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Se la croce e il velo sono vietati al lavoro

Reni

«Una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali»: così ha deciso la Corte di Giustizia Europea, respingendo il ricorso di una donna musulmana che chiedeva di poter indossare il velo sul luogo di lavoro. La Corte ha considerato che vi è discriminazione solo se «l’obbligo apparentemente neutro comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia». Siccome non è questo il caso, perché il divieto riguarda qualsiasi segno, «la politica di neutralità» è legittima e il capo deve rimanere scoperto.

Sembra ragionevole, ma non lo è affatto, e non è difficile spiegare il perché.

Poniamo che i giudici abbiano ragione di considerare discriminatoria solo la regola, quale che essa sia, che va a svantaggio di alcuni – individui o gruppi – e non di tutti. È evidente allora che una regola che proibisse la manifestazione pubblica del pensiero non sarebbe discriminatoria, se appunto valesse per tutti. Eppure, sarebbe una gravissima violazione di un diritto fondamentale. Ora, perché manifestare il proprio pensiero in materia di fedi religiose (o politiche o filosofiche) non dovrebbe essere considerato un diritto parimenti fondamentale? Perché proibire di esprimere il proprio credo non dovrebbe essere considerata una limitazione della libertà individuale, che sul luogo di lavoro può essere ristretta solo se la restrizione è giustificata dal compito che si è chiamati a svolgere?

Ieri la Corte ha deciso anche sul caso di un’altra donna: francese, musulmana, licenziata dall’impresa informatica presso la quale lavorava, a seguito alle rimostranze di un cliente infastidito dall’uso del velo. In questa sentenza, la Corte precisa che il motivo per imporre il divieto non può essere il desiderio del cliente di non essere servito da una donna che indossi lo hijab, e ha pure aggiunto che, per il diritto europeo, la religione di cui si parla, quando si parla di libertà di religione, «comprende sia il forum internum, vale a dire il fatto di avere convinzioni personali, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa».

E allora? Com’è possibile che un’impresa privata possa proibire il velo, cioè la «manifestazione in pubblico della fede religiosa», se essa rientra nella «libertà di religione», sancita nell’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea?

La disputa pro o contro il velo scuote la Francia da anni. In particolare, l’introduzione della legge sui simboli religiosi, promulgata nel 2004, ha riproposto un’interpretazione che potremmo dire aggressiva della laicità dello Stato, che, nella difficoltà di stabilire il confine varcato il quale l’esibizione di un simbolo religioso diviene la prevaricazione della libertà altrui di vivere in uno spazio aconfessionale, ha preteso di risolvere alla radice la questione, senza troppo preoccuparsi di bilanciare la laicità delle istituzioni con le esigenze personali di fede del credente.

L’idea è che dietro il velo – quelli integrali, come niqab e burqa, ma anche quelli meno coprenti, come hijab e chador – vi sia in realtà il rifiuto dell’integrazione e una sfida alla «République». Il divieto riguarda anche altri simboli, come la kippa ebraica, il turbante sikh, o le croci cristiani, quando siano troppo grandi e invadenti, ma è chiaro che la questione esplosiva riguarda la deriva radicale che si nasconderebbe dietro il velo islamico. Questa idea è scritta nella storia della Francia fin dai tempi della strage di san Bartolomeo, cioè delle guerre civili di religione che insanguinarono la Francia nella seconda metà del Cinquecento. Poi c’è stata anche la rivoluzione francese, con la Dea Ragione portata in processione, e il consolidamento di un patrimonio di valori repubblicani garantito non dalla libera convivenza pluralista delle fedi religiose, ma dalla costruzione di una sfera pubblica in cui quelle fedi proprio non comparissero.

Ora, non c’è bisogno di scomodare Habermas e la sua società post-secolare per riconoscere nelle tradizioni religiose qualcosa di diverso da una minaccia alla pace sociale, con il loro potenziale di intolleranza nei confronti dell’universalità della legge. Non è vero affatto che civiltà e religione viaggiano lungo linee opposte, e che il crescere dell’una è possibile solo al decrescere dell’altra. La preoccupazione perché si dia reciproco riconoscimento fra fedi e culture non può rovesciarsi nel suo opposto: in una volontà di assimilazione che, per assicurare la parità di trattamento a tutti i credi, si spinge in realtà a negare qualsiasi riconoscimento. Non si può realizzare l’integrazione sulla base dell’esclusione, e privare lo spazio pubblico dei depositi di senso che in quelle tradizioni sono contenuti. I nostri figli studiano nelle scuole pubbliche proprio quelle correnti di pensiero – religiose, filosofiche o ideologiche – che certi segni portano con sé perché costruiscono appartenenza, legame sociale: che senso ha allora impartirne l’insegnamento, se riescono pericolose al punto di doverne vietare l’uso? Per la verità, pericolose lo sono davvero, come lo è qualsiasi elemento di identità che non si lascia risolvere in uno spazio liscio e neutro, ma proprio perciò insignificante. Ma è pericoloso anche negare, quando in realtà ciò che viene negato è semplicemente rimosso, non cancellato ma spostato, sottratto alla vista. Perché il rischio che torni in altri modi e in altre forme esiste, e non è detto che saranno, quando saranno, modi (e toni) più morbidi e più concilianti. Meglio pensarci per tempo.

(Il Mattino, 15 marzo 2017)

L’addio che vale una domanda: che cos’è la fede?

Il significato di un gesto non si colloca mai soltanto nel campo delle intenzioni di chi lo compie. Ciò è tanto più vero, quanto più quel gesto è iscritto in una trama ampia di connessioni storiche, simboliche, istituzionali che lo trascendono, che lo sostengono ed a cui si sostiene. Per questo, tutte le analisi delle dimissioni annunciate da Benedetto XVI, le quali si soffermano sulle poche parole pronunciate in latino per congetture sul peso avuto dalle condizioni di salute, oppure sullo stato d’animo del Pontefice, o anche soltanto sulle circostanze più o meno contingenti che possono aver spinto l’uomo a compiere un gesto così clamoroso, possono tutte dare risalto al profilo psicologico oppure a più robuste dinamiche ecclesiali, e possono mantenere anche una doverosa forma di discrezione e rispetto per la figura di Joseph Ratzinger, ma riescono insufficienti, inadeguate per principio.

Di più: l’inadeguatezza è nelle cose stesse, poiché il significato del passo compiuto non sta in nulla di ciò che sia già accaduto, ma dipende in misura decisiva da quel che accadrà o potrà accadere. E non nelle prossime settimane, ma nei prossimi anni, nei decenni futuri. L’interpretazione di ogni gesto, e tanto più di un gesto così rilevante, è rimessa sempre al futuro. Per questo, non sono di particolare aiuto né i (rarissimi) precedenti storici, né i polverosi rimandi al diritto canonico: che la possibilità delle dimissioni sia perfettamente iscritta nella legge della Chiesa, infatti, non spiega nulla. E per la verità non sono sufficienti neppure le spiegazioni che cercano retroscena negli anni del Pontificato, oppure evidenziano difficoltà e resistenze incontrate dentro la Curia romana, o infine enfatizzano gli scandali, la «sporcizia della Chiesa». Non perché questi elementi non possono essere stati tenuti presenti, ma perché l’area di significato al quale appartiene il gesto di Benedetto XVI non è ancora tracciata: solo la storia (per i credenti: la Provvidenza) si preoccuperà di farlo. La storia, infatti, la fanno certamente gli uomini, come diceva Vico, ma con altrettanta certezza non sono semplicemente le loro intenzioni a farla (Vico sapeva anche questo).

Dove dunque guardare? Il gesto di Benedetto XVI, come ogni atto di portata storico-universale, si situa in un tempo del tutto particolare: non appartiene infatti al contesto presente, neppure ora che si sta compiendo sotto i nostri occhi; non è confitto in nessuna vicenda che si sia già consumata e con cui si possano già fare i conti. Appartiene invece a quella dimensione affatto particolare che è il futuro anteriore: è solo quel che «sarà stato», quando sarà riguardato dal futuro al quale appartiene, e in cui getta, con un inaudito carico di inquietudini, la storia stessa della Chiesa di Roma.

Non è, questo, solo un modo per lavarsene le mani, e rimandare al futuro lavoro degli storici la comprensione delle cause (e degli effetti, importanti almeno quanto le cause, e così difficili da determinare ora). Al contrario: è invece il modo per dargli il significato più teso di una domanda, rivolta alla Chiesa dal cuore stesso della Chiesa. Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty diceva che il mondo, il mondo tutto intero e ogni ente nel mondo, esiste allo stato interrogativo. Joseph Ratzinger ha portato lo stato interrogativo nella vita della Chiesa. Che il Papa, che il Vicario di Cristo lasci la sede petrina, non può non significare che va di nuovo domandato, con inaudita radicalità, che cosa significhi essere cristiani oggi. E, domanda non meno conturbante, che cosa significhi esserlo nella Chiesa e per la Chiesa. Se il Papa ha giudicato che le sue forze non fossero più sufficienti a portare il peso del magistero papale, ciò non vuol forse dire che ogni cristiano, e la Chiesa intera, deve nuovamente domandarsi come portare quel peso, che cosa significa la presenza della Chiesa nel mondo, essere pellegrini nella storia, essere non al passo coi tempi ma segno dei tempi?

In una simile domanda c’è tutto il senso insieme teologico ed esistenziale dell’essere cristiani: non c’è dunque nulla di straordinariamente moderno, come provano a dire scioccamente quanti intendono l’istituto delle dimissioni sul piede delle consuetudini giuridiche degli Stati contemporanei. Ma non c’è neppure nulla di tradizionale, se non altro per l’eccezionalità del caso. Il fatto è che tradizione e modernità, continuità e discontinuità sono convocate insieme dal gesto di Papa Benedetto XVI, e rimangono drammaticamente indecise, aperte tuttora alle possibilità della storia e, per i credenti, all’attesa fiduciosa e alla speranza.

(in versione ridotta, questo articolo è apparso su Il Mattino di oggi)

Il dialogo è scomodo. Ma senza dialogo siamo più poveri

Ma il cristianesimo è vero o no, in punta di fatto? La domanda non sembra proprio che possa essere aggirata, se è vero quanto diceva San Paolo ai suoi fratelli in Cristo: “Se Cristo non è risorto vana è la vostra fede”. Tutto ruota intorno alla resurrezione di Cristo. Hai voglia quindi a imbastire dialoghi fra credenti e non credenti, istituire cattedre, scrutare i segni dei tempi, o sforzarsi di capire le ragioni degli altri: alla fine bisogna tornare al punto, e chiedersi se Cristo sia davvero risorto oppure no.

Eppure non va così: non solo per il cardinale Martini, che al dialogo con i non credenti ha dedicato una parte fondamentale e insostituibile del suo impegno pastorale, intellettuale e spirituale, ma, oso dire, addirittura sulle strade del Vangelo. Lì, infatti, ad un certo punto, Cristo risorge. Così almeno narrano gli evangelisti. Secondo il racconto di Luca, Gesù apparve dopo la morte a due discepoli, in viaggio verso Emmaus, e camminò a lungo con loro. Senza essere riconosciuto ne ascoltò i discorsi, li interrogò, apprese così da loro stessi la delusione per la morte del Maestro e la confusione in cui erano stati gettati dalla scoperta del sepolcro vuoto. Allora Gesù interpretò per loro le Scritture, mostrando come esse si riferissero ovunque a lui come al Messia.

Ma non bastò. Non accadde nessuna rivelazione. Giunti al villaggio, Gesù fece come se dovesse proseguire il cammino, e solo dietro l’insistenza dei compagni di viaggio accettò di fermarsi a cena. E fu, allora, l’ermeneutica del gesto eucaristico, lo spezzare il pane ed il versare il vino, ad aprire finalmente gli occhi dei discepoli.

Orbene, io non sono un teologo né un biblista, ma voglio avventurarmi ugualmente nell’interpretazione di questi versetti, e provare a pensare che in essi si può trovare una buona ragione per dialogare e discutere anche quando non sia riconosciuta e stabilita preliminarmente e per tutti la stessa verità prima e ultima. Come non pensarlo, da parte almeno dei credenti, se persino Cristo risorto, nel Vangelo, non si impone con la forza dell’evidenza, ma prende la via del dialogo e dell’ascolto? Come non pensarlo, se alla fine della giornata Gesù accetta il rischio di aver discusso inutilmente, e fa per rimettersi in viaggio, con buona coscienza e senza rancore (immagino), e soprattutto senza aver ancora dimostrato se stesso e la verità? E come non pensarlo, da parte dei non credenti, che non possono certo dire, in prima persona, di essere la via, la verità e la vita, e non hanno dunque altro che le parole per mettere in comunione il vero?

Quando Carlo Maria Martini istituì in Milano la cattedra dei non credenti, sia da parte cattolica che da parte laica si ebbe quasi un moto di fastidio per questa tenace propensione al confronto, per una ricerca tesa, rigorosa e insieme aperta,  di possibili motivi comuni, che, a giudizio di quei severissimi censori, finiva col mettere da parte la pietra di inciampo decisiva, cioè la resurrezione di Cristo e insomma la verità della religione cristiana. Come se riflettere sul significato storico, culturale o antropologico della religione e delle religioni, oppure discutere di morale cristiana, morale laica, morale naturale, o ancora interpretare simboli e significati dell’esperienza umana del mondo e interrogare la costituzione filosofico-politica della modernità rappresentasse solo una perdita di tempo, fosse colpevolmente elusivo o costituisse comunque un modo di togliere dal tavolo la questione fondamentale. Che doveva essere e rimanere, nuda e cruda, la pretesa di verità della Chiesa. Altro che dialogo: da parte laica si manifestava chiaramente, in questo modo, l’ambizione di inchiodare i cristiani, e ancor più i cattolici, all’irrazionalità e finanche all’assurdità dei loro dogmi; da parte cattolica si protestava invece contro gli indebolimenti, i relativismi, i revisionismi e insomma tutte le aperture del cardinale. Vale a dire: tutto quello che si può dire lungo la via, prima che si faccia sera e si accetti o meno l’invito a restare a cena.

Eppure la Gaudium et spes  formulava espressamente agli atei l’invito a “voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto”. Il cardinale Martini fece lo stesso, e con lo stesso animo. Ancora: la Gaudium et spes giudicava l’ateismo uno dei fenomeni più preoccupanti del nostro tempo, ma offriva anche il riconoscimento che la civiltà moderna non è tale per essenza. E dunque: ora che stiamo assistendo all’esaurirsi della vena postmoderna, non sarebbe cosa assai importante riprendere il filo di una riflessione sul significato della modernità, su cosa mai essa sia o sia stata per essenza? E non sarebbe utile che credenti e non credenti continuassero a farlo insieme, discutendo e dibattendo fino a sera, nello stesso spirito di Carlo Maria Martini?

Le teste cadono

L’ultimo episodio di intolleranza. Cadono le teste dei filosofi che hanno creduto possibile un dialogo tra scienza e fede.

Il diritto di seppellire – Roberto De Mattei

Roberto De Mattei è uno storico, ed è stato a lungo Presidente dell’Associazione Lepanto. Roberto De Mattei è stato anche professore associato di Storia moderna nell’Università di Cassino. Roberto De Mattei è stato mio collega di Dipartimento. Dico al passato, perché credo sia stato trasferito.
Ma il suo nome è avvolto per me dal mistero, perché non credo di averlo mai visto nelle riunioni del Dipartimento. A volte ho pensato che potesse essere una buona idea appostarsi nei pressi dell’aula dove teneva i suoi corsi, per riuscire infine a vedere com’era fisicamente costituito un presidente di un’associazione come l’Associazione Lepanto. Sono stato sfortunato: ho sempre e solo incrociato un suo assistente, mai lui di persona. Forse usciva dalla finestra, forse si confondeva abilmente tra gli studenti: non so.

Roberto de Mattei ha spiegato al Foglio che parlare di testamento biologico ed eutanasia è per la Chiesa un segno di debolezza: "Mi spiego. Se parlo della fine della vita, dell’eutanasia, della morte cerebrale, non parlo di questioni che dividono i credenti dai non credenti, ma che semmai dividono le persone di retta ragione dagli irragionevoli. Credere che Eluana fosse una persona viva e non morta da diciassette anni, e che sia morta soltanto dopo che le sono stati tolti acqua e cibo, è un dato oggettivo di ragione. Dire questo non può dividere cattolici e non cattolici"
Roberto De Mattei ha ragione: dire che Eluana era morta diciassette anni fa non divide cattolici e non cattolici: divide Roberto De Mattei dal resto del mondo, nel senso che solo lui può sostenere che questo fosse il discrimine nella discussione su Eluana Englaro. Solo lui può credere che Beppino Englaro si stesse battendo per il diritto di seppellirre sua figlia, essendo lei già morta da diciassette anni.

Nota bibliografica 1: "Lepanto combatte il relativismo culturale e il "progressismo", sia in campo politico che morale e religioso, in quanto fattori di un processo di secolarizzazione e scristianizzazione che sembra preparare una prossima persecuzione della Chiesa. Queste offensive sono promosse soprattutto dalle forze socialiste e libertarie e vengono di fatto favorite dai mass-media".
Nota bibliografica 2: Sulla finis vitae De Mattei ha chiesto che "venga messa indiscussione questa nozione di morte cerebrale" che risponde più ad un approccio utilitarista determinato dalla pressione di coloro che praticano trapianti piuttosto che un atteggiamento precauzionistico". "Nessuno può dimostrare che la morte cerebrale determini la separazione dell’anima dal corpo e dunque la morte reale dell’individuo" ha continuato De Mattei. C’è un altà probabilità che quel corpo cerebralmente leso conservi ancora un’anima". Giusto! Ben detto! In dubio pro vita! Propongo vivamente che la nuova legge sul testamento biologico adotti il criterio proposto da De Mattei. Scriva il Parlamento che c’è morte reale quando l’anima si separa dal corpo. Niente timidezze, niente debolezze, per favore.

Wow

Ho letto con molto interesse l’articolo apparso sul Foglio, a firma di Benedetto Ippolito, in cui si dà brevemente conto di alcune delle posizioni proposte, su religione e morale, nell’ultimo Almanacco di Filosofia di Micromega: Flores, Fisichella, De Monticelli. Ma l’articolo finisce in bellezza, perché è sul finire che viene indicata la soluzione, nell’"avvenimento spettacolare della Croce e della Resurrezione di Cristo".

Avvenimento spettacolare. Già mi immagino, all’ora nona, le pie donne ai piedi della croce prorompere tutte estasiate in un rapito: "Wow!"

La religione non salva

(Ecco, qui sotto, l’attesissima noterella all’articolo di Mancuso. Chiedo all’autore la cortesia di considerare che trattasi di nota di commento su un blog, e che dunque ha la scioltezza che simili testi richiedono, anche quando sono colpevolmente lunghi. Il curatore del sito mi ha poi chiesto nei commenti di discutere di là, dve il testo di Mancuso è stato pubblicato. Lo farò, ma vista la lunghezza della nota mi pare sensato metterla anche qui)
Un po’ di faticose premesse (del che farei volentieri a meno, ma non voglio urtare la suscettibilità di nessuno): Mancuso scrive “perché sono cristiano”. Non: “perché sono cattolico” (e neppure “perché sono cristiano nel senso in cui si è cristiani nel 2007”,o “nel senso in cui il cristianesimo è definito qui o là, da Tizio da Caio o dalla Tradizione tutta"), sicché non comincerei col dire se sia o non sia vero cristianesimo, e se il cristianesimo sia o non sia un’altra cosa – col che non voglio neppure dire che una tale questione non sia importante, non abbia senso, storico e teologico, e non possa essere magari un punto di conclusione: dico solo che non comincerei così. Poiché peraltro non parlo a partire da una comunione nella fede, e chiunque può insegnare a me quale sia il vero cristianesimo (il vero cattolicesimo, la vera religione) mi soffermo solo sul tenore degli argomenti. Prima di farlo, farei osservare a chi si ritrae considerando che il cristianesimo è un’altra cosa:
che se il cristianesimo si è dovuto definire anche ‘contro’ pelagianesimo, arianesimo e un mucchio di altre cose, deve voler dire che pelagianesimo, arianesimo e queste molte altre cose sorgono su un terreno comune, sul quale ci si definisce e distingue. Non vedo quale utilità vi sia a considerare certe partite chiuse per sempre, e a non riconoscere peraltro l’ovvio: che Mancuso sa bene – mi pare – che il suo cristianesimo non è quello di Paolo o di Agostino. Lo sa così bene che lo scrive, nel libro (così come scrive e rende espliciti nel libro i suoi dissensi su diversi punti, anche teologicamente molto rilevanti): obiettarlo non è perciò molto utile;
che ritraendosi in questo modo riesce difficile dialogare con chi non ha analoghe preoccupazioni di aderenza al vero cristianesimo, o con chi considera che questa ricerca sulla verità del cristianesimo possa e debba svolgersi anche al di fuori (non necessariamente contro) il dettato della Chiesa.
Ciascuno può dire sia che il suo cristianesimo è diverso da quello di Mancuso ed è più vero perché più fedele, sia che il cristianesimo della Chiesa cattolica è diverso da quello di Mancuso ed è più vero perché è quello della Chiesa cattolica. Nessuna delle due posizioni è disprezzabile, in sé e per sé: solo che non contiene, formalmente parlando, un argomento (il che non è necessariamente un male sotto ogni possibile punto di vista).
Ciò premesso, e chiarito dunque che io non discuto di tutto ciò (benché sia molto interessato a conoscere, in particolare, la replica di Mancuso alle osservazioni che gli ha rivolto sull’Ossevatore romano mons. Bruno Forte), vengo a questo testo.
Anzi: non ancora.
La ragione per cui mi ha colpito sta infatti già nel libro (di cui ho parlato su Left Wing). Mi pare che nel libro Mancuso conduca il tentativo di rendere plausibili (ragionevoli, comprensibili, e soprattutto compatibili con le scoperte della scienza moderna) una serie di asserti tradizionali, che appartengano o no al nucleo dogmatico della fede, ma dai quali tuttavia pare a lui che dipenda il significato autentico dell’esperienza cristiana. Se io ad esempio credo che risorgerò, cosa propriamente credo? Se Mancuso si propone di rispondere a questa domanda, obiettargli che la sua risposta non è in linea con la dogmatica, o con il nucleo vero della religione cristiana (cattolica), si può fare, naturalmente, e ha la sua importanza, ma non è una risposta alla domanda, a meno di non esplicitare quel nucleo (e l’intellegibilità in questione). Altra cosa è obiettare che non c’è risposta a questa domanda. Ma proprio qui sta la preoccupazione di Mancuso, il quale forse potrebbe rispondere (o almeno: io rispondo): d’accordo, ma allora quanto è estesa l’area di ciò che va creduto senza che sia perciò intellegibile? Non si starà cioè estendendo un po’ troppo, con l’avanzare della scienza? E, dopotutto, la fede non cerca l’intelletto? E cosa, oggi, trova? Altro esempio, su un punto sul quale Mancuso molto si esercita, nel libro: il peccato originale. A me ha sempre molto interessato (in negativo) la posizione di Pascal: è una roba incomprensibile; ma senza, l’uomo è ancora più incomprensibile. Qui non si dà ‘spiegazione’ del peccato originale, ma si accetta perché quella tal cosa consente di ‘spiegare’ quel’altra (l’uomo). A me interessa ora questo: non se sia cristiano chi nega il peccato originale (è abbastanza evidente che in Agostino ci sia eccome, e se Agostino è il cristianesimo, chi lo nega non è cristiano, ma così è troppo facile), ma se sia vero, e come mi possa essere reso comprensibile il dictum di Pascal, e se sia vera l’antropologia che essa fonda (o meglio, su cui è fondato). Mancuso dice che no – mi pare –, che per comprendere le più autentiche esperienze spirituali dell’uomo e avere un ‘corretto’ rapporto con Dio non c’è affatto bisogno (ed anzi è forse dannoso) pensare che l’uomo stia nell’eredita del peccato. Obiettare a Mancuso su questo punto non può consistere allora nel citare Agostino, ma nel sostenere con argomenti l’antropologia 8e l’etica, e l’ontologia) ‘concorrente’.
Io qui mi limito a una domanda (se Mancuso può rispondere, sono particolarmente lieto): perché nel libro lo sforzo di rendere plausibile l’esistenza dell’anima e il suo destino dopo la morte viene condotto solo (quasi solo) nei confronti della scienza. A mio giudizio, c’è lì molta poca filosofia della natura, e molta scienza della natura (forse troppa): con la conseguenza che certe proposizioni cardine (per Mancuso), che l’anima ad esempio è "una forma di energia", non potendo essere prese letteralmente (l’energia di cui parlano gli scienziati è misurabile, quella in cui consisterebbe l’anima no, almeno non ancora), si risolvono in mere metafore. E non vedo quale vantaggio vi sia nel sostituire una metafora ad un’altra. Sono metafore in cui è scoperta l’impossibilità di prenderle alla lettera, e dunque al più sono ausilii dell’immaginazione, non della ragione. Non sono metafore assolute e irriducibili: lo scienziato che legge quelle parole, domanda infatti cosa significhino, e non può trovare che ad esse sia stato dato un significato per lui valido, secondo i criteri del suo sapere. E allora, per rintuzzare queste obiezioni, ci vorrebbe casomai un po’ di filosofia – salvo il fatto che la filosofia ha a sua volta, e di molto, modificato (o anche solo messo in questione) il senso di parole come ‘anima’, (o ‘verità’, o qualunque altra cosa: è il lato che Ratzinger, quando critica la razionalità scientifica troppo ristretta, troppo angusta, dimentica sempre di considerare).
 
Ciò detto, vengo a questo testo (ci vengo davvero).
Mancuso nega che l’evento accaduto a Gesù abbia valore salvifico per noi. E’, da questo punto di vista, un segno dimostrativo – suppongo al modo dei miracoli, che Gesù compiva: nessuno pensa che la verità del cristianesimo dipenda dalla verità dei miracoli compiuti da Gesù. Sicché è legittima la domanda: ma cosa, nella vita o nella morte di Gesù, ha valore salvifico per noi? Mancuso dice che l’eventuale ritrovamento delle ossa di Gesù non modificherebbe la sua fede, Ma la sua fede sarebbe modificata se qualcuno dimostrasse irrefutabilmente la non esistenza storica di Gesù? Dopotutto, è una verità di fatto, che Gesù sia esistito: il che significa che è possibile che non sia vero che Gesù è esistito. Se si scoprisse che è stata tutta una gigantesca montatura, cosa nella verità del cristianesimo a cui Mancuso tiene sarebbe compromesso (a parte la mascalzonaggine dei testimoni che hanno così spudoratamente mentito, architettando la bufala, ma che non rientra – se non ho capito male – nei contenuti di fede da cui dipende la salvezza secondo Mancuso)?
Mancuso afferma di essere discepolo di Gesù per le sue parole, non perché è risorto. Quindi: se anche non fosse risorto. Se anche non fosse esistito. A meno che non ritiene che solo Gesù, in quanto Figlio unigenito del Padre, ha potuto dire quelle parole. Ma non credo che pensi questo, perché non v’è nulla – mi pare – nel suo libro, che fondi la necessità che a dire/rivelare quelle parole (la verità di quelle parole) fosse la seconda persona della Trinità, in quel tale anno, a quella tale ora.
Il significato delle parole di Gesù è eterno, universale. Che siano state pronunciate o meno. Dunque il fatto che siano state pronunciate è irrilevante. Io capisco che un cristiano si ritragga e dica: questo non è cristianesimo, qui non c’è incarnazione, non c’è Dio nella storia, ecc. ecc.; la mia domanda è però un’altra (ed è qui proposta in maniera necessariamente sintetica): ha qualche interesse per Mancuso lo sforzo critico, genealogico, decostruttivo, che la filosofia ha compiuto per revocare in questione quest’idea intemporale della verità (l’idea intemporale, e l’intemporalità dell’idea)?
(En passant, mi colpisce molto il fatto che Mancuso scriva polemicamente: non è così, Gesù non è un agnello “destinato” ad essere immolato ancor prima di essere nato. D’accordo, direi: ma vi sono teologie che hanno pensato l’economia di questo piano della salvezza con modalità diverse da quelle della fredda necessità: perché non le prende in alcuna considerazione?).
 
Altra domanda: se a Mancuso non importa, nel senso che non è nel centro della sua fede viva, la resurrezione dell’uomo Gesù, perché gli importa rendere comunque la cosa plausibile dal punto di vista della scienza? Perché gli importa la risposta alla domanda: “Che fine ha fatto il cadavere di Gesù?” Non sarebbe molto più ragionevole dire che non è risorto, visto che non c’è al momento nessun spiegazione scientificamente accettabile della scomparsa completa del cadavere? Quella resurrezione è un segno. Ma senza quel segno, nulla nell’essenziale cambia, per lui. Perché non dovrebbe allora giungere il tempo di rinunciare a quel segno? Perché i tempi non potrebbero essere maturi? Perché non potremmo avere raggiunto la piena maturità spirituale? Lui però scrive che per il cristiano non c’è altra via che immaginare che sia stato assorbito in una dimensione dell’essere “di cui non abbiamo idea”. Se non ne abbiamo idea, non abbiamo idea neppure di cosa significhi qui assorbimento. E dunque. L’altra via, invece, c’è (ci sarebbe): dirsi cristiano perché si crede nelle parole di Gesù, e lasciar perdere la resurrezione del corpo. Naturalmente, non sto minimamente dicendo che questo sia il vero cristianesimo: dico solo che non capisco perché Mancuso difenda quel ‘segno’, quando mostra che può benissimo farne a meno, ed anzi facendone a meno toglie al suo discorso un impaccio (nel libro, tale mi sembra appunto l’evento pasquale: un impaccio. È l’unico punto, mi pare dica Mancuso, su cui ci vuole un atto di fede ‘cieco’, o quasi. Il resto si può aggiornare e rendere plausibile, questo no).
 
Mancuso conclude infine con le parole: “Non è il cristianesimo a salvare gli uomini, come non li salva nessun altra religione. Non è la religione che salva gli uomini, gli uomini non si salvano perché sono religiosi”. Ai miei occhi, il valore spirituale di queste parole è immenso. Solo per queste parole, Mancuso avrà la mia simpatia sempre (qui non sto argomentando, mi rendo conto). Vorrei però che avesse anche quella dei cristiani! E cioè: perché non lasciare ai cristiani (mi si consenta la leggerezza di questo modo di esprimersi) la loro fede ‘storica’? E perché non cercare (essendo cristiani) di pensare magari non che Gesù è venuto ‘inutilmente’, ma che è venuto a mostrare utilmente l’inutilità di ogni venuta? Perché, più in generale, non pensare, da cristiani, a come la verità di quelle parole possa stare insieme con la verità teologica di Gesù, morto e risorto per noi, che invece Mancuso finisce col vanificare (mi pare)? Mancuso mi sembra escluda che quella verità e questa possano stare insieme; all’opposto, la Chiesa mi pare escluda (con qualche tenerezza per gli uomini qua e là), che questa verità e quella possano stare insieme. C’è qualcuno che si candida a provare invece che possono stare insieme?
(Dico fra i cristiani, per raccogliere l’esigenza posta con quelle parole da Mancuso ai cristiani, invece di obiettare che è pelagianesimo, che è arianesimo, che è un qualunque -esimo già condannato dalla Chiesa ufficiale? Per la mia piccola parte, ho detto invece quale problema ho: la filosofia)

Ratzinger e Kant (un po' in fretta)

Mons Bruno Forte, intervistato da Alessandro Lanni, dice: quel che Benedetto XVI mette in evidenza è l’incompletezza di certe proposte (scienza, tecnica, progresso). D’accordo. Ma ciò con cui si è cimentata la filosofia nel ‘900 non è solo o tanto la caccia alla proposta completa, ma la critica della completezza (con l’avvertenza – qui piuttosto oscura – che questa critica non necessariamente si conclude all’affermazione che, dunque, siamo incompleti, poiché in questione è piuttosto il senso della completezza, e quindi anche dell’incompletezza). Invece la proposta di Forte è: ti faccio la critica di ogni costrutto umano/mondano, che è incompleto, e così lascio spazio al completamento. Non nego i penultimi (sono rispettoso della scienza), ma li critico quando credono di essere gli ultimi (lo scientisimo). E per giunta so io bene dove pescare gli ultimi. Si vede subito che in questo modo qualunque contributo della filosofia circa il senso di ciò che è ultimo e di ciò che è penultimo viene mancato. (Mentre Forte ha ragione nel sottolineare che una tale riflessione manca anche in chi semplicemente non vede il problema).

E se mons. Forte dice che il Papa dialoga con Kant, piuttosto che con Dawkins, io son contento, ho la stessa preferenza, ma poi penso che forse Kant non lo ha capito bene, perché è proprio di un intendimento superficiale di Kant che si tratta qui – l’intendimento che, fra l’altro, sta dietro le parole citate sotto [eccovi svelata la soluzione, e complimenti ad adlimina]: ho dovuto distruggere il sapere (lo scientismo) per far posto alla fede. Questo è però solo una prima presentazione del problema critico. Ma il senso della critica è, contemporaneamente, all’inverso: ho dovuto fare di Dio un problema senza soluzione per far posto all’uomo. Senza di che, Kant resta un libro chiuso.

(Lascio perdere per mancanza di tempo il resto dell’intervista, in cui c’è dell’altro. Ma in breve, non mi va quando la si mette come se si trattasse di scegliere: ti piace di più quel che combina l’uomo emancipato, o l’uomo non emancipato dal bisogno di Dio? Ammesso pure che mi piaccia di più il secondo, qui non si tratta di quel che piace o piacerebbe a me. E non mi va neppure quando la si mette come se ci fosse un implicito da esplicitare, e non mi va non solo per le ovvie ragioni che si possono immaginare, che anche così la si fa un po’ facile, ma non mi va proprio la logica dell’implicito e dell’esplicito. Questo però non si capisce, me ne scuso e vi saluto).

Come sarebbe perciò (e una quaternio terminorum)

"Basta leggere un libro di biologia o mettersi al microscopio per capire che ricerca scientifica e Vangelo non sono in contrapposizione": così Massimo Castagnola, docente di chimica e biochimica dell’Università Cattlica del Sacro Cuore di Roma, rassicura i lettori di Presenza, rivista della Cattolica di Milano, nell’ultimo numero (non online) dedicato alla visita del nuovo Papa.

Però è curioso: chissà come Castagnola immagina che sia fatta una contraddizione col (e nel) Vangelo, questo manuale di biologia e logica in uso presso antichi popoli mediterranei un po’ di anni fa. E chissà che uso fa del microscopio Castagnola, e cosa riesce a vedere grazie ad esso! Vede forse una molecola e pensa: no, questa non contraddice, vediamo quest’altra?

Notevole è pure questa affermazione: "La visione molecolare del mondo non potrà mai fornire una base razionale al logos". Che uno potrebbe dire con cattiveria: dunque questo logos è infondato! Oppure chiedersi perché Castagnola vuole una base razionale per il logos, visto che è come chiedere una base logica per il logos, o una base razionale per la ragione.

L’ultimo passo (della prima colonna, oltre non vado) è cucito con un ‘perciò’. Detto che la visione molecolare "non può dare risposte definitive o in qualche modo trasferibili a considerazioni trascendenti", Castagnola aggiunge: "Il ricercatore perciò non può manipolare il campione biologico utilizzando metodi che non rispettino la vita e la sua trascendenza". Perciò? Come sarebbe: perciò?

(Poi c’è un articolo di Galvan, docente di logica e filosofia della scienza alla Cattolica di Milano. Il quale dice che la scienza è aperta. E’ aperta perché ultimamente infondata (come qualunque impresa conoscitiva umana), è aperta perché lascia inspiegati i "problemi ontologici di fondo". L’una e l’altra cosa – aggiungo io per riassumere l’articolo – si vedono bene dal fatto che puoi sempre chiedere: ‘perché?’. Galvan conclude: "se la scienza è aperta, essa è anche disponibile a passare la mano alla filosofia per la discussione, aperta alla trascendenza, dei tradizionali temi concernenti l’origine metafisica del mondo e della soggettività". Figuratevi se io non son contento: la scienza passa la mano alla filosofia! Però: 1. lo scienziato che passa la mano può sempre aggiungere: la passo a te, filosofo, perché non si tratta più di sapere: fregato!; 2. Galvan dice "trascendenza", e con una sorta di quaternio terminorum, lascia intendere che quel che trascende la scienza è trascendente in senso religioso, metaempirico. E invece può essere trascendentale, o rescendente, o immanente o non so cosa).

Punto

Ma la secolarizzazione: a che punto siamo? A buon punto, a un punto di non ritorno, a un punto morto, a un punto fermo? Ora ve lo dico con precisione:
siamo a 1,740 (al 2001).
Si trova in rete il primo rapporto sulla laicità in Italia (pdf) curato dalla rivista Critica liberale, con un accurata misurazione statistica del processo di secolarizzazione della società italiana, fondato su un ben articolato sistema di indicatori (il numero che ho riportato è ovviamente comprensibile solo all’interno di tale sistema).
Ma il fascicolo contiene anche un intervento di Carlo Augusto Viano, etica laica ed etica cattolica.
Del quale non si capisce il titolo: che ci fa nel titolo la d eufonica, visto che di eufonico Viano non trova nulla? E anzi comincia col dire che, ben lungi dal rafforzarlo, la religione indebolisce il comportamento morale. Io, per me, accolgo l’interpretazione più morbida: religione e morale non sono la stessa cosa e possono entrare in conflitto.
Dopodiché, non mi dispiace affatto la formulazione conclusiva della morale laica di Viano: “Autonomia delle persone, disobbedienza alle autorità religiose, ricerca del libero accordo tra individui e uso di considerazioni sottoponibili al pubblico controllo sono i requisiti fondamentali di un’etica laica”. Mi dispiace invece che Viano mostri di considerare teologia e filosofia (leggi: metafisica) solo come pesanti bardature di cui liberarsi. (Tra l’altro: come se teologia e filosofia fossero la stessa cosa). Eppure, quando dà una prima formulazione della morale laica, frutto esclusivo di scelte individuali, aggiunge prudente che pone “notevoli problemi teorici”. Un’etica laica totalmente individualistica è “teoricamente problematica”. Un filosofo, quando incontra un problema teorico, ci si ferma un po’ su. Viano, no. Non a quel punto.

L'esistenza di Dio

Il capodivisione Tuzzi (che per chi non se ne ricordasse più è quello che non ha ben capito cosa sia la grande azione parallela) s’è finalmente rimesso al computer, e ha postato la presentazione della conferenza che il prof. Tomatis terrà su mio invito stamane, ore 10.00, all’Università di Cassino, sul tema: L’esistenza di Dio. Tra Kant e Schelling
(Non è che di solito io scriva di questi testi, ma ora ho un blog, e me ne faccio uno scrupolo – scrupolo non filologico perché, al solito, dubito che leggerò).
 
(Che non è per vantarmi, ma se sull’insuperabile Google cercate il capodivisione – anche così -, trovate quasi soltanto questo blog e dintorni. Posso dunque dire con orgoglio: "il capodivisione c’est moi!")

Dal più facile al più difficile

Le domande di Renato Farina a Piero Fassino: "1. Può essere la fede cattolica qualcosa di ‘assolutamente privato’? D’accordo, è una faccenda intima, riguarda la coscienza, dove il sì o il no può essere pronunciato solo a tu per tu con il Mistero. Ma poi, finita lì, ce la giochiamo come ognuno crede? Questa idea mi pare molto somigliante a quella teista o deista, insomma a quella massonica. […] Ma questa segretezza della fede cosa c’entra con la confessione cattolica? […] Perché confondere le idee al prossimo sostenendo non di essere di cultura cattolica [sott. mia], ma proprio di fede apostolica e romana? […] Privatezza del cristianesimo? Peggio dell’ateismo. Lo dice Papa Benedetto. Nel suo ultimo libro egli sostiene che la tragedia dell’Europa consiste esattamente in ciò di cui Fassino fa vanto, ovvero la riduzione del cristianesimo a fatto privato […] Un Dio che serve come tappabuchi per i problemi spirituali e come propellente  etico, ma non c’entra mai con la forma del mondo [sott. mia], che Dio è? Un re fannullone appunto. Poi al resta pensa il Partito Comunista Italiano, anzi l’Unione… […] 2. E qui siamo all’altro punto. Si può essere cattolici e contemporaneamente aderire a un qualsiasi partito, purché piaccia? Anche a un partito comunista? […] Ad esempio, non ci si può definire politici cattolici e sostenere la legge sull’aborto o quelle sull’unione gay, la fecondazione artificiale e l’eutanasia […]".

Cominciamo dal facile. Se uno crede nell’esistenza di Dio, nel Figlio e nello Spirito Santo, nella resurrezione dei morti e nella vita che verrà è, credo, indubitabilmente cristiano. Se poi uno crede anche nell’Immacolata Concezione, nella Comunione dei Santi, nella Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, è, credo, indubitabilmente cattolico. Se Fassino crede tutto questo è cattolico o no? Se poi non crede che la Chiesa la imbrocchi sul divorzio e sull’aborto, sull’unione gay e sull’eutanasia, che non la imbrocchi sul modo in cui regolare per legge queste faccende, è ancora di fede cattolica o no? Penserei di sì, e penserei anzi, al contrario di quel che dice Farina, che è proprio la cultura cattolica, e non la fede, il problema.

Passiamo al più complicato. E’ la religione, e la religione cattolica in particolare, un fatto privato? Direi di no, storicamente e, pure, antropologicamente. (Il protestantesimo vi si avvicina, ma proprio per ciò tende ad assottigliarsi il suo senso religioso). Ciò detto e riconosciuto, c’è ancora molto da fare: fede e religione sono la stessa cosa? No: sia detto chiaro e tondo. Possono le forme religiose di vita cambiare? Penso di sì. Vi è un solo modo di articolare la relazione pubblico/privato, vi è un solo modo in cui una cosa è privata, e un solo modo in cui è pubblica? Penso proprio di no. Bisogna tenere in qualche considerazione il pluralismo delle confessioni religiose? Credo, auspicabilmente, di sì. Sono le singole confessioni religiose capaci di tenere conto di un simile pluralismo? Di fatto e per fortuna: sì, ma in certi casi di più, in altri (molti altri) di meno. In linea di principio: sì, se la parola ecumenismo non è solo una bella parola. Sì, se ci si impegna seriamente, e non si comincia dall’idea che la verità è possesso di qualcuno. Quest’ultimo punto è un punto di fede cristiana? Non mi pare, è un punto teologico (ma questo è solo un mio parere). Il che significa che per un cattolico ha forse a che fare con l’obbedienza a certi pronunciamenti dottrinali, ma non so bene fino a qual punto (fin dove cioè chiama in causa la sua appartenenza alla Chiesa). Quel che so, è che non ha a che fare necessariamente con la fede cristiana. Che la verità della fede abbia un carattere esclusivo, questo non appartiene all’essenza di quella fede.

Concludiamo col più difficile. La verità è di questo mondo? Se non è di questo mondo – come qualcuno deve avere pur detto -, è indifferente al mondo e per il mondo? Temo che nessun cattolico e nessun cristiano risponderebbe che sì, è indifferente al mondo e per il mondo. Ne sarebbe anzi inorridito. Temo che non troverei molti cristiani disposti a farsi un giro intorno a questa scandalosa indifferenza al mondo e per il mondo, e forse quasi nessuno disposto a considerarla il vero modo di fare la differenza (il vero modo di aver cura del mondo). D’altronde: non riuscirebbe una simile differenza invisibile, proprio perché indifferente? Ahimè sì. E così non sarebbe indistinguibile dal propellente etico, dal fatto assolutamente privato? Ahimè, sì. Lo confesso: non si saprebbe far valere, una simile differenza. Finirebbe crocifissa.

 

Voglia di studiare

"Un Dio che esiste [es gibt] non esiste [D. Bonhoeffer]. Un Dio che c’è […] che è un oggetto, visibile, dimostrabile, raggiungibile, come un punto fermo, francamente non c’interessa: è il Dio dei filosofi, non di Abramo Isacco Giacobbe – come diceva Pascal". Con un esempio: "dire di un fine che esiste è un problema: un fine che esiste non c’è, non si dà". Così Gianni Vattimo. Lo potete ascoltare in questo sito dedicato alla cattedra dei non credenti dal vescovo di Fano (la citazione di Vattimo si trova nella seconda parte, al minuto quarantesimo). Lo so che molti credenti non gradiscono queste derive ermeneutiche…

…e allora un bel balzo: "Si delinea nella cultura europea della sinistra un filone anticristiano che vede nel riferimento a Dio e alla natura umana, cioè a un principio morale e religioso, una negazione della libertà: una nuova forma di ateismo che, rispetto a quella comunista, chiameremmo nichilista e non più rivoluzionaria". Qui i credenti riscoprono, grazie a Baget Bozzo (L’anticristianesimo di Prodi, su Il Secolo XIX di oggi) che se la prende con Prodi e i Pacs, che per essere buoni cattolici bisogna darsi come un bel punto fermo, un oggetto visibile, dimostrabile, raggiungibile, non solo Dio, e passi, ma pure la natura umana (nei termini che si leggono dove: nella Bibbia, in Agostino, nei manuali scientifici correnti?).

P.S. che razza di link, direte voi. Ma è andata proprio così, che ho letto Baget Bozzo mentre ascoltavo Vattimo. (E’ andata così, aggiungo, perché stamane la voglia di studiare, ahimè non c’è).