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Se il pensiero meridionale si fa europeo

Quattroartchitetti

Voci diverse, ma finalmente voci. Il forum organizzato dal Mattino ha portato al teatro Mercadante il premier Paolo Gentiloni, i ministri Calenda e De Vincenti, intellettuali e imprenditori, politici e giornalisti, invitati a ragionare insieme sul futuro del Mezzogiorno.

Si è chiamata, lungo tutto il corso della storia repubblicana del Paese, questione meridionale, ma si ha timore, quasi vergogna, a darle ancora questo nome. O almeno: appena la si nomina, occorre munirsi di appropriate virgolette che la precisino, la chiariscano, la distinguano da tutto ciò che nel passato ha potuto significare o con cui ha potuto confondersi: assistenzialismo, statalismo, familismo.

Alla buonora, però: con tutte le precauzioni del caso, il Mattino, da giornale di Napoli, giornale della capitale del Mezzogiorno, prova ostinatamente a riproporla, a reimmetterla nel dibattito pubblico, e a misurare le proposte del governo e delle forze politiche su questi temi: come si colma la distanza fra il Nord e il Sud d’Italia? E poi: come si trattengono i giovani al Sud, senza costringerli a cercare altrove? Come si creano nuove opportunità di lavoro, all’altezza delle nuove sfide della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica? Come si fa a far funzionare la pubblica amministrazione?

Voci diverse, si diceva. Perché un conto è ritenere che la strada dello sviluppo sia, sotto qualunque latitudine o lungitudine, una sola, fatta, nell’ordine, di investimenti, imprese e occupazione. Un altro, se non tutt’altro, è ragionare invece nei termini di un impegno prioritario che la politica deve assumersi verso il Mezzogiorno, se vuole tenere insieme ed evitare che vada in pezzi un Paese profondamente duale. Un conto è pensare che tutto sta o cade con la selezione di una nuova classe dirigente meridionale, capace ed efficiente; un altro, se non tutt’altro, è affermare innanzitutto l’esigenza di politiche speciali per il Sud, come ha detto nel suo intervento di apertura il premier (con il governatore De Luca che ne prendeva atto con soddisfazione, mista però a un prudente scetticismo).

Le due cose, naturalmente, non si escludono l’un l’altra. Il ministro Calenda ha tutte le ragioni del mondo quando manifesta la sua incredulità per il ricorso al Tar presentato dal governatore della Puglia, Emiliano, al fine di bloccare un investimento di 5,3 miliardi di euro: «caso unico nel globo terracqueo». Ma qualche ragione ce l’ha anche chi osserva che la sola stagione nel corso della quale si è ridotto il gap fra Nord e Sud, cioè nei primi decenni del secondo dopoguerra, è stata segnata, più che dalla chiaroveggenza intellettuale o dalle specchiate qualità morali della classe politica, dalla continuità e intensità dell’intervento straordinario.

Se non che l’applauso più convinto dal pubblico dei giovani presenti in sala ieri lo ha raccolto l’esponente dei Cinquestelle, Roberto Fico. Non però per le ricette economiche che ha proposto alla platea: su questo versante, anzi, Fico quasi non è entrato, limitandosi piuttosto a ribadire che, Nord o Sud non importa, per i Cinquestelle la madre di tutte le battaglie è il reddito di cittadinanza. No, Fico ha ricevuto l’applauso più grande e spontaneo quando se l’è presa con le raccomandazioni e il nepotismo nell’università.

Non v’è dubbio che questo sia l’umore prevalente nell’opinione pubblica del Paese, e che dunque la risposta venga cercata meno dal lato delle politiche, e di strategie di medio-lungo periodo che nessuno ha più il tempo di aspettare, e molto più nei termini di una protesta moralistica (a volte più rassegnata che bellicosa) nei confronti di classi dirigenti percepite come corrotte e inconcludenti.

È una risposta sufficiente, oppure è un gigantesco diversivo di massa? Se per esempio potessimo sostituire tutti gli amministratori pubblici delle regioni del Sud, con i cento uomini d’acciaio, «col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile», di cui parlava un grande meridionalista, Guido Dorso, riusciremmo anche ad eliminare d’incanto la questione meridionale? È lecito dubitarne. Ed è dubbio pure che se gli uomini fossero mille, invece di cento, il problema sarebbe risolto. L’idea che vi sia una società meridionale viva e vitale, soffocata dalla cappa mortifera di una politica immorale, incapace e disonesta, non spiega per intero il divario che separa il Sud dal resto del Paese.

Ma intanto, qualche passo avanti, almeno nella discussione, si è fatto. Se non altro perché da nessuna parte si sono ascoltati accenti queruli e meramente recriminatori, o certi arroccamenti identitari costruiti su improbabili revanscismi storici, oppure lungo percorsi meridiani irrimediabilmente lontani dalla modernità e dall’Europa.

Nulla di tutto questo: non era nello spirito di questa giornata, e non è sulle colonne di questo giornale. È stata piuttosto una proficua giornata di confronto pubblico, e non ci si può non augurare che non rimanga isolata.

(Il Mattino, 12 dicembre 2017)

Il meridionalismo dell’orgoglio terrone

Kandinsky Intorno al cerchio 1940

V. Kandinsky, Intorno al cerchio (1940)

Chissà dove un nuovo meridionalismo potrà attingere, per ripensare la questione meridionale. Lo scorso anno, Gianfranco Viesti e Carlo Trigilia hanno provato a mettere in fila gli effetti che la crisi ha avuto sull’economia del Mezzogiorno: un calo del Pil doppio di quello del Centro Nord, la caduta degli investimenti; il forte ridimensionamento del settore manifatturiero; l’ulteriore emorragia di occupazione; la crescita della povertà delle famiglie; la riattivazione dei flussi emigratori; il calo demografico per effetto di un abbassamento del tasso di natalità.

Lo scenario completo, ricordavano gli autori, deve però tenere in conto anche i segnali positivi: la forte crescita del turismo, la vivacità imprenditoriale nel settore delle start up, i settori industriali che realizzano performance positive anche negli anni più bui della crisi, la stessa tenuta degli equilibri sociali, non facile agli attuali livelli di disoccupazione.

A questo quadro vanno ad aggiungersi ora i dati confortanti che l’Istat ha fornito sulla produzione industriale nell’ultimo anno, con la Campania che cresce più della media nazionale e del Centro Nord. La direzione presa dalle politiche pubbliche, a livello nazionale e regionale, sembra insomma che stia dando i primi frutti.

A leggere però il racconto che del Meridione fornisce «Attenti al Sud», il libro che raccoglie le testimonianze di quattro scrittori meridionali («il pugliese Pino Aprile, il napoletano Maurizio De Giovanni, il calabrese Mimmo Gangemi, il lucano Salvatore Nigro») sembra che la questione meridionale non sia una questione legata alle strategie di sviluppo economico di queste terre, bensì soltanto una questione di identità. O, peggio ancora, che sia solo la questione di come sia distorta la rappresentazione più o meno stereotipata che di questa identità viene offerta nei media nazionali, nella pubblicistica corrente, da ultimo magari nelle serie televisive in stile Gomorra.

Così i quattro autori provano a raccontare un Sud diverso: Nigro sceglie di mostrare quanto sia da riscoprire la tradizione letteraria meridionale, e in particolare lucana, di cui si sa ancora troppo poco; Gangemi spiega che la Calabria è terra di ‘ndrangheta, ma questo non vuol dire affatto che tutti i calabresi siano ‘ndranghetisti; De Giovanni sostiene che i meridionali questa benedetta identità se la vedono appiccicata addosso dagli altri e finiscono col subirla; Aprile infine prova a sostenere che al mondo nessuno può essere orgoglioso della sua storia e della sua cultura più del popolo meridionale. Non solo, ma «Mentre il Nord sta dissanguando il paese, per tenere in piedi le cattedrali di una religione perduta, ovvero quella industriale, il Sud, con una scarpa e una ciabatta (come dicono a Roma), sta reinventando il mondo».

Nientemeno! Quest’ultima tesi è francamente assai ardita, ma è la più indicativa di una certa maniera di affrontare il tema del divario fra Nord e Sud sulla base di tre, caratteristiche inconfondibili, e ricorrenti in certa saggistica “sudista”, che si ritrovano anche in questo agile libretto. La prima consiste nell’insistere esclusivamente sui torti e le ingiustizie subite dal Mezzogiorno, nel corso della sua storia post-unitaria (chissà poi perché ingiustizie e torti i governanti pre-unitari non ne commettessero); la seconda consiste nell’accumunare enfaticamente la sorte del Meridione d’Italia a quella di tutti i Sud del Mondo; la terza, infine, nel ricercare percorsi di modernizzazione inediti, alternativi a quelli imposti dall’Europa e dall’Occidente, lungo i quali l’arretratezza del Sud si ritrova all’improvviso ad essere non più un handicap, ma anzi un vantaggio e, quasi, un motivo di fierezza.

Le tre caratteristiche suddette si ritrovano nitidamente esposte solo nel testo di Pino Aprile, che insiste in particolare, come in tutti i suoi libri, sulla colonizzazione del Mezzogiorno da parte del Nord. Ma si possono riconoscere anche negli altri contributi: nell’elogio della intemporale bellezza partenopea di De Giovanni, ad esempio, o nella difesa dell’Aspromonte non contaminato dall’industrializzazione di Gangemi: ogni volta, il Sud appare come una specie di miracolo, reso possibile dall’essersi tenuto in disparte dal corso principale della modernità e dalle sue brutture. E siccome i meridionali sono vittime del pregiudizio che li vuole corrotti, delinquenti o sfaticati, in tutto questo libretto non si troverà una sola parola sui loro vizi, ma solo sulle loro virtù: letterarie o morali, umane o artistiche.

Ma è poi dei vizi o delle virtù di un popolo, che si tratta? È questa la questione meridionale: una questione antropologica, scritta nei costumi, nei dialetti e nelle tradizioni del Sud? Ed è da lì che deve ripartire il nuovo meridionalismo? È lecito dubitarne. L’impressione è anzi che si commetta l’errore opposto: alla caricatura anti-meridionalista si replica infatti con una calorosa professione di fede meridionale, come se bastasse rivendicare storia e memoria per superare le contraddizioni reali che frenano lo sviluppo del Mezzogiorno. Come se la questione meridionale fosse solo una questione di orgoglio ferito, e la letteratura fosse chiamata solo a riscattare questo orgoglio: questa sarebbe la sua missione civile. Ho paura che sia il contrario, che questa riscoperta delle proprie radici, per tanti aspetti meritoria, funga solo come consolazione ai propri mali: come spesso è stato nella storia d’Italia, usa a celebrare, a volte persino a mitizzare il proprio glorioso patrimonio, per nutrire speranze future, tenendosi però alquanto discosti dalla prosaicità del presente.

(Il Mattino, 10 ottobre 2017)

 

Sud & storia. Ma la memoria non è una sola

Penone

G. Penone, Continuerà a crescere tranne in un punto (1968)

«Ricordo che quando andai a Caprera, in Sardegna, nel periodo in cui lavoravo al film, il custode della casa – museo di Garibaldi volle mostrarmi la pallottola che avevano estratto dalla gamba del Generale. E mi disse che quella era la pallottola con cui i Borboni avevano sparato a Garibaldi. I Borboni, mi disse: non l’esercito italiano».

In procinto di girare il suo prossimo film, Mario Martone ha accettato volentieri di tornare a riflettere sul Risorgimento italiano, al quale ha dedicato un film importante, bello e teso, «Noi credevamo», uscito nel 2010. L’occasione è la proposta di una giornata in memoria delle vittime meridionali dell’unificazione nazionale, che, su proposta del Movimento Cinque Stelle, ha avuto il voto di quasi tutto il consiglio regionale pugliese, compreso quello del Presidente Emiliano.

«Una proposta assurda, figlia di una grande confusione, di tutto quello che denunciavo quando ho fatto «Noi credevamo». Noi italiani abbiamo un rapporto falsato col passato. Abbiamo tutta una serie di incrostazioni, di letture sbagliate della storia che chiaramente inquinano anche il nostro presente. E questa proposta ne è la dimostrazione. Ma proprio perciò le ho raccontato del custode di Caprera: perché mostra come per il senso comune Garibaldi non potesse essere stato ferito dall’esercito italiano (come in realtà fu). Questo vuol dire che la realtà storica è semplicemente ignota o incomprensibile per larga parte degli italiani.

Martone non sceglie esempio casuale. Il suo film si chiudeva proprio con i fatti del 1862, quando tra i monti dell’Aspromonte avvenne lo scontro a fuoco tra i volontari garibaldini e l’esercito regolare intenzionato a bloccare il generale che tentava di risalire nuovamente la penisola per conquistare Roma. L’Unità d’Italia era stato il capolavoro politico di Cavour, non certo la vittoria di Garibaldi. E il film racconta fin dal titolo quante contraddizioni, quante disillusioni e anche quali fallimenti furono vissuti in quegli anni all’ombra delle grandi imprese risorgimentali.

«Nel senso comune manca un’idea dei contrasti che vi furono allora. Non è entrata l’idea che le visioni dell’Italia durante il Risorgimento sono state non semplicemente diverse, ma contrapposte – da un lato i monarchici, dall’altro i repubblicani; da un lato i moderati, dall’altro i democratici –. Queste cose naturalmente ci sono nei libri di storia. Ma nel senso comune questa verità non è passata. Gli italiani hanno un loro pantheon di signori con la barba, che mette insieme indistintamente Vittorio Emanuele, Giuseppe Garibaldi, il conte di Cavour, Mazzini. È ovvio che in questa fase di populismi, di demagogia dilagante, diventino un unico avversario da abbattere in blocco. Ma è una falsificazione della realtà storica. Non ci si rende conto così che Mazzini e Cavour non possono trovarsi insieme in uno stesso Pantheon. Furono acerrimi nemici. Avevano idee politicamente opposte: su come costruire l’Unità d’Italia, come affrontare il rapporto col Meridione, come affrontare tutti gli aspetti della vita civile».

Martone parla con grande rispetto del lavoro storiografico. E racconta di quanto lui stesso, insieme a Giancarlo De Cataldo, hanno potuto attingere dai libri di storia nella preparazione del film. Ma il punto che evidentemente gli preme non riguarda la mera accuratezza della ricostruzione storica, quanto piuttosto “l’uso della storia per la vita”, cioè nel presente, nell’Italia di oggi.

«Dovunque son andato, in giro nel Mezzogiorno, per presentare il film (eravamo a ridosso del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia) ho sentito le critiche, la rabbia, il fastidio verso le celebrazioni, a volte l’odio. Era ed è molto doloroso. Ma domando: tutto questo può mai trasformarsi in una nostalgia per i Borboni? Non significa tornare indietro, e dico: indietro rispetto non tanto ai dibattiti sul passato, ma ai dibattiti sul nostro presente? D’altra parte, cosa vuoi dire a un ragazzo del Sud oggi, cosa dire a generazioni completamente sfiduciate, quando gli racconti cosa è successo allora? Io penso che si tratta non di alimentare nostalgie per il regime borbonico; semmai, di fargli conoscere Pisacane, di farlo appassionare alla sua storia. Ma per questo il blocco unico del Pantheon ufficiale non aiuta. Pisacane era un repubblicano, stava per dir così sul lato opposto rispetto a quelli che hanno fatto l’Unità d’Italia con i Savoia. E lo stesso Garibaldi: tutti ricordiamo il suo famoso “Obbedisco!”. Voleva dire: mi piego per ragioni di opportunità politica. Fu la scelta giusta, che altro doveva fare? In quel momento le condizioni storiche portavano a questo, e la liberazione di Napoli significò la consegna del Regno a Vittorio Emanuele II. Ma Garibaldi aveva tutt’altro animo, era anche lui un repubblicano. E del resto la vera impresa eroica di Garibaldi fu la Repubblica romana. La Repubblica romana è la vera luce del risorgimento.  Allora io farei una giornata della memoria: ma per ricordare le vittime della Repubblica romana, le vittime di un sogno che è stato calpestato.

Le armi borboniche, in effetti, erano puntate contro la Repubblica romana. Ma voglio ricordare cosa ha scritto Alessandro Leogrande a proposito del suo film: “Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da «criminali» al sevizio dei piemontesi «simili ai nazisti», e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale».

«Ma certo. Il sentimento dell’unità d’Italia è stato un sentimento straordinario, costruttivo, moderno. Sputare su di esso è orribile. Che modo di ragionare è quello di dividere geograficamente, invece di confrontarsi politicamente? Altro però è chiedersi, come io ho provato a fare, quali opposte visioni si scontrarono. Altro è lo scontro politico interno al processo risorgimentale, che – io credo – si prolunga ancora adesso. A che serve allora una generica giornata per le vittime meridionali? Dentro l’unificazione hanno convissuto non uno, ma due sentimenti unitari. Mazzini è morto da clandestino. Cavour aveva deciso per tempo in quale piazza doveva andare eseguita la sua condanna capitale. Quella piazza è a Genova, e oggi c’è invece un monumento a Mazzini. Ma il sentimento che animava i repubblicani – i Mazzini, i Garibaldi, i Pisacane – non si misurava nel senso dell’annessione ma nel senso dell’unione».

Lei ha detto che nel senso comune c’è solo una versione semplicistica, e in fondo agiografica, del Risorgimento. A me colpisce quanto poco il cinema (che sa entrare nell’immaginario collettivo di un popolo) si sia occupato di Risorgimento. Non c’è paragone, mi pare, con l’epopea resistenziale. Ci sono i film di Visconti, c’è un film di Rossellini, i Taviani di Allonsanfàn, Florestano Vancini, i film in costume di Luigi Magni e naturalmente anche qualcos’altro. Ma non mi pare ci sia la costruzione di una vera e corale narrazione risorgimentale.

«Che i film non siano stati tanti dimostra quel che dicevo, la difficoltà di rapporto del nostro Paese con la sua storia e con l’unità d’Italia. L’Ottocento risorgimentale avrebbe potuto dar luogo a una vera e propria mitologia: come gli americani sono riusciti a fare con il West, trasformando in un mito (mito universale, che vale anche per noi) la nascita di una nazione. Ma un mito va affrontato prendendolo di petto. Cosa che noi non abbiamo fatto. Abbiamo invece costruito il nostro Pantheon posticcio. E alla costruzione ha ovviamente dato un contributo decisivo il Ventennio fascista. Ma più in generale io continuo a domandarmi se non rimanga vero che la complessità dei fatti risorgimentali rimanga fuori dalla coscienza collettiva. Come se certe cose non si potessero dire. Come se certi conflitti non si potessero esplicitare. Ed è un problema del nostro Paese, per cui o i conflitti si affrontano con le armi in mano oppure li si rimuove e non li si riesce fare terreno di una dialettica vera, reale.

Tra le cose che nel senso comune passano in maniera distorta c’è anche, a me pare, il rapporto con il Mezzogiorno. O forse è vero che questo rapporto è stato profondamente distorto nell’ultimo quarto di secolo. Il film vede le cose dalla prospettive meridionale, inizia e finisce il suo racconto al Sud. Lei trova che anche su questo tema delle divisioni d un Paese troppo lungo vi sia una vulgata che si tratta di mettere in questione?

Temo di dire cose note. Il processo di unificazione è stato un processo di annessione. È un fatto: si è sviluppato in questo modo. Basti pensare a un episodio, la vicenda più amara per Garibaldi, che spiega tutto. Mi riferisco al fatto che la stragrande maggioranza dei garibaldini, i famosi Mille, sono stati di fatto abbandonati; non furono stati arruolato nell’esercito italiano. È stata la cosa che più di ogni altra ha devastato l’animo di Garibaldi, che più gli ha provocato delusione ed amarezza. Se di unità si trattava, chi ha combattuto dallo stesso lato doveva ritrovarsi anche dopo l’Unità d’Italia. Non fu così. Questo dice tutto sul modo in cui è avvenuto il processo unitario. Che è avvenuto a danno del Sud: neanche su questo – mi pare – ci sono più molti dubbi. Ovviamente la mia prospettiva è quella di un uomo del Sud. I protagonisti del mio film sono cilentani. Ma tengo a dire: non è un punto di vista non anti-unitario, ma è il punto di vista di chi racconta la possibilità di un’unità diversa. Che sarebbe potuta essere e che non è stata. E la celebrazione della giornata delle vittime meridionali dell’unificazione sarebbe di offesa per tutti i meridionali che hanno sacrificato la loro vita per la causa unitaria.

Le chiedo ancora qualcosa a partire dal suo film. Dalle cose che vi mancano. Da un lato i grandi eventi, le grandi battaglie, il 1860. La visione laterale fa sì che i momenti cruciali della storia – che so: l’incontro di Teano – non vi compaiano. Qual è il senso di questa scelta? L’altra cosa che manca è la città. Dico la città del Mezzogiorno, Napoli. Per chi conosce il suo rapporto con Napoli, per chi conosce la sua filmografia – a partire al primo film, Morte di un matematico napoletano – è un taglio che colpisce. Nel film si vedono salotti piemontesi (o parigini) e campagne meridionali.

«Ho cercato, insieme a Gianfranco di Cataldo, di portare ad evidenza tutte le zone d’ombra del processo risorgimentale. Perciò non ci sono le pagine famose. Perfino la Repubblica Romana, che pure è centrale per lo svolgimento del film, non c’è. Ho cercato invece di portare sulla scena i conflitti che ai miei occhi di cittadino italiano mi sono sempre parsi nascosti.

D’altro lato, è vero: il Sud certamente è campagna. È una scelta sociale. Il Sud era ben altro che il Paese di Bengodi che i nostalgici borbonici vogliono farci credere. Vigevano leggi di carattere feudale dal punto di vista sociale. Condizioni sociali e di vita faticosissime. Io non discuto quale fosse stato il bilancio e la prosperità del Regno. Mi domando però quali sperequazioni ci fossero al suo interno. Questo era il contenuto sociale dell’idea che del processo di unificazione avevano i repubblicani, ai quali guardo nel film. Quanto questo contenuto poteva stare a cuore dei monarchici? Nulla. Basta invece leggere la Costituzione  della Repubblica Romana, difesa da Garibaldi e Mazzini, per trovarvi cose come il suffragio universale, le terre ai contadini. C’era un’idea di un vero progresso sociale che doveva accompagnare il moto risorgimentale. C’era l’idea di uguaglianza. Con la sconfitta dell’idea unitaria repubblicana è questo il sogno che svanisce. Riportandoli a una dimensione di nostalgia borbonica, noi certo non onoriamo le vite dei meridionali che si sono battute per questo sogno. Ma a questo sogno è dedicato il film».

A proposito del titolo, “Noi credevamo”. Quello che colpisce non è solo la declinazione al passato, che accentua la dimensione del disincanto e della disillusione (lè la chiusa del film: “Eravamo tanti. Eravamo insieme. Noi credevamo”). Ma anche la scelta di un soggetto plurale, collettivo, che sembra essere il soggetto politico mancato, disatteso, di tutta la vicenda nazionale.

«Ma quel noi è vivo ancora adesso. Come sa, il titolo viene dal libro di Anna Banti, così come una robusta parte del film (poi il film racconta molte altre cose, per cui non è una messinscena del romanzo). Ma Noi credevamo implica anche un presente.

Siamo noi, oggi, quelli che credevano ieri?

Ma certo. Il punto in questione siamo noi oggi. Che cosa vogliamo fare del nostro passato e del nostro futuro. riusciamo a recuperare un rapporto sincero, onesto, pieno col passato? Farlo però significa anche recuperare una prospettiva politica: che ha perso, che è stata sconfitta.

Un’ultima domanda vorrei farle. E riguarda il giudizio sulla politica che viene fuori dal film. Non dico sui singoli protagonisti, ma sulla politica nel suo insieme. Uno degli elementi su cui si gioca il film è la contrapposizione fra gli ideali che vivono nella clandestinità, nella cospirazione, nella lotta armata, e il piano lontano, distante, cinico, dei giochi politico-diplomatico-militari. L’impressione è che l’agire politico, schiacciato sulla dimensione della “politique d’abord”, ne esca con le ossa rotte.

«Lei pensa a Francesco Crispi»

Ecco, non voglio dire che la sua figura è più complessa di come compare nel film, non sono uno storico, ma mi interessa una riflessione su questa contrapposizione. Anche dal punto di vista del ragazzo che oggi vede il film .

«Il ragazzo che oggi vede il film non è scoraggiato da ciò che vede, ma da ciò che ha intorno a sé. Il problema non è all’interno del film ma all’interno della politica italiana ed europea. Ecco: partiao dall’Europa. È molto evidente nel difficilissimo rapporto che c’è tra come è governata l’Europa negli alti livelli finanziari, politici, e la sostanza di vita dei cittadini europei. Si ripropone a livello europeo qualcosa che ha attraversato la nostra storia italiana: una sorta di costrizione dei vasi di comunicazione fra i bisogni delle persone e l’elaborazione politica che soffoca il sogno europeo. I vasi continuano a essere molto stretti.

Ciò che portava alla disillusione allora porta alla disillusione oggi. La sperequazione è la stessa. Anche oggi possiamo chiederci: è l’Europa un continente povero? Non che non lo è. Il problema è la distribuzione della ricchezza. Il problema è quello che accade fra la Germania e la Grecia. Come vede, il discorso si riapre. Ed è qui che si infilano le semplificazioni populiste. Ma per rifiutarle occorre vedere il problema in tutta la sua verità e complessità, mettendo in luce i conflitti che attraversano la realtà politica europea, non solo italiana. Glielo dice uno che ama l’idea di un Europa unita. A maggior ragione bisogna allora battersi contro l’idea di un’Europa unita per annessione.

A maggior ragione bisogna provare a declinare un’idea di eguaglianza a livello europeo, e far passare un’idea dell’unificazione non come un’annessione tedesca, ma come qualcosa che spinge da tutti i lati».

Qualcosa che spinge da tutti i lati. In tempi di disaffezione dalla politica, di disincanto e di scarsa partecipazione alla cosa pubblica, questa immagine della vita civile e politica come una cosa mossa da tutti i lati mi sembra davvero uno dei migliori antidoti alle volgarizzazioni populiste e alle nostalgie neo-borboniche. E chissà, magari si ritroverà anche nel prossimo film che Martone si appresta a girare.

(Il Mattino, 11 agosto 2017)

Un futuro per il Sud

 

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M. Pistoletto, Venere degli stracci (1967)

Idiozie, stupidaggini, follie. Non usa mezzi termini, Adriano Giannola, per bollare la proposta di una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione italiana, avanzata in Puglia dal gruppo consiliare dei Cinquestelle e sostenuta con voto quasi unanime, compreso quello del Presidente Emiliano. Ma a fargli scuotere il capo non è tanto il merito della proposta, quanto il fatto che il dibattito sulle ragioni del Sud devii verso questioni del tutto anacronistiche, lontane dai problemi veri del Mezzogiorno. Ha una voce sottile ma ferma, che a volte sembra alzarsi come quella di un profeta inascoltato. E parla piano ma senza mai smarrire il filo del ragionamento:

«Si tenta di spiegare il divario Nord/Sud recriminando sulle ingiustizie passate. Il problema è invece rivendicare oggi – con molta determinazione, con argomenti e con buon senso – un ruolo diverso per il Mezzogiorno. C’è un cortocircuito che viene da lontano, almeno dagli anni Novanta, alimentato quasi ad arte da politiche sbagliate. E che oggi si manifesta nel modo più deteriore con queste scorciatoie verso nulla. Queste celebrazioni di nulla».

Nulla, beninteso, cioè priva di significato e persino controproducente è la piega presa da questo meridionalismo recriminatorio che veste i panni nostalgici di un improbabile revival neoborbonico. Non lo è certo una lettura attenta e non agiografica della storia d’Italia:

«Basta prendere Cavour. Cavour muore al momento dell’Unità. E muore raccomandandosi al Re – così racconta la nipote – perché l’Italia del Settentrione è fatta “ma mancano i napoletani”. Intende naturalmente il Regno delle due Sicilie. E si raccomanda proprio al Re, che lo va a trovare nelle sue ultime ore: «Niente stato d’assedio, nessun mezzo di governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In vent’anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio. Ve lo raccomando”. Insomma: mi sembra che avesse le idee chiare».

Le aveva, certamente. E aveva qualche ragione anche di dire che “non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani”.

«Ma lo stato d’assedio ci fu. Massimo D’Azeglio, sempre nell’agosto del 1861, su un giornale francese scrisse: “La questione di Napoli – restarvi o non restarvi – mi sembra dipendente soprattutto dai napoletani, a meno che non si voglia, per la comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui proclamato […]. Anche a Napoli abbiamo cambiato il sovrano per instaurare un governo eletto dal suffragio universale. Ma occorrono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno; ed è noto che briganti e non briganti sarebbero d’accordo per non volere la nostra presenza. […] Dunque deve essere stato commesso un errore. Dunque bisogna cambiare le azioni e i principi e trovare il mezzo per sapere dai napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o non ci vogliono”. E poi conclude: “Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate invece che con gli argomenti”. In realtà si rispose con le archibugiate e con lo stato d’assedio. Quindi che ci sia stata una guerra civile – anche interna al Mezzogiorno, tra quelli che erano a favore e quelli che erano contro l’unificazione – è fuor di dubbio».

L’uso del concetto di guerra civile a proposito del brigantaggio postunitario è ben presente nel dibattito storiografico degli ultimi decenni (per esempio nei lavori di Salvatore Lupo). Ma il punto, per Giannola, non riguarda affatto la ricerca storica:

«In quegli anni, esattamente in quegli stessi anni, c’è stata la guerra civile negli Stati Uniti. Non mi sembra che lì si ponga una questione del Sud e del Nord negli stessi termini che da noi. Negli USA ci sono stati quattro anni di guerre civili, massacri enormi perpetrati da battaglioni con l’uniforme. Il Nord ha vinto, il Sud ha perso. Ma gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. E certo non stanno a discutere di fare la giornata per le vittime della Secessione.

Che senso ha allora scoprire da noi che c’è stata una guerra civile? I briganti non erano soltanto dei briganti: e allora? Dopo vent’anni di stupidità assoluta in cui il localismo l’ha fatta da padrona – questo il vero dramma – siamo a discutere di cosa? Di quali idiozie? Che cosa pensiamo di rivendicare, con ciò? Bisogna invece fare i conti con la realtà. Non è così che si sostiene la causa del Sud».

Però c’è un partito che sostiene che il Sud si è caricato con l’unificazione di un enorme fardello. Che l’unità d’Italia ha penalizzato l’economia meridionale. Che al momento dell’unificazione il divario fra le diverse aree del Paese non era così ampio com’è stato in seguito:

«In questa diatriba tocca andarci coi piedi di piombo perché è vero che, quale che fosse prima dell’unificazione (ed io penso che c’era ma non era così enorme), il divario Nord/Sud peggiora. Comincia anzi a peggiorare vent’anni dopo l’Unità, per tutta una serie di motivi che la storiografia ha saputo indagare. Ma in generale è vero: connettere il Nord al Sud (i grandi lavori, le ferrovie), in un quadro di politica liberale, fece aumentare il divario perché era più facile concentrare risorse nella parte più sviluppata del Paese. Paradossalmente, l’infrastrutturazione ruppe le barriere per dir così naturali favorendo la concentrazione al Nord.

Ma dal punto di vista sociale (età media, mortalità infantile, analfabetismo) il Mezzogiorno ebbe invece un recupero incredibile. Quindi stiamo attenti perciò a dire che il Mezzogiorno ha pagato economicamente e socialmente. È molto più complesso. Certo, a un certo punto le convenienze di mercato avvantaggiarono il Nord. Ma la differenza di fondo che mi interessa è che allora il Mediterraneo contava molto, molto poco, mentre oggi conta molto di più».

Giannola vuole venire ai giorni nostri, al presente. Al modo in cui ricostruire le ragioni di un nuovo meridionalismo. Alle sfide che l’Italia, non solo il Mezzogiorno, ha dinanzi. Ai nuovi scenari geopolitici che si aprono oggi per il nostro Paese:

«Vogliamo collocare l’Italia in Europa? Vogliamo capire per il Sud cosa significhi questa nuova collocazione? Il baricentro cambia, si va verso Sud. Possiamo essere la sponda del Mediterraneo ora che il nostro mare torna ad essere fondamentale via di commercio. Se l’Italia ha un minimo di consapevolezza e di visione è il momento che il Mezzogiorno abbia il suo ruolo. Queste sono le condizioni da discutere, non è di guerra civile e di Risorgimento che dobbiamo parlare. Costruiamo su queste basi il ragionamento sul Paese, sul Nord e sul Sud. In questi anni non siamo stati vittime, ma (mi perdoni la parola) cretini, perché abbiamo rinunciato a una strategia, perché abbiamo accettato tante idiozie ben vestite sul piano culturale, perché abbiamo smantellato l’unica cosa seria che abbiamo fatto dall’Unità in poi, l’intervento straordinario».

Su cui però il giudizio comune non è così univocamente lusinghiero.

«Dal ‘57 al ‘73-’74, checché se ne dica, è avvenuto questo: con trasferimenti molto contenuti il Sud è cresciuto più del Nord, il divario del reddito pro capite è diminuito di ben dieci punti.

Quel disegno è stato in seguito abbandonato e addirittura demonizzato. Dalla crisi petrolifera in poi si è persa la capacità strategica di destinare risorse allo sviluppo. E i trasferimenti, anche maggiori rispetto agli anni passati, sono diventati solo uno strumento di assistenzialismo improduttivo. Non a caso se sono quelli gli anni in cui nascono le Regioni e i poteri decentrati.

Ma la questione italiana è di nuovo la questione del Paese intero. I segnali ci sono perché il Mezzogiorno torni ad essere centrale: non per idealità, ma per interesse nazionale. Come è stato del resto all’indomani della seconda guerra mondiale, con la riforma agraria e l’intervento per il Mezzogiorno, che insieme posero le basi del miracolo economico».

A me però colpisce il fatto che nel Mezzogiorno prosegue invece lo smottamento dei temi su cui si fonda la legittimazione dello Stato nazionale. Come se dalla disgregazione del tessuto nazionale il Sud avesse da guadagnarci e non da perderci.

«Vediamo allora cosa succederebbe se tornassimo a prima dell’Unità. Checché se ne dica, il Sud riceve dal Nord il 25% delle sue risorse. Non si tratta di carità: l’Italia è uno Stato nazionale e non uno Stato confederale. Vi sono diritti di cittadinanza (la scuola, la sanità) che è giusto – ed è soprattutto efficiente – che le risorse vadano a garantirli in modo uguale a Palermo come in Val d’Aosta. Poi in realtà essi non sono garantiti per cui il Mezzogiorno ha molti crediti, ma certo non per i torti subiti nel passato. Ma se fossimo indipendenti sarebbe un dramma. L’impatto sarebbe immediatamente negativo in termini di trasferimenti di risorse verso Nord e di enormi conseguenze sociali ed economiche».

E allora torniamo all’oggi. Come giudica il lavoro di quest’ultima legislatura?

«Oggi è un momento propizio. Il governo Renzi lanciò il cosiddetto Masterplan per il Sud. Certo, l’iniziativa aveva anche una finalità propagandistica, ma ha consentito di recuperare un minimo di direzione. Oggi il Ministro della Coesione territoriale e Mezzogiorno ha voce in capitolo per indicare priorità. Può addirittura arrivare a dire che almeno il 34% degli investimenti pubblici deve essere fatto nel Mezzogiorno, altrimenti salta il Paese. È una novità non da poco. E non è assistenza, è esattamente il contrario.

Penso, ancora, alle zone economiche speciali. Sono strumenti che dovrebbero diventare immediatamente preda delle Regioni, perché le facciano, perché si coordinino in un disegno nazionale. Rifare i porti di Napoli o di Taranto non è un problema di Napoli o di Taranto ma dell’intero Paese. Un problema di intercettare i flussi di merci che provengono dalla Cina e di sfruttare i vantaggi enormi che ci derivano dalla nostra posizione di perno del Mediterraneo. Mi lasci dire: l’Italia è uscita dal Medioevo grazie alle Repubbliche marinare: dovremmo ricordarcene. Se però facciamo scappare i cinesi in Grecia, nel Pireo, per via di incredibili lungaggini burocratiche, e intanto parliamo della Giornata della memoria, ci rendiamo colpevoli di un fallimento strategico».

Non sarebbe l’unico fallimento strategico, nella storia del Sud d’Italia. Una cesura si è senz’altro prodotta negli anni Settanta, come prima ricordava. Ma un’altra cesura più recente cade con la fine della prima repubblica, quando la questione meridionale viene soppiantata dalla questione settentrionale agitata anzitutto dalla Lega.

«Quegli anni sono anche gli anni in cui finisce formalmente l’intervento straordinario. E coincidono con la prima grande crisi finanziaria europea. Noi siamo stati cacciati dal SME e abbiamo fatto una svalutazione del 40% in un solo anno, che ha rimesso in moto l’economia del Nord, distrutta dal tentativo di entrare nella cosiddetta banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo. Il Sud non era esportatore e quindi non ha beneficiato della svalutazione, ma soprattutto fu oggetto della prima illegale spending review. Delibere già emanate e formalmente valide per contributi a quindicimila imprese vengono cancellate, con una scia di fallimenti e contenziosi che trascinò con sé la crisi del banco di Napoli. Fu questa la causa strutturale, non la mala gestio. L’economia del Sud fu bloccata. Quel periodo fu un periodo di crisi acutissima dell’economia del Mezzogiorno, da cui si pretese velleitariamente di uscire con la nuova programmazione e i patti territoriali. Una pura idiozia. Aver segregato il Mezzogiorno nei fondi strutturali, peraltro sostitutivi e non aggiuntivi, ha significato farne una riserva indiana, dal ’98 in poi».

Gianfranco Viesti ha scritto sul Mattino che la classe dirigente nazionale non sapendo più parlare agli italiani si piega a sollecitare piuttosto gli egoismi locali…

«Non hanno capacità di analisi e sono incapaci di guardare alla storia. Il Mezzogiorno è il nodo. Nel 1903 De Viti De Marco, un ‘autorità mondiale in materia di finanza pubblica, disse una cosa molto semplice. Finché il Sud rimarrà una specie di colonia, l’Italia non conterà nulla in Europa. Sarà insomma una specie di Olanda, solo con un territorio molto più grande e con una popolazione più numerosa, quindi molto più povera. Se si vuole divenire potenza europea – diceva già nel 1903, io dico: se vogliamo essere leader nell’area euro-mediterranea – occorre darsi da fare. Nonostante il rallentamento mondiale, noi siamo talmente sottodimensionati che abbiamo spazi enormi da recuperare. Abbiamo nuovamente, grazie alla posizione centrale nel Mediterraneo, una rendita di posizione da sfruttare. Ma non siamo ancora in grado di valorizzarla. Ci vorrebbe una grande rigenerazione orientata da due o tre priorità che siano priorità del Paese.

La via d’uscita non è celebrare i drammi della guerra civile. È vero che c’è stata. E che c’è una colpa della retorica risorgimentale. Basta vedere il film di Mario Martone, «Come eravamo», per capire ciò che è stato. Dopodiché però siamo diventati parte di un sistema ed è in questo sistema che dobbiamo operare».

(Il Mattino, 10 agosto 2017)

Sud, no alla memoria inutile: il dialogo tra due intellettuali

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B. Newman, Who’s Afraid of Red, Yellow and Blue (1966)

[Quello che segue è il dialogo tra due intellettuali del Sud sulla proposta di istituire una Giornata della memoria sudista votata quasi a maggioranza dal consiglio regionale pugliese su proposta del movimento Cinque Stelle e con l’Ok del governatore Emiliano].

Massimo Adinolfi: «La proposta di istituzione di una giornata della memoria “atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana” non sembra solo una boutade estiva. Non lo è perché da tempo è in atto un revival sudista, che si esprime nei modi più diversi: alcuni folcloristici, altri meno. Non lo è perché tocca i fondamenti di legittimazione della memoria pubblica nazionale. Non lo è perché agli inizi di luglio è stata avanzata in forma di mozione in seno al consiglio regionale della Puglia da una forza politica, il Movimento Cinque Stelle, che viene accreditata di consensi crescenti nel Paese. Non lo è, infine, perché, ben lungi dall’essere respinta,  è stata approvata a larga maggioranza, con il favore di quasi tutte le forze politiche, e anche quello del governatore Emiliano. Qual è la sua opinione, in merito?».

Gianfranco Viesti: «Mi sembra davvero un’idea infelice, presa con troppa leggerezza, forse stimolata dall’approssimarsi di un turno elettorale».

M. A.: «Io ho molte perplessità sulla sempre più frequente istituzione delle giornate della memoria, sulla proliferazione di leggi dal contenuto memoriale, spesso accompagnate dai relativi obblighi giuridici e morali, su certe modalità ufficiali di risarcimento delle vittime che sembrano voler trasformare il corso della storia in un triste seguito di pagine nere. Come se la storia non fosse altro che una macelleria di uomini e popoli. E come se l’unica posizione moralmente legittima fosse quella che si pone sempre solo dalla parte degli sconfitti.

Dietro a ciò vi sono, a parer mio, due tendenze culturali di fondo. Una l’ha individuata lo storico francese Hartog, nella sua riflessione sui regimi di storicità che corrispondono a modi diversi di vivere il rapporto col passato. Nella nostra epoca, affetta da “presentismo”, si ha sempre meno pazienza e disponibilità nei confronti della profondità storica, e sempre più la tendenza a trasformare la storia in un seguito di ricorrenze. A trasferire sul piano dei simboli ciò che andrebbe invece considerato sul piano dei processi storici effettivi. L’altra tendenza ha a che vedere con la fine dei grandi discorsi, delle grandi narrazioni, che comporta il venir meno di un’idea generale del senso dei processi storici. Prima con la storia si giustificava tutto. Ora siamo all’eccesso opposto, per cui nulla può essere più storicamente giustificato. Insomma, è come se fare l’unità d’Italia – uno dei più grandi risultati dell’età moderna – non rendesse oggi meno inaccettabili i fucili piemontesi puntati contro l’esercito borbonico.

Mi domando se vi sia ancora un terreno di legittimazione dell’unità italiana più ampio, più profondo e più forte di un mero bilancio economico, esprimibile in termini diversi da un computo delle vittime o delle perdite».

G. V.: «La ricerca storica sul processo di unificazione nazionale, così come sui tanti altri eventi del nostro passato, è certamente benvenuta. È bene portare alla luce anche gli eventi più controversi. Non sono uno storico e dunque ho una conoscenza di questi temi solo da lettore interessato. Non posso escludere che, specie nei primi decenni unitari, si sia proposta una lettura parziale degli eventi, anche nello sforzo di costruzione di un’identità nazionale in un paese in cui, per dirne una, erano ben pochi gli italiani in grado di capirsi parlando una lingua comune e non in dialetto. Bene, benissimo, quindi, ogni ricerca storica, e una discussione, su basi scientifiche, senza remore. Se il Consiglio avesse sollecitato questo, nessun problema: ma la giornata della memoria prende una posizione assai controversa. Tra l’altro, vi erano meridionali borbonici; ma tanti anti-borbonici. Per fortuna»

M.A.: «Se le pagine della storia sono tutte nere, e tutte grondano sangue, come si fa a distinguere le une dalle altre? Se ci fosse una giornata in memoria delle vittime dell’unificazione, proprio come vi è una giornata per le vittime della Shoah o per le vittime del terrorismo, non vorrebbe dire che tutte queste vittime sono state allo stesso modo offese da una stessa ingiustizia storica? Ora, francamente, non mi sembra che questo sia il caso. Un conto sono le ingiustizie o le violenze perpetrate in singoli episodi della vicenda (evidentemente: non più epopea) risorgimentale, che la storiografia ufficiale ha teso forse, in passato, a ridimensionare e che è giusto non dimenticare (ma esiste davvero una storiografia ufficiale? La ricerca storica, nel nostro paese, non è sufficientemente aperta, libera, plurale?). Ben altro conto è istituire una giornata della memoria al fine di presentare il processo di unificazione come un mito costruito dai vincitori per occultare una  forma di sopraffazione del Nord ai danni del Sud. Va bene che da tempo la storia non si fa più soltanto riunendosi attorno alle “urne dei forti”, ma questo vuol dire che dell’unità d’Italia il Mezzogiorno fu solamente vittima?».

G.V.: «L’ampia evidenza storica disponibile sul regno borbonico non giustifica particolari nostalgie. Non era l’inferno, comparato ad un paradiso sabaudo. Ma la ricerca converge ad esempio nel valutare come infimo, molto più basso che negli altri stati preunitari, fosse il livello di alfabetizzazione. Un divario, quello nell’istruzione elementare, che sará colmato solo dopo un secolo, e che peserà enormemente sul ritardo economico e civile del Sud. Lo stesso vale per la grande infrastrutturazione di trasporto.
Ancora, sia il processo di unificazione monetaria, sia la scelta del regime liberoscambista possono aver danneggiato l’economia del Sud. Così come alcune delle prime politiche unitarie. È giá all’inizio del Novecento che ne scrive uno dei più grandi italiani del secolo scorso, Francesco Saverio Nitti. Ma in lui non vi è alcuna nostalgia di un regno del Sud: ma la proposta di politiche nazionali, unitarie, più attente anche allo sviluppo del Mezzogiorno, in un quadro di crescita dell’intero paese. La ricerca storico-economica ha poi messo chiaramente in luce come il divario Nord-Sud sia, dopo l’unificazione, e ancora ai tempi di Nitti, relativamente limitato; e esploda invece ai tempi del fascismo, per non richiudersi se non lievemente fino ad oggi».

M.A.: «Terrei poi su un altro piano la discussione sui centocinquant’anni di storia unitaria, e sulle ragioni per cui l’Italia si presenta ancora come un Paese troppo lungo e diviso. Anche se fosse dimostrato – e io in verità credo lo sia – che le cause della arretratezza meridionale non sono tutte imputabili al Sud, questo non vorrebbe dire che dunque sarebbe stato meglio tenersi i Borboni, o che il Regno delle due Sicilie è stato un ineguagliato faro di civiltà. È su altre basi, del tutto diverse dal rivendicazionismo storico, che va riproposta la questione meridionale. Ed è vero, certamente, che accantonarla è servito a coltivare interessi politici ed economici precisi, durante tutto il corso degli ultimi venti-trent’anni. Ma a che serve soffiare sul fuoco separatista dei simboli anti-risorgimentali, o prendersi la soddisfazione di fare dei piemontesi dei brutti ceffi, e dei brutti ceffi dei briganti fare dei nobili Robin Hood?».

G.V.: «Non vi è dubbio che sia oggi diffuso e alimentato un forte pregiudizio antimeridionale. Una lettura a senso unico, aprioristica, della realtà italiana. Lettura pericolosissima sul piano civile. Ma che, ormai da almeno un ventennio, produce effetti concreti sulle politiche; a danno del Mezzogiorno. Lettura contro cui sono pochissime le voci che si levano, specie al di sopra del Po: come messo plasticamente in luce dai silenzi e dalle reticenze, se non dagli ammiccamenti, nei confronti del referendum lombardo-veneto del prossimo 22 ottobre, espressamente mirato contro i cittadini del Centro-Sud. Bene una reazione, anche forte. Ma personalmente non la baserei su mitologie di un passato felice, ma sulla concretezza dei diritti di tutti i cittadini italiani, qui e oggi. Sui fatti del presente e del futuro. Sarebbe stato auspicabile, ad esempio, un maggiore impegno dei consiglieri e dei vertici pugliesi, di centrodestra, pentastellati, del Pd proprio sui temi delle autonomie regionali e dei diritti di cittadinanza, piuttosto che per questa celebrazione. Il punto è che richiederebbe impegno, discussione severa all’interno del proprio schieramento, e non una facile passerella».

M.A.: «Infine, vorrei porre una domanda sul significato di una memoria condivisa. Questo tema è stato posto in Italia a proposito del discrimine fascismo-antifascismo, e a quel riguardo Giorgio Napolitano, da Presidente della Repubblica, ha più volte messo in guardia dalle “false equiparazioni e banali generalizzazioni”. Non è lo steso avviso che bisogna tenere nei confronti delle vittime meridionali dell’unificazione, per evitare di dare al 1861 il significato di una morte della patria meridionale?».

G.V.: «Gli stessi movimenti politici che vogliono il referendum lombardo, ci propongono invece una giornata della memoria pugliese, o inverosimili referendum campani e calabresi, inseguendosi a vicenda. È certamente ricerca di consenso spicciolo in un elettorato scettico e incerto, che si cerca di accarezzare con questi richiami. Spiace coinvolga alcune Istituzioni, e i loro vertici. Ma è anche spia pericolosa dell’incapacità di proporre agli italiani ragionevoli profezie, di sollecitare la loro fiducia su percorsi possibili, di chiamarli a scelte alternative. Finite le grandi narrazioni, si è precipitati nel giorno per giorno. Non sapendo parlare a tutti gli italiani, si solleticano egoismi o orgogli locali: un gioco molto pericoloso».

(Il Mattino, 8 agosto 2017)

La misura del Mezzogiorno non è solo il PIL

Zigaina

I dati Istat sul prodotto interno lordo del Mezzogiorno diffusi a fine giugno mostrano segnali assai incoraggianti: il Sud tiene, cresce insieme al resto del Paese, e la Campania è al primo posto in Italia in termini di sviluppo produttivo. La crescita avviene grazie ad un aumento dell’utilizzo dei fondi pubblici e alla ripresa del settore manifatturiero, attestata in particolare dai buoni numeri dell’esportazione delle imprese campane, e dall’aumento dell’occupazione. Che per una Regione gravata da cifre record di disoccupazione giovanile e femminile è davvero una boccata d’ossigeno. Il Ministro De Vincenti, oggi a Napoli, ha dunque dinanzi un quadro che non può certo definirsi roseo, ma che sicuramente presenta una significativa inversione di tendenza rispetto al più recente passato.

Chi voglia comporre una raffigurazione veritiera della situazione del Mezzogiorno non può tuttavia fermarsi qui. Sia perché il divario con il Nord è troppo ampio, troppo profondo e sedimentato perché si possa accantonare la «quistione» sulla sola base delle ultime rilevazione dell’Istituto nazionale di statistica, sia perché una rappresentazione adeguata della condizione sociale, civile ed economica di questa parte del Paese ha bisogno di prendere in considerazione anche altre dimensioni del vivere associato.

Non intendo con ciò né tirare in ballo l’annosissima questione meridionale al solo scopo di intonare le solite litanie, né tanto meno sminuire il cammino percorso negli ultime due anni, in cui ha sicuramente pesato l’intervento pubblico: per la spinta che le politiche regionali di sgravi fiscali e incentivi alle imprese hanno dato al comparto industriale, per un clima diverso di collaborazione fra le istituzioni (si pensi ai patti per il Sud), per un’azione di semplificazione amministrativa che ha sicuramente inciso sulle capacità di spesa degli enti locali.

Voglio però dire che è bene guardare la realtà in tutta la sua complessità. È bene guardare, ad esempio, cosa emergerà una volta che la polvere della palazzina crollata a Torre Annunziata si sarà posata: è presto, infatti, per parlare di inadempienze o per individuare responsabilità, ma l’impressione – lì come altrove – è che troppi angoli delle nostre città, troppi edifici, troppe attività commerciali, troppe studi professionali e troppe unità produttive vivono ancora ai margini dei circuiti legali dell’economia e della società. Vivono, se così si può dire, a pelo d’acqua, col rischio che un peggioramento congiunturale li risospinga sotto la linea di galleggiamento, o che un evento non ordinario ne metta drammaticamente a nudo fragilità e debolezze.

Se c’è un settore che mostra tutta la distanza che il Mezzogiorno deve colmare, questo è quello della scuola, dell’università e della ricerca, decisivo per far ripartire l’ascensore sociale in un Paese segnato da indici di diseguaglianza che divaricano invece di restringersi. Anche in questo campo non mancano, in verità, le buone notizie: si è chiuso in questi giorni con successo, e avrà una seconda edizione, il corso per sviluppatori della Apple inaugurato lo scorso anno, mentre parte questa settimana la nuova Academy sui temi della trasformazione digitale della Federico II in collaborazione con l’agenzia Deloitte, tra le più prestigiose al mondo. Ma le punte di eccellenza non bastano. Il Mezzogiorno continua a scontare tassi di dispersione scolastica troppo elevati; le migliori intelligenze continuano a lasciare il Sud, in un’emorragia che ha spinto lo Svimez a parlare di desertificazione demografica, non solo economica. E il sistema universitario campano rimane confinato nei bassifondi delle classifiche internazionali: discutibili quanto si vuole ma tuttavia indicative, nel complesso, di una condizione di ritardo rispetto al resto del Paese, e dell’Europa. Pesa ovviamente la brusca riduzione dei trasferimenti statali, che ha penalizzato particolarmente gli Atenei meridionali: sarebbe utile che oggi se ne parlasse anche con il Ministro De Vincenti, che pure ha lavorato bene in questi mesi, e che però, occupandosi il suo Dicastero di coesione territoriale, è il primo a dover sapere quanto il contesto sociale ed economico incida anche sulle prestazioni del sistema universitario.

Tutto questo è da tener presente, quando si guarda al Sud: il problema di una criminalità organizzata che esercita fortissimi condizionamenti sull’economia dei territori; la vecchiezza della pubblica amministrazione, che ha bisogno di essere profondamente rinnovata; la debolezza delle reti infrastrutturali materiali e immateriali, che scavano nuovi gap con le aree più avanzate; la pressione migratoria che rischia di scaricarsi in particolare sugli strati più deboli della società. Ma di nuovo: non si tratta di presentare a De Vincenti l’ennesimo cahier de doléance. Ricominciamo anzi daccapo: dai segnali di ripresa, dall’occupazione che cresce, dalla vitalità del tessuto produttivo. Però proviamo ad ascoltare anche quel silenzio rumoroso di cui parlava ieri, da queste colonne, Biagio De Giovanni, quella colpevole dimenticanza che a livello nazionale ancora circonda i problemi del Sud, relegandoli a meri problemi locali. Facciamolo anche perché l’orgoglio e l’identità di una città, di una regione, di un territorio non vengano usate soltanto in una chiave populista e ruffiana, che scalda gli animi e muove le piazze attorno alla pizza o al pallone, ma che non riesce a collegarsi in uno sforzo unitario con il resto della Nazione.

(Il Mattino, 10 luglio 2017)

Primarie Pd, le idee per scegliere

pd puzzle

Primarie a bassa intensità, noiose, clandestine. Primarie scontate, primarie con rito abbreviato, primarie spopolate: definite in molti modi, rappresentano comunque l’appuntamento più largo e partecipato che in questo modo offre la vita interna dei partiti italiani. E dunque vale la pena darci un’occhiata, provare a orientarsi tra i profili e i programmi dei tre cavalieri – Renzi, Orlando, Emiliano – che in singolar tenzone si contendono la guida del partito (e, a norma di statuto, anche la premiership).

Sinistra

Ci sono quelli che dicono che la distinzione fra destra e sinistra non ha più molto senso. E tuttavia il partito democratico (che con Renzi segretario ha definitivamente aderito al socialismo europeo) continua a definirsi come un partito di sinistra, e tutti e tre i candidati condividono questa collocazione. Cambiano però gli aggettivi qualificativi, che sono necessari per apprezzare le differenze. La sinistra di Orlando somiglia alla tradizione socialdemocratica, e l’insistenza sul tema dell’uguaglianza fa sì che “democratico” sia senz’altro l’aggettivo da scegliere per la sua proposta programmatica. Quella di Renzi è invece una sinistra liberale, con più robusti innesti di liberalismo nelle proposte economiche, nell’idea di modernizzazione, nell’insistenza sul tema dello sviluppo. Emiliano, infine, è l’unico che non disdegnerebbe affatto l’aggettivo populista, che prova a presentarsi come l’uomo che lotta contro l’establishment e i potenti («il Pd dei banchieri e dei petrolieri»).

Populismo

A proposito di populismo, detto che per Emiliano non sembra affatto che sia un vero avversario, e che anzi ci andrebbe volentieri a braccetto, Orlando e Renzi usano entrambi la parola per denunciare un pericolo per le istituzioni democratiche, o perlomeno per le politiche di cui il Paese avrebbe bisogno. Orlando lo considera un «rischio mortale» per il Pd e, pensando a Emiliano ma anche a Renzi, denuncia le dosi di populismo entrate nelle vene del partito (ad esempio sul tema dei costi della politica, che Renzi riprende e che Orlando invece non cavalca mai). Per Renzi, al di là di stile, tono e qualche volta argomenti, la vera risposta al populismo stava però nella riforma costituzionale, cioè nel passaggio ad un sistema politico e istituzionale semplificato e più efficiente.

Legge elettorale e sistema istituzionale

Sul primo punto, in cima all’agenda dei prossimi mesi, siamo al ballon d’essai delle dichiarazioni quotidiane. C’è molto tatticismo, e il sospetto fondato che alla fine non cambieranno le cose. Ci terremo probabilmente la legge uscita dalla sentenza della Corte costituzionale, con piccoli aggiustamenti. Renzi, comunque, punta tuttora a correttivi maggioritari; Emiliano si dichiara per un maggioritario con collegi uninominali, e tutti e due vogliono togliere i capilista bloccati. Orlando proviene da una cultura di tipo proporzionalista, ha sposato nella sua mozione la proposta Cuperlo con il premio di lista ma è disponibile ora al premio di coalizione. La riforma costituzionale, dopo il referendum, è invece divenuta un terreno completamente minato: nessuno ci cammina più su. Nella mozione congressuale di Renzi c’è un cenno alla riforma del titolo V (autonomia regionale), in Orlando nemmeno quello. Ma è giusto ricordare che Renzi e Orlando stavano dalla stessa parte, mentre Emiliano ha osteggiato fragorosamente il programma di riforme del governo, e ha votato no al referendum.

Alleanze

Insieme alla legge elettorale sta il punto politico: le alleanze. Gli ultimi giorni si sono giocati su questo tema: Orlando agita contro Renzi lo spauracchio dell’accordo con Berlusconi. Renzi ribatte che Orlando la coalizione con Berlusconi l’ha già fatta. Ma in realtà il tema non può essere declinato concretamente in assenza di una legge. Se rimane un impianto proporzionale, le alleanze si faranno dopo il voto, non prima: secondo necessità. Non è chiaro infatti come si possa evitare l’accordo con il centrodestra senza un meccanismo maggioritario sul modello del tanto deprecato (e dalla Corte costituzionale bocciato) Italicum. Le discriminanti sembrano in realtà altre. Orlando non ha difficoltà a riprendere il dialogo con i fuoriusciti del Pd, Renzi invece ne fa una questione di coerenza: con Pisapia e il suo campo progressista sì, ma come si fa a stringere un’alleanza con D’Alema e Bersani, che il Pd lo hanno rotto? Che senso ha dividersi il giorno prima e allearsi il giorno dopo? Quanto a Emiliano, guarda con interesse agli elettori grillini, e si capisce che cercherebbe alleanze da quella parte.

Unione europea

Dici Europa e li trovi tutti d’accordo: sembra quasi una gara a chi si dice il più europeista di tutti (anche se tutti aggiungono subito dopo che così com’è l’Unione non va). Emiliano, i cui toni populisti non sembrerebbero andare a braccetto con il sogno europeista, innalza addirittura il vessillo degli Stati Uniti d’Europa; Orlando ne fa prioritariamente una questione di policies e punta alla costruzione del “pilastro sociale” che mancherebbe all’Unione; Renzi tiene insieme le due cose e soprattutto prova a rilanciare l’iniziativa politica per cambiare l’Europa, proponendo di affidare alle primarie la scelta del candidato alla Presidenza della Commissione. In realtà, con la probabile elezione di Macron (apprezzato da tutti e tre) e un possibile, rinnovato asse franco-tedesco, gli spazi per i giri di valzer si riducono: Renzi batte i pugni a Bruxelles, Emiliano dice che lo fa troppo poco, e Orlando dice che lo fa inutilmente. Questioni di immagine, più che di sostanza.

Mezzogiorno

Il Mezzogiorno c’è nei programmi di tutti e tre. Ma nessuno dei tre candidati lo ha scelto come terreno sul quale marcare una vera differenza rispetto agli altri due. Neppure Emiliano, che pure è governatore di una regione meridionale, la Puglia. Tutti e tre pongono la questione meridionale come una questione nazionale. Tutti e tre sono consapevoli che l’Italia non potrà mai crescere oltre lo zero virgola se a crescere non sarà anzitutto il Sud. Ma nessuno dei tre ha chiesto un solo voto per il Sud, e alla fine il risultato che prenderanno in Campania o in Sicilia, in Puglia o in Calabria dipenderà molto di più da dinamiche di tipo localistico, che dal profilo programmatico che hanno assunto. E al dunque: Renzi voleva portare il lanciafiamme a Napoli, ma poi non lo ha fatto. Orlando invece a Napoli ci ha fatto il commissario, e chiamarsi fuori non può; Emiliano infine s’è preso lo sfizio di strizzare l’occhio a De Magistris appoggiando pochi giorni fa «l’insurrezione pacifica contro Salvini». Tant’è.

Migranti e sicurezza

Tutti e tre i candidati subiscono la pressione dell’opinione pubblica e tendono a declinare i due temi insieme. Tutti e tre si coprono – come si suole dire – su quel fianco sul quale tradizionalmente i partiti di sinistra si mostrano più scoperti. Così Emiliano spende parole sull’accoglienza e sul bisogno di manodopera straniera della sua Puglia (non proprio un argomento di sinistra), ma nel confronto televisivo tiene a ricordare che lui, da magistrato, girava con la pistola nella tasca dei pantaloni. Renzi fa la polemica con l’Unione europea che scarica sul nostro Paese il peso maggiore nell’accoglienza, ma si allinea alle posizioni più dure in tema di legittima difesa (non proprio una posizione di sinistra); Orlando vuole superare il reato di immigrazione clandestina, ma difende la sua legge che accelera l’esame del diritto d’asilo, togliendo il grado di appello (legge assai poco amata a sinistra). In compenso, nessuno di loro indietreggia di fronte al compito di salvare le vite umane in mare e difendere le Ong.

Economia

Per tornare a trovare differenze più accentuate fra i tre candidati, bisogna allora tornare a guardare ai temi dell’economia e della società. La più chiara di tutte: Orlando e Emiliano sono per una patrimoniale, mentre Renzi la esclude. Il programma economico e sociale di Renzi è per il resto tracciato nel solco di quello seguite dal suo governo. E cioè il jobs act, poi gli 80 euro, «cioè la più grande operazione distributiva che sia mai stata fatta», poi la riforma della pubblica amministrazione e quella della scuola. Orlando in realtà faceva parte del governo e Renzi non ha mancato di ricordarglielo, ovviamente. Ciò non toglie che Orlando ha criticato la politica dei bonus, che vanno a tutti, ricchi e poveri indistintamente, e provato a riprendere il tema più classicamente socialdemocratico della redistribuzione dei redditi («sradicare in tre anni la povertà assoluta»). Emiliano ha forse il programma più a sinistra: critica l’abrogazione dell’art. 18, vuole tassare le multinazionali del web, vuole una forma universale di sostegno al reddito. E però vuole pure la riforma dell’IVA, finanziandola con il recupero dell’evasione dell’imposta.

Partito

Come sarà il partito democratico dal 1° maggio? Se vince Renzi, è l’accusa degli altri due, sarà quello che è stato finora: un partito fortemente segnato dalla leadership di Matteo, tinto di prepotenza e poco inclusivo. Emiliano era sul punto di andarsene, poi è rimasto ma continua a dipingere Renzi quasi come un pericolo. Orlando ha finito la campagna elettorale arrivando a dire che o vince Renzi o vince il Pd. In effetti, Renzi è arrivato alla guida del Pd sull’onda della rottamazione, non mancando di aggiungere che preferiva farsi dare dell’arrogante piuttosto che farsi fermare dai veti incrociati dei maggiorenti del partito. Nella sua mozione, però, gli accenti sono mutati: cita Gramsci, propone non un partito pesante ma un partito pensante, ne mantiene il tratto aperto e contendibile, fondato sul modello delle primarie, ed è soprattutto l’unico che prova a tratteggiare un modello nuovo di militanza. Emiliano chiede invece di cambiare lo statuto e l’identificazione fra candidato premier e segretario nazionale, Orlando propone invece le primarie regolate per legge.

Le persone

Le differenze, tutto sommato, ci sono. Ma sicuramente si disegnano con più nettezza se si guarda alle rispettive personalità. Orlando è quello più “strutturato”, che prova a incarnare la serietà della politica; Emiliano fa quello fuori dalle righe, che sta tra la gente e fuori dal Palazzo (pur essendoci seduto dentro); Renzi vuole essere ancora l’uomo delle riforme, che ha cominciato e vuole continuare. Uomo della mediazione Orlando, uomo della declamazione Emiliano, uomo della rottamazione Renzi. Correzione di rotta per Orlando, rivoluzione gentile per Emiliano, cambiamento per Renzi, bandiera finita nella polvere dopo il 4 dicembre. Non se ne è parlato molto, ma il senso dato a quel voto è un vero discrimine fra i tre. Un no sacrosanto per Emiliano; una severa lezione, per Orlando; uno stop imprevisto dal quale ripartire per Renzi. Solo il voto di oggi potrà indicare la strada. E questo, dopo tutto, è il bello della democrazia (non quella diretta).

(Il Mattino 30 aprile 2017)

Maggioranza e minoranza, ecco dove il Pd si è spaccato

Massimo Adinolfi, Nando Santonastasopd

Nuovi gruppi parlamentari, e presto anche nuovi soggetti politici: la scissione nel Pd è ormai cosa fatta. Ma fatta perché o per cosa? Ragioni di posizionamento politico, lotte di potere, ambizioni personali contano, ovviamente. Ma hanno comunque bisogno di un vocabolario per articolarsi, di un lessico per dirsi e per spiegarsi. Siccome non sono più disponibili i vecchi schemi ideologici, la scissione cammina sui temi e le politiche di questi anni, tra antiche velleità e nuove ambizioni. Dopo dieci anni, il partito democratico non ha ancora chiaro quale debba essere il suo complessivo orizzonte culturale: se deve spingere di più sul pedale dell’innovazione, o recuperare parte del bagaglio teorico abbandonato nel corso degli anni, se essere più testardamente socialdemocratico o più spregiudicatamente liberale, se puntare di più su apertura, speranza e futuro, o se invece offrire più sicurezza, protezione, assistenza. Se reinventarsi o ritrovarsi. E se, più prosaicamente, rivendicare o ripudiare le politiche fatte stando al governo. Il dibattito apertosi dentro il Pd, soprattutto dopo il referendum del 4 dicembre, prosegue ora anche fuori, con la scissione, anche se non così fuori e lontano come appaiono le posizioni di Sinistra italiana. In ogni caso, era giusto parlare di maggioranza e minoranza, come abbiamo fatto, perché la ricerca di spazio e di identità della sinistra non è cominciata con la scissione, e non finisce con essa. Di sicuro nel vocabolario della crisi entrano tanti, forse troppi disitnguo che hanno segnato, irrimediabilmente, la storia interna del maggiore partito italiano negli ultimi anni. Rari i momenti di scelte condivise, fino allo scontro totale che ha preceduto la sconfitta dell’ex premier e della maggioranza al referendum costituzionale. Oggi che i venti di scissione sono diventati certezza, si apre una nuova fase dagli sviluppi complicati, condizionata come sarà dalla nuova prospettiva proposizionale che si intravede nella nuova legge elettorale. Ed è qui che i giochi torneranno a essere decisivi, come non è difficile prevedere.

Il Jobs act. Su articolo 18 e bonus lo scontro più duro

È uno dei nervi scoperti del Pd, il fronte forse più acceso di contrasto tra maggioranza e minoranza. La riforma del lavoro, difesa a spada tratta da Renzi, ha puntato tra le priorità al ritorno a politiche attive del lavoro, alla creazione di nuova occupazione dopo gli anni della recessione attraverso incentivi e semplificazione burocratica, all’abolizione dei vincoli sui licenziamenti chiesta a gran voce dalle imprese. Sostenuta dall’Ue, che l’ha sempre considerata giusta e moderna, la riforma è finita subito nel mirino della minoranza. L’abolizione dell’articolo 18 e la possibilità dei licenziamenti collettivi hanno creato un solco mai colmato («Errore clamoroso», disse non a caso Speranza nel giorno dell’approvazione della legge). Ma anche i modesti risultati sui nuovi posti di lavoro e sull’occupazione giovanile in particolare sono stati imputati dai “bersaniani” ai limiti oggettivi della legge.

L’Imu. La tassa sulla prima casa tra distinguo e polemiche

Altro terreno di forte scontro, l’aboliione dell’imposta sulla prima casa. Il governo Renzi e la maggioranza Pd l’hanno estesa a tutti, senza alcuna eccezione in base alle categorie di reddito come invece chiedeva la minoranza per la quale il provvedimento è stato considerato sin dall’inizio un ulteriore “regalo” al centro politico che ha sostenuto l’esecutivo. Per Renzi quella scelta è stata invece il primo passo per un progetto più complessivo di abolizione della tassazione sulle famiglie che avrebbe dovuto portare anche alla riduzione delle aliquote Irpef, sponda che la crisi del post-referendum ha reso irraggiungibile. Per la minoranza resta al contrario l’idea-forte di tassare di più i redditi e i patrimoni alti spingendo al massimo la lotta all’evasione fiscale per recuperare le risorse necessarie.

Le alleanze. Sguardi bifronti: dal centro al richiamo della sinistra

Non si sa con quale legge elettorale si andrà a votare, né quando, ma è convinzione diffusa che la legge avrà un impianto proporzionale. Le prossimen maggioranze si formeranno dunque in Parlamento: come nella prima Repubblica, salvo il fatto che la solidità e la compattezza dei partiti di allora è incomparabilmente superiore a quelle delle formazioni politiche attuali. Ciò detto, la minoranza disdegna di guardare verso il centro, mentre la maggioranza del Pd trova più facile tirare una linea di demarcazione a sinistra. Qeusto in teoria, perché per arrivare al 51% è sempre più probabile che ci sarà bisogno di formare coalizioni molto ampie, a meno di non volersi sottrarre alla prova del governo. Ma pezzi della minoranza coltivano l’illusione di riaprire il discorso con il M5S, mentre in settori della maggioranza affascina ancora il modello neocentrista del “partito della nazione”.  

Il welfare. Lotta alla povertà: piani e “strappi” senza sbocchi

La povertà e le misure per contrastarla sono state un terreno quasi inevitabile, anche dal punto di vista ideologico, di contrasto. Il governo Renzi e la maggioranza hanno sempre detto di no all’idea di un reddito di cittadinanza “modello 5 Stelle”, puntando sul reddito di inclusione e aumentando le risorse destinate al Fondo di solidarietà per le famiglie del disagio sociale. I tempi però non sono stati brevi perché il ddl illustrato dal ministro Poletti a febbraio non ha ancora completato l’iter. La minoranza ha presentato proposte se non alternative quanto meno diverse puntando soprattutto ad estendere la platea dei beneficiari degli 80 euro (in base ai componenti del nucleo familiare) attraverso la revisione del codice Isee e degli aventi diritto al bonus bebé. Dialogo spesso tra sordi ma mai interrottosi.

I diritti. Su unioni civili e cannabis uniti senza se e senza ma

Sui temi dei diritti civili, sulle materie eticamente sensibili, il partito democratico è forse meno diviso che in passato. In Parlamento e nelle Commissioni sono in discussione almeno tre argomenti delicati: la legalizzazione delle cannabis, lo ius soli, il testamento biologico. Su posizioni progressiste si trovano tanto esponenti della maggioranza quanto esponenti della minoranza. Così è stato anche al momento di votare le unioni civili, nel 2015: Renzi ne aveva fatto un punto qualificante della sua campagna per le primarie, ma quella legge ha il consenso anche di Speranza o di Rossi. Quando fu varata, si accantonò il tema della stepchild adoption, ma nelle discussioni in corso nessuno lo ha indicato come uno dei punti sui quali fare una battaglia nel prossimo futuro.

Le privatizzazioni. Forti divisioni sul mercato ma la crisi riduce le distanze

La linea della maggioranza renziana è stata chiara sin dall’inizio: mettere sul mercato quote, mai la maggioranza, dei cosiddetti campioni nazionali del sistema industriale e produttivo del Paese (da Eni a Poste) per favorire lo sviluppo della competitività attraverso il mercato e consentire l’attrazione di capitali stranieri, indispensabili alla crescita. Di tutt’altro avviso la minoranza anche se lo stesso Bersani, ministro del governo Prodi, non ha mai nascosto che certe scelte di ispirazione blairiana andavano fatte e condivise (non a caso le “lenzuolate” rimandano al suo nome). Oggi però quelle ricette non vanno più bene di fronte alla povertà e alla strategia politica delle “destre”. Non a caso lo stesso Renzi ne ha tenuto conto negli ultimi tempi rivedendo almeno parzialmente l’impostazione originaria.

Le tasse. 80 euro, Ires, Rai: i tagli non ricompongono l’intesa

«Continuare a ridurre le tasse per i cittadini, fare di tutto per incentivare il lavoro e produrre ricchezza, perché solo così riparte la nostra economia». Renzi e la maggioranza hanno insistito moltissimo su questo punto: non solo l’Imu ma anche il bonus degli 80 euro, la riduzione del canone Rai, il taglio di Iri e Ires per le imprese, l’abolizione dell’Imu agricola sono tutti provvedimenti, spiegano, che dimostrano in modo inequivocabile la scelta di avviare concretamente l’annunciata diminuzione della pressione fiscale. La minoranza replica impugnando l’addio all’Imu: non si può togliere l’imposta anche a chi dichiara redditi da un miliardo. Meglio, si insiste, dedicarsi agli investimenti che incidono di più sulla crescita. Replica di Renzi nel fiore delle polemiche: «Per i cittadini stiamo riducendo troppo poco le tasse invece per (alcuni?) i politici le stiamo riducendo troppo. Non è fantastico?».

L’Europa. Fiscal compact, che errore. Stavolta tutti lo riconoscono

È un terreno che avvicina molto maggioranza e minoranza, peraltro d’accordo su quella che oggi viene considerata una scelta-capestro per un Paese con un elevato debito pubblico. Parliamo dell’adesione al fiscal compact “imposta” dal patto tra il governo Monti e l’Unione europea e considerato quattro anni fa come un punto irrinunciabile per riconquistare la fiducia di Bruxelles. Il pareggio di bilancio, votato dal Parlamento (Pd pressoché compatto) e inserito nella Costituzione, si è rivelato con il tempo una sorta di trappola: da tempo Renzi chiede la fine di politiche di rigore e austerità dell’Ue e su questo terrno non ha trovato opposizioni interne. La minoranza chiede però che il partito si impegni per una forte politica di redistribuzione dei redditi e sul come agire le distanze interne restano.

Gli statali. Una bocciatura che apre altri fronti di contrasto

La riforma tutto sommato non aveva trovato fortissime opposizioni: la decisione di mettere mano alla macchina pubblica, specie per eliminare privilegi e distorsioni organizzative e di carriera, rilanciando finalmente la credibilità del settore, non aveva incontrato resistenze di sorta. Il diavolo però ci ha messo lo zampino, nel senso che la decisione della Consulta di bocciare tre passaggi decisivi del piano predisposto dal ministro Madia ha finito per trasformarsi in un ulteriore motivo di scontro interno anche perché capitato nel bel mezzo delle tensioni per la riforma costituzionale. Olio bollente sull’incendio, insomma. Non è un caso che anche all’interno del partito la riproposizione del ministro nella nuova squadra di governo era considerata poco probabile. Non per Renzi che sulla riconferma del “suo” ministro non ha avuto alcun dubbio rilanciandola anche con Gentiloni.

I riferimenti. Tra Schulz il socialista e Macron l’outsider

Ora che Martin Schulz si è tuffato nella campagna elettorale tedesca, staccando la Merkel nei sondaggi, c’è la possibilità di dire che forse non tutto, del vecchio bagaglio di idee della socialdemocrazia, è da buttare. Perché Schulz ha rivitalizzato la SPD, proponendo di smantellare l’indirizzo politico economico seguito dalla Germania negli ultimi anni (dalla Merkel, ma prima ancora dallo stesso Schrøeder, il cancelliere socialdemocratico che spostò il partito verso il centro): niente austerità, retromarcia sui contratti a tempo e sul salario minimo, che invece di garantire i lavoratori ne comprime i redditi. Lo slogan suona: «è tempo di maggiore giustizia sociale, è il tempo di Martin Schulz». Schulz però entusiasma solo la minoranza, perché la maggioranza renziana pensa piuttosto a Macron, il rottamatore d’Oltralpe che si candida all’Eliseo fuori dagli schemi, oltre la destra e la sinistra.

 La scuola. La riforma della discordia ha spaccato anche il partito

La riforma della scuola è stata una buccia di banana per Renzi e il Pd. Non a caso, nel governo Gentiloni manca solo la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini. Il giudizio della maggioranza, che quella riforma ha voluto e votato, è ovviamente positivo, ma si appoggia soprattutto sull’entità delle risorse messe a disposizione, sul numero delle assunzioni, sull’indizione del concorso. La filosofia della riforma – autonomia, nuovo ruolo della dirigenza, alternanza scuola-lavoro – è molto più timidamente difesa. La minoranza invece la ritirerebbe oggi stesso. E forse sottoporrebbe a revisione tutto l’indirizzo di riforma dei governi di centrosinistra dai tempi del ministro Luigi Berlinguer ad oggi. Ma la scuola è stato anche il terreno di una frattura con tradizionali mondi di riferimento della sinistra, che la minoranza vuole recuperare, che la maggioranza ha qualche difficoltà a rifondare.

Il sistema elettorale. Il ritorno al proporzionale occasione o iattura

La legge con cui voteremo sarà quasi sicuramente una legge proporzionale, più o meno corretta. Ma questo è un giudizio di fatto, che tiene conto della sconfitta di Renzi al referendum e della sentenza della Corte Costituzionale. Il giudizio di valore però è diverso: per gran parte della maggioranza, il proporzionale è quasi una iattura, e l’Italia rischia di scivolare nuovamente nel pantano di governi deboli e coalizioni litigiose. Se potesse correggere in senso maggioritario la legge, lo farebbe. Diverso l’avviso della minoranza, che considera il proporzionale il vestito ordinario delle democrazie parlamentari, e teme ogni rafforzamento dei momenti della decisione, ogni irrobustimento dell’esecutivo a scapito del Parlamento, che passi attraverso correzioni maggioritarie, collegi uninominali, soglie di sbarramento elevate.

Il Mezzogiorno. Masterplan e Patti al via tra dubbi e “resistenze”

Non ha forse assunto il rilievo di uno dei temi più caldi dello scontro interno ma di sicuro anche le politiche per il Sud hanno diviso il Pd. Almeno nel senso che i percorsi individuati per ridurre il divario, obiettivo comune a tutto il partito, non sono apparsi sempre condivisi. Renzi dopo un anno di incertezze e di distacco («Basta piagnistei, basta con la denuncia del Sud abbandonato» ecc. ecc.), forse anche sotto il peso della critica dei territori, ha dedicato al Mezzogiorno un masterplan e 16 Patti con Regioni e Città metropolitane, tutti almeno teoricamente decollati. Ma non è caso che proprio al Sud si sia consumata la fetta più ampia della sconfitta al referendum e che le resistenze di Emiliano in Puglia abbiano avuto un peso anche mediatico tutt’altro che trascurabile.

L’immigrazione. Accoglienza e inclusione ma con diversi accenti

Su questo tema non è sempre chiaro se si confrontino nel Pd diverse sensibilità o diverse politiche. Perché il partito democratico è per l’accoglienza e l’inclusione. Ma con regole, che rendano governabile il fenomeno. Cosa più facile a dirsi che a farsi. Così capita che, a seconda degli umori (o delle tragedie) gli accenti si spostino ora sulla sicurezza, ora invece sulla solidarietà. Un banco di prova sarà presto offerto dalle nuove misure varate dal governo Gentiloni: più poteri ai sindaci, che potranno allontanare dal territorio comunale soggetti responsabili di violazioni reiterate, velocizzazione delle procedure relative al diritto d’asilo, per accelerare eventuali rimpatri. La maggioranza non avrà tentennamenti, ma nella minoranza si faranno sentire posizioni più sbilanciate a sinistra, che temono svolte di carattere securitario.

Le riforme. Il referendum spartiacque su Costituzione e poteri

Dopo lo scontro sul referendum, c’è da ritenere che per un po’ non se ne riparlerà, ma questo non vuol dire che sul terreno delle riforme costituzionali non si sia prodotto una lacerazione. Non solo perché la minoranza ha votato no, mentre la maggioranza ha votato sì, ma perché il no è stato accompagnato da valutazioni perentorie: riduzione degli istituti di garanzia, pericolo di deriva autoritaria. In questione non era il superamento del bicameralismo, né il Senato delle regioni, ma l’impianto complessivo della riforma, che ricordava agli oppositori le aspirazioni di Craxi o il progetto di Berlusconi e Calderoli. Una cosa di destra, insomma, che deturpava uno dei miti fondanti della Repubblica, quello della Costituzione democratica nata dall’antifascismo. Proprio il genere di argomenti che, agli occhi dei fautori, condanna da decenni il Paese all’immobilismo in tema di riforme.

Il partito. Primarie aperte a tutti o più peso per gli iscritti

I democratici sono l’unica formazione politica attualmente in campo che conserva il nome di partito. A volte sembra un motivo di orgoglio, altre volte un inutile fardello. Di sicuro la minoranza imputa a Renzi le maggiori responsabilità per la scissione, accusandolo di non aver saputo o voluto tenere insieme una comunità. Per Renzi e i suoi, è la minoranza che rifiuta le regole democratiche del confronto e della decisione. Al fondo stanno però idee diverse sulla forma-partito. Non a caso, per la minoranza il problema è già nello statuto, che per via delle primarie aperte dà poco peso agli iscritti e proietta la leadership in un rapporto diretto coi cittadini. Cosa che per la maggioranza è, al contrario, un titolo di merito. Infine: Renzi ha fortemente voluto l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la minoranza volentieri tornerebbe indietro.

(Il Mattino, 22 febbraio 2017)

La Campania offre un patto al governo

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La provocazione ha avuto effetto: i 200.000 posti del piano di Vincenzo De Luca per la pubblica amministrazione nel Mezzogiorno hanno tirato fuori il dibattito dalle secche in cui c’è sempre il rischio che scivoli, quando si tratta di misurarsi con la sempiterna questione meridionale. La proposta è in sé discutibile, ed infatti è stata discussa. È stata anzi al centro della discussione che ha ravvivato questi Stati Generali, voluti dal governatore De Luca per rilanciare il tema dello sviluppo del Sud e porlo nuovamente al centro dell’agenda nazionale. E nella discussione sono affiorate le domande: siamo sicuri che il Mezzogiorno abbia bisogno anzitutto di un piano straordinario di assunzioni, anziché di un rilancio degli investimenti? Siamo sicuri che è un piano sostenibile per le finanze dello Stato? Siamo sicuri che il tema delle burocrazie pubbliche non sia anche un tema di qualità complessiva dell’azione amministrativa e di efficientamento delle policies? Siamo sicuri che basti indicare un obiettivo generale, e non siano piuttosto da considerare i settori strategici nei quali occorre anzitutto rafforzare la macchina dello Stato?

Ma ora ci sono le domande, e prima non c’erano nemmeno quelle. Diciamo anzi la verità: la proposta di De Luca ha almeno un primo merito, quello di rovesciare senza timidezze la retorica corriva, secondo la quale i soldi dati al Mezzogiorno sono per forza soldi sprecati, che finiscono invariabilmente in clientele, assistenzialismo, ruberie. Finché prevale questa narrazione, è difficile impostare il tema della riforma della pubblica amministrazione in maniera diversa da quella dei tagli, del risanamento e della spending review. Poi ne ha anche un secondo, più generale, dal momento che una proposta del genere suppone che ridurre il perimetro dell’azione pubblica non sia più la priorità assoluta. Con il blocco del turn over in tutti questi anni lo Stato, secondo De Luca, è dimagrito abbastanza: in tutto il Paese e in particolare al Sud.

Su questo, il Presidente Renzi ha convenuto. «Si deve dire che si tornerà ad assumere nella pubblica amministrazione», ha detto il premier, ed in effetti il governo ha cominciato a farlo: nel settore della scuola o in quello della giustizia, per esempio. Poi però ci sono le precisazioni: «servono più ricercatori» – ha aggiunto infatti Renzi – «non più dipendenti». Che tradotto vuol dire: badiamo alle domande di cui sopra. Cioè: stiamo attenti alla qualità della spesa pubblica, non accontentiamoci di buttar dentro qualche centinaio di migliaia di statali, ma ragioniamo su dove e come impiegare nuove risorse.

La prudenza, insomma, è necessaria: dettata anzitutto dal ruolo e dalle responsabilità. Ma in nessun modo Renzi ha ribaltato i dati di partenza del ragionamento che De Luca ha proposto nel suo intervento agli Stati Generali. E cioè: l’amministrazione pubblica è anagraficamente vecchia; l’amministrazione pubblica si è progressivamente dequalificata; lo Stato non può lasciare fuori un’intera generazione.

Questi infatti sono i dati. Poi c’è il numero, la meta iperbolica delle 200.000 nuove assunzioni, e quella è evidente che a Renzi (e non solo a lui) è parsa del tutto fuori dalla portata dell’azione di governo, in questa congiuntura. Ma quel numero doveva essere dirompente, per lanciare con forza l’idea di una nuova stagione di impegno vero dello Stato nel Sud. E doveva anche avere un sottinteso politico, nemmeno tanto velato.

In politica conta chi prende l’iniziativa, chi manifesta un’ambizione, chi si fa portabandiera di un progetto di largo respiro. Renzi lo ha fatto, portando ad approvazione la riforma costituzionale e ora mettendo in gioco il futuro del Paese con il referendum del 4 dicembre. Nelle intenzioni del premier, le riforme sono il viatico della nuova Italia: hic Rhodus, hic salta.

De Luca lo fa a sua volta, chiedendo però al governo di fare un altro salto, persino più grande del primo. Proponendo cioè di riempire il disegno riformatore con un piano almeno altrettanto ambizioso, che parli da molto vicino alle persone, soprattutto in quelle aree dove la crisi economica e sociale morde ancora, e non bastano certo le attuali, risicatissime percentuali di crescita del PIL per delineare una concreta inversione di rotta. In questo senso, De Luca cerca di dare una mano a Renzi, non di mettere in difficoltà il governo. È come se gli dicesse: caro Renzi, prova a spiegare che questa maggioranza che chiama al voto il 4 dicembre sulle riforme è la stessa che vuole affrontare in maniera radicale il tema del lavoro nel Mezzogiorno, che vuole offrire una prospettiva di futuro ai giovani. Prova a far passare l’idea che anche su questo si gioca la partita del voto, e magari così ti riesce pure di vincerla. Poi i numeri li aggiustiamo, e la spesa la teniamo sotto controllo. Ma intanto lanciamo una grande controffensiva politica e culturale anche su questi temi, su un’offerta rinnovata di beni pubblici in tema di sicurezza, di sanità, d’istruzione, di ambiente su cui il Mezzogiorno ha pagato sinora il prezzo più alto.

Ora però queste cose non è che De Luca si limita a suggerirle: le dice lui stesso, in prima persona, e pure questo un significato ce l’ha. Ed è più di un messaggio o di una raccomandazione. È l’offerta di un patto politico, che il presidente della regione Campania si prefigge di stringere più fortemente, dopo che sarà chiaro il risultato del referendum.

(Il Mattino, 14 novembre 2016)

Quella stretta di mano al Mezzogiorno

panzerotti-frittiQuestione di simpatia? Matteo Renzi e Michele Emiliano l’hanno ritrovata, e a detta di quest’ultimo un certo feeling è indispensabile per fare bene un lavoro comune. L’occasione è stata il Patto per la Città Metropolitana di Bari, a cui farà presto seguito il Patto con la Regione. Ma nella tregua di ieri, in nome di una logica istituzionale che spinge governo e poteri locali a lavorare insieme, non si sono avvertiti particolari motivi di tensione fra i due. Anzi, sembra che ci sia stato qualcosa di più, oltre il reciproco riconoscimento di ruolo, e cioè che abbia preso fisionomia una prima intesa politica. Certo, se il referendum sulle trivelle fosse andato diversamente, se si fosse raggiunto il quorum ed Emiliano l’avesse vinto, sarebbe stata un’altra musica, e il governatore della Puglia avrebbe probabilmente continuato a spingere sul pedale della contrapposizione. Ma dopo il voto lo scenario è cambiato, e Emiliano ha cominciato a valutare diversamente i costi di un isolamento.

Da una parte, a casa sua, il sindaco di Bari, Decaro, e le forze economiche locali gli chiedevano di sottoscrivere un Piano che finanzia non l’intero ammontare dei progetti presentati dalla Regione, ma una sua fetta consistente. Emiliano non ha mancato di commentare: «è chiaro – ha detto – che c’è differenza tra avere i soldi in tasca e andarli a chiedere, e questo un po’ ci indebolisce dal punto di vista della libertà». Dopodiché però, con sano realismo, ha assicurato che fra un paio di settimane anche la Regione Puglia firmerà l’accordo.

Dall’altra parte, Emiliano deve essersi guardato intorno, e risalendo la Penisola si è accorto che a sinistra, dentro e fuori il Pd, non c’è una falange unita e compatta, pronta a fare di Emiliano il leader degli anti-renziani. Dentro il Pd, del resto, ci provano già Enrico Rossi, il governatore della Toscana, e Roberto Speranza, leader della minoranza dalemian-bersaniana (con cuperliani di complemento): avesse vinto il referendum, avrebbe avuto forse la forza per scavalcarli, ma dopo il voto quella forza Emiliano di sicuro non ce l’ha. E fuori la cosa sarebbe stata ancora più complicata: vuoi perché ne risentirebbero certamente gli equilibri politici della Regione, vuoi perché per andare sino in fondo bisognerebbe scegliere una strada populista e antagonista lungo la quale è già pronto a lanciarsi Luigi De Magistris, che di populismo e antagonismo sa spanderne a pienissime mani. Di Masanielli, insomma, ce n’è già uno. E non teme la concorrenza. Emiliano allora ci ha pensato su, ha dato un’ultima, malinconica scòrsa al voto referendario, e poi ha scritto a Matteo: vediamoci.

Renzi, dal canto suo, non se l’è fatto dire due volte. Quando, pochi giorni, era venuto in Campania, aveva sottolineato che all’appello mancavano ormai solo il Sindaco di Napoli e il governatore della Puglia. Ora può dire che ce n’è rimasto solo uno. A quanto pare, la strategia dei patti con le istituzioni territoriali attraverso i quali ridefinire pezzo a pezzo l’impegno del governo per il Mezzogiorno sta dando, almeno sul piano politico, i suoi frutti. Del resto, non si sottolinea mai abbastanza che il Pd non è solo al governo, è anche alla guida di tutte le regioni meridionali: non è pensabile, dunque, che non si debba accollare il peso di questa così ampia responsabilità. Se non altro perché, al termine della legislatura, gliene verrà chiesto conto. Nei prossimi mesi, terrà ovviamente banco il referendum sulla riforma costituzionale, e il premier – personalizzazione o non personalizzazione del confronto – ha sicuramente bisogno di vincerlo. Perciò, in questa fase, gli viene buono qualunque accordo gli consenta di allargare il consenso, di smussare i distinguo all’interno del Pd, e soprattutto di presentarsi alla guida di un cambiamento reale. Ma dopo saranno anche i temi dell’economia a dettare i tempi della politica nazionale. E Renzi deve continuare a mostrare che la capacità realizzativa esibita nei primi mesi di governo non è andata smarrita. Deve ripartire da lì, dalle opere e dalle infrastrutture, ma anche da un investimento sugli uomini che aiuti a costruire, nel Mezzogiorno, una politica di segno diverso. Il suo governo ha in effetti impresso una decisa correzione in senso centralista delle spinte federaliste e anti-meridionalistiche degli anni passati. Renzi viene e stringe mani, ed è un bene che le mani si aprano per stringere a loro volta il patto per il Sud, Si tratta ora di dimostrare che la correzione di rotta che porta un po’ di risorse in più nel Mezzogiorno non serve solo a mettere in riga qualche avversario politico recalcitrante, con un attento uso della carota dei finanziamenti, ma anche a costruire il profilo di un nuovo meridionalismo, di ben altra qualità rispetto ai vecchi vizi culturali (e clientelari) del passato. I panzerotti di Bari saranno serviti a questo?

(Il Mattino, 18 maggio 2016)

 

Perché servono risposte grandi

Acquisizione a schermo intero 08092015 140335.bmpÈ trascorso un mese dalla direzione nazionale del Pd convocata per discutere di Mezzogiorno. Mancano invece pochi giorni alla definizione delle misure che dovrebbero dare corpo al «masterplan» annunciato in quella circostanza dal premier. Renzi ha cominciato a parlarne: varie ipotesi sono allo studio. In attesa di conoscerne il dettaglio, si può cominciare però a ragionare sui diversi piani su cui le future decisioni del governo cadranno. Perché c’è anzitutto il piano delle misure economiche: del credito d’imposta o degli sgravi contributivi che sarebbero allo studio, con l’obiettivo di rilanciare anzitutto gli investimenti; ma c’è anche una questione più grande, che fa da cornice generale alle idee e agli strumenti in corso di definizione. E che paiono deboli e incerti anche perché cominciano a profilarsi dopo anni, se non decenni, di sostanziale rimozione del Mezzogiorno dalle politiche nazionali. Si è detto addirittura che la seconda Repubblica poteva vantare se non altro questo merito, di aver mandato finalmente in soffitta l’annosa «questione meridionale». Col magro risultato che, a distanza di vent’anni, la linea della palma di cui parlava Sciascia sta lì: casomai più su e non più giù. E i dualismi economici si sono accentuati, le distanze sono aumentate, le asimmetrie fra Nord e Sud del Paese cresciute.

Quando, poco più di un anno fa, questo giornale provò a rilanciare una sorta di manifesto per un nuovo meridionalismo, cominciò a farlo proprio a partire dai termini del discorso pubblico di cui, pensavamo, bisogna riappropriarsi. Al primo punto stava cioè la necessità di dire con forza che una questione meridionale esiste eccome: senza sconti per nessuno – classi dirigenti meridionali comprese – ma senza neppure alibi o pretesti, presi magari dalla storia o dal clima, dall’antropologia o dalla geografia, per non parlarne affatto.

La questione più grande è dunque se si possa tornare a parlare di Mezzogiorno – parlare, dico, a tutto il Paese – senza apparire vecchi o superati, e senza neppure vedere più politici frenati dal timore di perder voti per il solo fatto di aprir bocca. Dopodiché viene la consapevolezza che, però, sul piano delle misure concrete da adottare non c’è nulla che dall’oggi al domani possa di colpo cambiare le cose, e che, d’altra parte, uno sforzo straordinario è richiesto, per cominciare, cominciare almeno  a recuperare il terreno perduto.

Ma i piani su cui intervenire sono tanti. Basta guardarsi intorno, e basta capire quanto importante sia tutto questo «intorno». Gli psicologi vi diranno che conta, certo, quello che abbiamo in testa, ma conta pure quello che è intorno alla testa: significati, valori e azioni dipendono da ciò che è dentro la testa ma pure da ciò dentro cui la testa sta. I nostri quartieri, le nostre piazze e le nostre strade. È di ieri la notizia che, dopo i fatti di sangue dei giorni scorsi, le misure di sicurezza nel rione Sanità saranno aumentate, che la presenza dello Stato si farà sentire, che ci saranno più polizia e carabinieri nelle zone a rischio, che saranno inviati altri uomini e che queste misure non avranno un carattere temporaneo. Ma è evidente che non sarà la risposta repressiva, da sola, a risolvere i problemi di sicurezza e legalità che affliggono Napoli e il Mezzogiorno. Non saranno i cinquanta uomini mandati da Alfano a farlo, e probabilmente non potrebbero riuscirvi neppure se fossero in cinquecento, o in cinquemila. La repressione è sicuramente una delle leve che devono essere azionate, insieme a una azione di contrasto giudiziario che abbia carattere di certezza. Ma nessuno si illuda che arresti o condanne potranno mai bastare, se la situazione economica, sociale, urbanistica rimarrà quella che è oggi, quella che abbiamo sotto i nostri occhi. Lo Stato è fatto di polizia e tribunali, ma pure di ospedali e scuole: debbono funzionare quelli, ma ancor più devono funzionare questi. Con gli attuali indici di dispersione scolastica e di disoccupazione giovanile, indici da record, si può immaginare davvero che spariscano la delinquenza e la criminalità piccola e grande grazie ai cinquanta uomini in più? Si può anche solo ipotizzare che riqualificazione e rigenerazione del tessuto urbano facciano solo da sfondo all’azione repressiva dello Stato, o non debbono stare piuttosto al centro di ogni ipotesi di riscatto del Mezzogiorno?

Non è allora la stessa mole del problema a rappresentare una prova politica di prima grandezza? In queste ore i giornali e l’opinione pubblica europea è piena di ammirazione per la decisione della cancelliera Merkel di accogliere i rifugiati che premono alle porte dell’Unione Europea. Quel che anzitutto colpisce è per dir così la dimensione della decisione, il tentativo cioè di dare una risposta di ampiezza pari al problema da affrontare. Ecco: noi abbiamo in casa una sfida di carattere epocale, perché tale è il formato della questione meridionale. Non ha senso dunque chiedere se cinquanta uomini non siano pochi, oppure se non giungano tardivamente; ha senso però chiedere se stia o meno maturando la consapevolezza che occorrono risposte grandi, di lunga lena, di lunga durata, che si misurino con un compito storico, a cui è legato davvero il futuro del Paese, sotto e sopra la linea della palma e del caffè ristretto.

(Il Mattino, 8 settembre 2015)

Le lezioncine che non aiutano il Mezzogiorno

Acquisizione a schermo intero 10082015 103756.bmpIl discorso di verità sul Mezzogiorno che Renzi non ha fatto e avrebbe dovuto fare, secondo uno dei maggiori editorialisti italiani, Ernesto Galli della Loggia, suona più o meno così: «Signori della deputazione meridionale, quello che ci vuole al Sud è più legalità, più sicurezza, più autorità, in una parola più Stato. Ma elemento essenziale di uno Stato è il popolo, sono i cittadini – quasi mi scappa: i sudditi – e i cittadini del Mezzogiorno d’Italia, guardateli:  non sono brutti sporchi e cattivi, ma accettano purtroppo di vivere sotto standard di civiltà ancora troppo distanti da quelli propri di uno Stato moderno. Dovreste chiederci prefetti di ferro, e invece ci chiedete solo più spesa pubblica, cioè di buttare via i soldi, o magari di ingrassare solo voi e le vostre clientele».

L’avete già sentita? L’avete già sentita. Ma non è questo il limite principale della lezioncina che Galli della Loggia impartisce al Sud e a Matteo Renzi – e al Sud per il tramite di quella che impartisce a Renzi. Il limite vero sta nell’ordine del discorso, nello scambio di premesse e conseguenze, nel «non sequitur» tra la moralistica lezione inflitta al Sud, e la ricostruzione storica sulle infelici sorti dello Stato nazionale.

Su cui Galli della Loggia riflette invero da tempo, e con buone ragioni: è vero, infatti, che l’Italia soffre di una fragile statualità: è vero che per tutto il corso della sua storia il Mezzogiorno è stato il banco di prova dello Stato italiano e dei suoi leader politici; è vero che della questione meridionale sono impregnate tutte le culture politiche del Novecento italiano; è vero, infine, che il ripristino del senso dello Stato è un fattore essenziale per lo sviluppo e la crescita del Paese (non solo del Sud). Ma Galli della Loggia non nasconde neanche un’altra, ancor più grande verità: che il declino dell’Italia, il quale data almeno dagli anni Novanta, dipende da fattori politici generali, nazionali e sovranazionali, di cui sarebbe però arduo dire che il Mezzogiorno porta la responsabilità. Se mai, ne paga, e duramente, le conseguenze. Siccome è Galli stesso a dirlo, a denunciare l’irrilevanza del Mezzogiorno nella più generale «dissoluzione» dello Stato italiano, davvero non si capisce perché se la prenda allora con lo scarso senso civico dei meridionali, l’evasione fiscale e il clientelismo, scambiando se mai l’effetto con la causa. (A non dire che, purtroppo, problemi di legalità, evasione e corruzione non sono poi così sconosciuti al di sopra del Garigliano). Come infatti stanno insieme l’inadeguatezza dello Stato italiano e il divario fra Nord e Sud del Paese? Un rapporto vi è senz’altro, ma tra le molte cose che si possono dire a questo proposito una è difficile a dirsi: che quel divario sia la causa di quella debolezza.

Un altro paio di cose bisogna invece dirle, per non semplificarsi troppo il quadro sia storico che politico. La prima: che una lettura in chiave esclusivamente etico-politica dei problemi del Mezzogiorno è stata già data, e, se è consentito dirlo, se ne è già vista la sua insufficienza. Si è già detto, ad esempio, che il Sud soffre di scarso capitale sociale, che è malato di familismo amorale, che è scollato dallo Stato e dai doveri  di cittadinanza che esso impone, o dovrebbe imporre. Il guaio è che però le virtù opposte a questi vizi non crescono da sole: non solo non albergano nella natura umana ma neppure le si riesce a suscitare semplicemente con i moniti degli editorialisti. Non si vuol con ciò sostituire una spiegazione monocausale all’altra: non si vuole dire cioè che basta ristabilire i flussi di spesa pubblica per prosciugare le sacche di illegalità e far così ripartire il Mezzogiorno, ma viene difficile immaginare che, all’opposto, chiudere i rubinetti della spesa e non fare l’Alta Velocità avvicini il Sud al resto d’Italia e di Europa.

La seconda cosa è su Matteo Renzi, perché la lezioncina di Galli riguarda in realtà soprattutto lui. Che si vede singolarmente accusato non solo di un registro linguistico non all’altezza della cosa – il che si può capire: che un accademico non ami gli hashtag e i tweet ci sta (benché ci stia per l’appunto solo in una certa idea dell’Accademia) – ma anche di non avere la minima contezza di quel riordino dello Stato, a partire dal suo ruolo di direzione degli affari pubblici, che è invece assolutamente indispensabile al Paese. Ora, perché l’accusa è singolare? Perché Renzi si vede spesso e volentieri accusato del contrario: di avere messo le scuole in mano ai presidi; di aver rafforzato con il Jobs Act la parte datoriale a scapito delle organizzazione sindacali, di voler squilibrare gli equilibri costituzionali a vantaggio dell’esecutivo (e su Napoli, di scavalcare con prepotenza i poteri locali). C’è sicuramente una parte di strumentalità anche in queste accuse, ed è legittimo che le soluzioni individuate piacciano di più o di meno, ma dire che non vi è interesse per la riforma delle strutture amministrative e di governo (peraltro: a pochi giorni di distanza dall’approvazione della legge delega sulla pubblica amministrazione, che ne ridisegna in profondità i lineamenti)  sembra dipendere da un mero pregiudizio. E così son due, i pregiudizi: uno sul Sud e uno su Renzi. Troppi, per un discorso di verità.

(Il Mattino, 10 agosto 2015)

Lotta  al divario, l’ «ammuina» non serve più

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Basta che non si tratti soltanto di fare ammuina. Che quelli che stanno a prua vanno a poppa, e quelli di poppa vanno a prua. E così, dando l’impressione che vi sia sulla nave un gran daffare, si lasciano invece le cose come stanno. Se questa è la preoccupazione del premier, allora si comprende la risposta sbrigativa rilasciata ieri: «mentre qualcuno piange, altri fanno». Incalzato dalla stampa, dopo la pubblicazione del Rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, il Presidente del Consiglio ha lasciato intendere due cose. La prima, che non è interessato a entrare in una discussione sul Mezzogiorno, sui ritardi, sulle colpe, sulle responsabilità, sulle cause, e su tutto quello che la «questione meridionale» torna a muovere nel nostro Paese. La seconda, che a metterla ancora e sempre con l’analisi storica, l’analisi culturale, l’analisi sociologica, l’analisi antropologica si cade in quella cultura del piagnisteo sterilmente rivendicativa, che al Sud non fa fare un solo passo avanti. La storia del piagnisteo varrebbe insomma quanto i «gufi» o i «frenatori» o i «rosiconi», cioè quanto le altre metafore che il premier ha messo in circolo in questi mesi di governo per indicare tutti quelli che ostacolano lo sforzo riformatore del governo. Ed è vero, probabilmente, che neanche la discussione, rilanciata dalla minoranza del Pd in questi giorni, sul Ministro del Mezzogiorno, o su una eventuale delega per il Mezzogiorno cambierebbe di per sé la qualità di questo sforzo.

Dopodiché però la Direzione nazionale del partito democratico si riunisce proprio oggi per parlare di Mezzogiorno. Le parole che Renzi non ha detto, preferendo che a parlare siano i fatti, bisognerà pure che si ascoltino oggi, e che formino una politica. Se infatti la direzione non sarà soltanto uno scroscio di mezza estate, o un’altra maniera di fare ammuina, qualcosa i democrati dovranno pur dire, in proposito. Perché di sotto a tutte le parole stanno le cose, e le cose, per il Sud, non stanno affatto bene. Cosa bisogna dunque attendersi? Per esempio che si capisca bene dove vanno a parare le riforme che il governo sta mettendo in campo, ultima la banda larga per la quale il governo ha stanziato ieri due miliardi di euro e rotti. Ecco un segno concreto, concretissimo, che andrebbe rubricato non solo tra le parole ma tra le cose: per ogni impegno di spesa, o per ogni programma di investimenti, o per ogni allocazione di risorse, o per ogni prelievo fiscale, il governo dovrebbe indicare con chiarezza di volta in volta in che modo preveda che vada a riduzione del divario fra il Nord e il Sud del Paese. Questo significherebbe assumere la questione meridionale come una questione nazionale: ritornello che viene spesso ripetuto in maniera retorica, senza che si riesca davvero ad orientare le politiche nazionali nella direzione auspicata.

La si giri però come si vuole: senza una chiara, forte, ambiziosa scommessa politica, non vi sarà alcun riorientamento di questo genere. Perché è indubbio che la seconda Repubblica è stata – come si dice – a trazione nordista e leghista. Qui non si tratta di piagnucolare perché non siedono al governo ministri partenopei, ma di prendere semplicemente atto che nel discorso pubblico il significante «Mezzogiorno» si è accompagnato in questi anni ad una serie di termini negativi che hanno spinto la politica a tenersene sempre più alla larga. Fare il contrario richiede dunque coraggio ed iniziativa politica, che è però quello che ci si aspetta che il Pd abbia, ora che ha – o avrebbe – una classe dirigente meridionale alla guida di tutte o quasi le istituzioni locali.

Non è pensabile neppure che i suoi rappresentanti procedano però in ordine sparso, covando rivalità e gelosie, senza condividere un disegno di più ampio respiro. Forse è presto per nutrire questa preoccupazione, visto che abbiamo da poche settimane i nuovi presidenti della due più importanti regioni del Sud Italia, Campania e Puglia. Una cosa è certa, però: che le loro voci non vanno ancora all’unisono, e non sembra che vogliano andarci, per provare a costruire una sponda forte di interlocuzione col governo. Ieri Vincenzo De Luca ha diramato un comunicato in cui elenca le necessità logistiche e infrastrutturali a cui dovrebbe far fronte un grande piano mirato di investimenti nel Mezzogiorno. Fin qui si trattava di richiamare il governo alle scelte concrete che si debbono compiere nei prossimi mesi, e su cui più che di ragionamenti c’è bisogno di un sì o di un no. Ma  insieme a questo elenco sta una nota polemica, messa lì solo per dire: io sono un’altra cosa da tutti gli altri che parlano soltanto. Sarà vero. Sta il fatto però che distinguersi significa anche dividersi, o addirittura isolarsi, ed è difficile che il ricco piano che De Luca proporrà nella Direzione di domani possa realizzarsi in forza di divisioni e contrapposizioni. Pure quelle, alla lunga, rischiano di produrre solo ammuina.

(Il Mattino, 7 agosto 2015)

I piagnistei, la retorica e la realtà

parola-del-sud-indicata-dalla-bussola-41426779La vera questione non è se raccontare la tragedia del Sud, i drammi del Sud, i problemi del Sud sia o no fare del piagnisteo, ma, se mai, come sia possibile che la discussione sull’economia e la società meridionale, suscitata dalla pubblicazione del rapporto Svimez, devii dai contenuti del rapporto alle modalità con cui di quei contenuti si discute.

Perché c’è una cosa e c’è l’altra: c’è una certa retorica, ma c’è anche una condizione reale. La retorica di cui parla Renzi è la retorica che ha accompagnato la progressiva deresponsabilizzazione della società meridionale, che non è stata capace, negli ultimi decenni, di contestare il disimpegno e anzi la distanza sempre più smaccata dello Stato nazionale dai problemi del Mezzogiorno. Non lo è stata, perché si è accontentata di gestire in termini clientelari i flussi di finanziamento europei. Da una parte, cioè, si riducevano gli impegni pubblici, dall’altra si lasciava ad una gestione decentrata dei fondi comunitari di che alimentare i ceti dirigenti locali. Il patto comportava evidentemente una perdita secca per il Mezzogiorno, ma era funzionale agli equilibri politici dati. Quello che dunque Renzi chiama piagnisteo è quel sottofondo di lamentazioni, in verità sempre più debole, sempre meno convinto, sempre meno percettibile. che alimentava istanze e richieste compatibili con questo quadro, senza comportare mai una sua trasformazione reale.

La cultura del piagnisteo copriva un vittimismo interessato. Chi ci ha scritto un libro su, il critico australiano Robert Hughes, ne ha fatto addirittura un tratto saliente della cultura contemporanea, ispirato a quel «politicamente corretto» per cui ogni bisogno o esigenza si camuffa da offesa alla giustizia (o all’uguaglianza, o all’umanità: insomma, ai più alti valori), per tradursi subito dopo in una querula rivendicazione di diritto.

Se questo però è il piagnisteo, si può dire che il Sud, che il rapporto Svimez ha messo nuovamente sotto i nostri occhi, rivendichi soltanto il rango di vittima, per specularci su? O non bisogna piuttosto riconoscere che il mondo è cambiato, e che per quanto sia grave il quadro delle responsabilità che si voglia imputare al Mezzogiorno, alla sua classe politica, ai vizi più o meno atavici e alle tare più o meno storiche, sta il fatto che senza un’idea e un impegno nazionale il Sud non può farcela da solo? Il quadro è cambiato realmente, strutturalmente: nell’area euro le condizioni per fare impresa nel meridione d’Italia sono peggiorate, non sono migliorate. Il volume degli investimenti è diminuito, non aumentato. La desertificazione umana, ancor prima di quella industriale, descrive flussi demografici reali, e davvero minaccia di fotografare per le regioni meridionali una condizione di sottosviluppo permanente. Il rapporto Svimez disegna per giunta una frattura forse ancora più profonda, perché non racconta solo di un divario crescente fra le aree del Paese, ma mostra i segni di uno scollamento effettivo, di una minore integrazione (per non dire di una separazione) fra i sistemi economici del Nord e del Sud. Difficile che questo non sia un problema di tutto il Paese.

Ora, Matteo Renzi può dimostrare di averlo capito. Ne ha l’occasione: la direzione nazionale, convocata per il prossimo 7 agosto dal presidente del Pd Matteo Orfini, può essere il luogo in cui una diversa consapevolezza si affaccia e entra nell’agenda politica di governo. Sarebbe peraltro un segno di non piccola discontinuità, visto che i precedenti governi Letta e Monti non pare che si siano segnalati per una spiccata vocazione meridionalista. E potrebbe addirittura essere una salutare eresia, una bestemmia o uno scandalo rispetto alla vulgata federalista e nordista della Lega, che è prevalsa in questi anni, se il maggior partito italiano si dichiarasse invece, in quella sede, «meridionalista», nell’accezione più semplice della parola: un partito che non considera un successo per l’Italia nessun cambiamento che aumenti, invece di diminuire, la distanza fra il Nord e il Sud d’Italia. Renzi deve, come può, essere ambizioso: un governo, che volesse davvero segnare un punto di svolta nel processo di riforma del Paese, non ha che da assumere il Mezzogiorno come la sua vera «frontiera», la prova decisiva che un’intera generazione è chiamata ad affrontare per legittimarsi realmente, non solo elettoralmente, agli occhi della comunità nazionale.

Hughes citava in apertura del suo libro sul piagnisteo quel passo di Tocqueville, in cui il grande studioso della democrazia notava (con un tratto di aristocratica preoccupazione) che «il desiderio di eguaglianza diventa sempre più insaziabile quanto più l’eguaglianza è completa». Cioè: quel desiderio non si soddisfa mai. Questi, che vogliono l’uguaglianza, quando cominciano non la finiscono più. E questo è il piagnisteo, soprattutto quando diviene il discorso sventolato dai capataz locali per assolvere se stessi dalle proprie responsabilità. Ma può essere invece l’avvio di una grande stagione di democratizzazione del Paese, se la maggioranza che guida il Paese ne fa il terreno per una lotta alle diseguaglianze reali. Le quali, purtroppo, si concentrano proprio qui, nel Mezzogiorno d’Italia. Ed è da qui, dunque, che bisogna partire.

(Il Mattino, 4 agosto 2015)

Il Sud migliori non solo perché lo chiede la Ue

Il rapporto dell’Italia con l’Europa è sempre stato complesso. Popolo di convinti europeisti, siamo anche il popolo che ha bisogno di tre cifre per esprimere il numero delle infrazioni alle direttive comunitarie. Apparteniamo all’esclusivo club dei fondatori della comunità europea, ma siamo anche quello, fra i membri del club, che con maggiore difficoltà è riuscito a centrare l’ingresso nella zona Euro. Mettiamo il broncio ogni volta che in Europa si disegnano a nostro discapito assi privilegiati, ma poi ci dimentichiamo di fare quello che serve per stare dentro i terzetti o i quartetti  dei paesi che contano. Come un elastico, la corda dei rapporti fra l’Italia e l’Europa si allenta e si tende, insomma, a secondo dei tempi e delle circostanze. E quando tempi e circostanze non volgono al bello, è facile che la corda sia sempre più tesa.

Non, però fino, a spezzarsi . Il governo ha infatti messo in campo una manovra correttiva che dovrebbe assicurare il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2014, così come ci chiede l’Unione Europea (e i mercati). Naturalmente, si può e si deve discutere dell’efficacia e della tempistica delle misure prospettate: è materia di dibattito parlamentare per maggioranza e opposizione , Ma, sul piano politico, la questione è anche se l’Unione debba sempre finire con l’apparire, presso l’opinione pubblica, come il Cerbero di dantesca memoria, che “caninamente latra” contro i membri recalcitranti. Il Ministro del Tesoro sarebbe allora come Virgilio, che allo scoccare dell’ora fatidica della manovra lancia nelle fauci della bestia un pugno di terra, per placarne temporaneamente l’appetito: le misure correttive, per l’appunto.

Ovviamente non è così. Certo, l’Europa è un animale strano, ed è inevitabile che la precarietà della costruzione politica si avverta particolarmente nei momenti di difficoltà. Si pensi ad Atene. Giuliano Amato ha ragione di osservare che i conti della Grecia non sono peggiori di quelli della California: solo che dietro la California c’è Washington, un forte Stato federale, mentre dietro la Grecia manca un’adeguata cornice politico-istituzionale. Ma proprio perché c’è un Europa politica da realizzare e un popolo europeo da inventare, proprio perché c’è, nella costruzione dell’architettura europea, uno stallo da superare, non è un comportamento responsabile delle classi dirigenti di tutto il continente  (compresa, dunque, quella italiana) lasciare che essa appaia solo come la “fiera crudele e diversa” che “iscoia ed isquatra” a furia di esigere tagli alle spese.

L’Europa chiede infatti rigore nei conti pubblici: non bisogna evitare allora che questa richiesta suoni solo come una pretesa  sempre più severa e insostenibile? Non cresceranno, altrimenti, le file di quelli che si chiedono a quale titolo si pretendono sacrifici, e perché li si dovrebbe compiere? O che si domandano com’è che l’Europa si fa viva solo per chiedere, e non anche per dare? O: chi sono, questi signori di Bruxelles, e cosa vogliono da noi?

Ma non è affatto vero che l’Europa chieda solo, e non dia anche. A volte (molte volte, e non volte qualunque) capita al contrario che l’Europa voglia dare, sia prontissima a dare, e non ci sia nessuno dall’altra parte in grado di ricevere. Solo due esempi. Uno è quello dei fondi europei: il governo ci ha messo del suo, dirottando fondi cospicui verso altre destinazioni e penalizzando il Mezzogiorno, ma resta il fatto che la capacità delle regioni meridionali di presentare progetti e spendere i soldi europei è ancora bassa, troppa bassa. L’altro ci tocca ancor più da vicino: ci sono infatti fior di milioni, circa 150, bloccati a Bruxelles per la questione rifiuti, soldi che una città allergica alle regole, alle procedure, ai principi della buona amministrazione non è ancora riuscita a sbloccare. E come si può giudicare lontana Bruxelles, se da Bruxelles ci si tiene così lontani?

Diciamola tutta, allora. L’Italia non ha che da rimboccarsi le maniche: lo chieda Bruxelles oppure no. Deve rilanciare lo sviluppo, ma non può aumentare le tasse: deve allora riqualificare la spesa. Non c’è altro modo. Suonerà forse banale, ma rispettare le regole è il primo passo per riqualificare la spesa e se l’Europa ce lo chiede noi dobbiamo solo affrettarci a compierlo. Compierlo anzi un minuto prima che ce lo chieda. Non è dunque Cerbero il problema. E poi: guardiamoci attorno, in questi giorni di inizio estate: non è forse vero che l’inferno ce lo siamo costruiti noi? (Il Mattino)