partito deve essere spostato più a sinistra e non può certo essere Renzi a farlo. Questa risposta coglie almeno in parte nel segno, anche se ha il difetto di trascurare che quasi tutti quelli che vogliono oggi cambiare drasticamente l’indirizzo politico e culturale del partito ne hanno condiviso la rotta, più o meno sempre la stessa nonostante il pendolo dei segretari. La risposta meno nobile fa invece il seguente ragionamento: posto pure che il congresso non consenta alla minoranza di contendere effettivamente la leadership di Renzi, quale probabilità ha il segretario di sopravvivere a una eventuale sconfitta elettorale? Nessuna. E allora perché non aspettare che si schianti, per poi ricominciare daccapo? C’è, d’altra parte, altro modo di ricominciare che non passi attraverso le urne? Non è stato così con Bersani (e prima con l’Unione, con l’Ulivo, con Occhetto?). Se questo ragionamento non passa, non sarà che la minoranza vuole garanzie sulle prossime liste che Renzi non è disposto a dare? Ma questa risposta è meno nobile, e in un momento così drammatico non dovrebbe nemmeno sfiorarci la mente.

(Il Mattino, 18 febbraio 2017)

Se l’elettore non si tura più naso e orecchie

Cicladi

Forse questo primo turno amministrativo può dispensare qualche certezza anche se, a quanto pare, nelle principali città italiane, quelle sulle quali si concentra in prevalenza l’attenzione dell’opinione pubblica, non eleggerà alcun sindaco e bisognerà attendere il ballottaggio. Nel frattempo, infatti, gli uscenti sono dati in vantaggio: sia a Torino che a Napoli; sia Fassino che De Magistris. Due uomini che non potrebbero essere più diversi. In realtà, da quando c’è l’elezione diretta del sindaco la regola – che pure ammette un buon numero di eccezioni – è che il sindaco che si ripresenta viene rieletto. La stessa legge, imponendo il limite dei due mandati, dimostra consapevolezza del vantaggio da cui parte chi detiene il controllo della macchina comunale. E questo è un primo punto, dal quale ogni volta si riparte.

Un altro punto, più importante, è che l’elettorato tende a premiare liste e candidature che non sono state logorate da conflitti interni. Questa regola riguarda tanto le forze politiche tradizionali, quanto le nuove formazioni. Prendiamo i Cinquestelle: a Napoli hanno avuto non pochi problemi a individuare il candidato; i big hanno preferito non scendere in campo; una parte dei militanti non ha digerito la scelta abbastanza incolore di Matteo Brambilla, minacciando addirittura di adire le vie legali. Risultato: il Movimento è abbondantemente al di sotto della media nazionale, e fa probabilmente peggio anche del risultato ottenuto con la Ciarambino alle Regionali dello scorso anno. Pesa sicuramente il consenso per De Magistris, ma i grillini ci hanno sicuramente messo del loro. Stessa cosa a Milano, dove la candidata indicata in un primo momento, Patrizia Bedori, si è fatta (o è stata fatta) da parte. Fortissima fibrillazione, e Milano uscita fuori dai riflettori del Movimento. Risultato: la partita se la giocano Sala e Parisi, centrosinistra e centrodestra, e i Cinquestelle ottengono percentuali tutto sommato modeste. Del candidato, Gianluca Corrado, si conserverà traccia solo in qualche almanacco di figurine.

Guardiamo altrove. Nel centrodestra, Roma è stato l’epicentro di tutti i conflitti, il caso più eclatante. Da una parte un elettorato di centrodestra moderato, con Alfio Marchini; da un’altra parte un elettorato di destra populista, con Giorgia Meloni (e Salvini a supporto). Conseguenza: la destra è con ogni probabilità fuori dalla partita finale, quella del ballottaggio. E la lista di Forza Italia, che ha prima provato a puntare su Bertolaso per poi accodarsi a Marchini fra mille polemiche tocca il suo minimo storico, con percentuali dai quali è dubbio che possa in futuro riprendersi.

Nel centrosinistra, l’impresa più difficile è stata Napoli. A Napoli le primarie hanno decretato un vincitore, Valeria Valente, che Antonio Bassolino, il perdente, ha a lungo mostrato di non riconoscere: impugnando il risultato, chiedendo di rivotare, contestando poi puntualmente tutte le scelte compiute nel corso della campagna elettorale. Risultato: la lista del partito democratico rimane ferma, grosso modo, alle percentuali ottenute cinque anni fa col prefetto Morcone, dopo la debàcle dell’annullamento delle primarie, e al momento gli exit poll danno la Valente terza, e dunque fuori del ballottaggio.

Conclusione: gli elettori non si turano più il naso. Essendo venuto meno il sentimento forte di un’appartenenza ideologica o di partito, non hanno più motivo di farlo. Una proposta politica diviene quindi inevitabilmente più convincente, quando è rappresentata con chiarezza dal candidato prescelto, mentre divengono sempre meno comprensibili i disaccordi e i contrasti interni: non essendo più riconoscibili divisioni di carattere ideologico, culturale o programmatico, non resta che la lotta di potere e l’ambizione personale. Che in genere l’elettore non apprezza.

C’entra anche la personalizzazione della politica? Sicuramente. Tanto più in una competizione come quella municipale, con l’elezione diretta, dove quindi imbroccare il candidato giusto può fare la differenza. E anche in questo caso, ciò è vero a destra come a sinistra, così come dalle parti dei grillini. Vale cioè per Parisi a Milano, che porta il centrodestra molto più in alto che altrove, ma anche per la Appendino a Torino, che rimane in partita nonostante il credito di cui godeva Fassino alla vigilia. Vale infine pure per Giachetti a Roma, che ha permesso al Pd di superare lo sbandamento seguito alle dimissioni di Marino e alla fine traumatica della consiliatura, e probabilmente di rimanere in partita.

C’entra dunque il fattore personale. Ma pesa pure l’esiguità di quelli che erano una volta gli «interna corporis» dei partiti. Che quasi non esistono più. E che comunque non riescono più a tener dentro un bel nulla. Ed ecco allora l’ultimo risultato: la legittima, e insopprimibile, lotta politica si riversa nei canali artificiali di una sorta di circolazione extra-corporea, cioè su media, rete e giornali, e là fuori di legittimità ne conquista sempre meno. L’elettore sente tutti i miasmi che si sollevano e siccome il naso non se lo tura più, vota da un’altra parte o, più spesso, si astiene.

(Il Mattino, 6 giugno 2016)

Il coraggio di avere paura della santa intolleranza

DAVIGO

Due punti, virgolette: «si fa come con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta». Così parlò Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervistato ieri dal Corriere della Sera. Ieri, ma poteva essere anche dieci o vent’anni fa. Anzi no, perché oggi è diverso, «oggi la situazione è peggio» che all’epoca di Mani Pulite, del cui pool Davigo fece parte. E tutta l’intervista svolge quest’unico tema, la corruzione della politica, i politici che rubano, i corrotti più forti di prima, i delinquenti in carcere che sono troppo pochi. E infine i governi che, di destra e di sinistra, agiscono sempre allo stesso modo: quando va bene prendono provvedimenti inutili; quando va male favoriscono la corruzione. E tutti, tutti sono senza vergogna, rubano senza vergogna, parlano senza vergogna.

Nel suo santo furore contro la corruzione politica che infesta il nostro Paese, Piercamillo Davigo non si prende nemmeno una volta il tempo di spiegare in cosa consiste il diritto di difesa, oppure la presunzione di innocenza, o la funzione democratico-rappresentativa dei partiti. Non sospetta un uso distorto della custodia cautelare, non conosce comportamenti abusivi del pubblico ministero, respinge la logica della responsabilità civile dei magistrati. E dice almeno un paio di cose di una gravità difficile da sottovalutare.

La prima: alla domanda se davvero avesse detto in passato che «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti» risponde che, certo, lo ha detto e lo conferma, con riferimento a un certo contesto ambientale, che prova a descrivere. Ma in quale contesto giuridico può mai esser vera un’enormità simile? Dal punto di vista dello stato di diritto, non è mai vero che non esistono innocenti: in nessun contesto, neanche nel più degradato, nel più compromesso, nel più corrotto dei contesti possibili. Neppure tra i trafficanti di droga e gli spacciatori di materiale pedopornografico a cui Davigo paragona con squisita gentilezza i politici: neanche lì la legge può considerare di avere dinanzi solo colpevoli di cui non si sia potuto ancora dimostrare la colpevolezza. C’è solo un contesto in cui questo può accadere, ma non ha a che vedere con la legge e con il diritto, bensì con l’abito mentale dell’inquisitore. Davigo è del resto convinto che «male non fare paura non avere», come ha ricordato ancora di recente. Il che si traduce in due non piccole conseguenze: la prima, che il pubblico ministero è di fatto autorizzato a incutere paura, dal momento che dall’altra parte si spaventerà solo il cittadino disonesto; la seconda, che la vera difesa dell’indagato, o dell’imputato, contro cui preme il martello dell’inquisitore, non è nel diritto, nelle garanzie e nelle regole del processo, bensì solo nella morale e nella onestà personale. Difficile compiere più rapidamente tanti passi indietro dal punto di vista del garantismo penale.

C’è poi l’altra enormità che Davigo si spinge a dire, quando rievoca i fasti di Tangentopoli. Perché traccia il bilancio di quella stagione contando non il numero dei processi o delle condanne, ma quello dei partiti che crollarono sotto i colpo delle inchieste. Li conta: furono cinque, «tra cui quello di maggioranza relativa», cioè la Dc, ma non crollarono tutti. Infatti: «dovemmo interrompere la cura a metà». Anche in questo caso è evidentemente all’opera la stessa antigiuridica presunzione di colpevolezza di prima: i partiti che non crollarono resistettero solo perché i magistrati non arrivarono fino a loro. Ma soprattutto l’attività della magistratura prende in queste parole uno smaccato significato politico. Non è più questione, infatti, di reati da scoprire, ma di partiti da demolire.

Ora, è vero che il vice Presidente del CSM, Legnini, ha preso le distanze dalle parole di Davigo, ma resta la preoccupazione per una magistratura associata che si esprime in questi termini: non per chiedere di discutere questo o quell’aspetto della riforma della giustizia, non per dialogare sui temi in discussione in Parlamento, ma per gettare nel totale discredito l’interlocutore politico con cui pure dovrebbe intrattenere rapporti certo anche ruvidi, se necessario, ma pur sempre di reciproco rispetto.

E invece non c’è una sola parola nell’intervista che lasci pensare che per Davigo la politica italiana sia altra cosa che un grande latrocinio. Così peraltro pensava sant’Agostino dei regni e degli Stati. Ma appunto era un santo a pensarlo, uno che cioè prendeva a metro e misura degli uomini la giustizia di Dio. È possibile accettare che il Presidente dell’Anm nutra la stessa, santa intolleranza?

È questa la cultura giuridica liberale di cui ha bisogno il Paese? Oppure ha davvero ragione Davigo, e allora non si tratta di processi o di garanzie, ma di riattivare il mito fondativo di Mani Pulite, per resettare daccapo la classe politica del Paese? Dalla crisi della politica deve dunque venire la santa Repubblica dei giudici, con i Cinquestelle che, entusiasti delle parole del magistrato, si candidano fin d’ora a guardiani della rivoluzione? C’è di che aver paura. E bisognerà avere pure il coraggio di avere paura, quando qualcuno vi dirà beffardo che hanno paura solo i corrotti.

(Il Mattino, 23 aprile 2016)

La tattica dei conti rinviati

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Con l’accordo su Guglielmo Epifani il partito democratico prova a fare un primo passo dopo la crisi in cui è precipitato all’indomani delle elezioni. L’Assemblea Nazionale di oggi dovrebbe infatti votare il nome sul quale le diverse componenti del Pd hanno faticosamente trovato un’intesa, anche se, visto lo stato di salute del Pd, non si può escludere che qualcos’altro accada durante i lavori dell’Assemblea.

Un primo passo, ma in quale direzione? Tutta la discussione che è seguita alle dimissioni di Bersani è stata infatti condotta in cerca di un nome che non comportasse immediatamente scelte nette, che il Pd, evidentemente, in questo momento non è in grado di sostenere. Si è pensato perciò che di qui al prossimo congresso bisognasse affidarsi non a un segretario a pieno mandato, ma ad una figura la meno divisiva possibile, meglio se debole e politicamente non ingombrante, meglio ancora se disponibile solo per questa fase di transizione verso il congresso, e indisponibile a proseguire oltre. Alla fine la scelta è caduta su Epifani, figura più che dignitosa, con una storia sindacale e politica importante; ma basta guardare ai nomi circolati nelle ore che hanno preceduto l’accordo per rendersi conto di quali siano state le preoccupazioni e i motivi che hanno ispirato la scelta. In cerca di un traghettatore, di un reggente, o di una qualunque cosa non somigliasse a un segretario politico, il Pd ha provato a  accordarsi su nomi come quelli di Roberto Speranza o di Enzo Amendola, che indicavano una continuità netta con la segreteria uscente, ma avevano il pregio di non essere esponenti di primissima fila. Speranza, in realtà, essendo già stato promosso a capogruppo alla Camera, aveva ogni buona ragione per non avventurarsi in un incarico a tempo, da consumarsi preferibilmente entro una scadenza ravvicinatissima: era il primo a non crederci, insomma, e a non volerlo. Amendola, segretario dimissionario del Pd campano che non ha certo brillato nel risultato elettorale, poteva essere tuttavia il prescelto per la sua funzione semi-istituzionale di coordinatore nazionale dei segretari regionali – una carica, peraltro, che solo l’ubriacatura ideologica federalista, che in questi anni ha tramortito l’Italia (non solo il Pd), può spiegare, ma che non ha lasciato tracce visibili nell’organizzazione di partito: nonostante questo, o forse proprio per questo, è stato per qualche ora fra i papabili. Anche perché nel frattempo cadevano le candidature di Vannino Chiti o di Anna Finocchiaro, nomi questi di maggiore peso e sicuramente meglio profilati. Ma per la singolare legge della proporzionalità inversa fra peso politico e opportunità che in questo momento di disorientamento il Pd ha creduto di applicare, non potevano fare al caso. Alla fine il pendolo si è fermato sul nome di Epifani. Qualcuno deve essersi reso conto che anche all’autolesionismo c’è un limite.

Epifani, cioè il capolista del Pd a Napoli, insieme a Enrico Letta: a giudicare dalle responsabilità alle quali sono chiamati, si direbbe che da queste parti il Pd sia andato benone! E invece non è così, ma il fatto è che questa decisione non consegue ad un’analisi del voto, men che meno da una discussione sulle strategie adottate e su quelle da adottare, ma solo dall’intenzione di rinviare tutto al congresso. Al momento, non è nemmeno chiaro quali decisioni l’Assemblea prenderà sui nodi rimasti aperti, cioè sui tempi e le modalità di svolgimento del congresso. Il tratto politico più evidente che si accompagna alla scelta di Epifani – salvo sorprese dell’ultima ora, o dell’ultimo militante del Pd che dei primi prende a fidarsi sempre meno – è la continuità con la precedente segreteria. E in effetti, nonostante il tourbillon di nomi circolati, da questa esigenza di continuità il Pd non si è mai discostato.

Sembra incredibile, ma è così. Il Pd di Bersani si è comportato – e scegliendo ancora la continuità si sta comportando – come quel corridore che, tagliato il traguardo, continua la corsa ancora per qualche metro, prima di fermarsi del tutto. Solo che, quando vince, quello è il tempo in cui piovono gli applausi del pubblico; ma piove ben altro quando invece ha «non vinto». Un’espressione, quella usata da Bersani, che con qualche cattiveria si potrebbe tradurre così: il Pd ha perso a sua insaputa.

E davvero ha proseguito poi, nelle settimane successive, nell’insaputa generale. Come se non sapesse che con Grillo non avrebbe potuto mai stringere accordi, Bersani lo ha perseguito per più di un mese. Come se non sapesse che, se una possibilità c’era di fare un accordo coi Cinque Stelle, passava per un suo passo indietro, ha invece chiesto per sé l’incarico. Come se non sapesse che nessuno avrebbe creduto a un accordo su Franco Marini che non si ripercuotesse sul governo, ha sostenuto che si poteva dialogare con Berlusconi sulla presidenza della Repubblica in uno spirito puramente istituzionale, salvo essere smentito da Marini medesimo, che in un’intervista ha dichiarato il contrario. Come se non sapesse che, a quel punto, ripiegare su Prodi avrebbe comportato una piroetta di 360º, che nessun partito può compiere come un sol uomo in poche ore, ci ha provato lo stesso, portando il Pd alla disfatta.

Come se non sapesse tutto questo, e come se non fosse urgente dotarsi di una piattaforma politica chiara – perché si può fare il governo anche con Belzebù, ed anzi lo si è fatto, ma dentro una strategia politica e non in stato di necessità, senza avere più il coraggio di rivendicare nulla – l’Assemblea è chiamata ad avallare una linea di continuità non per convinzione, ma per mancanza di alternative.

Così succede che le alternative si formano, ma fuori dall’Assemblea. Renzi, infatti, si tiene alla larga. E D’Alema sta a Barcellona, e non sa se arriverà, anche perché ormai, così dice, ha il «core business» all’estero. E se è vero quello che ha raccontato Peppino Caldarola, che D’Alema rinviò a gennaio la presentazione del suo ultimo libro per non fare ombra a Bersani nel duello con Renzi, forse si può dire che, oggi, le ombre tornano ad allungarsi: il rinvio è finito, e quello che dovrebbe essere un primo passo ha invece il sapore dell’ultimo, fatto inutilmente dopo la «non vittoria» sulla linea del traguardo.

Il Mattino, 11 maggio 2013

Il lungo tormento dei post-Pci e la fine del sogno democrat

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«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise», così diceva Vico nella Scienza Nuova: se vuoi sapere qual è la natura di una cosa, guarda com’è nata. Ora, il partito democratico è stato fondato nell’ottobre del 2007, sotto il secondo e periclitante governo Prodi, di cui ha probabilmente accelerato la caduta. L’anno successivo, sotto la guida di Veltroni, si è presentato alle elezioni e le ha perse. Quest’anno si è invece presentato sotto la guida di Bersani, e le ha «non vinte». Tra l’uno e l’altro, è stato retto per meno di un anno anche da Dario Franceschini, nel 2009. È partito con il 33,1 di Veltroni, è arrivato con il 25,4 di Bersani. La sua storia è tutta qui, in queste poche righe. E non è detto che continuerà ancora.

Ma per descriverne la natura occorre guardare più indietro. È sempre Vico che insegna: «le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze», e voleva dire: spurie, apocrife e mescolate. Così è stato per il Pd. Dietro il partito democratico c’è stato infatti il tentativo di irrobustire la creatura politica che, negli anni Novanta, aveva consentito alla sinistra ex-comunista, già transitata attraverso il Pds e i Ds, di andare al governo: non da solo, ma insieme con la sinistra democristiana, che nel frattempo aveva dato vita prima al partito popolare, poi alla Margherita, con la confluenza di piccole componenti liberal-democratiche. Un «amalgama mal riuscito», disse una volta D’Alema, e alla luce di com’è andata, è difficile dargli torto.

È vero però che le culture politiche che avevano fatto la prima Repubblica dovevano comunque provare a rimescolarsi e innovarsi, dopo le tre profonde fratture che avevano terremotato il sistema politico italiano: la caduta del Muro, l’inchiesta Mani Pulite e l’uscita della lira dallo SME (è infatti dai tempi della rivoluzione francese che crisi finanziarie e crisi politiche vanno a braccetto). Il primo frutto del rimescolamento è stato l’Ulivo, nel ’96; il secondo, l’Unione, nel 2006; il terzo, il Pd. Il terzo doveva rappresentare il coronamento di un progetto politico lungo un decennio: rischia invece di esserne la fine. Perché non si sono mai veramente ricomposti due opposti progetti: quello di chi spingeva per accelerare la trasformazione delle culture politiche di origine, e quello di chi invece cercava di preservarne le caratteristiche distintive. Col Pd, ha prevalso il primo progetto, senza che però le tensioni fossero veramente risolte. La drammatica crisi di queste ore le ha di nuovo portate in superficie.

Se però si guarda dentro il fitto scambio di accuse, veleni e sospetti di queste ore, si trova qualcosa di più di un confronto tra ex-comunisti ed ex-democristiani. Si trovano due idee diverse di riforma della politica e della società. Il guaio è che anche queste faticano ad amalgamarsi. Una è nata negli anni Novanta, quando la sinistra europea cercava una «terza via» tra la socialdemocrazia del passato e la vulgata liberista del presente. Un libro di Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair, dice forse più cose del suo stesso contenuto: «Oltre la destra e la sinistra». Il fatto è che, senza mai veramente imboccarla, il Pd ha cercato comunque di proseguire per questa via, anche quando nel resto d’Europa veniva abbandonata, o almeno fortemente riconsiderata. Non perché dovevano tornare con forza la nostalgia di una sinistra fortemente identitaria e refrattaria al cambiamento, ma perché nel fuoco della crisi le sue risposte sono apparse subalterne alla ricette monetariste su cui è stata costruita l’Europa dell’euro.

E siamo alle vicende degli ultimi mesi: la segreteria Bersani ha provato a sterzare e prendere un’altra via, ma lo ha fatto mentre nel frattempo il vento del «cambiamento» così speso evocato aveva incrinato seriamente gli altri elementi intorno a cui soltanto può costruirsi un partito, e cioè l’organizzazione e il gruppo dirigente. Finiti sotto accusa delle virulente campagne anti-casta, all’ombra delle quali è esploso il fenomeno Grillo, non c’era più una cultura politica condivisa che facesse da scudo alle campagna moralizzatrici (e spesso semplicemente denigratrici). E, purtroppo, nessun partito può sopravvivere quando i suoi stessi iscritti, militanti e simpatizzanti finiscono col non nutrire più né fiducia né stima per la propria memoria storica e per gli uomini che la rappresentano. Le lacrime di ieri di Bersani, a cui va l’onore delle armi, mostrano che il compito di ristabilire una «connessione sentimentale» coi propri elettori e con il paese è ormai affare di una nuova generazione. Con o senza il Pd.

Il Mattino e Il Messaggero, 21 aprile 2013

Governo, il ruolo del Pd nella sfida di Bersani

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: e allora perché la direzione nazionale del partito democratico si è riunita ieri, prima cioè che cominciasse il gioco vero, ossia le consultazioni delle forze politiche da parte del presidente quasi-incaricato? Più che un segnale di forza, è parso un segnale di debolezza. Finora, Bersani ha infatti incontrato le parti sociali, e per quanta attenzione abbia voluto mostrare nei loro confronti, ben difficilmente avrà potuto trarre da esse elementi utili allo scioglimento del nodo politico dinanzi al quale si trova. La partita vera comincia soltanto oggi. E dunque la direzione nazionale del Pd non aveva nuovi elementi da valutare, e non ha potuto fare altro che confermare la linea politica fissata all’indomani del voto, quando, con un unanimismo invero un po’ sospetto, aveva dato mandato al segretario del Pd di tentare di costruire un’intesa col Movimento 5 Stelle, sulla base di pochi punti programmatici. Perché allora questo nuovo passaggio in direzione, se non per ricompattare il partito? Comunque se ne valuti l’esito, la riunione di ieri dimostra perciò che il bisogno di ricompattarsi c’era.

C’era e c’è. E più passa il tempo, più va avanti Bersani nel suo tentativo, più rischia di dimostrare, qualora non dovesse riuscire, che la ricerca di una maggioranza parlamentare è il tappo che rischia di saltare ma anche di far saltare il Pd, qualora il segretario non dovesse riuscire nell’impresa. Al di là delle dichiarazioni di maniera, con un Renzi che si fa notare di più non andando in direzione che facendosi presente, quel che si vede è un pezzo del partito che spinge verso le elezioni, mentre un altro pezzo sembra disponibile a cercare intese col centrodestra. Una parte sposa senz’altro la bandiera del cambiamento, mentre un’altra insiste sulla necessità di dare comunque un governo al paese. Non solo. Ma la stessa croce portata da Bersani nel corso della campagna elettorale – alleanza con Vendola, però appoggiando Monti, magari in vista di un governo con Monti, però appoggiato da Vendola – sembra tornare a pesare nuovamente tutta intera sulle spalle del segretario, ben oltre il tentativo in corso.

Le croci, si sa, sono conficcate nel cuore del presente, ma ce ne vuole – e come! – per fare come Hegel, il padre nobile di ogni idea della politica come mediazione: per riuscire cioè a godere della ragione come della rosa che fiorisce nella croce, e concilia con la realtà. La conciliazione, la risoluzione delle contraddizioni sembra parecchio lontana dallo spuntare salvifica nel bel mezzo della crisi. Pare anzi che esse si facciano anche più aperte e laceranti, e che le parole pronunciate da D’Alema all’indomani della sconfitta del 2008, a proposito del Pd come «amalgama mal riuscito», tornino a pesare come una maledizione sui democratici.

In realtà, ogni grande partito ha sempre un’articolazione plurale al suo interno, e almeno una maggioranza e una minoranza, se e finché è per l’appunto un partito, e non un movimento o un popolo. Ma allora non deve mancargli neppure quella ragione in più che consente di contenere le differenze entro un unico progetto politico. Per esempio: la funzione nazionale che il partito punta ad avere. Oppure il ruolo di sistema che svolge all’interno del quadro politico. O, ancora, la visione del mondo – quella che un tempo si chiamava ideologia. Ma che succede quando questi elementi impallidiscono, quando i partiti perdono i loro fondamenti ideologici (com’è accaduto dopo l’89), quando il sistema politico perde la sua stabilità (come è accaduto dopo il ’92, e accade nuovamente adesso, col successo del movimento cinque stelle) e quando persino la funzione nazionale fatica ad essere riconosciuta, dal momento che quella funzione deve oggi essere reinterpretata in una cornice europea?

I numeri, certo, non aiutano Bersani. E mostrano tutti i limiti della «ditta». Ma al contempo coprono anche la difficoltà,mpiù profonda dello stesso insuccesso elettorale, di far fronte ai tre interrogativi in risposta ai quali soltanto si giustifica l’esistenza di un partito. La stessa linea politica ne dovrebbe discendere, invece di essere il filo faticosamente tessuto tra un colloquio e una dichiarazione di questo o quell’esponente democratico. Le stesse divergenze programmatiche, che pure ci sono e investono aspetti non secondari di una possibile azione di governo, vengono dopo. Che Bersani non possa tuttavia non incominciare da quelle, nella speranza di cucire insieme una maggioranza, per un verso è inevitabile, per altro verso è già l’ammissione implicita che tutti gli altri spazi della mediazione politica si sono consumati. E Bersani o non Bersani, non sarà facile al Pd, riaprirli.

Il MessageroIl Matino, 26 marzo 2013

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La missione: fugare il rischio Unione

Ha ragione Renzi. Ora che i numeri del ballottaggio premiano Bersani, che vince nettamente, intorno a quota 60%, bisogna riconoscere il grande merito di Renzi: «Era giusto provarci», ha detto, e se avrà trasmesso al centrosinistra questo spirito, lo spirito di chi intende provarci senza tirarsi indietro, senza che il braccino tremi, gli avrà regalato anche l’animo giusto per ripartire, non solo una sfida aperta e appassionante. Renzi ha avuto ragione anzitutto nel lanciare la sfida, perché c’era realmente la possibilità di contendere la leadership dello schieramento di centrosinistra. Tutte le polemiche e il nervosismo sulle regole non cancellano questo importante dato di fatto: auguriamoci anzi che la contendibilità della leadership valga anche per il centrodestra, che ne ha sicuramente bisogno.

Ma poi Renzi ha avuto anche ragione nel delineare una linea di confronto netta che attraversa effettivamente lo spazio politico e culturale del centrosinistra a livello europeo. Del resto, è stato Renzi ad evocare esplicitamente, in queste settimane, la terza via di Tony Blair, proponendosi così di ricalcare le orme del New Labour  (e provando, senza riuscirci, a incontrare l’altro protagonista della terza via degli anni ‘90, in trasferta a Firenze: Bill Clinton), mentre Bersani ha cercato le sue somiglianze piuttosto dalle parti della socialdemocrazia tedesca di Sigmar Gabriel o del socialista francese Hollande (che ha incontrato all’Eliseo). Difficile è dire se fosse necessario che un simile confronto passasse anche attraverso il tema contundente della rottamazione: un problema reale tenuto insieme a una motivazione strumentale. Bersani lo ha declinato in una forma diversa. Parlando a Stella, la città natale di Sandro Pertini (che forse avrebbe potuto mettere nel suo Pantheon personale, insieme a Papa Giovanni), ha detto: “non possiamo avere foglie nuove se si tagliano le radici. Altrimenti, sono foglie degli altri e non le tue”. Alla fine ha avuto ragione lui, in fatto di rinnovamento: non solo perché ha vinto, ma perché sarà difficile, adesso, appioppargli le etichette alle quali Renzi ha cercato di inchiodarlo nel corso della campagna elettorale.

Qui cominciano dunque le ragioni di cui può farsi forte Bersani. Anzitutto la legittimazione del voto: la seconda che gli arriva, dopo quella che lo premiò portandolo alla guida del Pd. Rotonda, inequivocabile, convinta. Avesse vinto di misura, si sarebbe ritrovato in mano una vittoria a metà: qualcuno, dentro il suo partito, avrebbe recriminato sulla scelta di indire le primarie; qualcun altro, fuori dal suo partito, avrebbe potuto mettere in dubbio la sua capacità di leadership. Dopo il voto di ieri, così non sarà.

In secondo luogo, Bersani può prendersi la soddisfazione di avere vinto, se così si può dire, non nonostante il partito, ma grazie al partito che lo ha sostenuto. Bersani può celebrare una vittoria che è anche una vittoria del suo partito, non l’inizio della sua destrutturazione (come forse sarebbe stato nel caso di una vittoria di Renzi). Di questi tempi, non è poco. Non è peraltro questione che riguardi solo il Pd, o solo il centrosinistra, perché investe l’intero campo della politica italiana. La quale è stata per anni alle prese con l’insufficienza e i limiti di partiti politici drammaticamente al di sotto delle esigenze del paese. Col voto di domenica, c’è forse una prima inversione di tendenza. Se poi è vero che l’Europa e l’Italia scontano un deficit di politica e democrazia, se vi è un nesso fra lo stato delle istituzioni politiche, nazionali ed europee, e le difficoltà di far fronte alla crisi, è difficile non considerare salutare la vittoria di Bersani, e il segretario del Pd ha qualche buona ragione in più da incassare col voto.

Naturalmente, è presto per dire se il centrosinistra si rivelerà all’altezza. Le primarie, d’altronde, non sono la panacea di tutti i mali. Per giunta, stanno dentro un sistema istituzionale ed elettorale che non è fatto per esse, perché non ha quella inclinazione presidenziale o semipresidenziale alle quali di norma si sposano. Qui sta forse il vero punto dolente: Renzi ha insinuato sensatamente il dubbio che con Bersani il centrosinistra rischia di ritornare alle armate brancaleone, alla non rimpianta Unione del 2006. Ma Bersani ha altrettanto sennatamente fatto valere il più alto potere coalizionale che il centrosinistra può vantare con la sua guida: con le regole vigenti, è una carta in più, ed è, soprattutto, una carta necessaria da tenere in mano e, se necessario, giocare. La partita, del resto, non è lontana.

Il Mattino, 3 dicembre 2012bersani-vendola

Il paradosso delle regole

La modifica statutaria è stata approvata, Renzi può concorrere, Bersani va al tavolo della coalizione a concordare le regole delle primarie, ma tu ora va’ a sapere cosa significa seguire una regola. Roba che occorre una ricerca filosofica per districarne il senso, anzi di più: ci vogliono le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. Però Wittgenstein, per fortuna, e per raggiunti limiti di età (è morto), non ha potuto prender parte al dibattito sulle regole. Altrimenti avrebbe avuto infatti qualcosa da dire. Prendete una maestra, avrebbe detto (continua…

L’unità, 7/10/2012

L’alleanza e le pulsioni populiste

È stato detto che il populismo esprime, sia pure in modo distorto, un’esigenza di partecipazione che i meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa non riesce più a soddisfare. Può darsi sia così. Ma in tal caso credo sia giusto prendere un po’ di fiato e poi obiettare con il più classico degli: “embé?”. Visto che per i populisti i ragionamenti sono sempre troppo intellettuali, troppo sofisticati, troppo pieni di distinzioni e parole difficili, immagino che la mia obiezione sarà apprezzata. Ma posso comunque provare ad articolarla meglio.

E cioè: nelle pulsioni populiste che percorrono le società contemporanee (non solo l’Italia) ci sarà pure del buono, anche se si esprime in modi decisamente meno buoni. Si tratterà pure di forme inedite di cittadinanza attiva, che, trovando ostruiti (oppure inutilizzabili) i canali tradizionali di espressione della volontà politica, assumono modalità diverse, più immediate e meno paludate. Resta vero tuttavia che regole e istituzioni del gioco democratico sono essenziali e dobbiamo averne cura. Perciò direi: grazie per la precisazione sociologicamente corretta, nessuno demonizzi nessuno, ma lasciateci ancora compiere lo sforzo di mettere la politica nelle forme richieste da una democrazia parlamentare, con il senso delle istituzioni e dello Stato che ciò richiede, con il profilo di una forza di governo consapevole di impegni e responsabilità nazionali e internazionali, e, da ultimo, con la consapevolezza di dover costruire un futuro possibile per questo Paese. Pigiare ossessivamente il pedale della contrapposizione fra partiti. Istituzioni, professionisti della politica, élites, caste e via denigrando da una parte e, dall’altra, il popolo o la gente di cui i movimenti populisti sarebbero diretta e genuina manifestazione, non è accettabile. Tanto meno lo è quando a rendersene protagonisti sono politici con ultradecennale esperienza alle spalle. Ma tant’è.

Lo schema di Bersani, ad ogni modo, discende da questo ragionamento. Che non è l’unico possibile, ma è quello proposto dal Pd. Il patto tra progressisti e moderati si inserisce infatti in questa delimitazione del campo di gioco, che ha una precisa linea di demarcazione nel rifiuto degli argomenti populisti contro l’Euro, contro le tasse, contro gli immigrati, contro il finanziamento pubblico ai partiti, contro i parassiti del pubblico impiego e, a detta del suocero di Grillo (se capisco), pure contro i sionisti cattivi.

Naturalmente, ci sarà sempre un populista come il comico genovese che traccerà una divisione diversa: fra il Palazzo e i cittadini, fra i partiti incistati nelle istituzioni e movimenti al fianco dei cittadini tartassati, ma sarà, per l’appunto, la rappresentazione di un populista che lucra su questo schema.

E oramai Di Pietro deve decidere se intende adottarlo oppure no. Se infatti si torna a discutere di alleanze non è per l’inguaribile deriva politicista dei partiti, ma per i pencolamenti dell’IdV, che non ha ancora chiaro se deve inseguire Grillo e gridare più forte di lui, o se accetta invece la proposta politica del Pd. E, cosa curiosa, sembra non averlo chiaro neppure Vendola. Il quale ovviamente ha tutte le ragioni di chiedere di discutere con il centrosinistra di contenuti e programmi, ma deve pure mostrare qualche preoccupazione per l’agibilità dello spazio politico in cui quei programmi dovranno essere realizzati.

Vendola tituba, Di Pietro si spolmona, il tutto perché Bersani sembra avere occhi solo per Casini. Ma non mi pare che le cose stiano così. Stanno anzi al contrario: invece di avere occhi per il proprio posizionamento presso l’elettorato, preoccupati del crescente consenso dei grillini, bisogna che la strana coppia scommetta su una nuova stagione della democrazia italiana e sulla ricostruzione civile del paese, piuttosto che sulla maniera in cui approfittare della fine poco gloriosa della seconda Repubblica. Lascino a Grillo e a suo suocero il compito di fare di tutte l’erbe un fascio. Alla fine, si scoprirà che i più legati al passato, al berlusconismo e all’Italietta sono proprio i nuovissimi populisti: urlatori quando si parla di quel che è stato, privi di voce quando si tratta del futuro.

L’Unità, 1° luglio 2012

Perché alla fine vince Vendola

Io organizzo, tu vinci: da quale modello politico il partito democratico abbia importato questa generosa formula non è dato sapere, ma dopo la Puglia di Vendola, la Napoli di De Magistris, la Milano di Pisapia, la Cagliari di Zedda, è ora la volta di Genova. Alle primarie il Pd schierava un dirigente nazionale, Roberta Pinotti, e il sindaco uscente, Marta Vincenzi. È già singolare che il sindaco si sia dovuta sottoporre alle forche caudine delle primarie: di solito al secondo mandato ci si arriva in carrozza. Ma a stranezza si è aggiunta stranezza, perché a vincere è stato il candidato indipendente, Marco Doria, che la sveltezza e la disinvoltura retorica di Vendola ha consentito di ascrivere a tambur battente a Sinistra e Libertà. Cavallerescamente (ma non troppo), i dirigenti del Pd si affrettano ora a dichiarare che il risultato ci sta tutto, è nello spirito della competizione, quando è veramente autentica; ma allora è il partito democratico che rischia di apparire, agli occhi del suo stesso elettorato, in debito di autenticità.
Di certo, la vicenda ha riaperto la discussione, anche perché Bersani ha già assicurato, con un filo di imprudenza, che se non si cambia il Porcellum il Pd ricorrerà alle primarie per la scelta dei suoi candidati al Parlamento. Che è come dare ai propri avversari, interni ed esterni, un ottimo motivo per gufare contro un accordo in materia elettorale.
Mettersi però a discutere dello strumento delle primarie significa scambiare il dito con la luna, e la luna è nientepopodimeno che l’orizzonte politico-culturale del Pd. Dove va, infatti, il Pd?  Quando scende per strada e manifesta nelle piazze, allestisce i gazebo e sente la base, pencola a sinistra: vincono i candidati più vicini alle battaglie sui diritti, sui beni comuni, sui nuovi bisogni e le nuove sofferenze sociali – candidati movimentisti, financo populisti, non sempre in sintonia coi gruppi dirigenti del partito.  Quando invece il Pd varca il portone di Palazzo Chigi e affronta la severa agenda del governo Monti, vira piuttosto verso i più tranquilli lidi del centro, e nel discorso pubblico fioriscono parole come serietà, sobrietà, responsabilità: l’anima tecnocratica prende il sopravvento, e un occhio di attenzione viene dato, prima che ai ceti popolari, ai severi corsi del mercato.
Intendiamoci: non siamo certo alla schizofrenia del partito di lotta e di governo e soprattutto, particolare non trascurabile, da qualche mese i consensi nel Pd crescono, a giudicare almeno dai sondaggi. E tuttavia la formula che Bersani non si stanca di usare: questo non è il nostro governo, non dice ancora chiaro e tondo come sarebbe, il suo governo. In buona logica, infatti, non si definisce mai nulla in termini solo  negativi. Dire di una certa cosa che non è né questo né quello, non è ancora dire che razza di cosa sia. Affermare che il Pd è un partito di centrosinistra, e spiegarsi dicendo che non è né di centro né di sinistra, non è esempio di fulgida chiarezza.
La situazione finisce con l’essere la seguente: c’è un grande partito, forse l’ultimo che possa essere così definito, forte abbastanza da poter contrattare col governo gli elementi del suo programma, ma in cui spezzoni di idee non trovano ancora un linguaggio condiviso.  La vicenda dell’articolo 18, intoccabile e riformabilissimo nello stesso tempo a seconda del dirigente che si intervista, è abbastanza indicativa. E così il Pd può essere di sinistra sì, ma non troppo, moderato ma anche no, riformista ma con juicio, e così via aggettivando. L’ancoraggio europeo nel Pse ci sarebbe, ma chi li sente i cattolici; la responsabilità nazionale funzionerebbe, ma rischia di accaparrarsela Monti; e poi c’è sempre, sornione, Casini. Semplicemente democratici, sbotta infine qualcuno, ma più per tagliar corto che per dare a vedere, finalmente, di cosa si tratta.
Intendiamoci: stiamo parlando del primo partito italiano, stando almeno ai sondaggi. Ma a sinistra ancora se la ricordano, la volta che erano il primo partito, quando, un po’ come adesso, non avevano saputo ben delineare un orizzonte politico chiaro oltre la battaglia elettorale. Niente orizzonte, niente vittoria: qualcun altro decise di scendere in campo, circondato, lui sì, da cieli azzurrini, e la vittoria, alla fine, andò a lui.

Il Mattino, 14.02.2012

Questioni di antropologia economica: oltre l’utilitarismo

Tra gli effetti della crisi economica e finanziaria che ha investito l’Occidente negli ultimi anni si possono mettere anche le parole con le quali Chris Hann e Keith Hart aprono la loro recente sintesi sullo stato attuale dell’antropologia economica: scrivono infatti che la crisi “ha opportunamente dimostrato che la questione non è soltanto un affare da eruditi antiquari” (prosegue su tamtàm democratico

La nuova Europa e le paure del Pd

(O anche: Idee e temi per l’Europa)

In cerca di conforto, ho aperto un libro, ma non dico subito quale per dare a tutti il medesimo sollievo. Vi ho trovato infatti la seguente affermazione: “La politica di una nazione non può essere condotta come un seminario di filosofia”. Siamo tutti d’accordo, credo; e la precisa consapevolezza che non è mai il momento di meri dibattiti accademici può aiutare particolarmente, in frangenti in cui le decisioni di un governo di professori devono maturare nel giro di pochi giorni, sotto la pressione dei mercati e il rischio concreto di fallimento: dell’Italia e dell’euro. Poi una seconda affermazione, nella stessa pagina: “Nel nostro paese il dibattito politico non raggiunge nemmeno il livello accettabile per una scuola superiore”. Seguono esempi; ma siccome non si parla dell’Italia, e siccome vale il vecchio adagio per cui un mal comune procura almeno mezzo gaudio, possiamo consolarci. E, soprattutto, collocarci: in mezzo tra il rigoroso convegno scientifico e l’arrabbiata assemblea studentesca.

È bene però sapere che un simile spazio non esaurisce affatto il dibattito pubblico. In termini politici si dirà: tanto il Pd quanto il Pdl avranno sempre, al loro lato, opinioni e forze che, dal punto di vista della loro collocazione, si situano alle estreme, e che proprio per questo possono coltivare irresponsabilmente tanto le teorizzazioni più astratte quanto gli atteggiamenti più protestatari. La fisiologia dei sistemi politici vorrebbe che il compito dei partiti maggiori fosse proprio quello di assorbire le spinte estremistiche. Mentre però nel corso della prima Repubblica la Dc e il Pci (i partiti-sistema) hanno svolto efficacemente questa funzione, non si può dire altrettanto dei loro succedanei durante la seconda Repubblica. Forse, la recente religione del maggioritario andrebbe giudicata anzitutto per la prova che ha dato su questo terreno.

Oggi si apre una fase nuova. Cosa ci sia a destra del governo Monti, con la rottura fra Pdl e Lega (e lo sbianchettamento del berlusconismo) si è fatto abbastanza chiaro, fra populismi, antieuropeismi e persino secessionismi che tornano ad esprimersi senza troppi infingimenti. Ma anche a sinistra c’è un vasto mondo di idee che la postura istituzionale del Pd relega inevitabilmente ai margini. O almeno: questo dovrebbe fare il Pd, senza paura, rivendicando con convinzione il proprio ruolo nazionale ed europeo. Facendone un punto di forza, non di debolezza. Non si agitano infatti alla sua sinistra bandiere improbabili come il diritto alla bancarotta o riti apotropaici come la maledizione dell’euro? La decrescita felice di cui si favoleggia nei collettivi di sinistra non è l’opposto speculare dell’austerità espansiva che si sono inventati fior di economisti a destra? Non c’è infine da evitare il rifiuto manicheo del dio malvagio della finanza, ma anche il rischio che, prima o poi, dopo il salario, spunti fuori la pensione come variabile indipendente?

Il fatto è che, dentro i vincoli dell’Unione, diverse idee di Europa sono possibili: non occorre affatto divincolarsi del tutto, per essere coerenti (e perdenti); si può invece elevare il dibattito pubblico all’altezza di quelle idee diverse. Messe le cose in questa prospettiva, posso quindi rivelare di quale libro si trattasse, all’inizio: de La democrazia possibile. L’autore è il filosofo liberal Ronald Dworkin, e il paese di cui si parla è l’America. È in America che Dworkin lamenta l’assenza di un dibattito pubblico degno di questo nome. Ed è in America che, per esempio, Dworkin non riesce a spiegare che una politica che abbia i titoli democratici in ordine è quella che si domanda: “che politica fiscale deve adottare un governo che intende riservare un uguale trattamento a tutti i suoi membri?”. Ed è sempre agli americani che Dworkin vorrebbe far capire che gli argomenti con i quali si sostiene che il reddito non ancora tassato è tutto di chi lo produce “mancano di coerenza”. Figuriamoci la coerenza: ci vuole troppa filosofia! Ma l’idea di Dworkin è che la distribuzione della ricchezza, come i diritti umani o il ruolo della religione nella sfera pubblica, sono temi che possono stare ben dentro il dibattito democratico, non solo nelle aule universitarie o nei collettivi studenteschi. Siccome alcuni di questi temi negli ultimi anni ne sono fuoriusciti, ad agitarli sembra ora che si pecchi di velleitarismo o di infantilismo.  Non è così. Ma siccome questi temi debbono rientrarvi, è bene separarli da quelli che, invece, ci terrebbero fuori dall’Europa.

Il Mattino, 12 dicembre 2011