Se al premier non piace il suo governo

ImmagineUna lieve vertigine provocano le parole pronunciate ieri dal Presidente del Consiglio. Non è la prima volta, in verità, che Enrico Letta le usa per definire il rapporto col governo da lui stesso presieduto, e forse non sarà l’ultima. Ma ogni volta si prova un leggero stupore, un piccolo offuscamento alla vista e una perdita, per fortuna momentanea, di stabilità. Di solito, infatti, non va così: non succede che il Capo del governo metta una distanza fra sé e il proprio dicastero, precisando che non è certo il governo per il quale ha fatto la campagna elettorale (ma omettendo di aggiungere che, peraltro, la campagna elettorale non la si è fatta neppure perché a guidare il governo fosse lui). Che sia insolito e anche controproducente è subito evidente, se solo ci si chiede che cosa accadrebbe e quanto  Letta stesso sarebbe contento dei suoi ministri, se ciascuno di loro sentisse in ogni circostanza di doversi giustificare, per aver parte in un governo di cui non avrebbe voluto far parte. E così via: anche i parlamentari non siedono, presumibilmente, nel Parlamento in cui avrebbero voluto sedere, e magari sono finiti nelle commissioni in cui non sarebbero voluti finire. Persino il Presidente della Repubblica è ad un secondo mandato che non avrebbe voluto ricevere (e per cui il Pd di Enrico Letta ha invece qualche responsabilità), ma per fortuna ha abbastanza saggezza da non diramare dal Quirinale note in cui si dichiara dispiaciuto di dover rimanere ancora sul più alto Colle.

Perché c’è un senso in cui la puntualizzazione di Letta rasenta l’ovvietà, ed è dunque superflua, e un altro per cui puzza di tatticismo, e rischia perciò di essere dannosa. Per un verso, infatti, è del tutto ovvio che non solo Letta, ma nessuno degli attori politici in campo si trova nella situazione che aveva sperato si determinasse con le elezioni di febbraio. Per di più, l’Italia è un Paese talmente abituato a governi di coalizione che forse non c’è mai stato Presidente del Consiglio che abbia avuto l’appoggio della maggioranza che sognava. Il più diretto predecessore della lagnanza di Letta è, per giunta, proprio Silvio Berlusconi, che anche quando ha goduto di larghi sostegni parlamentari si è sempre lamentato di non aver avuto il 51% e di essersi dovuto alleare con questo o con quello, in stato di necessità. Certo, le larghe intese che si sono disegnate col voto dello scorso febbraio tengono insieme addirittura forze contrapposte, ma si tratta anche in questo caso di un esercizio di responsabilità e realismo politico che o si rivendica, nell’interesse generale del Paese, oppure si finisce col contraddire ad ogni passo, ogni volta cioè che si chiede alle forze politiche di avere quella stessa responsabilità e lungimiranza che si mostra invece di accettare malvolentieri, «obtorto collo». Ma se il collo è piegato in una posizione innaturale, che si sopporta a fatica, come si può tenere diritti il capo? Come si può guardare lontano, pretendere cioè di tirarsi fuori dalla crisi, indicando al Paese una direzione?

Per altro verso, la presa di distanza da se medesimi, ovvero dall’esercizio delle proprie funzioni, sembra figlia di una scaltrezza tattica che riguarda meno le sorti del governo, e più la collocazione politica presente e futura del Presidente del Consiglio. Che evidentemente non vuole essere identificato, agli occhi almeno dell’elettorato di centrosinistra, come l’uomo che ha governato con Berlusconi. Sul piano politico si tratta di una posizione legittima, che è però quella di Sel, che non è al governo e soprattutto non è il partito a cui Letta appartiene. Per il Pd, non può invece non essere un merito avere scongiurato che la paralisi parlamentare sfociasse in  nuove elezioni, e probabilmente in un nuovo stallo. Così come coerenza vorrebbe che il Pd considerasse un merito anche contribuire a un’opera di svelenimento del clima – tanto più necessaria dopo il verdetto della Cassazione – che invece parole come quelle di Letta, di nuovo, contraddicono. Come se ogni volta che Letta stringesse la mano ad Alfano fosse chiamato a sottolineare che lo fa perché proprio non può non farlo. Non si chiede, in definitiva, al Presidente del Consiglio di pronunciare a petto in fuori un sonoro «hic manebimus optime». Ma non occorre neppure appellarsi ogni volta al principio di realtà per sottintendere che non si ha piacere a governare. Forse Letta tiene alla precisazione per convincere l’opinione pubblica che mediazioni e compromessi sono necessari. Messa così, è un’opera meritoria. Il timore è però che l’opinione pubblica capisca al contrario che neppure Letta è convinto di quei compromessi, e si voglia perciò semplicemente tenere libero per altro.

(Il Mattino, 1 settembre 2013)

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